Estetica senza (s)oggetti. Linee di fuga creatrici

La foto è mia e il caffè me lo sono bevuto. Questo non è un caffè

Ho avuto, per lungo tempo, l’erronea impressione che Nicola Perullo scrivesse di filosofia e, ancora meglio, di estetica. Non che non sia un filosofo, sebbene io non sappia di sicuro cosa sia un filosofo almeno dai tempi di Eraclito, né che non si occupi di estetica, ovvero di quella branca oscura della voluttà più o meno conscia e più o meno veicolata.

Ma nulla di tutto questo. Sappiamo da svariati secoli che se c’è qualcosa che inganna queste sono proprio le parole: subdole, infingarde, tentatrici, incomplete, esse rimestano nel torbido almeno tanto quanto le nostre coscienze (sempre che sia dimostrabile che ne abbiamo una o più d’una o almeno qualcuna in prestito): “La coscienza si manifesta, però, viene e percepita, ‘saputa’, solo in quanto – nella e con – specifica esperienza: è un percepire consapevolmente con, un sentire/sentirsi pensare/pensarsi indissolubile, del tutto irriducibile alla cognizione. La coscienza si conosce solo in quanto la si esperisce, vivendola, attraverso quella inaggirabile singolarità percettiva” (pag. 46).

D’altra parte Perullo non cita tanto per fare Wittgenstein quando afferma che i termini ‘buono’ o ‘bello’ non sono affatto caratteristici, al pari del costrutto sintattico ‘Questo è buono/bello’, ma ciò che conta è l’occasione in cui vengono detti, ovvero il contesto espressivo e relazionale: “le parole fanno parte di un’annodatura processuale che si manifesta, in ogni occasione, come evento differente” (pag. 189).

Nicola Perullo ci porta per mano all’interno di una casa degli specchi dove le parole, prese singolarmente, sono semplicemente identiche a se stesse e non hanno alcuna capacità, né tantomeno volontà, di esprimere un senso compiuto poiché prive di un tessuto relazionale. Allo stesso modo le proposizioni, i cosiddetti ‘concetti’, non hanno alcuna funzione esplicativa, raziocinante, definitiva. E neppure l’Eco sociale, da sé, è in grado di svincolare il tessuto molteplice delle parole perché esse, ripetute infinitamente di fronte al proprio Narciso riflesso (soggetto e oggetto sono una cosa sola), sono illusorie.

Quasi immediatamente, per processo associativo, mi sono venute in mente le teorie sociologiche sul ‘frame’ e sui ‘framework’ di Ervin Goffman[1] e, ancor meglio e diversamente, quelle estese dall’antropologo scozzese Victor Turner al teatro, alla performance e all’idea di ‘margine’ o di ‘limen’. Ma ascoltiamo direttamente Turner: “Le regole ‘incorniciano’ il processo teatrale, ma quest’ultimo trascende la sua cornice. Un fiume ha bisogno di argini per evitare le sue pericolose inondazioni, ma gli argini senza un fiume sono l’immagine stessa dell’aridità. Il termine ‘performance’ deriva dal francese parfournir, che significa letteralmente ‘fornire completamente o esaurientemente’. To perform significa quindi produrre qualcosa, portare a compimento qualcosa o eseguire un dramma. Ma secondo me, nel corso della ‘esecuzione’ si può generare qualcosa di nuovo. La performance trasforma se stessa. Le regole possono incorniciare la rappresentazione, ma il lusso dell’azione e dell’interazione entro questa cornice può portare a intuizioni senza precedenti. È possibile che in questo caso le cornici teatrali tradizionali vadano sostituite: nuove bottiglie per il vino nuovo[2]”.

Da qui il termine ‘flusso’ che “denota la sensazione olistica presente quando agiamo in uno stato di coinvolgimento totale ed è una condizione in cui un’azione segue all’altra secondo una logica interna che sembra procedere senza bisogno di interventi consapevoli da parte nostra (…). Ciò che esperiamo è un flusso unitario da un momento a quello successivo, in cui ci sentiamo padroni delle nostre azioni, e in cui si attenua la distinzione tra il soggetto e il suo ambiente, fra stimolo e risposta, o fra presente, passato e futuro[3]”.

In queste condizioni la performance si afferma come una pratica totale dove si realizza la perdita dell’io (intesa come privazione dell’ego) in una piena fusione tra atto e coscienza dove conta il momento, il qui e ora, nel quale il processo accade. L’agire intrapreso non è contraddittorio e il flusso non ha bisogno di finalità o ricompense esterne (è autotelico). Ugualmente Perullo afferma che “l’estetico accade quando una relazione richiama consapevolmente la singolarità di un evento qui e ora, come relazione, cioè come sua apertura simultanea all’ovunque e sempre dell’intessitura complessiva dell’accadere/mondo”. (pag.98)

Il limite, dunque, non è solo l’ostacolo o la forma di contenimento, ma è quel luogo in cui si perdono i riferimenti precedenti: la liminalità è la condizione in cui avviene la “scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o ‘ludica’ dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra[4]”.

Il parlare, le mute eloquenze[5], l’agire all’interno delle relazioni fra campi che costituiscono la continua formazione dell’opera di cui il giudizio estetico ne è l’espressione abbreviata e tagliata non riguardano incontri già accaduti, si direbbe ‘passati’, ma invece quelli pienamente ‘presenti’ in quanto corrispondenti e attualmente recepiti (pag.128).

Dicevo, al principio di questa breve disamina, che di un testo puntuto e felicemente indisponente come “Estetica senza (s)oggetti” avevo erroneamente pensato fosse un trattato filosofico al pari degli altri scritti di Perullo. Si potrebbe discutere a lungo su che cosa sia il filosofare, ma è indubbio, almeno per me, che questo libro occupa uno spazio pienamente politico (rinvio all’altro scritto di Perullo, Epistenologia, e al riferimento all’estetica anarchica). Anche questa volta si potrebbe polemizzare a lungo che cosa sia il politicare: quello che so di certo è che ha poco da spartire con quella che è considerata la professione della politica strettamente intesa e con tutti i politicismi a cascata: “Se si parte dal (s)oggetto, sarà inevitabile cedere alle leggi del(la) Capitale, che si infiltreranno ovunque: denaro (capitale finanziario), cultura (capitale culturale), viventi (capitale umano) e menti filosofiche. Il ‘capitale culturale’ è il business del pensiero e coincide col modello capitalistico-finanziario della banca. (…) Il percepire estetico e aptico non cerca di comprendere, di aggredire e di attanagliare qualcosa per sentirlo; non cerca di “fare esperienza” come movimento attivo intenzionalmente indirizzato verso qualcosa; non cerca neppure il godimento. Non cerca letteralmente nulla (…) Educarsi percependo è un processo di apprendimento, non a contenuti ma all’ad-tendere: attenzione e attesa. E non l’attesa di qualcosa, ovviamente: attesa come inclinazione, volgersi, considerare (cum sidera). Imparare ad attendere è anche pazienza: supportare/sopportare, patire. È quindi anche disimparare, disallineandosi dal dominio percettivo prevalente dell’accumulazione e della linearità. Senza obiettivi predefiniti né scopi, questo educarsi esprime il senso della continua fioritura umana nel contesto più ampio della corrente del vivere” (pp. 176, 177).

Come nel romanzo kafkiano la metamorfosi produce una deterritorializzazione dell’uomo e crea una “linea di fuga creatrice che non vuol dire null’altro che se stessa”: “Uno scrittore non è un uomo-scrittore, è un uomo politico, è un uomo-macchina, è un uomo sperimentale – che cessa così di essere uomo per diventare scimmia, o coleottero, cane, topo, divenire-animale, divenire-inumano (…)”. La scrittura diviene, dunque, “un’enunciazione che fa tutt’uno col desiderio, al di sopra delle leggi, degli stati, dei regimi. Enunciazione sempre storica, politica e sociale. Una micro-politica, una politica del desiderio, che metta in causa tutte le istanze[6]”.


[1] Cfr. Ervin Goffman, Frame analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Armando Editore, Roma 2001

[2] Turner V., Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986, pag. 145

[3] Csikszentmihalyi M., cit in Turner V., Dal Rito al Teatro, p 105

[4] V. Turner, Antropologia della performance, Bologna, Il Mulino 1983, pag. 187

[5] “Parlano le mani tutto ciò che la lingua sa dire, e l’arte sa fare; tutte le dita sono alfabeti; tutto il corpo è una pagina sempre apparecchiata a ricever nuovi caratteri, e cancellarli”. Emanuele Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, o sia Idea dell’Arguta et Ingeniosa Elocutione che serve à tutta l’Arte Oratoria, Lapidaria, et Simbolica esaminata co’ Principij del divino Aristotil, per Giovanni Sinibaldo, stampatore regio,Torino 1654 in Ottavia Niccoli, Muta eloquenza. Gesti nel Rinascimento e dintorni, Vilella, Roma 2021

[6] Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 2010 (edizione originale 1975); G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione? Cronopio, Napoli 2010; J. Derrida, Sulla parola. Istantanee filosofiche, nottetempo, Roma, 2004

Aut/Aut

Di William Allen Rogers – New York Herald (Credit: The Granger Collection, NY), Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4858184

Aut-aut o vel-vel. Gli antichi romani distinguevano: nel primo caso si trattava di una disgiunzione esclusiva, che implicava una scelta netta: o questo o quello, tertium non datur. E non si trattava solo delle opzioni di preferenza, ma anche dell’attribuzione inequivocabile dello statuto di verità: se questo allora non quello.

