Sistemarsi nell’eternità

Mi sono imbattuto, per caso (caso che, detto fra noi, non esiste: forse il fato sì, ma il caso non penso proprio), in una pagina di un libro che non è conosciutissimo, ma neppure così ignoto: “Venerdì o il limbo del Pacifico”(Einaudi, Torino 1976; Vendredi ou les Limbes du Pacifique, éditions Gallimard) di Michel Tournier. Una rivisitazione, profonda, del “Robinson Crusoe” (The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe) di Daniel Defoe pubblicato il 25 aprile 1719. Tournier, al contrario, era un nostro contemporaneo e il suo romanzo del 15 marzo 1967. Ma non è questo il punto e neppure la premessa di quanto voglio qui riportare: “…le mie giornate si sono come raddrizzate, non si piegano più le une sulle altre. Stanno in piedi, verticali, e si affermano con fierezza nel loro intrinseco valore”. Era di questo, e in questo momento, ciò di cui volevo farvi partecipi.

«Quel che più è mutato nella mia vita è lo scorrere del tempo, la sua velocità ed anche il suo orientamento. Una volta ogni giorno, ogni ora, ogni minuto erano inclinati in qualche modo verso il giorno, l’ora, il minuto seguenti, e tutti insieme erano aspirati entro il disegno del momento al posto del quale la provvisoria inesistenza creava come un vacuum. Così, il tempo passava presto e utilmente, tanto più presto anzi in quanto era utilmente impiegato, e lasciava dietro di sé un mucchio di tracce e di detriti che costituivano la mia storia. Forse la cronaca in cui mi ero imbarcato avrebbe finito dopo millenni di peripezie col chiudersi e col tornare alla sua origine. Ma quella circolarità del tempo restava il segreto degli dei, e la mia breve vita era per me un segmento rettilineo i cui due capi puntavano assurdamente verso l’infinito, così come nulla, in un giardino di pochi metri quadrati, rivela la sfericità della terra […]. Per me, ormai, il ciclo si è ridotto al punto che si confonde con l’istante. Il moto circolare è divenuto così rapido che non si distingue più dall’immobilità. Si direbbe, così, che le mie giornate si sono come raddrizzate, non si piegano più le une sulle altre. Stanno in piedi, verticali, e si affermano con fierezza nel loro intrinseco valore. E non differenziandosi più come tappe successive di un piano in via di esecuzione, si somigliano al punto che nella memoria mi si sovrappongono esattamente e mi sembra di rivivere sempre la stessa giornata. Da quando l’esplosione ha distrutto l’albero-calendario, non ho più provato il bisogno di tenere il conto del mio tempo […], il tempo si è fermato nel momento in cui la clessidra volava in frantumi. Da allora non ci siamo forse, Venerdì ed io, sistemati nell’eternità?»

«Ce qui a le plus changé dans ma vie, c’est l’écoulement du temps, sa vitesse et même son orientation. Jadis chaque journée, chaque heure, chaque minute était inclinéeen quelque sorte vers la journée, l’heure ou la minute suivante, et toutes ensemble étaient aspirées par le dessein du moment dont l’inexistance provisoire créait comme un vactium. Ainsi le temps passait vite et utilement, d’autant plus vite qu’il était plus utilement employé, et il laissait derrière lui un amas de monuments et de détritus qui s’appelait mon histoire. Peut-être cette chronique dans laquelle j’étais embarqué aurait-elle fini après des millénaires de péripéties par `boucler’ et par revenir à son origine. Mais cette circularité du temps demeurait le secret des dieux et ma courte vie était pour moi un fragment rectiligne dont les deux bouts pointaient absurdement vers l’infíni, de méme que rien dans un jardin de quelques arpents ne révèle la sphéricité de la terre […]. Pour moi désormais, le cycle s’est rétréci au point qu’il se confond avec l’instant. Le mouvement circulaire est devenu si rapide qu’il ne se distingue plus de l’immobilité. On dirait, par suite, que mes journées se sont redressées. Elles ne basculent plus les unes sur les autres. Elles se tiennent debout, verticales, et s’affirment fièrement dans leur valeur intrensèque. Et comme elles ne sont plus différenciées par les étapes successives d’un plan en voie d’exécution, elles se ressemblent au point qu’elles se superposent exactement dans ma mémoire et qu’il me semble revívre sans cesse la méme journée. Depuis que l’explosion a détruit le mât-calendrier, je n’ai pas éprouvé le besoin de tenir le compte de mon temps […], le temps s’est figé au moment où la clepsydre volait cn éclats. Dès lors n’est-ce pas dans l’éternité que nous sommes installés, Vendredi et moi?»

