Contro il pranzo di lavoro

La cucina, al pari di ogni altra forma di pratica umana, è un linguaggio che si struttura in segni convenzionali. Essi, a loro volta, riflettono i nuovi assetti sociali, le loro molteplici domande culturali e le rinnovate socialità alimentari. Perso il controllo rituale del cibo, il sistema mercantile ha velocemente trasformato i bisogni in valore e le necessità in scusanti. Diversi calendari si sono poco a poco succeduti sino ad annullare la distinzione tra il tempo di lavoro e il tempo della festa: “quando i fuochi dentro (nelle case) si spengono, fuori si scatenano le delizie funerarie delle tavole fredde, delle anatomie di bocca”. (Piero Camporesi)

Una volta che i campi sono stai invasi, coperti e risucchiati in un sistema largamente produttivo, il pranzo è divenuto dapprima luogo della sperimentazione dell’ingegneria alimentare attento tanto alle leggi di mercato quanto agli apporti vitaminici, per poi farsi luogo di produzione: la colazione di lavoro. Più rare, ma non meno invasive, le cene di lavoro occupano gli interstizi della notte, lo spazio liminale delle infinite possibilità. Di derivazione anglosassone, il pranzo di lavoro, fingendo di legare uno spazio ludico, conviviale e di riposo ad una logica mercantile, travolge con il suo aggettivo di specificazione sia la sensualità del cibo condiviso che la sistema della conversazione. Siti di alta specializzazione finanziaria consigliano di essere se stessi, ma forse fino ad un certo punto, di non mangiare con la bocca aperta e soprattutto di mangiare poco. Di non ingozzarsi, di bere vino solo se gli altri lo fanno e di berne poco. Di parlare di tutto, ma forse senza discutere, quindi di non conversare di niente che non sia strettamente necessario a parlare di ciò che rimane sulle sfondo. Il cibo, come il vino, copre lo scenario della reificazione del privato piegata al dominio di soddisfazioni calcolate. Contorno di un discorso senza orni né specificità il cibo, come la conversazione, imbrigliato nelle pastoie della funzionalità operativa e commerciale, serve da cortina fumogena all’unico interesse dei convitati: gli affari. La rappresentazione scenica che gira intorno alla convivialità strumentale priva il banchettare del suo momento festivo: “Attraversati due o tre altri salotti oscuri, arrivarono all’uscio della sala del convito. Quivi un gran frastuono confuso di forchette, di coltelli, di bicchieri, di piatti, e sopra tutto di voci discordi, che cercavano a vicenda di soverchiarsi”. (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi)

 

Il dipinto: Boris Kustodiev, Ristorante a Mosca, 1916

La bottiglia ornamentale e le bolle di felicità

Di Marco Carboni – http://www.marcocarboni.it, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11193813

Le bolle di sapone che questo bambino

si diverte a soffiare da una cannuccia

sono traslucidamente tutta una filosofia.

Chiare, inutili e passeggere come la Natura,

amiche degli occhi come le cose,

sono quello che sono

con una precisione rotonda e aerea,

e nessuno, nemmeno il bambino che le libera

pretende che siano di più̀ di quanto sembrano essere.

Alcune si vedono a stento nell’aria tersa.

Sono come la brezza che passa quasi senza toccare i fiori

e soltanto sappiamo che passa

perché qualcosa si alleggerisce in noi

e accetta tutto più nitidamente.

(Fernando Pessoa)

Il sogno dell’eleganza passa attraverso il rivestimento: colori sgargianti e rilucenti, dal giallo taxi al rosa sciroppo, che transitano per il verde gelosia e si concludono nell’austero grigio cenere, addobbano felici le bottiglie.

L’ornamentazione spiega la classe, che non è mai acqua. Nobilita il proletario e distingue il ricco: per una notte soltanto veste a festa, da piccolo principe o da piccola principessa come nei ricordi di una festa sbiadita e sfuggente, il bambino che dorme in noi.

La bottiglia ornamentale agghinda un vino mitico, tanto improbabile quanto lo sono le sue bolle: la felicità dimora nella loro provvisoria e precipitosa grandezza.

Fintanto che una nuova eruttazione gassosa non ci separi.