Nel secondo caso, a proposito di vel-vel, invece, si faceva riferimento ad una disgiunzione inclusiva, dove “o – o” implicava la possibilità di coesistenza di entrambe le porzioni dell’enunciato, ovvero che entrambe fossero vere anche se alternative di fatto.

La matematica, dal suo canto, ha assunto entrambe le espressioni: la disgiunzione esclusiva prevede che un enunciato sia vero soltanto se le due proposizioni che lo compongono abbiano valore di verità opposto (aut/aut); al contrario, l’espressione «p o q» è vera quando almeno uno dei due enunciati, p e q, è vero, ma non si esclude che lo siano entrambi (vel-vel).

Quando veniamo messi, o poniamo qualcuno, di fronte ad un’alternativa secca, dirimente e impossibile da conciliare in alcun modo, il disagio, talvolta l’incredulità e la sensazione intollerabile di “spalle al muro” sovrastano e compongono abbondantemente lo stato d’animo del sentenziato.

La mente corre veloce alle possibili alternative, senza mai trovarle, e insegue incessantemente il percorso storico e personale che ha portato al dirimente aut/aut: gli errori, le manchevolezze, le complici distrazioni, la noncuranza, la sufficienza mentale e le sufficienze dimostrate. Il più delle volte ci si accorge che altre strade potevano essere percorse in modo più fecondo, più utile e meno disastroso. Altre volte no, ma nella stragrande minoranza dei casi.

L’unica vera sensazione è che quell’aut-aut non corrisponda in alcun modo ad una scelta, ma ad un vincolo a cui ci hanno o ci siamo condotti.

Quando trasferiamo dal piano individuale a quello collettivo gli stessi postulati logici, dovremmo essere consapevoli che il meccanismo è pressoché identico.

Allora solo in questo senso possiamo pensare che, come sosteneva Sören Kierkegaard, «il mio aut-aut non significa la scelta tra bene e male, ma la scelta per la quale ci si vuole porre o non porre di fronte all’antitesi bene e male».

E quando abbiamo deciso di metterci di fronte a quell’antitesi, le nostre opzioni potrebbero divergere radicalmente, perché ancora prima discordiamo sul senso, sui metodi e sui contenuti dell’antitesi stessa.

Aut/aut e né/né condividono lo stesso impianto logico, anche se appaiono in opposizione. Una precoce, chiara e onesta presa di posizione eviterebbe, a molti voltagabbana, tardivi e soprattutto opportunistici posizionamenti. Affermare che qualcuno andava bene fino ad un determinato momento (ad esempio la retorica fascista secondo cui Mussolini avrebbe fatto bene sino al momento in cui schierò l’Italia in guerra) significa non aver in alcun modo capito chi era quel qualcuno o, peggio, esserne stati complici. Non meglio si conforma l’opportunistica e sorniona indifferenza. E sarebbe meglio che ciò capitasse prima di trovarsi con le spalle al muro e di sentirsi dire, con protervia e arroganza che, data la situazione, ora non ci sono alternative possibili.

I nuovi Guardiani della voce

Allegoria del Silenzio nel chiostro del monastero di Santa Chiara a Napoli
Di Lalupa – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2865662

La formulazione di prove, a cui seguono doverosi ammonimenti pubblici e privati, sull’incessante produzione di notizie false che trovano adeguato spazio e idoneo ricovero nelle più svariate teorie comunicative, coglie in questo momento il suo apice discorsivo. Non mancano di certo i numi tutelari delle verità prime e ultime e di ogni fugatore di dubbi ancorché minimi. Il loro modo di procedere segue la retta via dell’entimema aristotelico (il sillogismo non irrefutabile) e si accompagna con un corpulento bastone dell’irrisione volto a provare che tutte le altre ipotesi, e non solo qualsiasi annotazione provatamente falsa su cui non vi sarebbe alcunché di male, rientrerebbero nelle teorie del complotto o della cospirazione. La notizia, ogni notizia, viene letta all’interno di un codice assiomatico prestabilito entro cui deve forzatamente rimanere. Nel caso in cui vi fossero degli scostamenti semantici, questi verrebbero sapientemente evitati e, qualora si presentassero ritrattazioni o nuove prove a confutare le prime deduzioni, l’atteggiamento potrebbe biforcarsi o nel diniego della notizia stessa o in una replica minimale e stanca. 

La smentita, come sappiamo bene, non ha (non può avere) lo stesso spazio espositivo della notizia infondata o parzialmente vera o inopinatamente non verificata a cui muove in replica. Ne andrebbe comunque dello stato di solennità, di protervia acquisita e incessantemente dimostrata di cui sono pervasi. Perché la verità assoluta funzioni deve contenere un ordine interno definito, prestabilito, non modificabile, assolutamente autosufficiente e corredato di una adeguata proprietà transitiva: se A = B e B = C, allora A = C. In ogni ragionamento di questo tipo, meccanico nella sua essenza, ogni interferenza che vada a porre in discussione, il che significa non necessariamente negare, l’uguaglianza di partenza (il postulato), può non solo non trovare alcuno spazio argomentativo, ma addirittura la semplice assunzione discorsiva (è soggetta ad rifiuto a priori). 

Altre volte la tecnica persuasiva, che produce il suo assoluto, utilizza l’omissione della premessa: viene dato per scontato ciò che in essa si asserisce (si strizza l’occhiolino ai riferimenti condivisi senza citarli), negando così ogni possibilità al dubbio e col risultato di influire in maniera diretta sulle opinioni dei destinatari. In molti casi i detentori delle verità assolutizzate procedono per formulazioni interrogative implicitamente retoriche in cui dati di differente spessore e valore vengono sostanzialmente appianati ed equiparati. Per costoro lo scambio tra fatti, realtà e verità è, in tal modo, presto che detto: essi sono un’unica e inequivocabile entità. Non procedendo nella separazione tra ciò che accade, ciò che potrebbe accadere e ciò che non si sa che sia accaduto (le ragioni della censura e delle omissioni possono essere molto ampie e variegate) e l’interpretazione dei fatti stessi, essi concorrono nella formulazione di un unico principio totale autogenerantesi: la verità, sovrapponibile alla realtà in tutto e per tutto è, per i nuovi apostoli delle verità incondizionate, una, univoca e mai opaca tanto nelle sue premesse quanto nelle sue realizzazioni o nei suoi sviluppi. 

I nuovi guardiani della voce, alla pari dei silentiares romani e bizantini, del quaestor di Giustiniano, «rendono evidente la pressione del potere sulla vocalità; e se con i silentiares si realizza il contenimento delle voci declassate e infime – quelle dei subalterni, dei funzionari, dei servi e del popolo – con il logoteta il processo assume la forma dell’autocostrizione: qui è la voce dell’auctoritas che sceglie un interprete che parli in sua vece, mantenendo così, al tempo stesso la possibilità del comando e la caratteristica dell’”assenza”, prerogativa del numen» (Roberto Mancini, I guardiani della voce. Lo statuto della parola e del silenzio nell’Occidente medievale e moderno, Carocci, Roma 2002, pag. 40)

Non si tratta di prendere ogni proposizione per buona, né di sostenere la parità di valore, sia nel suo significato tecnico, etico e politico, di ogni argomentazione. Le fonti hanno un proprio statuto di autorevolezza differente sia per contenuto che per consistenza che per provenienza: occorre verificare con accuratezza i criteri di prova o la mancanza degli stessi in misura sufficiente da costituire criterio esplicativo esaustivo; occorre mettere in risalto  eventuali contraddizioni tra elementi discordanti; occorre specificare il sistema di relazioni politiche, economiche, sociali… entro cui la notizia prende forma; occorre determinare le relazioni di potere in cui le pratiche discorsive trovano spazio allo stesso modo in cui altre vengono tacitate o espulse; occorre attendere o non procedere quando non si può fare diversamente. Lontani da ogni informazione sentenziante, poiché questa è concessa solo alle opinioni.

