Azienda agricola Rocca Rondinaria a Rocca Grimalda. Due giovani viticoltori di nobile età si raccontano

Vigna Bernarda/Vallegrande. Di qua

In premessa.

Nell’autunno del 1975 Mario Soldati, mentre si trovava all’osteria del Cavallino Bianco di Rocca Grimalda in un momento “di commozione per tutte le virtù del passato”, si domandò: “non è strano che io riconosca finalmente il vecchio Piemonte in un paese ai confini con la Liguria e dopo essermi ricordato di un vino che è ‘piemontese di Liguria’?” Se un viaggiatore dell’Ottocento si fosse arrampicato sino a lì ed avesse aguzzato la vista “avrebbe notato il bianco nastro inghiaiato della strada da Ovada ad Alessandria, proprio sotto Rocca Grimalda e avrebbe probabilmente intuito, più che visto, dall’altra parte della valle, l’altra via di comunicazione, la strada da Ovada a Novi Ligure, quasi parallela per un lungo tratto alla prima. Tutto intorno, costante principale del territorio e del paesaggio, le colline dell’Alto Monferrato già ricordate da Fernand Braudel, contemporaneamente determinante fisica ed umana, poiché modificata profondamente dall’azione dell’uomo in una sorta di continua sfida e risposta nella lotta per la sopravvivenza, segnate dai boschi e dai campi, dagli appezzamenti di terreno coltivati a grano e a meliga, dai filari dei gelsi ma soprattutto dalla coltivazione della vite, pianta che iniziava proprio allora, a metà Ottocento, a segnare profondamente l’economia, la società e la cultura dell’intero Ovadese”. (Giancarlo Subbrero, Rocca Grimalda: un profilo di storia economica e sociale fra Ottocento e Novecento, in Accademia Urbense – Ovada, Rocca Grimalda, una storia millenaria, Comune di Ovada 1990)
Forse quel filo lontano, che si era spezzato da immemori traversate nel deserto dell’approssimazione modernista del “quanto basta di scarsa qualità a poco prezzo purché si venda qui”, si sta riannodando poco alla volta: sono in tanti da quelle parti a crederci e altri ne stanno arrivando. Il consorzio dell’Ovada docg li contiene oramai quasi tutti: la lotta più dura non l’hanno fatta con la terra, che sta dalla loro parte, rossa o bianca che sia, e neppure con il dolcetto, che sta pure dalla loro parte e nemmeno, ancora, con il cielo, con l’acqua, con l’odio, con la peronospora, con i cicli lunari o con le parlate che rimbalzano al di qua e al di là dell’Appennino, ma con le loro teste e con quel silenzio che diffida pure di se stesso. In un reticolo di borghi con poche anime e di boschi che si riprendono il maltolto, mi fermo a Rocca Grimalda da due giovani viticoltori di nobile età, Giovanna De Rege e Lucesio Venturini, e con loro chiacchiero del perché e del per come.

Vigna Bernarda/Vallegrande. Di là

Come è iniziata la vostra storia?
Giovanna De Rege: “Abbiamo iniziato a conoscere questo mondo con una piccola avventura nell’Appennino Ligure, dove, nel tempo libero, abbiamo proposto, ai nostri figli che crescevano, tante piccole esperienze: dall’allevamento dei cavalli da pascolo, alla produzione sperimentale di zafferano, all’accudimento di tutti gli animali della fattoria, maiali compresi. A settembre non mancavamo mai l’appuntamento con la vendemmia del dolcetto a Rocca Grimalda, piccolo borgo medievale nell’Alto Monferrato, con i parenti di Lucesio, la cui nonna era appunto di qui. Il cugino Nanni sarà poi il nostro primo riferimento nell’affrontare questa nuova impresa, in quanto bottaio e vignaiolo storico di Rocca. Con lui abbiamo scelto le vigne storiche posizionate in zone di grande rinomanza qualitativa e con lui abbiamo iniziato la vinificazione antica, mantenendo la pigiatura con i piedi e la fermentazione con i raspi”.

Ma fate avanti e indietro da Genova?
Giovanna De Rege: “No, ormai da una ventina di anni ci siamo trasferiti a vivere nel castello di Rocca, insieme ad altre 3 sorelle, parte della nostra numerosa famiglia. Ognuno di noi ha sviluppato l’anima del castello che le era più congeniale: l’ospitalità, la mondanità, l’arte ed ovviamente noi quella agricola. Diventati vignaioli a tempo pieno abbiamo fatto la nostra prima vinificazione nel 2007 e abbiamo proposto i nostri vini dal 2011. Come piccolissimi produttori, la qualità dei vigneti e la tipicità dei vini erano i nostri principali obiettivi, ci siamo così dedicati al recupero di vecchie vigne storiche ormai da lungo tempo abbandonate, note per la qualità dei vini che producevano, ma oggi divenute boschi di invasione. Questo ci ha permesso di lavorare in terreni riposati e sani, fortemente bio-diversificati, dove avremmo potuto condurre la nostra attività nel rispetto dei principi e delle pratiche biologiche e biodinamiche. Per ora siamo riusciti a riattivare due vecchie vigne storiche di dolcetto e a vitare complessivamente ca 4,5 ht.” https://www.roccarondinaria.com/