Il vino geometrico

In basso a sinistra nella tavola un disegno illustrativo dell’articolo di Lodovico Riva intitolato Dissertatio meteorologica. Cui accedit Solutio & constructio duorum problematum geometricorum pubblicato del volume degli Acta Eruditorum del 1736

Un vino rettangolo (o vino retto) ha i monosaccaridi interni di 90°, cioè ad angolo retto. Il lato opposto all’angolo retto è detto d-glucosio, chiamato anche destrosio; è il lato più lungo del triangolo rettangolo. Gli altri due lati del triangolo sono detti composti terpenici. Per questo triangolo vale il teorema del vino industriale pastorizzato.

Un vino ottusangolo (o vino ottuso) ha un alcol interno maggiore di 90°, cioè ottuso. Un vino ottuso ammette sempre due bevitori adiacenti.

Un vino acutangolo (o vino acuto) ha l’acidità fissa e quella volatile minori di 90°, cioè ha tre angoli acuti. Se la direzione dell’avambraccio forma con la direzione del moto del corpo su cui è esercitata un vino acuto, il lavoro risultante è positivo.

Un vino è equiangolo se ha tutti i tannini interni uguali, cioè di 60°, cioè se e solo se è un vino equilatero. Il gruppo delle simmetrie del vino equilatero è costituito dall’identità, dalle rotazioni intorno al suo calice di 120° e di 240° e dalle riflessioni rispetto alle bisettrici degli altri vini equiangoli.

Per un bambino i nonni nascono vecchi …

Schopenhauer fotografato nel 1859 a 71 anni, un anno prima della morte

Di Schäfer, Johann – Frankfurt am Main University Library, Pubblico dominio,

Per un bambino o per una bambina i nonni nascono vecchi e rimangono tali fintantoché Babbo Natale non scompare dal loro fertile immaginario. Solo a quel punto diventano decrepiti.

Per una bambina o per un bambino i genitori nascono grandi e rimangono tali sia finché Babbo Natale non scompare dal loro fertile immaginario e sia fino a quando non si emarginano nella loro camera, immersi nella musica grazie ad apposite cuffiette isolanti, mentre maneggiano la Play con la mano destra e chattano al telefono con la sinistra (a volte viceversa). Solo a quel punto diventano incartapecoriti come i nonni.

Per un barista nei dintorni di casa mia il vino è vecchio fintantoché Babbo Natale non scomparirà dal fertile immaginario sensoriale dei suoi clienti. Solo a quel punto diventerà “vino da meditazione”.

Il vignaiolo compositore

Massimo Mila tratto da Unione culturale Franco Antonicelli – Torino

Sarà capitato anche a voi di provare un certo disagio dopo l’ascolto di un meticoloso racconto dei processi produttivi di un vino e il suo successivo assaggio. Quasi che la narrazione procedurale servisse a spiegarci, da sola, in una serie di nessi e passaggi causali, l’esito finale, cioè il vino, quando non ancora la sua evoluzione pre-determinata: si parte dalla vigna, si capita in cantina e si finisce nella bottiglia subito prima di tuffare il naso e la bocca nel bicchiere. Lungi da me negare la tecnica applicata. Bisogna solo intendersi: vorrei aggiungere soltanto un piccolo segmento, che sfugge ad una logica puramente oggettivante dell’atto creativo, ovvero quello relativo a ciò che uno dei più grandi critici e saggista musicale della nostra epoca, Massimo Mila [1], definì, in merito all’atto musicale, “l’espressione involontaria”.

Credo, infatti, assieme a molti di voi, che, al di fuori del meccanismo industriale-fordista, la realizzazione di un vino sia un atto di creazione e di interpretazione. Dove la tecnologia e l’esperienza sono strumenti operativi ineguagliabili, ma che non spiegano in maniera totalizzante l’esito raggiunto. Esattamente come la grammatica italiana non risolve lo svolgimento di questo mio scritto. Allora, se siamo d’accordo nel reputare il vino come esito finale dell’antica τέχνη (tékhnē) greca o ars latina, intese come esperienze conoscitive (arti in senso lato), e non solo di un pedante e ripetitivo tecnicismo, dovremmo essere in sintonia nell’affermare che esso vive dell’espressione e nell’espressione del suo compositore/vignaiolo. Ma di quale espressione stiamo parlando? Ancora con Mila: «L’espressione, in cui diciamo consistere la natura dell’arte, non è qualcosa di cercato, non è una “espressione fatta apposta”. L’espressione in cui consiste la natura dell’arte non è espressione voluta di qualche cosa, ma è la presenza inevitabile della persona umana, diversamente individuata nei singoli artisti, come compendio vivente, e quindi sempre in via di trasformazione, d’un concorso di circostanze storiche.» [2] Non si tratta, badate bene, dell’espressione generica di sentimenti (gioia, dolore, speranza…) che attengono a forme di tipizzazioni generali: «La realtà è quella di singole creatura in preda a stati d’animo che, per necessità pratica e con molta imprecisione di linguaggio ci riduciamo a designare con quei termini, ben sapendo però che il dolore di uno e tutt’altra cosa che il dolore di un altro, che la gioia di Rossini nel Barbiere è tutt’altra cosa che gioia di Beethoven nella Nona Sinfonia.» [3]