In onore delle badanti. Ucraine, russe, bielorusse, moldave, georgiane… di tutto il mondo

Da molte lune faccio un lavoro che è difficile raccontare ai più, ma che potrebbe stare sì e no così: supporto, oriento e ascolto (non necessariamente con questa scansione temporale) persone che hanno perso un lavoro, che non lo hanno mai avuto, che forse non lo cercano neppure, o che lo cercano con quella dignità che sarebbe dovuta ad ogni essere umano, che si arrampicano nella vita e a cui sono capitate cose che non sospettavano neppure arrivassero sino a quando non se le sono trovate lì davanti: “mai avrei pensato che l’azienda chiudesse!; ci hanno tenute in bilico fino all’ultimo!….” Fabbriche dismesse, uffici ricollocati, riduzioni di personale, troppo vecchi per un lavoro e talvolta troppo giovani per andare in pensione; abbastanza o molto qualificati, ma “cerchiamo dei giovani da formare magari in tirocinio”; troppo “donne” per poter rivaleggiare in accudimenti a cui i troppo “maschi” sono esentati per una sorta di primato storico che un giorno o l’altro dovrà finire come tante delle ingiustizie di questo mondo. Povertà che subentrano, separazioni, allontanamenti, mancati contributi del “quando ero ragazzo le marchette non me le versavano”, redditi di sopravvivenza, violenze subite come di quelle donne massacrate di botte dai loro omuncoli e a cui cercavo di dare sostegno nella ricerca di un’occupazione quasi fosse un barlume di speranza che le potesse togliere, un giorno chissà, dalla dipendenza di qualche stronzo di turno. Ma poi chi dice che il lavoro nobilita? Dipende, soprattutto se non è troppo, se non è a rischio, se è pagato per non dover chiedere, né mendicare ciò che è dovuto, se libera conoscenze, energie, libertà, uguaglianze.

Di lavoratori e lavoratrici ne ho visti qualche migliaio in questi 26 anni. Tra di loro moltissime badanti e, tra queste, tantissime ucraine, russe, bielorusse, moldave. Le ascoltavo attentamente e chiedevo loro se potevano svolgere ancora un lavoro “fisso” o parziale, le notti, i sabati e le domeniche, se avevano esperienza con disabilità, Alzheimer, se riuscivano a sollevare corpi, a fare l’igiene personale. E le ascoltavo, ascoltavo le loro storie, le loro fatiche, i loro malanni, talvolta gravi, e ascoltavo di quelli che avevano lasciato là e che non vedevano da mesi, da anni: figli, nipoti, mariti, amici. E mi raccontavano che prima erano laureate, erano musiciste, erano insegnanti, ingegneri, operaie, maestre. E mi raccontavano, fiere in volto e nella parola, del terrore dei figli in battaglia, nella sordida guerra ad est perché quella grande non era ancora scoppiata: Putin non aveva ancora invaso. La paura era nella voce, negli sguardi, nelle mani; alcune avevano già perso parenti o figli, altre erano terrorizzate solo al pensiero e tutte mi dicevano che ogni forma di guerra, di maledettissima e fottutissima guerra era contro di loro, contro la povera gente e che l’economia era a pezzi e che loro dovevano andarsene per poter mandare dei soldi a casa con cui sfamare o far studiare chi rimaneva. Chiedevo loro se erano adirate con le russe e alle russe se lo fossero con le moldave o le ucraine e così con le bielorusse, le georgiane per quello che stava succedendo e tutte loro mi rispondevano che non capivano molto la domanda perché, qui a Genova, condividevano stanze, fedi, chiese, cibo, aiuto, medicine, vestiti. Ma anche nel loro paese in gran parte era così, perché la cognata era di quel posto e l’altra di quell’altro e poco importava siccome dividevano solo la miseria. La mia era una domanda pretestuosa, ma la ponevo quasi per rincuorarmi: sapevo e so che la stragrande parte delle divisioni formalmente “etniche” sono prodotte dagli artifici di comando.

Poi, pochi giorni orsono, si presentò un’altra donna ucraina. Prima di sedersi ci guardammo dietro le mascherine. Non riuscivo a parlare, non potevo più chiedere. Vidi solo delle lacrime scendere da quei grandi occhi grigio cenere. La feci accomodare ed ultimai le pratiche amministrative richieste.

Se a tempo giusto si capisse, «la verità sarebbe vicina e ampia, sarebbe amabile e mite».

La derubricazione di una notizia. A proposito della “crisi Ucraina”

Equipo de ametralladora finlandesa durante la guerra de Invierno en 1939–1940, durante la Segunda Guerra Mundial.De Desconocido – https://finna.fi/Record/sa-kuva.sa-kuva-106977, Dominio público, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=549346

Gli anglosassoni la chiamano newsworthiness, esprimibile con“degno di attenzione” o “degno di nota” o “che merita di essere pubblicato” o “che merita di essere diffuso”. E noi italiani lo abbiamo tradotto con notiziabilità, dove con il suffisso “-bilità” s’intende una potenzialità espressa o in atto (pensiamo al coevo occupabilità che si spreca in abbondanza nelle politiche attive del lavoro): in questo caso si fa riferimento alla capacità di un accadimento di trasformarsi in notizia.

I criteri per i quali un avvenimento può o meno trasformarsi in notizia dipende vari fattori a valenza singola e complessiva, indipendenti o correlati gli uni agli altri: l’impianto ideologico, i target di riferimento (lettori, inserzionisti, proprietà), i competitor, la vicinanza o la lontananza fisica dal lettore (le notizie internazionali sono assai rare in un paese affetto da provincialismo endemico), la subordinazione gerarchica a livelli differenziati di potere politico, economico…., la selezione a monte delle informazioni, la loro permeabilità sociale, la ricettività e via di questo passo.

Negli ultimi due anni il tema del Covid-19, ad esempio, ha soppiantato qualsiasi altro tipo di notizia non solo perché avesse una rilevanza indubbia superiore a molte altre, ma perché doveva averla.

La sensazione personale e collettiva è che di fronte ad una notizia di scarso impatto mediatico è il fatto stesso a perdere di rilevanza semantica e cognitiva e, quindi, a ad assumere un peso molto diverso fino a scomparire.

Oggi, 11 febbraio 2022, mi sono fatto un giro sulle prime pagine dei maggiori quotidiani italiani a proposito della “crisi Ucraina”. Bene, a parte due articoli laterali, anche in senso contenutistico, de “la Repubblica” e de “Il Messaggero”, la guerra alle porte di casa nostra non ha il rilevo che meriterebbe (tra l’evacuazione dell’ambasciata russa a Kiev e l’invito del presidente americano Biden ai suoi concittadini di lasciare immediatamente l’Ucraina). Sono certo che, nei prossimi giorni, avrà la considerazione che avrebbe già dovuto avere. In ogni caso ci obbliga a riflettere, e molto, sui processi comunicativi ai quali, volenti o nolenti, siamo assoggettati.

Il Sole24ore

Inflazione Usa mai così da 40 anni

Superbonus

Pnrr effetti sul lavoro

Corriere della sera

Virus, così l’Italia riapre

La Repubblica

I fondi del recovery dividono Nord e Sud

A lato con foto: Tra i caccia italiani ai confini delle crisi ucraina

Il Messaggero

Gas, più aiuti alle famiglie

(Foto) Io cecchina per l’Ucraina rinvia articolo a pag. 10

Il Secolo XIX

Basta mascherine all’aperto Vaccini no alla quarta dose

La Stampa

Fauci: così stiamo battendo il virus

Foto: Angelina Jolie “Le mie lacrime per le donne”

Il Giornale

Foibe Il genoicidio di serie B

Il Green pass ha i giorni contati

Foto di Montagnier: Da genio a guru dei complottismi. Montagnier, la morte è un mistero

Il Mattino

Corsa dei prezzi, c’è chi specula”

Il Fatto quotidiano

Foto: Porta girevole Garofoli sal va se stesso e Lamorgese. Riforma dimezzata per il cocco di Draghi

Il Manifesto

Foto ministero istruzione: Zero in memoria

Libero

Nuove accuse a Report. La pista dei fondi neri

LA BELLA MORTE? Notazioni sulla presenza dell’estrema destra nel movimento No-Vax

Memento mori di Andrea Previtali (1502), retro del dipinto Ritratto d’uomo
Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=23979406

Premessa.

Questo breve articolo risponde a due domande che mi pongo da tempo.

La prima riguarda i forti richiami del movimento No-vax alla sfida con la morte (“io questo virus, a questo punto, mi auguro di prenderlo, piuttosto che morire strisciando meglio morire in piedi!”), tali da essere assunti come estremo sacrificio personale e simbolico, per alcuni di loro, fino al rifiuto totale di ogni cura. La seconda tocca invece la presenza, viva e attiva, delle destre neofasciste, naziste e nazionaliste nel movimento No-vax europeo in misura largamente maggiore e visibile delle sinistre antagoniste. Credo che tra la prima domanda e la seconda ci sia una forte correlazione.

Preciso che con movimento No-vax intendo esplicitamente solo e soltanto quello che si esprime nelle pubbliche piazze o attraverso variegati contesti comunicativi social. Questo significa che non esiste una correlazione automatica tra non vaccinati e movimento No-vax. Non esiste, allo stesso modo, una complicità necessaria tra tutte le parti del movimento No-vax e l’estrema destra. Allo stesso tempo, in molti casi, non è stabilita né definita una netta separazione. E anche questo pone altre e irrisolte domande.

