Lo zingaro come paradigma


Giudei

Nel 1879 Wilhelm Marr ideò il termine “antisemitismo” in Der Weg zum Siegedes Germanenthums über das Judenthum (The Way to Victory of Germanicism over Judaism) e, contemporaneamente, fondò la Antisemiten Liga definendo la questione ebraica un problema “sociopolitico”. La costruzione differenziata della figura dell’ebreo contribuì alla creazione di diversi stereotipi che vennero successivamente utilizzati in una duplice direzione. La prima fu quella di disumanizzare tutto ciò che non rientrava nella concezione razziale, gerarchicamente intesa, del genere umano: «Espulso dal genere umano, l’ebreo è animalizzato e costruito proprio sull’opposizione irrimediabile fra la Natura (l’ebraicità ridotta a ferinità) e la Cultura (la restante umanità) […] Insomma, l’ebreo era un’eccezione della Natura, se non una rivolta contro la chiarezza delle determinazioni di questa». L’ebreo divenne così, a partire dalla metà dell’Ottocento, l’incarnazione carattere astratto e impersonale del mondo moderno: Simmel ne faceva i rappresentanti di una società dominata dall’astrazione del denaro: “nella misura in cui l’ebreo si frappone tra le cose e l’uomo, permette a quest’ultimo un’esistenza quasi astratta, svincolata da ogni legame diretto con le cose”. Se per il nazionalista antisemita Maurice Barrès l’ebreo ragionava in maniera netta e impersonale, come un conto in banca, il cattolico dreyfusardo Anatole Leroy-Beaulieu lo considerava “una figura cogitabonda”, un individuo “caratterizzato dalla preponderanza del sistema nervoso su quello muscolare”, spesso nevrotico, se non completamente isterico, soggetto ordinariamente alla difformità fisica.

La seconda direzione, conseguente della prima, si risolse nell’attacco alla società liberale come incarnazione della società ebraica per antonomasia: tutti erano diventati ebrei. Per estensione, l’internazionalismo anarchico e social-comunista venne letto come il prolungamento apolide di una società irrimediabilmente giudaizzata. Questa fu la fase che alcuni storici definiscono come quella dell’“antisemitismo maturo”, che si mosse a partire dalla ferma convinzione che “ciò che caratterizza la società moderna è l’ebreizzazione più o meno palese, interiore (spirituale e mentale) o esteriore (i tratti somatici attribuiti all’ebreo, ma ormai presenti anche negli ariani) di tutti gli individui. La società moderna è insomma la società della totale ghettizzazione del mondo”. I punti di contiguità tra l’antisemitismo, inteso come modello ideologico-concettuale, e i totalitarismi politici furono più di uno: “a) la tensione millenaristica ed escatologica che esso conferisce alla propria prospettiva politica; b) l’elaborazione del concetto di “capo carismatico”[…] c) l’elaborazione di un concetto di rivoluzione che non dovrà essere solo politica e sociale, ma anche antropologica, connessa cioè alla necessità di de-ebreizzare tutta l’umanità; d) la necessità di rovesciare la società borghese in tutta la sua totalità, perché società ebreizzata in tutte le sue pieghe”.

Lo zingaro, l’immigrato, al pari di quello che fu l’ebreo, indipendentemente da ciò che egli/ella esprime nella sua individualità e nel suo contesto sociale, è divenuto un paradigma politico esemplare.

 

Il censimento (rom-sinti)

Il censimento si configura come un’operazione statistica di rilevazione diretta e totale intesa ad accertare lo stato di un fatto collettivo in un dato momento e caratterizzata dall’istantaneità, dalla generalità e dalla periodicità. La popolazione intera che risiede in un determinato territorio nazionale è un fatto collettivo. Non sarebbe possibile, in altro modo, censire una popolazione estrapolando dei caratteri identitari specifici come se questi rappresentassero un nuovo insieme generale e totale. In altri termini si possono condurre delle analisi particolari di sottoinsiemi, non privi di difficoltà definitorie e classificatorie (ad esempio i parlatori di una determinata lingua), rispetto alla macro-insieme della popolazione generale abitante in un territorio definito. Al contrario, il processo di specificazione, circoscrizione, astrazione e di determinazione sulla base dell’ appartenenza “etnica”, religiosa, linguistica… si configura, a titolo proprio, come una vera e propria scelta di stigmatizzazione culturale a fini politici. Il processo, non dissimile da tutti i processi su basi razziali storicamente realizzati, procede per individuazione, separazione, espulsione dal contesto socialmente maggioritario, assimilazione in maniera coercitiva oppure attraverso la repressione sino all’annullamento, alla tacitazione e all’annientamento di ogni differenziale sociale e culturale estraneo al modello ideologico dominate. L’etnicizzazione di una questione sociale è la forma primaria della sua depoliticizzazione: è il trasferimento sul piano culturale di elementi riferiti alle predisposizioni congenite. In altre parole l’etnicizzazione recupera il concetto di “razza” sotto mentite spoglie culturali: le disposizioni sociali di una popolazione non sono, per questi ideologi, dei costrutti sociali, ma genetici. Per cui, così come è ordinario pensare che un rom abbia l’attitudine (non possa farne a meno) di rubare, allo stesso modo si può pensare che l’italiano abbia la stessa propensione, ma solo un pochino più in grande e meglio strutturata, ovvero sia un mafioso per determinazione. Le conseguenze disastrose e tragiche di tale modello di pensiero sono tanto evidenti quanto misconosciute ai più (almeno sino a quando non ne vengono direttamente interessati): “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari. E fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei. E stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”. (La frase è attribuita a Brecht ma l’origine del testo viene da un sermone del pastore luterano e teologo tedesco Martin Niemöller. Una versione è inscritta nel Monumento all’Olocausto a Boston, in Massachusetts, e cita comunisti, ebrei, sindacalisti e cattolici; quella più comune in inglese parla di socialisti, sindacalisti, ebrei. Fonte: ilpost.it)