Nessun vignaiolo, dunque, compone i suoi vini in uno stato d’esaltazione mistica, preda di ispirazioni contemplative di natura trascendentale. Egli/ella possiede la conoscenza e la capacità d’uso degli strumenti e dei metodi impiegati, ma ciò che non controlla, ma che pur tuttavia è riconoscibile nel suo prodotto, è il «traboccare d’una personalità irresistibilmente incisiva, che imprime le proprie passioni robustissime sopra quella trama» di sensazioni che appartengono al vino: «Ma il genio, e anche il grande talento, emerge, più che da elementi intellettuali e d’affinamento sociale superiori a quelli degli altri, dalla facoltà di trasformarli, di trasporli… Analogamente, gli uomini che producono opere geniali non sono quelli che vivono nell’ambiente più squisito, che hanno la conversazione più brillante, la cultura più vasta, ma quelli che, cessando bruscamente di vivere per se stessi, hanno il potere di rendere la loro personalità simile a uno specchio, in modo che la loro vita, per quanto potesse essere mondanamente e persino, in un certo senso, intellettualmente mediocre, vi si rifletta, giacché il genio consiste nel potere riflettente e non nella qualità intrinseca dello spettacolo riflesso. Il giorno in cui il giovane Bergotte poté illustrare al mondo dei suoi lettori il salotto di cattivo gusto dove aveva trascorso l’infanzia e i discorsi non proprio eccitanti che vi faceva con i fratelli, quel giorno egli salì più in alto dei suoi amici di famiglia più spiritosi e più distinti: questi, nelle loro belle Rolls-Royce, potevano tornarsene a casa testimoniando un po’ di disprezzo per la volgarità dei Bergotte; ma lui, col suo modesto apparecchio che era infine “decollato”, lui volava sopra le loro teste.» [4]

Proprio perché il genio consiste nel potere riflettente e non nella qualità intrinseca dello spettacolo riflesso.

NOTE

[1]     http://www.archivioflaviobeninati.com/2012/02/massimo-mila/

[2]      Massimo Mila, L’esperienza musicale e l’estetica, Einaudi, Torino 1956, pp. 109, 110

[3]      Ivi, pag. 113

[4]     Marcel Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, in Alla ricerca del tempo perduto II, traduzione di Giovanni Raboni, Mondadori, Milano 1998.

L’articolo è stato pubblicato per la prima volta qui: http://www.seminarioveronelli.com/il-vignaiolo-compositore/

Sono uno juventino di merda e per di più un anarchico voluttuoso. Ma posso spiegare (almeno la prima)

La Juventus del 1905 per la prima volta campione d’Italia, dopo la vittoria nella Prima Categoria, con indosso la nuova maglia bianconera adottata stabilmente un paio d’anni prima

Prologo.

Quando si giunge ad una certa età è quanto mai opportuno rivelarsi compiutamente attraverso una comunicazione pubblica sui propri (presunti) difetti. Lo faccio e lo debbo fare per almeno due ordini di ragioni: la prima è che così non sono più obbligato a giustificare in sede privata la mia passione calcistica. In secondo luogo per non trovare, sull’annuncio di morte, una scritta del tipo: “Era un brav’uomo, peccato però che tenesse per la Juventus”.

Questo mio gesto pubblico non sarà privo di conseguenze umanamente provanti. Le amicizie in confidenza mi saluteranno, probabilmente, in questo modo: “ciao juventino di merda!” Le altre lo faranno in forma interrogativa: “Ciao, ah! ma sei tu lo juventino di merda?”

L’imbarazzo.

Di frequente mi trovo a rispondere a non-domande e pseudo-affermazioni di questo tenore: “Conoscendoti…:”- due punti con sospensione prolungata – “ma come fai a tifare per la Juventus?”; “Ti facevo dell’altra squadra…, che delusione!”; “Tieni per la squadra dei padroni!”….