La bella morte?

Il Covid-19 ha riproposto, in forma nuova ed aggiornata, una pletora di temi su cui sarebbe molto oneroso, anche se doveroso, tornare. Uno di questi è il rapporto con la morte: espulsa dal mercantilismo capitalistico come un accidente della vita, è tornata prepotentemente ad accompagnare la quotidianità delle vite di ognuno di noi non solamente come fattore ineludibile e consustanziale all’esistenza stessa, ma quale coadiutrice indesiderata della quotidianità. Imprevedibile, implacabile e portatrice di sofferenze. Non che non lo sapessimo già, ma non eravamo più abituati ad immaginarla a braccetto di una cena, di una spesa, di una partita di calcetto, di una proiezione cinematografica e così via. Gran parte della discussione che da due anni ad oggi ruota intorno al Covid-19, ai vaccini, alle misure di contenimento ha un nemmeno tanto malcelato convitato di pietra: la morte. Intorno ad essa hanno ballato e danzano posizioni radicalmente divergenti.

Per la prima volta rimango fortemente scosso quando un mio contatto “social”, riferendosi ad altrui intervento pro vaccino, rivendica “una morte con il sole in faccia, da uomini veri e non da sudditi (l’accusa è contro pretoriani di Regime). Non è l’unico, naturalmente: piazze, siti, chat, dichiarazioni private e pubbliche di non vaccinati riprendono slogan militareschi tra cui campeggia il “meglio morire in piedi piuttosto che morire strisciando!”.

Di fronte ad una malattia, solitamente, si usano toni meno bellicosi: il vaccino, piaccia qualcosa di più o molto di meno, è un medicinale. Ma, se si pensa di essere all’interno di una guerra, gli stessi registri linguistici cambiano e cambiano di molto. Per alcuni dei non vaccinati non saremmo dunque solamente davanti ad un virus, nato chissà dove e chissà come, ma dinanzi ad un nemico belligerante dai volti e dalle espressioni più diverse e più stratificate. Solo così e solo in questo senso possono essere capiti, anche se non compresi, motti che inneggiano ad affrontare la morte quasi fosse un vessillo di coerenza assoluta. Perché, ed è qui il paradosso più compiuto, se non ci si vaccina per non morire o per essere infettati da un “siero” (così lo chiamano) sperimentale e nocivo, non ha alcun senso invocare la morte come scelta di congruenza personale e politica per combatterlo. A meno che, a meno che, come dicevo prima, non ci si ritrovi in guerra. Ma di quale guerra parlano costoro? Sia nel caso in cui ritengano il virus cosa vera, sia nel caso in cui lo individuino come pura e mera fantasia, il Covid-19 assolve ad una funzione macro-politica: è quel grimaldello nato, cresciuto, sperimentato e poi diffuso al solo scopo di accelerare il processo di dissoluzione degli stati-nazione, di imporre un governo mondiale eterodiretto da forze finanziare/poteri occulti/multinazionali finalizzati a soggiogare l’intera popolazione mondiale ad un dominio tripartito (finanza, burocrazia/potentati economici) non democratico, volutamente e consciamente dittatoriale. La sanità diventa, secondo questa logica, forma precipua di dittatura proprio perché è strumento essenziale della propagazione delle volontà politiche eterodirette: la “dittatura sanitaria” segue pedissequamente questa logica. Tali posizioni politiche o pre-politiche si confrontano assiduamente e costantemente, che lo facciano o meno consapevolmente, con tutto il substrato culturale delle destre radicali che hanno sempre condannato il potere omologante della mondializzazione come condizione essenziale dell’indebolimento dei popoli, intesi nella loro unitarietà costitutiva, esistenziale, tradizionale e storica: in altre parole ciò che chiamano “comunità di destino”. Per chi conosca anche solo un po’ di vicende umane sa per bene che i processi unitari, non da ultimo quelli nazionali, passano attraverso innumerevoli conflitti e da inevitabili contaminazioni: elementi essenziali della loro formazione sono laceranti lotte di classe e cruente guerre civili. Quello su cui i teorici del complotto mondiale organizzato contano è di riconsegnare un’immagine innocente e perduta dei tempi passati, di mitologiche coesioni sociali, di imperiture e immutabili tradizioni in chiave nazionale volte ad esser calpestate da cocenti bombardieri virali a servizio di sua maestà il Dominio Mondiale.

La critica al sistema capitalistico e alla sua natura predatoria, doverosa, necessaria e quantomai attuale, è ben altra cosa da questi farfugliamenti della cospirazione.

Ma per la destra radicale il virus Covid-19 è niente più e niente meno che un atto di guerra che schiera due formazioni in campo: la servitù di Regime, che si vaccina e i combattenti per libertà, che lottano e muoiono per una causa nobile.

In questo senso libertà, liberazione, dittatura assumono fattezze significativamente diverse da quelli assunte storicamente e socialmente condivise: invocare battaglie contro forme di dittatura e di imposizione sociale, per l’estrema destra illiberale e autoritaria, potrebbe costituire un ulteriore paradosso. Ma si tratta di una bizzarria solo apparente: le dittature non sono intese nelle loro forme di realizzazione storica e sociale e la libertà non ha valore in sé, se non in relazione al contesto politico di riferimento. La diversità non contempla nessuno spazio alla differenza: la presunta unità di popolo non prevede alcuna divisione sostanziale: di classe, di genere, sociali, culturali, di pensiero e storiche. Essa le assimila nel nome di destino comune, il loro naturalmente, e le riconduce da una condivisione di spirito e d’intenti unico, univoco e indiscutibile. Chi si pone al di fuori da questa logica, si colloca al di là della stessa nazione: va o rieducato o espulso. Se le differenze interne sono ricondotte ad un’imprescindibile forzatura unificante, al contrario quelle esterne sono esaltate e fortemente virilizzate. Il virus ha riconsegnato all’estrema destra l’occasione per tornare a parlare di temi a lei cari. E di poterli portare, manco a poterlo solo sperare, in forme di movimento composite. La logica bellica assume, dunque, il duplice connotato di di guerra esterna e di guerra interna: i poteri “forti” mondiali e i loro lacchè locali.

Devastazione di una sede sindacale a Roma – inizi anni Venti

E qui torna prepotentemente la morte eroica come stilema di pensiero complessivo di una guerra da combattere: è sicuramente vero che la morte mitizzata non appartiene esclusivamente alle culture delle destre radicali, ma è indubbio che di questa ne facciano e ne abbiano fatto un vessillo imprescindibile della loro teoria-prassi politica.

Accenni sulla morte eroica e la dottrina fascista.

Sicuramente De Maistre, Gobineau, Donoso Cortés, principalmente Barrés e poi Ernst Jünger e Spengler e la morte quale premio del destino e la diserzione borghese della storia; e quindi il nazionalista radicale Ernst von Salomon (invito a leggere questo pezzo di Cesare Cases a proposito degli eretici conniventi http://www.germanistica.net/2012/06/27/gli-eretici-conniventi/), il quale scriveva che “è meglio rischiare la propria vita che vivere male. Ecco perché la vita vera, pericolosa, deve essere preferita alla vita mediocre, e su questa stessa falsariga la morte gloriosa è meglio di una morte mediocre”, hanno puntellato, anticipato, sedimentato una cultura politica in cui la morte diviene essenza primaria della vita, sua compagna e guida, nazione e spirito dei tempi. La Grande Guerra, in tutto questo, rimane uno spartiacque da cui non si può fuggire né prescindere. Ma è nella costituzione materiale dei movimenti e partiti fascisti e nazisti dagli anni Venti in avanti che la morte gloriosa e mitizzata diventa corpo politico, fine e strumento, misura e principio. L’individuo della destra nazional-rivoluzionaria combatte per sé, anticipando e muovendosi nella direzione dei desiderata di altri individui pari a lui: per la nazione (sangue e suolo) e contro la patria borghese.

Chiare, in questo senso, riecheggiano le parole di José Antonio Primo de Rivera, co-fondatore assieme a Ramiro Ledesma Ramos e Ruiz de Alda della Falange Española Tradicionalista y de las Juntas de Ofensiva Nacional Sindicalista (FET y de las JONS): “la morte è un atto di servizio. Né più né meno. Non si possono, pertanto, adottare specifiche attitudini davanti ai caduti. (…) il martirio dei nostri è, per un verso, scuola di sofferenza e di sacrificio, quando abbiamo deciso di contemplarlo in silenzio. Per altro è ragione di rabbia e di giustizia. I nostri martiri non possono certo essere un argomento di ‘protesta’ secondo la consuetudine liberale”.