Schizzo socio-psicologico sulle posizioni per bere del vino o dei distillati

Di Westindischer Maler um 1530 – The Yorck Project (2002) 10.000 Meisterwerke der Malerei (DVD-ROM), distributed by DIRECTMEDIA Publishing GmbH. ISBN: 3936122202., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=160199

Bere in piedi è il miglior modo per degustare un distillato: la verticalità della posizione sostiene la perpendicolarità acuminata del liquido, consentendo un movimento di allontanamento/avvicinamento dell’avambraccio consono alla penetrabilità dell’alcol nelle narici.

Bere seduto sulla sedia (isolata): non è l’ubicazione migliore per bere grandi vini e dei vini in generale. Non potendo far ciondolare le braccia come uno scimpanzé qualsiasi, la seduta richiede una sorta di rannicchiamento raggrinzato e il posizionamento del bicchiere sul grembo. In queste occasioni converrebbe sorseggiare un rosolio contenuto in un bicchierino adornato da meravigliosi ghirigori o, al massimo, un filu ‘e ferru autoprodotto dallo zio sardo (nel caso in cui non ci sia, si po’ fare riferimento ad un amico di un amico) debitamente versato in un bicchierino similare, meglio se trasparente. 

Bere seduto sulla sedia intorno ad un tavolo: la posizione per eccellenza della bevuta con il desinare permette agevolmente di poter posare il bicchiere e di alternarlo con la forchetta e il coltello, qualità che non sono credibili in un party in piedi se non con notevoli complicanze.

Bere seduto sul divano: è la bevuta dalle grandi vedute, quella rilassata, contegnosa, signorile, agevolata e riposante. Non è detto che debba essere necessariamente impegnativa. Il tutto dipende, in ogni caso, dalla comodità del divano, che non deve essere troppo insaccato, dai vicini di seduta e dalla distanza di salvaguardia tra i corpi sorseggianti.

Bere seduto sulla poltrona: è la bevuta alternativa al divano. Una valvola di salvaguardia nel caso in cui il divano sia ingombro e affastellato di corpi beventi e vocianti.

Bere sdraiato: supino è sostanzialmente impossibile, a meno che non si tenti un suicidio di gran classe; a pancia di sotto è fattibile solo con la cannuccia, per cui non conviene impegnarsi troppo per vini di alta qualità; di fianco ricorda un po’ il triclinio romano, ma con il rischio di perdere una bavetta poco dignitosa da un lato della bocca.

Bere in ginocchio: (mentre si raccoglie una tartina caduta per terra): è il modo migliore per non far vedere che si mangiano cose potenzialmente calpestabili. Rimane il fatto che la genuflessione deve avere un tempo consono ad una dignitosa sollevazione. A meno che non si stia celebrando messa.

Bere camminando ad una fiera vinicola: mantiene un nonsoché di sublime avvicinandosi alla pratica peripatetica in filosofia. Da questa si discosta per gli ambienti sovraffollati, perché richiede notevoli abilità di zigzagamento e una capacità non usuale di “stop and go”. 

Bere sul cesso: se “Il cesso rimane comunque un luogo previlegiato di lettura[1]”, non è detto che valga la stessa cosa per bere del vino o un distillato. Tra i due è comunque meglio un distillato: è più pungente e ottenebrante.


[1] Tra la pancia che si libera e il testo si instaura una relazione profonda, qualcosa come un’intensa disponibilità, una ricettività amplificata, una felicità di lettura: un incontro del viscerale e del sensibile che nessuno, mi pare, ha reso meglio di Joyce: «Ben sistemato sulla seggetta, aprì il giornale e lo sfogliò tenendolo sulle ginocchia nude. Novità e cose risapute. Nulla preme. Tratteniamo un po’. Ecco la novella premiata. Il colpo da maestro di Mr. Matchman. Di Philip Beaufroy, Club degli spettatori, Londra. L’autore ha ricevuto il premio di una ghinea per colonna. Tre e mezza. Tre sterline e tre scellini. Tre sterline tredici scellini e sei pence. Tranquillamente si mise a leggere, trattenendosi, la prima colonna; poi, cedendo e resistendo, iniziò la seconda. A metà colonna, cessando ogni ritenzione, lasciò che gli intestini si liberassero a loro agio, mentre leggeva, leggeva senza sosta. Quella leggera stitichezza di ieri è ormai passata. Ma non troppo grosso spero, sennò le emorroidi si infiammano di nuovo. Ecco, così va bene. Sei stitico, una pastiglia di cascara sagrada. Anche la vita potrebbe essere così». “Ulisse” di James Joyce, capitolo II, tratto da Georges Perec, Pensare / Classificare, Rizzoli, Milano 1989


Elogio del mio invecchiamento

Di Mikhail Martyukov – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=76942396

Se c’è un mondo che ricorre incessantemente al proprio passato, questo è quello del vino: non c’è soggetto attivo che non produca documentazione sul passato, sulla tradizione, sulla memoria storica dei luoghi e delle pratiche. Questa patina, luccicante quanto artificiale, è spesso costruita ad uso e consumo del presente, o meglio ne è una costante e consumata dilatazione. Non è soltanto un presente che si storicizza immediatamente, ma è anche un presente che fagocita il proprio passato dopo aver divorato un improbabile futuro.