Il paradigma e le false notizie

Una parte della popolazione social anti-salviniana disgustata, al pari del sottoscritto, del censimento dei nomadi, si è proposta in rete postando articoli e recensioni che avrebbero la funzione di dimostrare la tesi opposta, ovvero che vi sono rom e sinti che lavorano, che studiano, che non rubano e via dicendo. Si tratta, a mio parere, di una tesi solo apparentemente opposta perché condivide, nei suoi presupposti fondamentali, lo stesso terreno di gioco. Accetta, in altro modo, che si debba dimostrare, sulla base della propria appartenenza, dei distinguo sociali che ad altri, sempre in base alle rispettive appartenenze, non avrebbero mai chiesto di avvalorare: per capirci, ancora una volta, è come se in Svezia, in Olanda, in Giamaica o in Burkina Faso venisse pubblicato un articolo che sveli, in positivo, che esistono degli italiani non mafiosi, non corrotti, che pagano le tasse… E’ piuttosto evidente che il terreno di scontro è la dimostrazione (e la sua possibile confutazione), di assiomi non verificabili in assoluto e, quindi, tanto veri quanto falsi nei loro presupposti. Gran parte delle cosiddette bufale o fake news hanno un dirompente successo per il processo di valorizzazione di ciò che è già pensato: questo comunemente viene chiamato pre-giudizio o giudizio che precede i fatti e la loro valutazione. I fatti, falsi in questo caso, vengono prodotti per avvalorare e dare sostanza a ciò che viene creduto ed introiettato in processi divulgativi e persuasivi di lungo corso. Uno dei primi ad occuparsi delle false notizie fu lo storico francese Marc Bloch fondatore, con Lucien Febvre, delle Annales d’histoire économique et sociale  e redattore di un libello, uscito dopo la Grande Guerra, dal titolo assai emblematico: Riflessioni d’uno storico sulle false notizie della guerra. Leggiamo insieme una piccola parte di quello che scrisse: “All’origine, c’imbattiamo in uno stato d’animo collettivo. Il soldato tedesco che entra in Belgio appena cominciata la guerra, è stato di colpo strappato ai suoi campi, alla sua fabbrica, alla sua famiglia, o per lo meno alla vita regolata della caserma; da questo spaesamento improvviso, da questa brusca lacerazione dei legami sociali essenziali nasce un grande turbamento morale. Le marce, i cattivi alloggiamenti, le notti senza sonno affaticano all’estremo i corpi, che non hanno ancora avuto il tempo di assuefarsi a queste dure prove. Combattenti novelli, gli invasori sono ossessionati da terrori tanto più forti in quanto rimangono necessariamente abbastanza vaghi; «i nervi sono tesi, le fantasie sovreccitate, il senso della realtà scosso» . Ora, questi uomini sono stati nutriti di dicerie relative alla guerra del 1870; fin dall’infanzia si sono loro ripetute senza tregua le atroci prodezze attribuite ai franchi tiratori francesi; queste voci sono state diffuse dai romanzi e dalle immagini; opere militari hanno loro conferito una specie di garanzia ufficiale; più d’un manuale che i graduati hanno nello zaino insegna come ci si deve comportare nei confronti dei civili ribelli; dunque ve ne saranno. La resistenza delle truppe belghe, l’ostilità della popolazione belga stupiscono nel profondo il Tedesco medio; credeva di fare la guerra solo ai Francesi; nella maggior parte dei casi non è a conoscenza della risposta del governo di Bruxelles all’ultimatum del 2 agosto; se la conosce non la capisce; la sua sorpresa si muta facilmente in indignazione; crede volentieri capace di tutto il popolo che osa drizzarsi contro la nazione eletta. Aggiungete infine che negli spiriti si prolungano, allo stato di ricordi inconsapevoli, una folla di vecchi motivi letterari – tutti questi motivi che l’umana fantasia, in fondo assai povera, rimugina incessantemente dall’aurora dei tempi: storie di tradimenti, d’avvelenamenti, di mutilazioni, di donne che strappano gli occhi ai guerrieri feriti, che un tempo aedi e trovatori cantavano, che oggi il romanzo d’appendice e il cinema popolarizzano. Tali sono le disposizioni emotive e le rappresentazioni intellettuali che preparano la formazione leggendaria; tale è la materia tradizionale che fornirà i suoi elementi alla leggenda.

Perché la leggenda nasca, sarà ormai sufficiente un avvenimento fortuito: una percezione inesatta, o meglio ancora una percezione inesattamente interpretata. Ecco, fra molti, un esempio caratteristico. “Strette aperture, chiuse mediante placche mobili in metallo, sono praticate nella maggior parte delle facciate delle case in Belgio”. Si tratta “di fori della muratura, destinati a fissare le impalcature per gli stuccatori o per i decoratori delle facciate”, corrispondenti al dispositivo di ganci che, in altre regioni, svolge la stessa funzione. Questa consuetudine edilizia è, pare, tipica del Belgio; o per lo meno è estranea alla Germania. Il soldato tedesco nota le aperture; non ne comprende la ragion d’essere; cerca una spiegazione. «Ora, egli vive fra i fantasmi dei franchi tiratori. Quale spiegazione immaginerebbe, che non gli sia suggerita da questa idea fissa?” Gli occhi misteriosi che forano la facciata di tante case sono delle feritoie. I Belgi, attrezzandosi da lunga data per una guerra di guerriglia e d’imboscate, le hanno fatte praticare, come dice una brochure messa in vendita, ahimè!, a sostegno della Croce Rossa, da “tecnici specialisti»: questo popolo non è solo omicida, ma ha premeditato gli assassini. Così un’innocente particolarità architettonica passa per la prova d’un crimine sapientemente maturato. Supponiamo adesso che in un villaggio costruito in tal modo partano, non si sa da dove, alcune pallottole vaganti. Come non pensare che siano state tirate attraverso le “feritoie”? Senza dubbio lo si pensò in molti casi; e le truppe fecero prontamente giustizia delle case traditrici e dei loro abitanti”.

La formazione delle rappresentazioni sociali si struttura attraverso il loro ancoraggio ad un modello preesistente (parziale e incompleto) e la loro successiva oggettivazione: da qui la disposizione di un senso comune che non fatica a diventare luogo comune. Provare a sottrarsi alla  costruzione di stereotipi significa, innanzitutto, rifiutarsi di partecipare al gioco, con regole e metodologie imposte, voluto dall’avversario.

Carmagnola, la casa abusiva e la ruspa.