Il canto del Tercio Estranjero, s’intitola non casualmente “Il fidanzato della morte”, e così recita nel cuore della sua liturgia: “Quando più arduo era il fuoco e la lotta più feroce // difendendo la sua bandiera il legionario avanzò.// E senza temere la spinta del nemico esaltato // Seppe morire come un valoroso e le insegne salvò. // E dissetando col suo sangue il terreno ardente, //mormorò il Legionario con voce triste: // Sono un uomo che la fortuna ha colpito con zampa feroce; //sono un fidanzato della morte che si unirà con nodo forte // a una compagna così fedele”.

Non è da meno la Guardia di Ferro rumena, che rimanda ugualmente allo sposalizio con la morte: “La morte, soltanto la morte, legionari, // è un lieto sposalizio per noi. // I legionari muoiono cantando, // i legionari cantano morendo.”

E il fascismo nostrano con la canzone Fiamme Nere, dedicata all’arditismo bellico (nota anche come Il Canto degli arditi), ripresa all’inizio degli anni venti e poi nella Repubblica Sociale come inno delle Brigate Nere, così inneggia in una delle sue strofe:

avanguardia di morte // siam vessillo di lotte e di orror // siamo l’orgoglio mutato in coorte // per difender d’Italia l’onor”.

Con la Seconda guerra mondiale quest’aura sepolcrale, zeppa di simboli e riferimenti inneggianti al rapporto alla pari con la morte, quasi sfottente, trova il suo apice nella letteratura fascista: “Potrò guardare in faccia alla morte, sfuggirla, divertirmi con essa; giocare a rimpiattino deve essere bello. Come vedi le volontarie in camicia nera non temono la morte e prendono tutto con filosofia. Così viviamo… guardando in faccia alla morte con sorriso sulle labbra”, scrive un’ausiliaria in una lettera.

Lo storico Claudio Pavone afferma che ci sono due poli estremi che si possono isolare nelle espressioni fasciste: il primo riguarda una forma estetica dell’impulso di distruzione, che sembra propria di tutte le esistenze da paria nella misura in cui intimamente non sono del tutto schiave” (cfr. Georg Simmel).

Il secondo è quella della sfida proterva, fino alla morte.

Bibliografia minima.

Francesco Germinario, L’estremo sacrificio e la violenza. Il mito politico della morte nella destra rivoluzionaria del Novecento, Asterios editore, Trieste 2018;

Francesco Germinario, L’altra memoria. L’Esrema destra, Salò e la Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1999;

Furio Jesi, Cultura di destra, Garzanti, Mlano 1979;

Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Borignhieri, Torino 1991.

Parole senza punteggiatura a ritroso dal Green Pass

Questa foto la scattai nell’assolato aprile del 2020, in pieno lockdown, sul tetto del palazzo in cui abitavo dove scambiavo alcuni timidi passaggi con mio figlio Marco. Il titolo che diedi a questa foto fu: “Palla Prigioniera”

Già non mi piacciono le carte di identità i passaporti che obbligano a dire sempre chi sei a qualcun altro per poter passare confini interni o esterni poco importa figuriamoci poi il green pass per entrare in un ristorante in un cinema in un teatro in un museo in una mostra in una fiera in una scuola o chissà dove

Quando girano le prime notizie sul virus in quel gennaio del 2020 io penso che beh se i cinesi che controllano tutti o quasi i bulbi oculari dei loro concittadini bloccano un’area territoriale di una ventina di milioni di abitanti questo Covid deve essere una cosa proprio grossa altrimenti non avrebbero mai fatto una cosa del genere

Lo penso e lo dico ai colleghi agli amici ai parenti guardate che se arriva da queste parti farà un bel macello e loro mi guardano un po’ come si fa con i vecchi coglioni alcolizzati del paese proprio mentre in Italia il dibattito in salsa locale procede sonnolento e rassicurante perché noi abbiamo tutte le difese del caso non preoccupatevi anche perché è solo poco più di un’influenza e poco meno di qualcos’altro

Ma io che diffido e mi fido quando c’è da fidarsi e quando no no e penso sempre ai cinesi che chiudono e non lasciavano uscire ma non lo dico più al lavoro agli amici ai parenti perché essere preso per troppo tempo da coglione non fa piacere proprio a nessuno figuriamoci a me

Me lo tengo come pensiero stretto e un po’ paranoide ma comunque non mi faccio mancare nulla e infatti vado in montagna e poi la settimana successiva porto mio figlio piccolo all’ospedale pediatrico Gaslini per fare un controllo cardiaco ché li deve fare regolarmente e quando scendo giù dal reparto per prenotare il ticket e fare tutte le cose burocratiche che ci sono da fare noto che i dipendenti agli sportelli sono già muniti di mascherina e stanno dietro un plexiglass

Ma come dico io se non è nulla come è possibile che questi che lavorano in un ospedale grande importante riconosciuto in tutto il mondo portino delle mascherine ma allora vuol dire che sanno già qualcosa che non ci è stato detto o ne sanno di più d questo merdosissimo virus è bello che arrivato e farà un bel troiaio

Vado a Torino saluto i miei mio fratello e mia sorella dai che ci vediamo presto ma quando mai lockdown totale come in Cina

Detto fatto chiudono le scuole e poco dopo mi mandano in smartworking che non so cosa vuol dire e allora mi attrezzo per capire quello che non so e fare quello che devo e sento tutte le persone al telefono che poi sono quelle che perdono il lavoro in naspi in cassa integrazione o disoccupati senza appello che prima vedevo di persona e ci guardavamo negli occhi e talvolta quegli occhi piangevano o erano cupi e arrabbiati

Adesso tutto al telefono dove sento ma non vedo e non vedere significa non guardare ma mi adatto e cerco di far adattare pure loro anche se alcuni non riescono a capire e non riescono neppure a fare lo spelling del nome e o del codice fiscale e non solo perché non sanno che cosa è lo spelling ma perché alcuni non sanno leggere o sanno leggere ma una lingua diversa un alfabeto diverso delle pronunce diverse ma io ci provo

Anche mia moglie si adatta e da psicoanalista meno peggio e meno meglio di noi altri ma non sto qui a spiegarvi il perché o il percome altrimenti vi svelerei alcuni segreti del mestiere che non conosco neppure io

Pure i figli si  arrangiano e il più piccolo fa quarta elementare e dopo un breve periodo di entusiasmo anti-scolastico ben presto si rende conto che non ha più contatti con i compagni con gli amici di giardino di basket e le ore passano lente le maestre non sono attrezzate per lo smartworking le ore di lezione si contano settimanalmente sulla punta delle dita  e allora decido con lui che quando ho finto di lavorare andiamo sul tetto piatto del caseggiato a fare due tiri al pallone sperando che la palla non cada giù perché non la recupera più nessuno

Il grande si adatta meglio alla Dad che non gli piace molto ma scopre anche gli anfratti reconditi del poter stare al video e contemporaneamente parlare con altri che stanno davanti ad altri video anche se non della stessa classe ma anche lui perde il campionato di basket e tutto quello che ne segue ma poi per fortuna un caro amico si prodiga per fare lezioni online di ginnastica da casa e almeno non perde un po’ di tonicità anche se io gli dico vatti a fare un giro nell’isolato e lui mi risponde che non è un cane e che per pisciare basta il cesso di casa e poi lui non sono vecchio come me che devo fare il giro del circondario

Capisco ma mi si stringe il cuore quando li vedo rannicchiati sul letto in posizione fetale per diverse ore che poi è una posizione che conservano tutt’ora come fosse naturale starsene lì sdraiati e accovacciati con un telefono in mano, un libro o niente insomma niente

Si può correre anzi no camminare molto vicino a casa ballare sotto la doccia sì purché da soli ci scherzo sopra ma mica tanto

Ospedali zeppi contabilità di morte meno giovane e giovane dannatamente giovane valanghe di intubati prove tecniche di guarigione e non si può fare diversamente o forse sì ma ce lo spiegheranno nel 2200

Poi vado a fare la spesa e cerco le mascherine e l’alcol che porca qui e porco là non si trovano guardo un la televisione ma non i dibattiti che mi fano vomitare piuttosto serie tv e film e non riesco quasi più a leggere telefono o video telefono ad amici e parenti e facciamo cene virtuali dove chiacchieriamo sbirciandoci dal video e domenica sera pizza che bello pizza e birra ma niente balconi per prima cosa perché casa mia non li ha e seconda cosa perché non l’avrei fatto comunque e terza cosa perché anche solo mi fosse mai passata la malaugurata idea sono stonato così come niente bandiere nostra patria è il mondo interno nostra fede la libertà cantavo un tempo e pure ora anche se un po’ di meno