Il vino da invecchiamento spiazza, disorienta e proietta i nostri palati in un venire prospettico tanto indecifrabile quanto spaventevole: esso non si concilia affatto con questo presente eterno. Il vino da invecchiamento ci ributta in là, in un futuro personale imprecisato, dopo aver mostrato, seppur brevemente, il suo passato. E’ quello che capita quando leggo: «da bersi preferibilmente tra il 2029 e il 2035.» Non penso al vino, ma a me stesso, alla mia senilità, a chi mi sta intorno. Il vino da invecchiamento sanziona il piacere libidico come condizione legata alla contemporaneità controllata e, forte di un tempo a venire, spinge nuovamente a sparare contro gli orologi. E contro i consigli.

Frammenti di un discorso vinoso

Un papiro contenente un brano degli Aitia di Callimaco. Di The Egypt Exploration Society – B.P. Grenfell & A.S. Hunt, The Oxyrhycnhus Papyri: Part XI. (London: The Egypt Exploration Society, 1915), plate IV, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15855112

Al cospetto di una relazione vinosa costruita fuori dagli stereotipi, la vera originalità si costruisce nella relazione. Per l’assenza del discorso come fondamento dello stupore di fronte all’inenarrabile. Con la finalità, in ultimo, di non poter costruire una classifica plausibile e verosimile dei vini dei quali non si può parlare, ma di cui siamo intimamente innamorati. Una classifica naturalmente impubblicabile.

«Di fronte alla brillante originalità dell’altro, io non mi sento mai atopos, ma semmai classificato (come un dossier fin troppo noto). Talvolta, riesco però a sospendere il gioco delle immagini ineguali (“Perché mai non posso essere anch’io originale, forte quanto l’altro?”); indovino che la vera originalità non è né in me né nell’altro, ma nella nostra stessa relazione. Ciò che bisogna conquistare è l’originalità della relazione. La maggior parte delle ferite d’amore me le procura lo stereotipo: io sono costretto, come tutti, a far la parte dell’innamorato: ad essere geloso, trascurato, frustrato come gli altri. Ma quando la relazione è originale, lo stereotipo viene sconvolto, superato, evacuato, e la gelosia, ad esempio, non ha più luogo d’essere in questo rapporto senza luogo, senza topos, senza ‘topo’- senza discorso[1]


[1] Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso (Roland Havas: Conversazione), Einaudi, Torino 1979

Auto-intervista sul vino

Glass of Red Wine with a bottle of Red Wine shot on a white background.
Di Evan Swigart from Chicago, USA – Red Wine, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11794575

– “Buongiorno, si accomodi”

– “Buongiorno a lei. Sono già seduto da un pezzo su di lei. No, dentro di lei!. Ci siamo capiti, insomma”.

– “Ma certo, noi due ci comprendiamo sempre, o almeno tentiamo di farlo. Alle volte però siamo un po’ scissi. Ahahahah!”

– “Era una battuta?”

– “Non mi permetterei mai!”

– “E fa bene perché, altrimenti, mi tiro uno schiaffo in faccia e le faccio male”

– “Lasci perdere con l’autolesionismo e iniziamo la nostra intervista. Una domanda a bruciapelo: quando ha iniziato a capire che il vino non è solo alcol?”

– “Una sera, in campagna, c’erano due bottiglie sul tavolo. La prima conteneva un liquido fatto con le uve che aveva prodotto mio zio. L’altra del vino. La prima si allontanava grandemente anche dalla semplice dicitura ‘ il vino del contadino è meglio…’. Rifiutammo garbatamente e ci dedicammo alla seconda, dicendo che era un regalo di una tale prevosto di un paese dell’Alta Langa”.

– “Capisco e ricordo. Di lì la passione?”

– “Ma quando mai! Ci sono voluti altri dieci anni almeno e un sacco di incomprensioni”

– “Più che di incomprensioni, direi di vera e propria ignoranza!”

