Il parlar figurato nelle degustazioni dei vini.

Il pretesto è l’articolo di Maurizio Gily pubblicato su Intarvino (http://www.intravino.com/grande-notizia/e-se-rottamassimo-i-degustatori-con-i-superpoteri/) giovedì 24 gennaio 2013: “E se rottamassimo i degustatori con i superpoteri?” Ad un certo punto Maurizio, nel paragrafo dedicato ai supernasi, sostiene che “a parte il fatto che i descrittori analogici (banana, fiori bianchi etc.) raramente corrispondono esattamente alle molecole che si trovano nella materia che si usa come termine di paragone, sono anche convinto che nelle descrizioni molto articolate che si ascoltano o si leggono ci sia spesso un gran lavoro di fantasia….)”. Questa sua affermazione mi dà l’occasione di entrare nel merito delle figure stilistiche[1] che si usano nelle degustazione dei vini. Userò alcuni esempi tratti da descrizioni di degustatori di rilievo e ammetto in principio che alcune di esse mi piacciono molto perché danno la possibilità di intendersi sulla ‘cosa’ grazie all’utilizzo di canoni espressivi legati a tutt’altro. In parole povere hanno, a mio parere, la facoltà di rendere immaginabile un prodotto degustativo come il vino a kilometri di byte di distanza e senza che nessuno di noi possa contestualmente vederlo, odorarlo, assaggiarlo. Una delle figure retoriche maggiormente utilizzata nelle descrizioni de gustative è la metafora sinestetica, in cui colori, rumori, suoni, immagini odori e sapori si scambiano vicendevolmente: “Per me il vino più emozionante è stato il Montepulciano d’Abruzzo Riserva 1993 di Praesidium, prima annata prodotta. Un rosso prodigioso, profondo e baritonale per due terzi della corsa gustativa, poi in volo librato, lirico, etereo nell’eterno finale. Da quell’uva e da quel territorio così amati dagli enofili, mai bevuto niente di simile.” Così parlano Fabio Rizzari ed Ernesto Gentili in ‘L’arancia nel vino’ http://vino.blogautore.espresso.repubblica.it/ La degustazione è una corsa in cui il vino, dapprima profondo e baritonale, che potremmo, come sinestesia al contrario, descrivere come fosse una voce calda, piena e ricca, si libra liricamente in un eterno finale. Questo rosso non può che essere, natura propria dell’iperbole (andar oltre), prodigioso. Anche Armando Castagno, quando racconta, in una lezione sul Terroir, dello sfavillante Barbacarlo del 1983, ci dice che è di un bel colore rubino acceso, con un naso di radici, fiori essiccati, spezie… e una bocca succosissima e lunga: “1983: Grandissima e goduriosa. Ancora un bel rubino acceso. Naso di radici, fiori essiccati, spezie, cuoio e frutta disidrata. Poi liquirizia, china, cenere ed erbe officinali. Cambia in ogni momento. Bocca succosissima e lunga, con bell’acidità che bilancia il residuo zuccherino. Sfavillante. Il mio Barbacarlo preferito. Forse fra i vini rossi che più mi hanno emozionato.” (degustazioniagrappoli.blogspot.com/). E per concludere  Masnaghetti utilizza la catacresi in cui un senso figurato diviene un senso prorprio e la parola viene  usata al di là del suo significato originale per sostituire un’altra in via estensiva: ecco perciò che il vino avrà una sua ossatura acido/tannica: “AR.PE.PE. Valtellina Superiore Sassella Riserva Rocce Rosse 2005. Due bottiglie, nessun problema evidente di tappo, eppure due vini molto diversi tra loro. Il primo più cupo e terroso, anche meno rifinito, il secondo invece molto più chiaro e del tutto in linea con quanto espresso dal 2002, solo con una maggiore polpa fruttata a rivestir l’ossatura acido/tannica.” (http://www.enogea.it/Enogea/Archivio_2012_files/Enogea%20IIS%2041%20Valtellina%20verticali%20ext.pdf) L’uso, o meglio l’abuso, di figure retoriche per descrivere la degustazione di un vino non può che essere una via obbligata a patto di non finire o in una narrazione piatta ed insapore, oppure, all’estremo opposto, nel ridicolo.


[1] Cfr. Bice Mortara Garavelli, Il parlar figurato. Manualetto di figure retoriche, Laterza, Bari – Roma 2010

Della eccellenza e diversità de i vini che nella Montagna di Torino si fanno.

Adesso la vedo così, dal basso verso l’alto, in senso geografico s’intende, dal mare e da una città che così diversa non poteva essere: Genova. Sì perché da qui cambia tutto, anche la pioggia: ero abituato ad averla fitta, ma perpendicolare al terreno così come le strade sono perpendicolari tra di loro. Qui invece ti arriva di fianco, ti spazza le gambe e ti spezza l’ombrello. Ma poi viene il sole, l’aria salmastra e quella luce che ti scalda il cuore. Non sono andato via da Torino perché non mi piaceva: ci sono nato, cresciuto, ho fatto quasi tutte le prime cose per circa trent’anni. E’ la mia città. Certo che ho visto tante Torino: quasi una per decennio a partire dagli anni ’70. Ma anche io ho cambiato sguardo. C’è una parte però della mia città che ho sempre conosciuto poco: la collina, al di là dal Po. Ci andavo qualche volta d’estate, nei parchi, per separarmi dall’afa e dalle zanzare. Il Po separa la città dalla sua collina: come tutte le separazioni non è solo una cesura fisica, ma anche mentale, simbolica e naturalmente sociale. E’ quella parte della città dove hanno sempre vissuto i ricchi, quelli che cercano la distanza sociale dal resto della città; perché poi ci sono quelli che invece in città ci dimorano.