Ecco allora che abbasso lo sguardo, farfuglio cose incomprensibili sulle contraddizioni in seno alla classe, con vaghi riferimenti alla teoria dell’alienazione e alla concentrazione del capitale; poi punto il piede a cui chiedo di compiere brevi e succinte rotazioni orarie – antiorarie – orarie e, infine, penso: “Ma che cosa vuole questo da me?”

La squadra del cuore.

Non so per quanto vi riguarda, ma sono sicuro almeno per me: ogni giustificazione ex-post che tenti di spiegare razionalmente i motivi per cui si tifa per una o per un’altra squadra è destinata, rapidamente, a sciogliersi nel seno delle proprie velleitarie incongruenze. Non mi è ancora capitato di conoscere qualcuno che, supportando la Fiorentina, mi abbia detto: “Ho scelto questa squadra dopo lunghi e attenti studi sulla “Nascita di Venere” del Botticelli”; neppure mi è mai capitato di incontrare un tifoso della Salernitana che abbia motivato la sua passione calcistica in ragione del campanile del Duomo in stile arabo-normanno. La squadra, al pari di una fede religiosa, viene consegnata nella primissima infanzia da un tramite umano, famigliare o amicale e da un contesto sociale, di scuola o di quartiere. Niente più e niente di meno. Poi, sempre al pari di una fede, la si può ripudiare, la si può rendere consuetudine (sono del Genoa, perché lo era mio nonno, ma non la seguo più di tanto, che somiglia al “vado a messa tutte le festività comandate e raccomandate”), oppure la si può abbracciare nelle sue profonde e laceranti antinomie. La squadra non è in alcun modo sostituibile.

“In verità” – come direbbe mio figlio, ci ho provato solo una volta, ma poi sono tornato rapidamente sui i miei passi: il tutto capitò nel 1976 quando il Torino vinse il suo ultimo scudetto. Avevo da poco compiuto sette anni ed ero talmente juventino che, pur di tifare una squadra vincente, sarei passato armi e bagagli al Toro. Ma alcuni compagni di classe mi spiegarono che questo non era possibile, che non mi avrebbero più fatto amico, che mi avrebbero rubato tutte le figurine dell’album “Panini”, che avrebbero dato fuoco alla mia casa e cose di questo tipo.

Per quanto mi riguarda.

Come molti nati a Torino, sono figlio di genitori italo-ibridi: mia madre sabauda di lungo lignaggio, cuneese e torinese, mio padre immigrato nei primi anni ‘50 dalla Marche del sud (dalla città di Fermo per la precisione). Mia madre del Toro non appassionata, mio padre della Juventus e appassionato di calcio: si recava abitualmente in piazza d’Armi con i compagni di scuola delle superiori, tutti rigorosamente vestiti con magliette a righe bianco-nere, a giuocare (con la u come gli antenati) al pallone. Io, dunque, juventino per trasposizione diretta, appassionato di calcio e giocatore di calcio: mi piaceva guardare e mi piaceva ancor di più giocare. Mezz’ala sinistra in una squadra dal nome glorioso: “Valentino Mazzola”. Dalle memorie infantili non mi pare che mia madre mi abbia mai assestato un manrovescio per la mia adesione calcistica. Quindi la militanza politica, questa volta per scelta, che mi allontanò progressivamente, per diversi anni, e dal gioco e dal tifo. Nel 2000 mi trasferii a Genova e mi resi conto, da quasi subito, che in quella città il calcio è la religione pagana cittadina, poco laica, e molto più intensa che a Torino: bandiere genoane e sampdoriane si alternano in numerosi caseggiati solo a rimarcare l’appartenenza. A Torino si mettono quando si vince e si tolgono il giorno dopo. Così, per non sentirmi troppo emarginato, tra torte di riso e acciughe impanate e fritte, tornai a discutere e a occuparmi di calcio. E a tifare.

La squadra dei padroni.

Dal quel poco che mi è dato ancora di intendere e di volere tutte le squadre di calcio, nessuna esclusa, sono di proprietà padronale. Coloro che sostengono una qualche affinità tra una squadra e una propensione politica dicono enormi fesserie. Anzi no: immani cazzate.