Intanto impreco e spero in una cura ma soprattutto impreco e ho paura e vedo i miei su WhatsApp che mi dico che per fortuna anche se hanno ottanta anni sì e no almeno sono in grado di usare quell’apparecchietto che controlla come tutti gli apparecchietti e qui ci sarebbe da aprire un capitolo a parte perché indubbiamente la questione del controllo è molto più ampia della questione del Covid e già in passato ho avuto lunghe discussioni imbevute di alcol e sigarette in cui cercavo di discutere e di capire quanto e come il  genere umano sia disposto a cedere in termini di libertà sulla sicurezza ma l’argomento è spinoso perché bisognerebbe prima di tutto definire che cosa sono le libertà e cosa sono le sicurezze e la questione non è semplice come appare e quelli che mi pare che molti di quelli che sbraitano nelle piazze antivacciniste e antigreenpassiste sono poi anche quelli che per una e per l’altra intendono quello che interessa solo a loro che non è proprio la stessa idea di libertà che ho io

Poi si avvicina l’estate ed ecco che si può uscire dal comune forse per raggiungere un altro comune all’interno della stessa regione purché sia seconda casa oppure appartenete a un familiare vivente ivi residente o sembiante residente e ed ecco allora che andiamo in Val Trebbia per starci tutta l’estate con nuovo collegamento Wi-Fi tutto da remoto ma c’è il bosco, il verde, l’orto che mi viene quasi tutto mangiato dai daini, ma viva i daini e i cinghiali e chissenefotte almeno esco respiro, cammino mi immergo nel fiume e vedo degli esseri umani degli amici e gli do delle belle gomitate dopo essermi igienizzato le mani pensando che per fortuna non sono solo ologrammi e poi spero che l’estate vada così e infatti va abbastanza così e riusciamo persino ad andare sul Monviso per tre giorni e poi si torna al lavoro

Facciamo finta che sia tutto uguale a quando si stava prima e si stava un po’ meglio ma sappiamo che così non è perché così non sarà e comunque andiamo avanti speranzosi

E poi noi azzardiamo perché abbiamo venduto casa chiuso un mutuo aperti altri due comprato una nuova casa da ristrutturare e speriamo che vada tutto bene che non ci siano intoppi perché entro marzo dobbiamo andarcene dalla vecchia e così tutti gli appuntamenti sono con il fiato sospeso nella speranza che nessuno di ammali neppure il notaio e poi tornano a suon battente morti ricoverati Rt che schizzano discussioni che impazzano litigi paure che ci fanno dire ma che cazzo abbiamo fatto in questo momento non potevamo aspettare l’anno prossimo ma poi pensiamo anche che è il miglior momento per occuparci di altro perché tanto non ci occupiamo che di solo questo e i muratori vengono da Ovada senza intoppi l’unica cosa è comprare il  materiale a costo accessibile in pronta consegna e mi  raccomando non ordinate niente che non si sa quanto arriva ci dicono quelli di Leroy Merlin e noi facciamo come ci dicono anche perché dobbiamo andarcene entro marzo e non si può scherzare con i tempi

E poi chiude di nuovo tutto e la dad rannicchiata e il basket che non c’è le spese sofferte al mercato con il fiato trattenuto e poi a lavarsi le mani che non si sa se il Covid si attacca pure alle cose e poi ci rimane per un sacco di tempo quel tempo che permette a mia suocera di prendersi una bella multa per aver telefonato da sola con la mascherina abbassata perché diceva che non riusciva a farsi sentire bene dall’amica ma i poliziotti municipali che passano di là non la pensano allo stesso modo e noi a dirle ma tienilo dento il naso e tutto mentre le strade si chiudevano di rosso o quando andava benissimo di arancione e allora camminiamo per la città a piedi in alto e in basso ma quanto è bella Genova senza niente e nessuno anche si ci piacerebbe e non poco fare un salto fuori ma non si può se non per lavoro o per parenti malatissimi e per fortuna i miei non sono malatissimi anzi stanno pure bene e allora magari ci si vede per le vacanze di Natale magari venite giù da Torino un po’ prima della chiusura fra regioni vi affittiamo un piccolo alloggio così ci si vede che è da settembre che non ci incontriamo ma niente da fare salta tutto ognuno a casa sua ci salutiamo a distanza con le nostre facce stropicciate dietro quei microscopici schermi

A Rovegno (Val Trebbia) durante una puntata natalizia foto che feci durante le vacanze di Natale del 2020

Dovremo aspettare fino ad aprile subito dopo il trasloco per poterci incontrare perché alla fine dei conti sono passati solo sette mesi giorno più o giorno meno e allora durante le vacanze natalizie andiamo a trovare la mamma di mia moglie che è nonostante tutto è anche mia suocera che è residente in val Trebbia dove i daini dormono i cinghiali pure è pieno di neve che riduciamo in palle che ci tiriamo addosso senza averle disinfettate anche perché un po’ di ghiaccio basta e avanza e respiriamo aria fresca freddo passeggiate nei boschi finalmente un po’ di libertà dal giogo cittadino che ci riprende appena torniamo anche se per fortuna l’allenamento di basket riprende al chiuso per il grande e all’aperto per il piccolo e io lo accompagno su in cima a Genova verso l’ostello e mi seggo su di una panca aperta e fresca come le vedute della città e attendo che finisca per poi tornare a casa  e non è mai stato così bello aspettare fuori senza fare niente pensando che forse tutto il buono e il giusto sia soltanto quello e null’altro

E intanto si aprono fessure e si parla di vaccini e di altre medicine pronte a breve e mi dico che fortunatamente c’è uno spiraglio e che questo ineguale ingiusto iniquo sistema capitalistico  in tempi super rapidi sta cercando di tirare fuori se stesso e quindi una parte della sua popolazione fuori dalla difficoltà di produrre secondo i canoni consentiti e raccomandati perché l’altra quella ai margini non viene proprio calcolata se non per le stesse ragioni ma al ribasso o al ribassissimo e allora mi dico e mi ridico quanto debba essere  importante togliere il profitto da ciò che è necessario  e penso che poi quasi tutto sia necessario pure la focaccia e il pesto che è quello che ho sempre chiamato socialismo libertario e non è come ci ricordava Errico Malatesta fare finta che esiste una medicina anarchica o antisistema ma tutt’al più solo medici che possono essere al massimo anarchici e sarebbe come dire che quelli che hanno operato a una settimana di vita mio figlio a cuore aperto sono gli stessi che con i vaccini vorrebbero farlo fuori o inoculargli chissà che cosa

E mi fanno ridere i nuovi dottori in nulla che si prodigano a spiegare come dietro i vaccini ci sia del profitto come se dietro l’aspirina no o che fanno intendere un’opera auto-stragistica delle élite mondiali che tutto di un tratto di vaccinerebbero per farsi fuori e allora le grandi resistenze al vuoto a perdere senza mai avere una sola e dico sola alternativa plausibile se non altri lockdown generalizzati per poi evocare delle cure casalinghe e caserecce o spettri del passato che se tornassero veramente li impiccherebbero al primo lampione disponibile

Ma allora tu ti fidi mi chiedono ma che domanda mi fate rispondo io è chiaro che se mi affido significa che un po’ o molto mi fido ma non è la stessa cosa chiedo nuovamente io che faccio o facciamo su tutto ciò che circonda e mi lascio andare un breve pausa che tira su il fiato

Quando ho un problema elettrico idraulico informatico meccanico a meno che non me ne intenda di elettricità idraulica o meccanica mi affido a più persone che ne sanno e conseguentemente mi fido di loro fino a prova contraria ed ecco che ho detto praticamente tutto quello che mi serve dire e cioè che la conoscenza che prevede una buona fetta di scienza di esperienza di competenza si costruisce nel tempo con lo studio l’apprendimento la fatica il rischio l’errore e scusatemi tanto anzi scusatemi proprio per nulla è cosa assai e ben differente dall’opinione nulla di colui colei coloro che ignorano la materia e non l’hanno sperimentata e non si sono formati su di essa ma si sentono comunque in dovere di esprimere un parere non richiesto su ciò che ignorano perché di ignoranti belli e buoni si tratta facendo finta che la competenza e la non competenza pari siano che la conoscenza e la non conoscenza pari siano  che lo studio e il non studio pari siano che l’esperienza con prove errori e ripensamenti e rifacimenti e la non esperienza suffragata dal fancazzismo parolaio pari siano mitigando il dibattito in una sorta di apparentamento democratico tra il eccetera e il non eccetera come a svelare un improbabile fraintendimento di parità tra cose che invece mantengono una gerarchia ben diversa perché come dicevo ad un amico per me per noi che abbiamo una formazione storica e umanistica dovrebbe essere ben chiaro che le fonti non sono eguali né per tipologia né per provenienza né per peso né per formazione né per prova e che questo dovrebbe valere in tutto il resto

Allora non sei critico e le multinazionali e le ricerche vincolate al profitto e via di questo passo ma certo che sono critico o criticissimo ma cerco di distinguere tra i piani e non penso e non ho mai pensato che coloro che dicono pensano fanno baciano lettera e testamento diversi dai miei desiderata siano eticamente riprovevoli o facciano solo il male dell’altrui individuo o ingannino e basta e se devo dirvela tutta questo modo di pensare non è nemmeno così tanto infantile ma è solo leggermente minorato e decisamente riduttivo e anche un po’ idiota che ne dite voi che immagino facciate le stesse identiche cose anche se un po’ diverse e che quindi anche voi vi affidiate in caso di necessità a quelli che ne sanno di più

