Minimizzazioni e drammatizzazioni al tempo del pensiero trasbordante

New morality; — or — The promis’d installment of the high priest of the Theophilanthropes, with the homage of Leviathan and his suite

Ci sono epoche che fanno pensare più di altre e ci sono epoche che fanno pensare meno di altre. Non che in queste ultime non succeda niente o che non succeda qualcosa di molto più importante in quelle parti del mondo di cui non si ha alcuna consapevolezza e neppure si vuole averla. Diciamo che tutto succede sull’onda di qualcosa che prosegue lungamente, lentamente e in modo più o meno prevedibile: un governo balneare che si alterna ad un governo lunare, carovita e tassi inflattivi assolutamente esagerati, ma ampiamente recuperati da una “scala mobile” bonaria e includente, prime repubbliche che stagnano, campionati che sorprendono in dispute in cui prevale il gioco all’italiana, pranzi domenicali con i nonni, gite scolastiche di almeno una settimana, stagioni che si alternano secondo uno schema riconosciuto e rassicurante, top ten musicali che durano parecchi mesi, maglioni e dolcevita a coprire antichi pudori.

Poi ci sono epoche che fanno pensare di più, o molto di più, come la nostra. A volte credo che facciano pensare troppo: pensare troppo non significa necessariamente ragionare ma, al contrario, avere troppi pensieri, la testa ingombra, zeppa, esausta e trasbordante quindi portata a non riflettere più del tutto. La socialità condivisa, in più, oltre che ad obbligare a tante cose, costringe ad essere parte di un dibattito continuo, ininterrotto, fino sfiancante: essa riempie costantemente e incessantemente di contenuti e di pseudo-contenuti i residui interstizi cerebrali ancora liberi. In un contesto di saturazione e di scarsa selezione delle informazioni rilevanti/importanti, il sistema ha esaltato, tra i molti, due produttori di categorie interpretative: i “drammatizzatori” e i “minimizzatori”. Entrambi veicolano le informazioni ricevute all’interno dell’involucro che vogliono servire caldo alla mercé dei propri interlocutori: se partiamo dal presupposto, o almeno io lo faccio, che ogni decodificazione dell’esistente passi al vaglio di un sistema ideologico sottostante e che dunque nessuna di queste venga esclusa da una lettura politica, le categorie dei “drammatizzatori” e dei “minimizzatori” sono, a loro modo, iper-ideologiche: ogni informazione viene selezionata a prova del principio postulato in modo tale che non esistano dubbi cognitivi di sorta, incongruenze palpabili, aporie inconfessabili e scenari non condivisi. Si faccia bene attenzione: non necessariamente i “drammatizzatori” e i “minimizzatori” appartengono a categorie politiche che abitualmente potrebbero definirsi come “estreme”: possono esserlo, ma anche no. La cosa fondamentale è quanto sopra: i fatti, selezionati a proprio comodo, così come dichiarazioni prese a piacimento, servono a rafforzare l’impianto iper-ideologico sottostante. Estremismi e moderatismi di varia natura possono, al contrario, convergere sull’analisi, ma divergere fondamentalmente sugli esiti possibili o su quanto si auspica possa accadere. Altro dato rilevante è dato dal fatto che né i “drammatizzatori” né i “minimizzatori” rilevano o sollevano le questioni da qualche gravità proprio perché il loro compito non è quello di valutare l’impianto sottostante, ma soltanto di farlo coincidere con quanto i postulati anticipati affermano. Per cui è molto facile notare come un “minimizzatore” di un certo argomento passi ad essere un “drammatizzatore” in tutt’altra esibizione. Ma, ed è questo il dato eclatante, ci troviamo in un momento in cui non solo le due figure coincidono con la stessa persona, ma che la persona in questione, sia esso un essere umano singolo o un apparato collettivo molteplice e variegato, esprime allo stesso istante e nelle medesime circostanze schizofreniche espressioni di rassicurazione e di esagerazione. E non è un caso che in questa nostra epoca ci sia una massima coincidenza tra “drammatizzatori” e “minimizzatori” governati e governanti.