– “E’ vero, fatico ad ammetterlo, ma fu così. D’altra parte, se devo raccontargliela proprio tutta, quell’antica ignoranza mi accompagna ancora adesso”

– “Anche se si sforza di apprendere, studiare, confrontarsi…”

– “Anche, anche se poi mi viene sonno”

– “E la svolta?”

– “Nel 2005 quando mi imbucai alla festa dell’Arciduca Prospero Vitellone a Sommariva del Bosco. Lì bevvi delle cose memorabili!”

– “Quali, di grazia?”

– “Non ricordo più nulla”

– “Ma se ha appena detto che erano memorabili!”

– “Non mi rompa con la sua pignoleria, perdinci!”

– “D’accordo, però vorrei farle una domanda indiscreta, se posso: lei così schierato politicamente, così voluttuosamente anarchicheggiante e sinistrignaccolo che si reca a casa dell’Arciduca Propspero Vitellone, noto per il suo passato reazionario, misogino fino all’inverosimile, sfruttatore di manodopera italica e straniera, tifoso dell’Inter…”

– “Mi faccia dire, caro lei. Era necessario ed è necessario. Benché ci siano notevoli miglioramenti da raccomandare (chi è senza peccato scagli la prima bottiglia di Barolo Riserva “Monfortino” 2013 di Giacomo Conterno), è cosa buona e giusta intrattenere rapporti con quella meravigliosa casata nobiliare perché è da lì che passa la rinascenza della cultura vinicola italica!”

– “Ma mi faccia il piacere lei! Ma cosa sta dicendo? Di quale rinascenza parla?”

– “Se mi interrompe ancora con le sue insinuazioni, mi alzo e me ne vado!”

– “Ma sì, se ne vada!”

– “E dove vado? A farmi un goccetto?”

– “Bella idea, vengo con lei! Tanto siamo inseparabili, almeno fisicamente!”

– “La porto volentieri, ma eviti di scindermi ancora!”

– “Ci provo, ci provo, ma non è semplice”

Vuoti a perdere e differenziazioni sul nulla

Quadro rappresentante gli esperimenti di Boyle del 1660 sul vuoto.
Di Joseph Wright of Derby – National Gallery, London, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3751913

Nell’emersione contemporanea dell’individuo esclusivo ed eccentrico, sembra che chiunque, in virtù del fatto che debba distinguere, per apparire e per durare, la propria opinione da quella degli altri, sia portato ad esprimere pareri differenziali che rilevano un tasso di scostamento relativo assai basso supportato da grande enfasi declamatoria. Più il pensiero si assomiglia, coincide, condivide gli stessi valori, più la retorica assume toni falsamente dirimenti. Queste forme di locuzione innovativa sono udibili dovunque, anche se emergono prepotentemente tanto nelle disamine delle partite di calcio, che nei dibattiti politici sull’attualità o nelle contese enogastronomiche. Chiunque intervenga deve marcare o rimarcare qualcosa che gli altri non avevano notato, evidenziato o semplicemente immaginato: “l’avevo detto in tempi non sospetti” è la chiave di volta della distinzione del millimetrico a cui segue, solitamente, il “volevo farvi notare una cosa che nessuno fino ad ora ha menzionato”. L’ascoltatore, a quel punto, proteso con i muscoli asserragliati dentro un corpo in procinto di esplodere, rimane in attesa di qualcosa che squarci il velo dell’incomprensione, che riveli la radicalità dell’alternativa non compresa e del verbo che si fa carne. I discorsi del locutore si aggrovigliano sul particolare, sulla notazione di quanti non avevano chiaramente o quantomeno sufficientemente inteso che la faccenda che genera il problema, la vera questione insomma, così come si è evidenziata storicamente e sociologicamente, è quella e solo quella che il vociante, chiamato a rispondere, mette in luce di fronte ai suoi interlocutori. La presenta dello scostante di misura, del ricercatore degli aghi nei pagliai, del premonitore di avvertenze, ingenera una sorta di prevalenza del millimetrico, di involuzione della retorica del nulla, dello straboccare di sciabole e di iperboli votate alla riconferma mediatica del sé. L’originalità del millimetrico non afferma nulla di particolare se non il fatto di trovare costantemente la necessità di provocare una reazione fortemente contraria e sapientemente infinitesimale di stampo opposto. L’informazione pasteggia voracemente con le sovraesposizioni, costruendo i dibattiti ampiamente avviluppati in cui si chiede di produrre pareri a persone che pareri potrebbero non averne e dove l’unica, vera, sensazione percepita è quella del “si parli di qualunque cosa, purché si parli di me”.

In ogni occorre sapere che se il diavolo sta nei dettagli, il nulla dimora nei dettaglianti del millimetrico.