E tutto questo ribadisco non perché non ci sia necessità di discutere delle forme di dominio e di come queste si realizzano a partire dallo sfruttamento per arrivare alla devastazione ambientale di cui questo maledettismo virus non è in un caso o nell’altro che non sapremo mai un mero epifenomeno ma causa e condizione ma perché non se può discutere con mezzi e opinioni da ripentente in terza elementare anche perché quelli che governano sono tozzi e duri senza grandi pietà sociali e quando si rendono conto di avere di fronte il niente che arretra si divertono semplicemente a schiacciarlo

E allora si vaccina prima mia moglie e poi io che mi incazzo che arrivo dopo e me lo spostano in avanti mentre volevo farlo prima e infine mio figlio di diciassette anni e intanto facciamo il trasloco e si respira un po’ di più e poi l’estate che avanza e che ora volge al termine

Certamente avrei preferito non farlo il vaccino e preferirei avere ancora i miei capelli un fisico asciutto su cui ci lavorerò in futuro non portare gli occhiali ed essere più alto di almeno 10 centimetri per riuscire a guardare negli occhi mio figlio più grande e il più piccolo quando crescerà ma detto questo non ricordo di essere stato a Whuan in questa vita né in quelle precedenti di non aver causato la pandemia ma di averla subita e pesantemente come moltissimi di voi anche se so che molti di più e qualcuno di meno e che come dicevano gli antichi ho fatto di necessità virtù o se non proprio virtù mi sono affidato alla competenza di quanti questa virtù l’hanno coltivata con sapienza ben prima di me e certo con tutte le critiche possibili al sistema eccetera ma di questo ve ne ho già parlato ma vorrei aggiungere un’ultima cosa e cioè che parlare tanto di questo greenpass in realtà celi ben altro e non potendo e non volendo prendere il toro per le corna lo si  accarezzi dolcemente sulle chiappe per non irretirlo troppo e quelle corna si chiamano Covid- 19

Dunque forse quasi sicuramente non è il Green Pass la questione e forse lo è solo in modo mal posto e nulla ha a che fare con legittimità costituzionali ma molto di più con scelte e appelli improbabili

Giorgio Agamben e il mancato senso delle proporzioni

Balconies at Alfama neighborhood. Lisbon, Portugal
Di LBM1948 – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=76589546

Il noto filosofo Giorgio Agamben è uscito alla ribalta delle cronache mondane per l’appello firmato insieme a Cacciari a proposito del Green Pass. In realtà, per coloro che seguono gli anfratti del dibattito filosofico, Giorgio Agamben si era già espresso innumerevoli volte a partire dallo scoppio della pandemia. Le sue posizioni sono reperibili essenzialmente qui: https://www.quodlibet.it/una-voce-giorgio-agamben

Numerosi sono, poi, gli articoli, gli opuscoli e persino alcuni libri che si sono prodigati nel confutare le posizioni espresse da Agamben: dal punto di vista filosofico, scientifico, politico e quant’altro.

Ciò che mi preme fare, in questo breve articolo, è analizzare il carattere discorsivo e i riferimenti storici utilizzati dal filosofo in un editoriale comparso sul quotidiano “La Stampa” del 4 agosto 2021, che così si intitolava: “Scienza e politica, attenti a quelle due. La storia ci mette in guardia dal mescolarle. Etica e ricerca non sempre vanno d’accordo”.

Giorgio Agamben esordisce affermando che i decreti, e non solo quelli sul Green Pass, utilizzati per governare la pandemia trovano una propria legittimità nelle ragioni scientifiche su cui si reggono. Il passaggio successivo del nostro è quello di richiamare l’attenzione sul nesso (incauto) tra politica e scienza senza che avvenga una previa valutazione delle conseguenze (se accettabili o meno).

Quindi Agamben procede con degli esempi storici che servirebbero a farci valutare la rischiosità di prendere decisioni politiche (le loro conseguenze) su basi scientifiche e sulla relazione divergente, eventualmente, tra etica e scienza:

  1. Quando Mussolini introdusse le leggi razziali si preoccupò di dare ad esse una legittimazione e un fondamento scientifico. In ragione di ciò, un mese antecedente la pubblicazione del famigerato decreto legge del 5 settembre 1938, apparve sul Giornale d’Italia una dichiarazione firmata da dieci illustri accademici e scienziati in cui si affermava che gli ebrei non appartengono alla “pura razza italiana”.
  2. “E non sarà fuori luogo ricordare che la prima volta che uno Stato si assunse programmaticamente la cura della salute dei cittadini è nel luglio del 1933, quando Hitler (…) fece promulgare un decreto per proteggere il popolo tedesco dalle malattie ereditarie, che portò alla creazione di speciali commissioni mediche che decisero la sterilizzazione di circa 400.000 persone”;
  3. “Meno noto è che, ben prima del nazismo, una politica eugenetica, potentemente finanziata dal Carnegie Insitute e dalla Rockfeller Foundation, era stata programmata negli Stati Uniti, in particolare in California, e che Hitler si era esplicitamente richiamato a quel modello”.

Poi la virata: “(…) Non si tratta qui, lo ricordiamo ancora una volta, di equiparare fenomeni storici diversi, ma di far riflettere gli scienziati, che sembrano poco sensibili alla storia delle loro stesse discipline, sulle possibili implicazioni di un nesso criticamente assunto fra scienza e politica”.

Segni.

Dal punto di vista della costruzione del testo Giorgio Agamben procede in due fasi successive tra loro complementari: nella prima tiene il lettore per mano e lo accompagna attraverso gli esempi storici appena evidenziati. Nella seconda, grazie allo stacco creato dalla congiunzione avversativa “ma” assicura, a coloro che non avessero capito a sufficienza, che i suddetti esempi sono comunque utili non tanto per paragonare fenomeni storici diversi, ma per far riflettere. Il “ma” mette in relazione due costrutti del pensiero: Il primo riguarda “la non possibilità di paragonare fenomeni storici diversi”, mentre il secondo agisce sul primo riaffermano ciò che si vuole apparentemente negare: “proprio quei fenomeni storici così lontani e così imparagonabili al presente servono comunque a far riflettere”. La riflessione diviene conseguenza sia dell’ignoranza della scienza sulla propria storia, postulato presunto e mai dimostrato dal filosofo, sia dall’ignoranza del terzo implicito, il vero convitato di pietra, a cui quel “ma” inevitabilmente rimanda: i lettori dell’articolo. Essi, dunque, proprio perché ignorano la storia al pari della scienza, non potranno che utilizzare gli esempi storici, a questo punto comparabili, che l’autore dello scritto ha fornito. Così la legislazione emergenziale Covid ritorna prepotentemente laddove Giorgio Agamben non ha mai voluto espellerla: dalla storia delle discriminazioni razziali e dalla dittatura.

L’analogo.

Il raffronto storico e la ricerca dell’analogia tra eventi più o meno lontani è un discorso assai noto ad Agamben. Tanto che fu suo il saggio introduttivo al capolavoro di Enzo Melandri, “La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia[1]”.

Sappiamo per certo che almeno da Tucidide[2] in avanti il metodo storico si avvale della comparazione con esempi ammirevoli di ricostruzione indiziaria di tipo analogico: come ha avuto modo di specificare Luciano Canfora[3], l’analogia funziona come metafora esplicativa attraverso l’uso di elementi differenziali. Enzo Melandri anticipa la questione, a suo dire insoluta, affermando che non è possibile distinguere fra uso esplicativo e uso esornativo dell’analogia: solo nella manualistica storica esiste una suddivisione tra il ‘capire’ e lo ‘spiegare’ dove ‘capire’ “significa saper descrivere una situazione a noi ignota per mezzo di riferimenti a cose note[4]”.

Parrebbe, almeno ad una prima impressione, che Agamben sia nel giusto ad utilizzare uno o più parallelismi storici per aiutarci a decifrare il presente e l’uso autoritario del Green Pass.

Vi è, al conrario, qualcosa che stride apertamente in questo tentativo di parallelismo storico: nello sforzo di costruire leggi “storiche” valevoli per processi monumentali e di lungo periodo Giorgio Agamben cade nella piena tautologia: affermando che in altre epoche, a condizioni dissimili, si sono verificate condizioni di tipo autoritario o dittatoriali in ambito sanitario (sineddoche), questo non serve ad altro se non a definire delle categorie ideal-tipiche valevoli in ogni epoca e ad ogni grado di latitudine che non spiegano il metodo di comparazione prescelto, né la sua validità euristica: “Ora è un fatto che una storia monumentale risulta sempre tendenziosa: non solo perché finisce con l’istituire   una comprensione del  fatto  storico  in base alle sue ripetizioni o, meglio, omologie con altri eventi, passati o futuri; ma soprattutto perché porta a considerare  come un dato di  fatto ciò che invece effetto del metodo di comparazione prescelto, e a trovare in quello la conferma della propria ideologia[5]”.