A qualcuno potrebbe interessare che la decisione di abbattere la casa abusiva all’interno del campo sinti sia stata presa ben prima che la sindaca leghista e il suo mentore Salvini la sbandierassero ai quattro venti: per la precisione nel 2008 dal Tribunale di Alba. La sentenza è stata resa esecutiva il 15 giugno, dieci anni dopo la decisione, dalla Procura della Repubblica di Asti. A qualcuno, ma a me no e non certo perché sono favorevole all’abusivismo storpiante che ha ampiamente e insistentemente devastato il Bel Paese. Perché quella casa, indipendentemente da tutto e da tutti (sentenza compresa), è stata usata come metafora politica e, badate bene, non contro l’abusivismo, ma contro i nomadi. La ruspa è, nel medesimo tempo, l’emblema e l’allegoria.  Sempre secondo i dati Istat, riferimento dicembre 2017, viviamo in una nazione che ha, ogni 100 edifici realizzati con le necessarie autorizzazioni, circa 20 abusivi. In alcune regioni la media sale al 50%. Non aggiungo parole.

Le valutazioni per eccesso e l’equa distribuzione della stupidità umana

Uno dei paradossi difensivisti, che si contribuiscono a creare forme standardizzate di stereotipi razziali, è quello di conferire meriti fisici e intellettivi a qualche raggruppamento umano attraverso l’attribuzione di capacità innate, ovverossia non acquisite tramite l’esperienza: solo quelli sanno ballare; solamente quegli altri sanno giocare a basket; questi ultimi sono i migliori a suonare la batteria…. Insomma, ce l’hanno nel sangue, nei geni, nel DNA e perciò stesso è la loro “razza” che li predilige in quelle funzioni e in quei ruoli standard. Quindi dovranno ballare tutta la vita, giocare a basket per quelle successive e sia mai che vogliano intraprendere la carriera da medico, da insegnante e men che meno da pescivendolo. Ancora una volta le pseudo teorie razziali entrano proprio là dove avrebbero dovuto essere espulse per sempre. Curiosamente la storia è ricca di questi paradossi e uno di questi capitò, appunto, intorno al mito dell’intelligenza ebraica: una notevole inchiesta storica compiuta da Sander L. Gilam analizza innumerevoli testi, documenti, opere letterarie che nella storia dello scorso secolo, sia all’interno che all’esterno di alcune comunità ebraiche, in particolare modo di quelle Ashkenazite, erano volti a provare tale superiorità intellettuale. Uno dei testi da cui parte il resoconto storico di Gilam è “The Bell Curve” (La Curva a campana) di Charles Murray e Richard Herrnstein, un testo che ribadisce sotto un’apparente forma scientifica, la stretta connessione tra razza, intelligenza e successo. In questo testo gli ebrei ashkenaziti di origine europea sono analizzati come vera e propria categoria razziale superiore. Da qui e a ritroso l’autore analizza come questa teorema anti-scientifico abbia contribuito, insieme a molto altri preconcetti, a discreditare, isolare e marginalizzare gli ebrei: “Avvocato: non se la prenda con me, per me non è vacanza. Sono ebreo. Sully (interpretato da Paul Newman): “E’ ebreo! Non sapevo fosse ebreo” (gli dà un colpetto sulla spalla). “E perché mai non ha l’aria sveglia?” (La vita a modo mio, Robert Benton 1995)

In brevissima sintesi occorre ricordare a chiunque che c’è un solo genere umano. La scienza mette in evidenza queste somiglianze nel nostro sviluppo embrionale, fisiologico (i nostri sistemi a base organica), biochimico (i nostri metaboliti e reazioni) e, più recentemente, genomico (il nostro patrimonio genetico):i dati mostrano che il DNA di due esseri umani è identico al 99,9 per cento, e tutti noi condividiamo lo stesso insieme di geni, convalidando l’esistenza di una singola razza biologica umana e una sola origine per tutti gli esseri umani.

Condividiamo i geni e condividiamo la stupidità, piaccia o meno anche ai più furbi: la Seconda Legge Fondamentale sulla stupidità, nell’indimenticabile pamphlet dello storico Carlo M. Cipolla, Allegro ma non troppo (Le leggi della stupidità umana), ci dice che “la probabilità che una persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona”. E per finire: “Il fatto straordinario circa la frequenza della stupidità è che la Natura riesca a fare in modo che tale frequenza sia sempre e dovunque uguale alla probabilità σ indipendentemente dalla dimensione del gruppo, tanto che si ritrova la stessa percentuale di persone stupide sia che si prendano in considerazione gruppi molto ampi o gruppi molto ristretti”.

Alcuni riferimenti bibliografici.

Enzo Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, Il Mulino, Bologna 2002;

Francesco Germinario, Argomenti per lo sterminio. L’antisemitismo e i suoi stereotipi nella cultura europea (1850-1920), Einaudi, Torino 2011;

Francesco Germinario, Antisemitismo. Un’ideologia del Novecento, Jaca Book, Milano 2013;

Sander L. Gilman, Il mito dell’intelligenza ebraica, Utet, Torino 2007

Marc Bloch, La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921), Donzelli, Roma 2004;

Carlo M. Cipolla, Allegro ma non troppo con Le leggi fondamentali della stupidità umana, Il Mulino, Bologna 1988

 

 

 

 

Mediterraneo. Diritto all’approdo

Atlas Cosmographicae (Mercator)