Vini pieni e vini sospesi

Ci sono dei vini che irrompono come fossero tempesta: riempiono la bocca, invadono ogni cavità e si insinuano in tutti gli anfratti disponibili. Si compongono e si ricompongono ininterrottamente: affastellano, combinano e connettono sensazioni in impeti percettivi che aggiungono e aggiungono e ancora. Vini barocchi in cui all’uso concatenato di volumi si sommano delle geometrie articolate: sono curvilinei e sinuosi, compiacciono per la loro ripetute e incisive decorazioni, per taluni orpelli, per i principi di verticalità che si adagiano nella seriosità intensa e impenetrabile del frutto. Penso, ad esempio, ad alcune barbera di Asti, come il Baldore 2018 di Marco Rabino, o di Nizza Monferrato, come il Nizza 2015 della Tenuta Olim Bauda.

Fanno a loro contrappunto quei vini che sono vividi di pause, di leggerezze, di sospensioni e di spazi non ricolmi: “L’illusione sì favorevole al Panteon deriva, per quanto si assicura, dall’esservi un maggiore spazio tra le colonne, e d’intorno una libera ventilazione di aria; e soprattutto dal non vedervisi quasi un ornamento minuto, mentre che S. Pietro, all’opposto, n’è sopraccaricato. In tal guisa appunto la poesia antica non disegnava che le moli in grande e lasciava al pensiero dell’uditore il riempir gl’intervalli e il supplire allo sviluppo: noi altri moderni in ogni genere diciamo troppo”. (Corinna ossia L’Italia della signora. Stael Holstein. Tomo 1. [-6.], Volume 1, dai Torchi di Angelo Trani, Napoli 1810)

La loro apparente esilità è composizione voluta dalle nature che ne hanno permesso l’artificio umano. Così come, per altre nature e per altri artifici, i vini di sopra.

Non a caso e non per caso si dice che i vini abbiano una trama e un intreccio come per un racconto, o per una filatura, o per un gioco d’azione: essa può essere molto fitta, dire molto se non già tutto o sospendersi come per un testo pro-messo, un qualcosa che verrà e “il suo venire, sempre futuro, sta nell’accadere attimo per attimo, come in un destino”. (Nicola Gardini, Lacuna. Saggio sul non detto, Einaudi, Torino 2014). L’autore (auctor), cioè il vignaiolo, è il garante di questo destino: “Dell’ordine questo il pregio e questa la bellezza, se non erro: che ora dica quel che ora si deve dire e rimandi il resto e per il momento lo ometta, una cosa mando e l’altra respingendo l’autore dell’opera promessa”. (Orazio, Ars poetica).

Ecco allora che questi spazi, queste aperture e storie in divenire sono narrate da alcuni vini che lasciano “a te a disegnar la strada che le cose avrebbero dovuta prendere per arrivare dove sono arrivate”. (Alessandro Manzoni, Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione, Opere Varie, Fratelli Rechiedei, Milano 1870)

E tra questi vini sospesi, mi vengono in mente il Rossese di Dolceacqua Superiore Luvaira 2016 di Maccario Dringenberg, il Frappato 2018 di Cos, il Pelaverga (quello nuovo per forza di cose) di Cascina Melognis degli amici Michele e Vanina e l’incredibile Rosato 2018 di Bonavita, che si è insinuato nel racconto di una bellissima serata.  

Torino è una città di mare

Il luogo dove credo di essermi immerso scapicollando dalle colline torinesi

È già estate
saliamo disadatti
per i Tetti
di quelle colline aduggiate

L’aria pizzica di sale
e il mare lambisce
dello sguardo le angosce
quando da nord est s’affanna il grecale

Ora ci scapicolliamo giù per i cammini
incespicando sulle nostre nullaggini
di pietre, di terra arsa, di sabbia
immersa nei sogni come la nebbia