Molti premi, nessun premio? Molti premi? Nessun premio?

Di Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza
– Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6773653

Molti premi,

nessun premio

Molti premi?

Nessun premio?

Molti nominati,

nessun nominato

Molti sono tanti o sono troppi?

Se il molto è un tantino di più del tanto

Allora il tanto è un tantino meno del troppo

Ma se il molto è come il troppo

Allora anche il tanto è come il troppoBisogna intendersi sul molto, sul tanto e sul troppo.

Bisogna intendersi sul molto, sul tanto e sul troppo.

E sugli –ismi:

sui moltismi, sui tantismi e sui troppismi.

E sui premi.

Sottosopra. Un quagliano tirato a lucido

Dalla campagna, dove mi trovavo

Scrivo a proposito del loro vino solamente perché non glielo avevo promesso, così come non lo  prometto ad alcuno a meno che non mi paghi, anche lautamente, e allora finisce proprio nel dimenticatoio. 

Dei Fratelli Rosso conosco sicuramente il peggiore, Gabriele. Scopro da facebook che si sono messi a produrre vino: non bastava che Gabriele ci scrivesse sopra, lo distribuisse, doveva mettersi pure a farlo. Crisi di mezz’età, militanza in Possibile,… chissà. I Fratelli Rosso hanno pure le vigne a San Martino di Busca e ho detto tutto. Ma con quali uve fanno il vino? Il quagliano al 90% e un 10% di dolcetto. Ma stiamo scherzando per davvero? Luigi Veronelli, ne “I vini d’Italia”, definì il quagliano un vino  ‘simpatico’ (1961).

Non so dalle vostre parti, ma dalle mie quando si descrive qualcuno come “simpatico” significa che sarebbe meglio valutare, di costui o di costei, le caratteristiche caratteriali più profonde, quasi intrinseche, talvolta introvabili e sicuramente non quelle estetiche: simpatico quel ragazzo! simpatica quella ragazza!

Poco più che adolescente spasimavo per una compagna di classe e le sue amiche (non certo le mie), per convincerla a mettersi con me, le dicevano che ero simpatico. E lei non mi degnava neppure di uno sguardo! Poi sono diventato bello e la natura ci ha messo sopra una pezza. 

Simpatico il tuo vino! Se dicessero così di un mio vino, sprofonderei in un baratro di barrique usate di quarto passaggio. Veronelli si riferiva al quagliano dolce, la versione maggiormente in uso da quelle parti. E i Fratelli Rosso invece lo tirano a lucido e si permettono di farlo secco: “come si faceva una volta” – mi dice Gabriele. “Beh, se lo facevano una volta e non lo fanno più”- penso io – “una buona ragione ci sarà!”. 

Hanno vinificato il quagliano e il dolcetto separatamente: il quagliano, colto a fine del settembre 2021, ha fermentato in vetroresina sulle bucce per cinque giorni (con un 15% della massa a grappolo intero). Una volta svinato è andato a secco due giorni dopo. Il dolcetto, staccato (così si dice da quelle e da altre parti in Piemonte e non solo) agli inizi dello stesso mese, ha fatto la fermentazione con le bucce per otto giorni in un mastello di plastica. Un mese prima dell’imbottigliamento li hanno assemblati. Le fermentazioni sono spontanee. 12% di alcol

Mi tocca comprarlo: se voglio parlarne male debbo essere perfettamente in regola. E devo pure pagarlo, che non si dica che ne parlo male a ragione non veduta. 

Il colore è accattivante, un bel rosso rubino scarico. E già questo non mi piace per niente. Il naso accenna già alla bocca: fragole e fragoline di bosco, piacevolmente speziato, geranio, violetta e vivace aromaticità del vitigno in ritorno. Acidità molto sostenuta controbilanciata dal tannino del dolcetto. Da bersi preferibilmente fresco; da bersi preferibilmente con degli antipasti del vecchio Piemonte o in una conturbante merenda sinoira. Da bersi.   

Il vino postumo

Allegoria dell’immortalità, dipinto di Giulio Romano, 1540 ca
Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3659348

Il vino postumo mostra molte più variabili sensoriali di quando era in vita e affronta con inusitata spregiudicatezza i bevitori che non aveva mai osato avvicinare.

Anche nel corpo appare mutato. Se prima era calibrato tanto nelle componenti tanniche quanto negli zuccheri, così come nell’alcol e negli acidi, ora svela una impressionante avventatezza nell’esibizione della voltatile e una censurabile rassegna di residui secchi che mal si addicono ai lenti ritmi dell’aldilà.

Pare, dunque, che l’immortalità di un vino aggravi, secondo una particolare legge dell’involuzione perenne, quei lievi difetti mostrati un gioventù.