E’ stato il mare di tutti: molti lo hanno varcato e i più se lo sono anche intitolato. Gerardo Mercatore, nel suo mitico Atlante del 1596, scrisse che “Medater (il Mediterraneo) riceve più nomi in rapporto alle terre sino alle quali arriva”. Sumeri ed Egizi lo chiamarono “Mare Superiore”; nell’antica Bibbia “Mare Grande”, “Mare Ultimo” e persino “Mare dei Filistei”. Talvolta solo “Mare”, con la m maiuscola. “Mare Grande” anche per Erodoto, mentre per Tucidide, nelle sue “Guerre del Peloponneso”, “Mare Ellenico”. Per gli Ellenici, dunque, il Mare divenne il “nostro mare” così come di lì, e per molto tempo, per i Romani: mare nostrum. Il Platone del Fedone, stranamente più pudico che in altri frangenti, ne parlò solo come “il mare che si trova accanto a noi”. L’origine del nome, di derivazione latina ,“Mediterraneo” (mediterraneus), a cui il grammatico Festus propose, senza grande successo, di mutarlo nel più elegante mediterreus, ovvero quello che sta in mezzo ad altre terre[1], pare che provenga da un antico scritto greco attribuito ad Aristotele, De mundo, in cui si discuteva del he eso thalassa, ovvero del mare interno in contrapposizione a quello esterno o degli Oceani. Gli Arabi e dopo di loro i Turchi lo chiamarono “mare di Rumelia” (romano-bizantino): al-bahar al-rum. Gli storici Ibn Aldun e Al-Idrisi lo denominarono “mare di Siria”. Al-bahr sta per grande quantità d’acqua e fu uno dei nomi del Nilo; lo stesso significato ha l’arcaico termine semitico iami, comune anche agli ebrei. Mediterraneo denominato anche “mare del Nord” per chi stava a sud e “mare del Sud” per chi stava a nord, come nel poema geografico rinascimentale “La Sfera” di G. Dati. Persino, ma senza alcun valore rafforzativo, “d’Africa il mare” nell’Ariosto al principio dell’Orlando Furioso. Forse le narrazioni migliori sulla precarietà delle definizioni e del senso dei luoghi: “il mare è assoluto, le sue denominazioni sono relative, direbbe il glossatore H. Jal”. E poi i mari ebbero un colore, alcuni ancora appiccicato addosso (Mar Rosso, Mar Nero), mentre altri se lo son levato da un pezzo: e il Mediterraneo divenne così il Mare Bianco (boreia thalassa) sia per coloro che lo osservavano da Sud, come Erodoto in Egitto, sia per gli arabi levantini (al-bahr al-abyad) o per i Turchi (Ak-deniz); o, ancora, per i popoli slavi del sud e per i Bulgari che narrano, nelle loro canzoni popolari, del Mare Bianco. Ma, d’altra parte, come stupirsene visto che anche una Costa si colorò di Azzurro; un fiume, il Nilo, di bianco e azzurro e ugualmente delle intere nazioni, come l’Albania, di bianco (alba: bianco); o altre ancora di Bianco e Rosso (la Croazia) e molte altre, in seguito, presero tinte e sembianze diverse. (Matvejevic:1991)

Biamonti rivelò che il Mediterraneo è antico e tragico: ha la cupa gioia della tragedia, una gioia che viene dalla luce e una tragedia che viene dalla lucidità. (Biamonti: 2008) “Che cos’ha questo mare che gli altri mari non hanno?” E Corbières così rispose in punto di morte: “una luce che se ne stacca sempre con dolcezza. Può essere calmo o in tempesta, la luce è sempre la stessa. Non la incontrerò mai più”. (Biamonti:1998) Un mare di diamanti estremi: un varco, ma anche il deserto. Per Jean Giono “c’è un’passato venerando” nei gesti che legano gli uomini del Mediterraneo attraverso il tempo e lo spazio: “gli spagnoli delle sierre cavalcheranno il loro asino come i libanesi; il bacchiatore di olive del Var colpirà il suo albero come il battitore di Delfi; vediamo vicino ad Aigues-Mortes gli stessi miraggi di calore d’Alessandria d’Egitto; i pescatori di tonno di Carro trascinano la loro madraga cantando le canzoni dei pescatori di Tiro o di Pelusio; sembra che sia stato lo stesso piede ad animare i torni che hanno realizzato i vasi di Creta e quelli delle Baleari e di Tangeri; in agosto Marsiglia dorme come dormiva Cartagine; Cartagena fa essiccare le sue uve come Rodi”…(Giono: 1993) Senza dubbio Giono lesse “il Mediterraneo” delle mille cose insieme e degli innumerevoli paesaggi di Fernand Braudel: “Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre. Viaggiare nel Mediterraneo significa incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città greche in Sicilia, la presenza araba in Spagna, l’Islam turco in Iugoslavia. Significa sprofondare nell’abisso dei secoli, fino alle costruzioni megalitiche di Malta o alle piramidi d’Egitto. Significa incontrare realtà antichissime, ancora vive, a fianco dell’ultramoderno: accanto a Venezia, nella sua falsa immobilità, l’imponente agglomerato di Mestre; accanto alla barca del pescatore, che è ancora quella di Ulisse, il peschereccio devastatore dei fondali marini o le enormi petroliere. Significa immergersi negli arcaismi dei mondi insulari e nello stesso tempo stupire di fronte all’estrema giovinezza di città molto antiche, aperte a tutti i venti della cultura e del profitto, e che da secoli sorvegliano e consumano il mare. Tutto questo perché il Mediterraneo è un crocevia antichissimo. Da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma, vetture, merci, navi, idee, religioni, modi di vivere. E anche le piante. Le credete mediterranee. Ebbene, a eccezione dell’ulivo, della vite e del grano – autoctoni di precocissimo insediamento – sono nate quasi tutte lontano dal mare arance, limoni, mandarini…dall’Estremo Oriente, sono stati introdotti dagli arabi…agavi, aloe, fichi d’India…dall’America…gli eucalipti, che pure portano un nome greco, dall’Australia. E i cipressi, a loro volta, sono persiani…e quante sorprese al momento del pasto: il pomodoro, peruviano; la melanzana, indiana; il peperoncino, originario della Guyana; il mais, messicano; il riso, dono degli arabi; per non parlare del fagiolo, della patata, del pesco, montanaro cinese divenuto iraniano, o del tabacco…” (Braudel: 2002).

Ma andare per questi mille mari e per queste civiltà accatastate “non significa disancorarsi dalla terra ferma, dai luoghi che si amano, ma significa proiettare se stessi su un muro lontano. […] È confrontarsi con qualcosa che annichilisce e, nello stesso tempo, esalta la condizione umana. Ma c’è anche una parte di annichilimento. E la vita, la terra, rappresenta questo senso della concretezza, dell’attaccamento alle piccole cose, alla quotidianità, che nella sua ripetizione è conforto, diventa quasi un punto sacro… Un punto sacro a cui l’uomo si àncora contro il delirio del cosmo, contro questa dispersione del cosmo”. (Cipriani: 2008)

E questo punto sacro è il diritto di tutti all’approdo.

Bibliografia.

Francesco Biamonti, L’angelo di Avrigue, Einaudi, Torino 1983

Francesco Biamonti, Vento largo, Einaudi, Torino 1991.