Dal XVI secolo la collina era soprattutto rifugio dalla calura estiva, villeggiatura per nobili, notabili, mercanti, commercianti: vecchia nobiltà e nuove borghesie facevano a gara per acquistare o farsi costruire la ‘Vigna[1]’, così chiamata la casa di campagna, segnando l’ascesa e il declino non solo dei destini personali, ma anche di intere classi sociali e delle loro nuove fortune. In collina dimoravano i soldi della città[2]. Ed è di quella collina (Montagna si diceva, anche se non saliva oltre i 400 m. s.l.m.), alla sinistra del Po, e delle sue vigne che Gio. Battista Croce, gioielliere di casa reale nonché produttore in proprio di vino e possessore della vigna di Candia, nella zona antica conosciuta come Monveglio o Montevecchio, ai piedi della Val Salice, nel 1606, descrisse le uve ed i vini[3]: la miglior uva bianca della collina Torinese era, secondo Croce, il Moscatello bianco, che andava immediatamente portato al torchio, pigiato coi piedi e infine raccolto il succo. La restante uva veniva torchiata, messa nei bottali e lasciata fermentare. Quando il livello scendeva veniva rabboccata con vino simile in modo da potere pulire agevolmente la superficie con una spatola di legno. Come il Moscatello bianco anche la Malvagia era un’uva da vini secchi. Al contrario l’Erbalus, la Vernaccia, il Nebiol bianco e il Cascarolo producevano vini dolci. Il Nebiol, dal raspo verde e gli acini piccoli e tondi, spesso ricoperti di nebbiosa pruina mattutina era la regina delle uve nere, a cui seguono il Mostoso, il Rossetto, il Cario, la Grisa maggior ed il Neretto. Il Cario, per la prima volta menzionato in questo scritto di Croce, corrisponde all’uva Cari che poi è  l’uva Pelaverga di Saluzzo o Pelaverga di Pagno (Val Bronda), diffuso anche nella zona del Chierese, da non confondersi con il Pelaverga piccolo dei dintorni di Verduno, che è un altro vitigno, né con il Peilavert canavesano e biellese (colline di Salussola e Cavaglià), che corrisponde al Neretto duro.

Gio. Battista Croce descrisse dei vini e del modo di farli, del delicatissimo vino Griso ‘vago di colore e delicatissimo al gusto’, della Sostratta (Mère-goutte francese, ovvero il mosto ottenuto dalla premitura delle uve nel tino prima di essere passate sotto torchio), dei modaioli chiaretti, dei vini craticulati (pigiati sotto graticole di ferro), dei vini di paglia, quelli dolci, tra cui spiccava il vin Tortu fatto con uve stramature lasciate sui tralci che venivano torti in modo da non portare più nutrimento al frutto, del miglioramento dei vini di Agostino Gallo[4], delle crespie (vini frizzanti dolci ottenuti per rifermentazione, che facevano increspare le ciglia) e per finire dei vini chiappati, quelli insomma annacquati, meno nobili, ma con una grande storia alle spalle.


[1] La struttura delle Vigna comprendeva una villa padronale, un’abitazione rustica, dove abitava il contadino, detto ‘vignolante’, addetto al fondo agricolo, solitamente composto da un vigneto, da un giardino, dall’orto, da alberi da frutta. A volte la villa era dotata anche di una cappella privata. Si rendeva ‘necessario’ per il pieno godimento della villa avere una produzione propria del vino tutto l’anno, vino che, godeva di esenzione fiscale per il proprio ingresso nella città di Torino.

[2] Ad introdurre la moda della dimora estiva sulla collina vi furono a metà 500 vi furono Filiberto Pingone, barone di Clusy e la famiglia degli Antiochia Cfr. Elena Rossi Gribaudi, Vigne e ville della collina torinese (rist. anast.), Gribaudi, Torino 1992

[3] Della eccellenza e diversità de i vini che nella Montagna di Torino si fanno; E del modo di farli. Nuovamente posto in luce, e dedicato a Sua altezza Serenissima da Gio. Battista Croce suo gioielliere, per Aluigi Pizzamiglio, Torino 1606, ora ristampato per l’Artistica Savigliano, Consiglio regionale del Piemonte, Torino 2008.

[4] Esperto agronomo, scrittore, letterato e appassionato di archeologia. Come scrittore egli compose, in un primo tempo, le “Dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa”, opera in forma di dialogo pubblicata nel 1564. Più tardi, a Venezia ristampò il suo libro, completandolo con l’aggiunta di altre tre giornate ed infine nel 1569 presentò definitivamente la sua opera letteraria, accresciuta di sette giornate, con il titolo “Le vinti giornate dell’agricoltura e de’ piaceri della villa”.