Il vino giovane si affaccia lieve, riservato e introverso al flebile palato dei suoi sciupati avventori; in piena maturità straborda arroganti piacevolezze; da morto non si trattiene più: scatena irriverenti memorie, fino a quando non compaiono appunti di assaggiatori previdenti che svelano le menzogne di una vita.

Pochi sono i vini che sanno invecchiare e ancora meno quelli che sanno essere morti.

Considerazioni approssimative sui rifermentati in bottiglia dopo aver assaggiato quelli di Cascina Melognis quando agosto travalica in settembre e si lascia alle spalle la luce estiva

Dalla mia tavola

Negli ultimi anni, trainati dal fenomeno (disambigua) prosecco, sono esplosi qua e là i rifermentati in bottiglia. Questioni di mercato, di appeal, di gusti, di marketing, di palati che si modificano nel tempo, di freschezze agognate, di birre acide, di traslazioni e apparentamenti e chi più ne ha più ne metta, poco importa. Quello che si nota è che in zone lontane da quelli che furono e che sono i territori di elezione, vocazione e storia, i rifermentati si producono un po’ dovunque. E un po’ dovunque con successo. Di sgabuzzino, di nicchia, di nicchiona, ma tant’è.

Cosa mi pare di aver capito da tutto ciò? Ben poco, se non questo: i rifermentati in bottiglia (metodo ancestrale alla Francese, Pét-Nat, ovvero Pétillant Naturel, metodo ancestrale all’Italiana) sono assai esigui rispetto ai volumi totali espressi dai rifermentati (tutti compresi) realizzati nei territori in cui hanno avuto origine e sviluppo. Sono tornati in auge o perché qualche piccolo produttore ha voluto dare nuovamente lustro ad un’antica tradizione, o perché non si è mai smesso di produrli in quel modo o come pura e semplice testimonianza di un passato che amplia la gamma dell’offerta presente che va in tutt’altra direzione (grandi aziende e corposi consorzi).

Di fronte a tutto questo, visto il richiamo della foresta dei gusti che in questo momento ulula alla volta dei rifermentati a bassa gradazione, freschi e accattivanti, anche altri piccoli viticoltori sparsi qua e là nella penisola italica si son prodigati nella produzione di rifermentati in bottiglia. E con successo. E questo successo, fatto di apertura e disponibilità della clientela, a mio parere, premia solo parzialmente i vitigni e il terroir di provenienza, ma, e soprattutto, il metodo di produzione. In traduzione libera: non mi importa dove lo fai e con quale uve, mi interessa che il processo produttivo porti al risultato finale desiderato. Voi mi direte che fare un rifermentato con la glera, il cortese o la malvasia moscata cambia. Che farlo in un determinato territorio cambia e che fatto da certe o talaltre mani cambia ancora. E vi do ragione. Come se non vi do ragione! A palate! Ma rimango convinto della mia: vini leggeri di grado, giocosi al palato e quasi incomprensibili alla vista si gingillano spensierati con gusti dei più noncuranti del dove e del perché. Ma non del come e solo dopo, magari, del dove e del perché. Da tutto questo la possibilità di successo di un vino prodotto a mille miglia fisiche e mentali dai territori a vocazione storica. Per altre tipologie di vino sarebbe assai più complicato. E non ditemi di no. Parrebbe che la disponibilità all’apprezzamento di tali vini superi la loro collocazione geo-politica. Sì tratterebbe, dunque, di una disponibilità a prescindere e a discendere.

Chiacchierando, infine, con Michele Fino, mi accennava che i suoi rifermentati vanno alla grande e, in Piemonte, soprattutto il rosato.

Anche questa volta ho elucubrato su quanto riferitomi. Ho assaggiato (diciamo bevuto) entrambi i vini di Michele. Si tratta di produzioni old style: niente pied de cuve, niente saccarosio e lieviti.

La base del rosso tenue è fatta dal vino rosato Sinespina: neretta cuneese, barbera, freisa, chatus, pelaverga.

Il bianco con la malvasia moscata

Il bianco Ca’ Melò è più complicato, favorevolmente più complicato: acidità, agrumi, torbide nuance di giovialità aromatica sono spinte verso il ciglio del lardo d’Muncalè (a mangiarlo ovviamente). E non mi stupisce affatto che possa piacere maggiormente a coloro che bazzicano da un po’ di tempo i terreni ispidi e pungenti dei rifermentati in bianco.

Così come non mi sbalordisce, in egual modo, che il rosato (rosso tenue? Chissà!) abbia maggiore successo commerciale: profumi, limpidezza post deposito, effervescenza croccante, un colore meravigliosamente festoso, recupera al palato fragole di bosco e ciliege color rosso tenue. Quale miglior alibi per copiosi antipasti, subito prima di gettarsi su di un barbera intorno ai 14,5°?