Francesco Biamonti, Attesa sul mare, Einaudi, Torino 1994

Francesco Biamonti, Le parole la notte, Einaudi, Torino 1998

Francesco Biamonti, Scritti e parlati, Einaudi, Torino 2008

Fernad Braudel, Mediterraneo, Bompiani, Milano 2002

Fernad Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino 2010

Elio Cipriani, “Destino umano è abitare un mondo. A colloquio con Francesco Biamonti”, in Lettere dall’acqua. Colloqui di fine millennio su acque e dintorni, Edizioni del Girasole, Ravenna 2008

Jean Giono, “Méditerranée”, in Provence, Paris, Gallimard, 1993

Giorgio Mangani, Cartografia morale. Geografia, persuasione, identità, Franco Cosimo Panini, Modena 2006

Predrag Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario. Garzanti, Milano 1991

Francesco Pronetra (a cura di), Geografia e geografi del mondo antico. Guida storica e critica, Laterza, Bari-Roma 1990

Massino Quaini, L’ombra del paesaggio. L’orizzonte di un’utopia conviviale, Diabasis, Reggio Emilia 2006

[1] Nell’antichità con mediterraneus si indicavano oltre che il mare anche tutte le terre di mezzo, come mediterranea Galliae, ovvero le parti continentali della Gallia)

Parole per descrivere il vino nel Medioevo

 

Bruno Andreolli1 compie un viaggio all’interno della lessicografia medievale analizzando i tre lessici medievali più importanti: Papias Vocabulista2, compilato nel secolo XI, le Magnae Derivationes di Uguccione da Pisa3 e il Chatolicon di Giovanni Balbi4. «(…) Emergeva come centrale il ruolo riservato alla massima ‘nomina sunt consequentia rerum’, la quale postulava l’esistenza di un sistema di corrispondenze obbligate tra i nomina iuris e la realtà empirica, che il giurista s’industriava di serrare entro le maglie interpretative del proprio discorso analitico: il processo di formazione dei nomi non era semplicemente formale e linguistico, ma era in primo luogo materiale e concreto. Come nella gerarchia dell’essere cosa derivava da cosa, così, conseguentemente, e quasi specularmene, nella struttura della lingua, nome derivava da nome5.» Nelle opzioni classificatorie del lessicografo tutti e tre gli autori fanno una netta distinzione tra la vite, l’uva e il vino: «la vite assume il nome prevalentemente dalla regione di primo e più diffuso impianto né si mostrano particolari attenzioni alle sue tecniche di coltivazione (…) sorprende il fatto che tra gli alberi particolarmente adatti a svolgere la funzione di sostegno vivo della vite non venga registrato l’acero campestre, diffusissimo invece nelle piantate medievali italiane di bassa pianura6». L’uva invece viene classificata in base ad elementi esteriori ed il collegamento con il vitigno di provenienza viene menzionato solo in riferimento alla regione di provenienza: «Et nota quod vitium vel uvarum multa sunt genera7». Per quanto riguarda il vino, invece, i riferimenti descrittivi sono più portati, come per Papias, alle sue funzioni piuttosto che alle sue caratteristiche organolettiche e, in particolare, a quelle mediche e terapeutiche. Altri riferimenti sono di carattere morale, come quelli del domenicano Balbi: «Lieus scilicet Bachus et dicitur a lien quod est speln quia a splene risus procedit et ebrii quasi sempre rident. Vel de a ligo quod ligat linguam et impedit. Vel a lienon quod est lene quod multo vino membra solvantur et leniantur8.» Per ciò che riguarda la lessicografia descrittiva medievale bisogna innanzitutto riconoscere che la formazione principale del gusto proviene da due mondi tra loro collegati: la gastronomia e la dietetica.9 Sapori che vengono comunemente associati ai principi attivi delle sostanze per cui, ad esempio, l’amaro viene considerato da Ibn Butlān10 come poco nutritivo e lassativo. Altri aggettivi, come quello di ‘pontico’, che viene tradotto come pungente, sono totalmente scomparsi dal nostro vocabolario. «Il gusto, dunque, inteso come strumento sensoriale, e i ‘gusti’ come l’insieme dei piaceri gustativi di ciascuno cumulano le funzioni di strumento di conoscenza e di guida in tema di scelte alimentari11.» Vari testi concordano sulla pregevolezza dei vini invecchiati, che vanno mediamente dai quattro ai sette anni: essi assumono con il passare del tempo un carattere amaro e, condizione questa molto gradita già dalle élite romane, assai secco e caldo. Non vengono apprezzati invece i vini molto invecchiati alla stessa stregua di quelli eccessivamente giovani, mentre quelli collocati in un giusto mezzo, sempre assecondando le specificità fisiche, mentali e dell’età del bevitore, secondo la tradizione ippocratico – galenica12, sono quelli tenuti in maggior conto: «De vinis Vina probantur odore, sapore, nitore, colore. Si bona vina cupis, haec quinque probantur in illis, fortia, formosa, fragrantia, frigida, frisca. XIII De vino candido et rubeo/ Sunt nutritiva plus dulcia candida vina /Si vinum rubeum nimium quandoque bibatur, venter stipatur, vox limpida turbificatur13

