Robert Parker e l’ordine del discorso vinoso.

Ripropongo qui un testo che ho già pubblicato, con alcune variazioni e un’aggiunta sulle “profezie[1]” di Robert Parker.

Cerchiamo subito di sgomberare il campo dagli equivoci: penso che quando alcuni potentati della parola eno-gastronomica attaccano il mondo del vino naturale, bio, biodinamico, vinoverista… non stiano parlando di vino, ma bensì di tutt’altro. Allora perché questi discorsi (apparentemente) vinosi. La risposta, a mio avviso, va cercata in ben altro è cioè nella definizione di quello che Foucault avrebbe definito come una “società del discorso” in cui “la dottrina lega gli individui a certi tipi di enunciazione per legare gli individui tra di loro, e differenziarli per ciò stesso da tutti gli altri. La dottrina effettua un duplice assoggettamento: dei soggetti parlanti ai discorsi, e dei discorsi al gruppo, per lo meno virtuale, degli individui parlanti[2].” La finalità di questi discorsi vinosi deve essere letta dunque non tanto nel senso interpretativo che essi danno, quanto nella loro capacità di posizionare poteri politici all’interno di un determinato campo. Le affinità elettive tra personaggi apparentemente lontani, in uno scacchiere in cui destra e sinistra servono soltanto a certificare l’adesione ad un modello di potere definito, si risolvono in comunanze di idee che stabiliscono che solo e soltanto loro hanno la capacità, in via oggettivante, di poter parlare di vino e che, secondariamente a questo, soltanto loro sono deputati a discorrere di esso. L’attacco rivolto ad altri soggetti, che direttamente o indirettamente, ad esempio attraverso i blog, hanno lasciato spazio alla formazione di nuovi poteri, referenti di altre coordinate produttive (bio…), ha esclusivamente la funzione di rivendicare la propria titolarità politica nel campo del discorso vinoso: questo significa che chiunque tenti di mettere in dubbio il loro ruolo preminente verrà escluso dalla parola. La verità del discorso, per queste confraternite, deve perciò  velarsi da verità scientifica, perché il loro potere non è  mai stato quello di coloro che lo possiedono di diritto e secondo rituale richiesto, ma secondo un’investitura divina. La partizione tra discorso vero e discorso falso ricorda  il vecchio principio greco: “l’aritmetica può ben riguardare le città democratiche, poiché insegna i rapporti di eguaglianza, ma solo la geometria deve essere insegnata nelle oligarchie, poiché essa mostra le proporzioni dell’ineguaglianza[3].”

Le “profezie” di Robert Parker devono pertanto essere lette nella loro funzione illocutoria[4]: esse non descrivono, né espongono un determinato fatto; né, tantomeno, illustrano un futuro a venire.

Esse producono un fatto reale: dicono ciò che deve essere.

 


 

[2] , L’ordine del discorso. I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola, Einaudi, Torino 1972, pag. 34

[3] Ivi. , pag. 16

[4] La teoria degli atti linguistici è di John Langshaw Austin (How to Do Things with Words (1962); trad. it. Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987). Il suo allievo più importante è John Searle

L’incontinenza della Parola. A proposito del caso Gily e dell’affaire Velenitaly.

Maurizio Gily è stato condannato[1], in prima istanza, a risarcire il giornale l’Espresso e un suo giornalista, per non aver usato continenza espressiva.

Gli dedico questo brano[2].

«Al di sotto di un certo reddito, un caso giudiziario è sempre un semplice fatto di cronaca. Perché ci sia scandalo, è necessario un Minimo Dividendo Garantito. (…) Come in ogni letteratura popolare, la ricchezza permette al romanzesco di proliferare smisuratamente. (…) La funzione dello scandalo è di essere uno spettacolo del mistero, l’intrigo è allo stesso tempo l’essenza e la forma che ne giustificano la notorietà. Dal punto di vista del mito, qui tutto è indifferente al raggiungimento della verità o di una conclusione, conta solo lo spessore della matassa. Per esempio, senza alcuna ragione gli accusati diventano accusatori, e i testimoni imputati; nessuno sfugge a questo moto circolare che il tempo non ferma mai. Questa confusione è la definizione stessa di un mistero dell’essere; sospende il manicheismo solito dei fatti di cronaca nera, in cui è ammesso che sospettati e poliziotti non si scambino mai i ruoli. Non ci sono più tabù, e dunque non vi è più ordine: è un moltiplicarsi senza fine di parti civili, come in una sorta di mosca cieca. (…) Perché la complessità è voluminosa. Il caso si definisce come una sostanza sisifea, che logora con la forza dell’elasticità; sperare di risolverlo o di portarlo a termine è un atto di eroismo, un’impresa sportiva… il Giudice è nel contempo Cavaliere della Verità e Maratoneta. Ma contro chi lottano tutti, questi giudici, questi testimoni, questi accusatori? Che cos’è che li sfinisce? E’ la Parola. Il testimone nuovo e misterioso che spunta fuori è prima di tutto presunto portatore della Parola: se acconsente a parlare non ci sarà più alcun mistero; questa Parola è in lui come un carica che non esplode mai, ma la cui presenta irradia, provoca la crisi di nervi. (…) E’ proprio questa la sua funzione collettiva: rappresentare continuamente l’indecifrabile. E’ la sua stessa “complessità” ad essere mitica; tutto qui alimenta intenzionalmente una forma, tutto si sottomette all’immagine di un ordine barocco, da cui il lettore è escluso. Con un paradosso che è la sua verità, il fatto di cronaca allontana da sé i suoi consumatori, l’informazione disinforma, il reale diviene irreale. Ora sappiamo che cos’è uno scandalo: è essenzialmente una cosa alla quale non si partecipa. Non solo ciò che occupa la scena è spettacolo, ma anche ciò che respinge lo spettatore nell’ombra della galleria o della platea, che lo convince dell’esistenza di una distinzione naturale tra quello che vede e quello che è, tra quello che capita e quello che gli capita. Lo scandalo è costituito da questa alterità mitica, che fonda l’Avvenimento come un ordine intoccabile e lo separa fatalmente dalla coscienza.»


[2] Roland Barthes, Che cos’è uno scandalo?, “Lettres nouvelles”, 4 marzo 1959, in Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, pp. 241 – 244; Edizione originale: Roland Barthes, Mythologies, Editions de Seuil, Paris 1959.