Perché altrimenti ritrattare con “(…) Non si tratta qui, lo ricordiamo ancora una volta, di equiparare fenomeni storici diversi…”?

E a quale costrutto ideologico faccio riferimento? A questo: “L’invenzione di un’epidemia” di Giorgio Agamben, 26 febbraio 2020 in https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-l-invenzione-di-un-epidemia

Se, dunque, analogia (ἀναλογία) significa, nella sua accezione originaria, proporzione o uguaglianza di rapporti (λόγος), allora essa esprime un tipo di somiglianza fra situazioni che si fonda su un’uguaglianza di relazioni e non sulla semplice condivisione di attributi da parte di due oggetti, di due condizioni, di due periodi storici.

Sembrava, nemmeno a volerlo sperare, che i fatti si adeguassero alla teoria. Ma così non era e così non è.


[1] Cfr. Giorgio Agamben, Archeologia di un’archeologia, Saggio introduttivo a Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata 2004, pp. XI – XXXV; la prima edizione è de “Il Mulino”, Bologna 1968.

[2] Tucidide in 1.5.3-6, 2 descrive l’origine della società e degli aspetti culturali degli abitanti delle regioni greche più povere, dal nomadismo alla fase del sedentarismo. Un periodo caratterizzato da processi di accumulazione e di stratificazione sociale.

ἐλῄζοντο δὲ καὶ κατ᾽ ἤπειρον ἀλλήλους. καὶ μέχρι τοῦδε πολλὰ τῆς Ἑλλάδος τῷ παλαιῷ τρόπῳ νέμεται περί τε Λοκροὺς τοὺς Ὀζόλας καὶ Αἰτωλοὺς καὶ Ἀκαρνᾶνας καὶ τὴν ταύτῃ ἤπειρον. τό τε σιδηροφορεῖσθαι τούτοις τοῖς ἠπειρώταις ἀπὸ τῆς παλαιᾶς λῃστείας ἐμμεμένηκεν. πᾶσα γὰρ ἡ Ἑλλὰς ἐσιδηροφόρει διὰ τὰς ἀφάρκτους τε οἰκήσεις καὶ οὐκἀσφαλεῖς παρ᾽ ἀλλήλους ἐφόδους, καὶ ξυνήθη τὴν δίαιταν μεθ᾽ ὅπλωνἐποιήσαντο ὥσπερ οἱ βάρβαροι. σημεῖον δ᾽ ἐστὶ ταῦτα τῆς Ἑλλάδος ἔτι οὕτω νεμόμενα τῶν ποτὲ καὶ ἐς πάντας ὁμοίων διαιτημάτων.

L’analogia consiste nel parallelo tra le condizioni delle regioni più arretrate e povere della Grecia e come la Grecia stessa sarebbe potuta apparire in un lontano passato remoto. Si tratta di un tipico esempio di ricostruzione congetturale del passato: le condizioni socio-culturali delle regioni greche sottosviluppate sono lo specchio dell’intero periodo arcaico. La metodologia adoperata da Tucidide nell’Archeologia ha garantito una tradizione nel genere storico. Fenomeni distanti nel tempo e nello spazio possono essere analizzati in modi diversi. Tucidide esamina un passato ormai scomparso, invisibile, attraverso i segni e la tecnica analogica. Compara gli eventi della storia greca arcaica con quelli a lui contemporanei in Nicoletta Bruno, Dalla preistoria alla storia. L’analogia in Tucidide e Lucrezio in eClassica III 2017 https://www.lettere.uniroma1.it/sites/default/files/447/DALLA_PREISTORIA_ALLA_STORIA._LANALOGIA.pdf

[3] Cfr. Luciano Canfora, Analogia e storia. L’uso politico deli paradigmi storici, Milano, Il Saggiatore 1982

[4] Enzo Melandri, cit. pag. 39

[5] Enzo Melandri, cit. pag. 38

Gli scogli di San Benedetto del Tronto

La spiaggia libera a fianco dello chalet “Il Pirata”. Gli scogli e l’alba all’orizzonte.
La foto è di mia zia Daniela che si sveglia presto, molto presto.

Da ragazzo, avrò avuto quattordici anni sì e no, mi capitava abitualmente di scendere in spiaggia a tarda ora. Rare le volte in cui accadeva il contrario. Alle sette e mezza, otto del mattino.

In quelle occasioni andavo a cercare un amico che si sistemava sulla battigia fronte mare, dalle prime luci dell’alba, nella spiaggia libera a fianco dello Chalet “Il Pirata”. Rimanga tra noi, ma non ho capito mai il motivo per cui gli stabilimenti balneari a San Benedetto del Tronto si chiamassero “chalet” come in Val d’Aosta località in cui, da quanto mi risultava allora come oggi, non è arrivato il mare. Meglio sarebbe dire che a San Benedetto del Tronto non si può sciare. Al momento s’intende.

Il mio amico, più grande di qualche anno, solitamente sedeva su di una stuoia rabberciata con le ginocchia raccolte al petto e il suo sguardo volgeva all’orizzonte marino interrotto solamente da quelle siepi poetiche impersonate dagli scogli che viaggiano in parallelo al lungomare. Messi per non far erodere la spiaggia sono serviti, al contrario, a consumare il mare e a riconsegnarlo a più miti raccomandazioni.

Zio Pierì, arzillo ottuagenario, dalla battuta facile e dall’aplomb anglosassone (forse il più anglosassone dei piceni mai apparsi sulla terra), mi rammentava, ogni volta che ci incontravamo, che quei benedetti scogli avrebbero dovuto metterli in diagonale per favorire la circolazione dell’acqua e impedire la sua relativa stagnazione. In quelle occasioni mi sentivo un ingegnere idraulico di tutto rispetto e in grado di stupire i miei pari con delle considerazioni tecniche di cui se ne fottevano assai: “Vatte a reponne! Penza a le ragazze e no roppe li cojoni!”- mi rimbrottavano simpaticamente in dialetto.

Anche il mio amico dallo sguardo perso e sorridente non voleva che lo disturbassi più di tanto con chiacchiericci e considerazioni inappropriate al sole appena levato. Senza volgere lo sguardo dagli scogli che inframezzavano l’infinito, mi salutava brevemente e poi calava in un tiepido silenzio. E io con lui.

Sono passate molte lune da quelle discese mattutine. Ci ripenso soprattutto d’estate e mi piacerebbe sedermi ancora accanto a lui e chiedergli: “Ciao, come è andata la vita?” Ma non aspetterei alcuna risposta.

Pensieri sparsi sulla psicoanalisi, sul vino e su Raffaella Carrà

Carrà al telefono in Pronto, Raffaella? (1983).
Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=1471224

L’uscita dallo studio di psicoanalisi

Non vi è dubbio alcuno che la psicoanalisi vada a ravanare sul fondo. Allora pensavo a questo: c’è una forte distonia tra l’ingresso nel profondo della seduta, in cui l’indicibile tenta di venire a galla, e l’uscita dallo studio (vale anche per l’ingresso) regolato da fredda formalizzazione. Allora ho ripensato a questo: lo studio non è quel luogo dove viene elargita una prestazione professionale la cui titolarità compete allo psicoterapeuta. Lo studio è una scatola cranica vuota in cui si accomodano il paziente e lo psicoterapeuta. E dove si parla. Una volta usciti dalla scatola cranica il secondo dice al primo: “Ci vediamo lunedì alla stessa ora. Si ricordi che mi deve saldare il mese precedente. Buonasera”. E il primo risponde: “Va bene. Buonasera!” E pensa: “Ma non eravamo amici?”

Vino e psicoterapia

Mi sono sempre chiesto se il vino o l’alcol in generale possano dare un valido supporto alla psicoterapia. E sono giunto a questa conclusione: sì, ma non perché nel vino riposi qualche verità come credevano quei burloni degli antichi. Non è l’aspetto ciarliero del vino ad emergere, ma il suo supporto al transfert e al contro-transfert. In ogni caso è comunque il paziente a pagare l’analista e non viceversa. Sul vino ci si può mettere d’accordo.

Psicoanalisi e abbigliamento

Il vestito fa il paziente? Andare in terapia con i calzoni corti e poi stravaccarsi sul lettino può essere un indice di rilassatezza del super-Io?

Raffaella Carrà

Nonna Lina mi raccontava che da piccolissimo andavo letteralmente in sollucchero per la canzone di Raffaella Carrà “Chissà se va” (1971), che reinterpretavo fanciullescamente in “sassivacchi!” Ogni volta che nonna Lina me lo raccontava rideva di piacere. Per un periodo delle nostre vite io e mia nonna Lina avemmo gli stessi gusti musicali. Poi, in fase pre-adolescenziale, svoltai per Heather Parisi. Nonostante ciò, nonna Lina continuò a volermi bene.