Il tifo è di destra o di sinistra? Il tifo è medioevo

La domanda, come sempre, è mal posta: il tifo, in sé, ricorda più la disfida di Barletta che altro. Altra cosa è parlare di gruppi che all’interno dello stadio, delle curve in particolare, introducono elementi, simboli e richiami alla politica. Ancora una volta il legame che si instaura tra tifoserie e società sportive è sostanzialmente collegato al surplus monetario che tale unione, in via diretta o indiretta, è in grado di creare. La simbologia è il pretesto e il paratesto di tale unione. Il resto incurante manovalanza.

Contro il calcio moderno? Società diversa

Ma sì! decresciamo felicemente al calcio degli anni ’50, togliamoci pure qualche annetto di troppo che poi magari mi ricrescono pure i capelli. Le società di calcio, la comunicazione del calcio, il gioco stesso (ma potrebbe valere per tutti gli altri sport in misura e maniera diversa) non sono estranee, né esterne al sistema capitalistico e di mercato nel quale viviamo (ruberie comprese). Forse sarebbe ora di dire in quale tipo di società vorremmo vivere e poi, probabilmente, anche quale senso dovrebbe avere lo sport in una società nuova. E in una “Umanità Nova!1

Ora vado. Insultatemi tranquillamente ma, per favore, non chiedetemi più perché tifo per la Juventus

1 Umanità Nova – settimanale anarchico fondato nel 1919

PS: Ricordo a tutti gli amanti di storia che gli arbitri, agli inizi del ‘900, venivano pagati con la FIAT 3 ½ HP, un’autovettura nata priva di retromarcia (non a caso penso io)

Elogio della bevuta del vino giovane

Di Esther Bubley – Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=8297971

“Una lunga, lenta infanzia, fa parte dei riti necessari

alla produzione di un morituro”.

Giorgio Manganelli

Non vi è alcun dubbio che vi siano vini giovani, talmente giovani da sembrare quasi degli infanti: e non sta bene, a meno che non si sia degli stalinisti convinti, assaporare dei bambinelli appena formati. Ecco appunto, prendo a prestito la questione del vino antropomorfo per fare questa domanda: non sta bene o non va bene dal punto di vista percettivo – sensoriale? Perché, se si dà il primo caso, la questione è prettamente morale, per come è intrisa di un significato che va ben oltre il dispositivo degustativo e il piacere personale. Nel secondo caso, invece, si fa riferimento al piano evolutivo di un vino, alla sua maturità personale, al punto di equilibrio massimo, all’evoluzione sensoriale che dovrebbe corrispondere ad un imminente e penoso decadimento fisico e spirituale. Ci troviamo, dunque, di fronte a tre categorie possibili di vino: 1) quelli che in nessun modo possono invecchiare; 2) quelli che possono invecchiare; 3) quelli che devono invecchiare: siamo, insomma, a cavallo tra l’escatologia vinosa e la ricerca del Sacro Graal. La questione sarebbe presto che risolta se non vi fossero delle perplessità, per esempio le mie.

La faccio breve e non la dico in chimica, anche per il fatto che non ne so nulla. Ogni fase evolutiva mentre acquista qualcosa ne rimette delle altre: nella maturità si perde in impulsività, ad esempio, ma anche in freschezza e in genuinità; si acquista in levigatezza, in trama e amalgama, ma si lascia in caparbietà, nettezza e gioviale rigoglio. Poi si arriva ad un punto in cui si smarrisce tutto. Qualche rara volta, al contrario, rimane lo scheletro di un passato glorioso che è ancora passibile di un piacere a suo modo meravigliosamente vizioso: carpire l’esile essenza e l’anima di un vino. Quest’anima di cui era rivestito un esile e ferroso scheletro l’avevo trovata, per intenderci, in alcuni barbera di Scarpa dei primi anni novanta del secolo scorso.

Il nebbiolo, dal suo canto, è uno di quei vini che, condotto in mirabolanti variabili e interpretazioni, più si presta ad una disanima non priva di interesse. Nella variabile lunga, decennale o pluridecennale, il nebbiolo acquisisce una rara importanza e bellezza di intrecci terziari blasonati, antichi, ambrati, sottilmente ossidati. E gli esempi si sprecano. Nella breve scalpita, indietreggia per tirare fendenti, avanza, schiva, colpisce e stupisce: nei petali di rosa, nei balsami di venere, nelle spezie fresche, nel sale, nella frutta ancora viva e vibrante. E mi viene e in mente il Langhe nebbiolo di Emilio Vada