Anche  il colore  viene valutato come criterio di definizione della qualità intrinseca di un vino: se l’Enciclopedia di Bartolomeo Anglico14 definisce in sei i colori distintivi del vino, ovvero il nero, il bianco, il glauco (verde pallido), il giallo limone, il rosato e il rossiccio, Aldobrandino da Siena15 li riduce a quattro: il bianco, un bianco che tende al rosso, il rosso e il nero. Bartolomeo Anglico preferisce il vino rosso a cui dedica un intero capitolo: deve essere annacquato così che il consumo ne risulti profittevole per la salute, in particolare per gli anziani a cui correggerebbe gli umori freddi. Il vino rosso può essere dolce o di sapore ‘poignant’, ovvero ‘nervoso’, che ha del ‘mordente’. Nel «Segreto dei segreti», così come nel testo di Pier de’ Crescenzi, il colore del vino muta a seconda del grappolo d’uva di partenza: per il primo dal grappolo bianco il colore sarà acquoso, poi si passerà all’anno ad un colore più colorato e più bianco, al secondo anno più colorato, color ramo di palma ed infine dopo tre o quattro anni e più al color giallo limone. Per il secondo si passa da un bianco acquoso all’inizio della maturazione, al color biancastro, al color pallido per arrivare al color limone. Dai grappoli rossi per il «Segret…» si passa da un colore che tende al bianco, ad un vino rosso pallido, color di rosa al rosso e si finisce con il rossiccio. Per de’ Crescenzi si va da un colore quasi bianco se il vino non è cuvée (miscela di uve), al rosato sino al color rossiccio. Infine, dai grappoli neri, per il «Segret…», si passa da un colore iniziale nero e scuro ad uno più chiaro meno nero, ma non ancora rosso, e si termina con il rosso intenso. Nell’ ‘Opus ruralium…’ si varia dal molto nero al colore intermedio tra il rosso e il nero e si chiude con il colore rosso. I sapori dei vini variano dal debole, forte, dolce, verde o agro di Aldobrandino al dolce, mordente, acuto di Bartolomeo Anglico. Altri aggiungono qualità deteriori del vino, come il ‘Segret…’ che parla di sostanza torbida, spessa e nera. Viene anche stabilita un’opposizione tra vino dolce, caldo e secco e vini agri, ma di acidità non eccessiva, che hanno un carattere più terroso di quelli caldi. Pier de’ Crescenzi identifica le qualità migliori nel vino dolce, che è caldo e più nutriente, individuando nel dolce, nel mordente e nell’acuto, nel forte e nell’insapore le qualità, positive e negative, di un vino. Molte delle valutazioni gustative lo sono a partire dall’uva. L’odore va di pari passo con il sapore e ne segue sostanzialmente le caratteristiche, anche se in maniera molto generica: solitamente i vini vengono distinti in una diarchia che comprende buoni e cattivi odori. La forza o vinosità di un vino viene sostanzialmente collegata al tenore alcolico dello stesso, e quindi al ‘calore’ e la sostanza, che rimanda sia al concetto di limpidezza che di materia, alla concentrazione e alla corposità di un vino. Per gli autori medievali solitamente la limpidezza si contrappone allo spessore e la sostanza di un vino si riferisce al primo dei termini (limpidezza), conferendone una valutazione di pregio. Non si può certo dimenticare che la produzione delle varie tipologie di vino, strettamente legate alla loro qualità, è direttamente collegata  a quelle pratiche enologiche di produzione che illuminano sulla divisione sociale in classi: «(…)il vino fiore, sia che fosse vinificato in bianco, sia che fosse in rosso, era consumato in gran parte dai ceti più agiati, mentre i vini di torchio, e i vinelli e mezzi vini erano destinati ai ceti contadini e venivano acquistati o prodotti dai padroni per il consumo dei loro dipendenti (salariati o prestatori di corvées)16.» Per il vino di qualità, che è già menzionato da Varrone, il mosto viene separato dalla vinaccia e dai graspi e viene ricavato o con il semplice sgrondo dell’uva ammostata, o con ripetute sgrondature, o con ripetute torchiature o con l’imposizione di pesi sulla vinaccia. In de’ Crescsenzi si fa riferimento ad una tinozza quadra, detta cratis o pistarola, dove vengono pigiate le uve, il cui mosto puro viene fatto passare in un tino sottostante, per una fermentazione senza vinaccioli e graspi. Di minor pregio, poi, il vinum tortivum, ottenuto dalla seconda o terza torchiatura delle vinacce sgretolate, e dove non vi sia un torchio l’indicazione, come per lo statuto di Ravenna, è quello di utilizzare dei grossi pesi. Lo stesso dicasi per i vinelli detti anche acquaticci e dei mezzi vini, i primi prodotti dalle fermentazioni delle rifermentazioni di vinacce sgrondate con imprecisate quantità d’acqua, mentre per i secondi viene usata una quantità d’acqua pari alle uve ammostate.

1 [1] Bruno Andreolli, La terminologia vitivinicola nei lessici medievali italiani, in Jean-Louis Gaulin e Allen J. Greco (a cura di), Dalla vite al vino. Fonti e problemi della vitivinicoltura italiana medievale, Editrice Clueb, Bologna 1994, pp. 15 – 37

2 [1] Già alla fine del Quattrocento in varie città italiane s’iniziò ad avvertire l’esigenza di definire e codificare il volgare in raccolte che avessero pari autorità rispetto ai repertori latini e a quelli latino-volgari. I primi esperimenti di compilazioni monolingui furono fatti in Toscana, la regione nella quale il volgare aveva raggiunto risultati d’altissimo livello nella poesia e nella prosa. Il primo esempio è il Vocabulista del poeta e umanista Luigi Pulci, consistente in una lista alfabetica d’oltre settecento vocaboli, seguiti da una breve definizione. Si tratta, probabilmente, di un dizionarietto concepito per uso personale, con una funzione solo autodidattica, confermata dalla presenza di molte delle voci raccolte poi nel Morgante.

3 [1] Uguccióne (lat. Huguccio o Hugo) da Pisa. – Canonista e lessicografo (n. Pisa forse intorno al 1130 – m. Ferrara 1210). Scolaro a Bologna già prima del 1156, vi fu professore di diritto canonico dal 1178 al più tardi fino al 1190, quando fu nominato vescovo di Ferrara. Da vescovo esercitò importanti incarichi religiosi e anche politici. Rielaborò e accrebbe il lessico di Papia in un’analoga compilazione: le famose Derivationes, di grande autorità e diffusione per più secoli, che furono il lessico di Dante. Come canonista, U. lasciò una Summa al Decretum di Graziano (compiuta verso il 1188-90), con la lacuna delle causae XXIII-XXVI riempita poi da Giovanni di Dio (1250): per vastità e profondità di pensiero, il maggiore commentario di Graziano. Da treccani.it

4[1] Giovanni Balbi da Genova. Lessicografo (m. 1298 circa), domenicano; scrisse le Postillae super evangelia e un trattato teologico in forma di dialogo, il Dialogus super quaestionibus animae ad spiritum. Sua opera maggiore è il Catholicum (1286), vasto lessico latino con ampie digressioni grammaticali, etimologiche e sintattiche, molto usato nei secc. 14º-15º; un’edizione di esso (1460) si crede stampata da Gutenberg.

5 Mario Montorzi, Tra retorica ed enciclopedia: l’ontologismo linguistico del giurista medievale. (2b), Sapienza, 9 in cos22.humnet.unipi.it/cartella/Montorzi%20Mario.doc

6[1] Bruno Andreolli, cit. pag. 30

7[1] Uguccione, citato in Bruno Andreolli, Ivi. pag. 29, prende a prestito del suo impianto etimologico quello descritto da Isidoro mentre tralascia la classificazione di Virgilio-Servio I venti libri delle Etymologiae costituiscono l’opera isidoriana di maggiore rilievo, in cui è condensato tutto il sapere del passato a partire dalle arti liberali, a cui si vanno ad aggiungere la medicina, le leggi e la storia, i libri e gli uffici ecclesiastici, la teologia, argomenti concernenti la Chiesa e le sette, le lingue, i popoli, i regni e le parentele, le parole rare, l’uomo e i mostri, gli animali, il mondo e le sue parti, la terra e le sue parti, gli edifici, i campi e le strade, le pietre ed i metalli, l’agricoltura, la guerra ed i giochi, le navi, le costruzioni ed i costumi, gli utensili ecc. La struttura di quest’opera, così flessibile da consentire ad Isidoro di raccogliere dati in qualsiasi contesto e direzione, è quella di un lessico: si parte da una vox, la cui spiegazione (che può essere ‘secundum naturam’ o ‘secundum propositum’) facilita la comprensione della res a cui fa riferimento: sebbene molte delle etimologie in esso individuate possano risultare arbitrarie e l’opera non abbia carattere di originalità, la sua importanza all’intero di un contesto culturale fortemente deteriorato fu molto grande. Isidoro non celò mai il carattere riassuntivo delle sue opere, inserendo in genere una piccola premessa che indicava al lettore che ciò che stava leggendo era materiale proposto (senza alcun arbitrio), al vaglio critico del lettore, al quale era anche affidata la possibilità di correggerlo qualora ne avesse avvertito la necessità. Gran parte delle Etymologiae è riservata a ricerche di carattere grammaticale, ma in esse non è trascurato neppure ciò che può risultare utile ad acquisire una educazione filosofico-teologica: vi si trovano infatti estratti desunti dalle opere di scrittori classici e dai padri della Chiesa (in particolare Gregorio Magno). Isidoro non si prefigge il compito di dare al lettore una conoscenza approfondita delle materie trattate, preoccupandosi piuttosto di fornire un prezioso strumento di orientamento.Da http://www.unisi.it/ricerca/prog/fil-med-online/autori/htm/isidoro_siviglia.htm

8 [1] Papias citato in Bruno Andreolli, pp.32,33

9 [1] Su questo punto rimando per intero al libro di Yann Grappe, Sulle tracce del gusto. Storia e cultura del vino nel Medioevo, Edizioni Laterza, Bari – Roma 2006

10 [1] Abū al-Ḥasan al-Mukhtār ibn ‘Abdūn (in arabo: ابو الحسن المختار ابن عبدون ابن بطلان‎), meglio conosciuto come Ibn Buṭlān (Bagdad, 1001 – Antiochia, 1038, 1052, o 1066) fu un medico iracheno di fede cristiana.

11[1] Yann Grappe, cit. pag. 82.

12 [1] La Dottrina Umorale

Come illustrato da Galeno e dai medici della tradizione galenica medievale, lo stato di salute dell’uomo e degli animali sanguiferi è legato al perfetto equilibrio e commistione dei quattro umori, sanguis, pituita, biles duae, flava atraque (Galeno, 1597, «Finitiones medicae» in Libri Isagogici: 44 r) e delle loro proprietà o qualità primarie, siccitas, humiditas, caliditas, frigiditas (ID: «De temperamentis», I 8, in Prima Classis: 14 r).

Cfr. Vittorio Bartoli, L’idropisia di maestro Adamo in Inferno XXX. Importanza della dottrina umorale di Galeno nel medioevo , Università di Firenze http://www.ucm.es/info/italiano/acd/tenzone/t8/BARTOLI.pdf

13 [1] Regimen Sanitatis Salernitanum

È uno dei più famosi poemi della storia della medicina e della letteratura. La sua stesura sembrerebbe collocarsi tra il XII e il XIII sec. e ce ne sono pervenute circa cento versioni manoscritte e circa 300 stampe. René Moreau, uno studioso seicentesco del Regimen, sostiene che l’allora futuro re d’Inghilterra Roberto, figlio di Guglielmo il Conquistatore, si fermò a Salerno sulla via del ritorno dalle crociate per curarsi le ferite provocate dai combattimenti. I medici salernitani non solo lo curarono, ma gli dedicarono anche un manoscritto contenente precetti per una vita ed un’alimentazione sane e corrette. In tutta Europa circolarono diverse edizioni e versioni del Regimen, complete di commenti che aggiungevano o toglievano elementi dalla versione originale. L’opera fu tradotta in diverse lingue e continuamente resa attuale rispetto ai contesti storici in cui veniva riedita. Il poema divenne famoso e tenuto in grande considerazione in ambito medico sino al XIX sec. Ancora oggi sono in voga nel nostro linguaggio termini ed espressioni coniati proprio nel Regimen come ‘cattivo umore’, ‘sangue marcio’, etc.. L’opera Si basa su consigli di uso comune e ciò ne fa anche uno strumento di conoscenza degli usi e dei costumi, delle credenze, e delle pratiche medievali.

http://www.associazioneermes.it/Regimen.htm

14 [1] Bartholomaeus Anglicus. Bartholomaeus or Bartholomeus Anglicus, or Bartholomew the Englishman, was a Franciscan monk of the thirteenth century. He is sometimes confused with another Franciscan and Englishman, Bartholomaeus of Glanville, Glanvilla, or Glaunvilla, who died about 1360. Bartholomaeus Anglicus was born in Suffolk, England in the late twelfth century; the exact date is unknown. He studied natural sciences and theology at Oxford under Robert Grosseteste, then went to Paris to study and teach at the university there. He joined the newly-established Franciscan Order around 1224 or 1225, but continued to teach in Paris. In 1231 he went to Magdenburg in Germany to be a lecturer at the studium. It was there that he wrote his encyclopedia, De proprietatibus rerum (On the nature of things, or On the properties of things), some time before 1260 (probably between 1242 and 1247). http://www.summagallicana.it/Emblemata/Arte/Pittura/Manoscritti_medievali/manoscritti_medievali.htm

15 [1] Tracciare un profilo biografico dell’autore del Régime du corps è un’impresa semplice solo in apparenza. Il prologo dell’opera è piuttosto corposo e ricco di particolari sulle circostanze di composizione, e possiede quindi l’apparenza di uno strumento in grado di rispondere ad ogni domanda. A minare il comprensibile ottimismo dello studioso vengono tuttavia due osservazioni. Innanzitutto il prologo in questione non è originale e fu aggiunto all’opera in un momento successivo alla sua composizione. Dunque è dovuto al curatore della copia o allo stesso copista, e lo si deduce non solo dal riferirsi ad Aldobrandino in terza persona, ma anche da alcune specifiche espressioni utilizzate, difficilmente attribuibili all’autore. Questo guardando al contenuto del prologo, ma una seconda smentita alla sua affidabilità ci viene dal confronto con il resto della tradizione. Solo sei manoscritti, su un totale di circa settanta, lo riportano. Gli altri testimoni in alcuni casi ne risultano privi, in altri hanno aggiunte o brevi intestazioni nelle quali si trovano notizie difficilmente conciliabili fra loro, se non del tutto contrastanti. Aiuto altrettanto esiguo viene dalle fonti documentarie, in complesso scarse e poco attendibili. Le uniche significative si riferiscono agli ultimi anni di vita, trascorsi da Aldobrandino in Francia. Per i periodi precedenti, e in particolare per gli anni in cui dimorò in Italia, mancano del tutto le certezze. A complicare le idee contribuirono le cosiddette ‘carte di Arborea’, venute alla luce nel XIX secolo, che riportavano notizie false e fuorvianti. Tale carenza di informazioni stupisce riflettendo sulla fama di cui godette il medico Aldobrandino. Di questa fama non possiamo dubitare se sommiamo alcune considerazioni. Tra gli ipotetici committenti del Régime figurano, accanto a Beatrice di Savoia, contessa di Provenza, personaggi quali il re di Francia Luigi IX e l’imperatore Federico II. Cfr. Sebastiano Bisson, Una versione latina del ‘Régime du corps’ di Aldobrandino da Siena (Oxford, Bodleian Library, Canon. misc. 388), tesi presso la ‘Scuola di specializzazione per conservatori di beni archivistici e librari della civiltà medievale’ dell’Università di Cassino, 2001.

16 [1] Gianfranco Pasquali, Il mosto, la vinaccia, il torchio, dall’alto al basso Medioevo: ricerca della qualità o del massimo rendimento?, in Jean-Louis Gaulin e Allen J. Grieco, Dalla vite al vino. Fonti e problemi della vitivinicoltura medievale, Clueb, Bologna 1994, cit. pag. 43

 

 

 

 

 

Vini bruschi, aspri ed anche un po’ stitici, che fanno danzare le capre.

Sarebbe ora di reintrodurre un termine medievale, di dubbia derivazione etimologica latina, l’aggettivo “pontico” (ponticus), che veniva adoperato per descrivere gli alimenti dal sapore brusco e aspro. Pier de’ Crescenzi utilizzò l’aggettivo pontico, nella sua opera “Opus ruralium commodorum libri XII”, a proposito delle diversità del sapore del vini: “La diversità del vino è per lo sapore, imperocchè altro è dolce, altro pontico, cioè brusco.” (Cr. 4. 48. 11.) In un altro passaggio De’ Crescenzi associa al termine pontico quello di terrestre: “Il pontico, e terrestre, ha aspro sapore.” Poi ancora: “L’afre (cotogne) ovvero pontiche, e stitiche, sono più fredde, e più dure a smaltire.” (E Cr. 5. 7. 7.)

In altre varianti terminologiche, ad esempio di uso medico, la parola pontico si associava alla stipsi, ovvero alla stitichezza. Così la Scuola medica Salernitana sostenne che il vino pontico “bene conforta lo stomaco, ma lo ventre costipa”. Lo stesso asserì un Herbolario volgare del 1522 quando affermò che “li pomi cotogni sono pontici, ovvero stitici”. E, dunque, il medico bolognese Baldassarre Pisanelli, nel suo “Trattato de’ cibi, et del bere” del 1611, citò il pontico a proposito delle prugne “verdi, dure, acerbe e pontiche”. Per concludere la carrellata anche il Gemelli, nel 1693, accomunò l’aggettivo pontico ad un vino spiacente. Insomma un gusto tra l’aspro, l’amaro e il pungente. Tutt’altro che gradevole.

In Francia, quasi nello stesso periodo, si parlava di vini estremamente acerbi, di vini piccoli (di poco valore) e la parola usata per descriverli è quella di ginguets : “Il y a des mots qui naissent entre nous par hazard et auxquels le peuple donne cours sans savoir pourquoi. En l’an 1554 nous eusmes des vins infiniment verds, que l’on appela ginguets”. (Ci sono parole che nascono tra di noi per caso e a cui le persone danno corso senza sapere perché. Nel 1554 abbiamo avuto vini infinitamente verdi, chiamati ginguets.  Pasquier Recherches, VIII, 43)

Sono i vini che, qualche secolo più tardi, lo scrittore Jean Giono evocò nel suo racconto « Le petit vin de Prébois” (il racconto è contenuto in “Faust au village” – 1977). Prébois è un minuscolo paesino di 160 anime nella regione di Triéves, dipartimento dell’Isére, nell’Alto Delfinato. La regione, dominata dal monte Aiuguille, è circondata da quello che lo scrittore descrive come “un chiostro di montagne”. “Troppo alti per avere delle vigne”- dicevanogli abitanti – “eppure ce le abbiamo. Dobbiamo averne circa seimila piedi. Tutti ne possiedono un pezzetto. Il nostro vino della festa è un miscuglio del verde più chiaro e dell’oro più dolce. (…) Ma come fate a berlo?- gli hanno chiesto mille volte – “Come facciamo? Ma noi non ci sforziamo; semmai dobbiamo fare uno sforzo per smettere di berlo. Ci piace che sia così aspro e acerbo, che raspi in gola, e che a qualcuno faccia anche lacrimare gli occhi[1]”. Un vino acerbo, come ci spiega Furetière, che fa danzare le capre: “Petit vin qui n’a ni force ni agréement au goust, mais qui est extremement verd. Tout le vignoble d’Ivry, de Vitry, &c. ne produit que du ginguet, du vin à faire danser les chevres.” (Un vino piccolo che non è né forte né piacevole alla vista, ma che è estremamente verde. Tutto il vigneto di Ivry, di Vitry, &c. produce solo ginguet, un vino per far ballare le capreFuretière Antoine 1619-1688. Dictionnaire universel)


[1] Jean – Luc Hennig, Eros & Vino, Sonzogno editore, Milano 2005, pp. 33, 34

Foto tratta da wikipedia Autore Nino Barbieri