Dove sono dislocate le vostre vigne?
Lucesio Venturini: “La vigna principale occupa un anfiteatro naturale in località detta Bernardina/Vallegrande, affacciata sul fiume Orba, forte pendenza, esposizione Sud – Sud/Est. Intorno ad una porzione di vecchia vigna, (ceppi oltre 60 anni) si è sviluppato il nuovo impianto, recuperando i terreni dalla pulizia del bosco trentennale. Abbiamo cercato di mantenere ogni traccia della storia del luogo riproducendo, dalle poche piante di vite maritata ritrovate, delle barbatelle di dolcetto da introdurre all’interno della selezione massale delle viti e abbiamo dedicato una parte del vigneto ad una varietà di dolcetto, tipica del nostro territorio, chiamata ‘nibio’. E’ quasi terminato anche l’impianto del versante Sud-Est Sud-Ovest, nella porzione di terreno detta Bernarda dal nome della cascina sottostante, oggi quasi totalmente distrutta. Questa vigna si trova in faccia a San Lorenzo e proprio alle spalle dell’abitazione di Pino Ratto e della vigna degli Scarsi E’ alle sue indicazioni e incoraggiamenti che dobbiamo il progetto di riportare in auge questo storico vigneto che Pino annoverava tra i migliori”.

Ed ora ditemi un po’ dei terreni: bianchi o rossi?
Giovanna De Rege: “Terra bianca, magra ben drenata, presenza di rocce calcaree affioranti, pendenze estreme (superiore al 30%), vigna a giro-poggio, potatura guyot, sviluppo delle piante molto contenuto, rese molto basse. Ci circondano i boschi e a primavera, fanno capolino, al limitare della vigna, le orchidee botaniche. Lungo la vigna spiccano i ciuffi di spighe blu dell’issopo officinale, pianta storicamente presente lungo i vigneti per aumentarne la fertilità. Le lavorazioni sono molto tradizionali, vuoi per la forte pendenza), vuoi per scelte agronomiche: poco uso del trattore, sovescio o sfalcio con pacciamatura. La tipicità di questi vigneti è dovuta alla loro esposizione alle brezze marine e alla presenza di un suolo che racconta ancora il mare di quando le loro colline erano sommerse. E’ stato un lavoro molto lungo e impegnativo che ha comportato tra l’altro la laboriosa ricomposizione delle piccole proprietà, per permetterci oggi di avere uno sviluppo continuo di vigna ad abbracciare, su diversi versanti, un poggio. Oltre al dolcetto abbiamo impiantato tutti vitigni autoctoni: timorasso a bacca bianca e barbera a bacca rossa.
Lucesio Venturini: “L’altra è una piccola vigna contadina, intesa come vigna progettata, come si faceva una volta, per dare risposta a tutte le esigenze della famiglia: vigna orto, vigna frutteto, uva da tavola, bianco per le feste, un capolavoro di modello economico e sociale! La vigna è localizzata sul versante sud-ovest del Bric di Trionzo, storico insediamento romano e leggendario luogo di incontri di streghe e anche qui le terre sono bianche. Abbiamo trovato una vigna impostata con la selezione massale del Dolcetto che conteneva anche una piccola quantità di piante di Ciliegiolo (< al 3%) che abbiamo voluto mantenere; il nostro Sibrà nasce da questo piccolo uvaggio che conferisce al vino note molto fresche e vivaci anche a distanza di anni”.

Infine, (poi chissà perché – ma me lo dico da solo), il vino!
Giovanna De Rege: “Le cantine, semi ipogee, sono all’interno del castello di Rocca Grimalda, dove viviamo, le ottime condizioni micro-climatiche ci permettono di adottare minime pratiche di cantina, volte ad accompagnare ed esaltare i caratteri delle due vigne che vengono vinificate distintamente: Gesusio – Ovada Docg e Spessiari – Dolcetto di Ovada Doc (Nibiò), che provengono dalla vigna situata in località Bernardina/Vallegrande – Sibrà – Vino Rosso – delle uve provenienti dalla vigna contadina di Trionzo e una quarta etichetta di dolcetto: Retrò, dolcetto che perpetua la vinificazione antica: pigiatura con i piedi lunga fermentazione con il raspo e lungo affinamento. Questo è il nostro vino più estremo che abbiamo iniziato a fare sin dal 2011 seguendo la tradizione del cugino vignaiolo/bottaio. Allora considerato vino da matti, oggi il vino “fatto con i piedi” sta tornando alla ribalta. E’ una vinificazione che necessita di tanti requisiti quali la perfezione delle uve (non lo facciamo tutte le annate), un attentissima gestione della lunga fermentazione e un affinamento molto lungo”.
Lucesio Venturini: “Non siamo propriamente ragazzini, a breve arriveremo a contare i primi sei nipotini, alla sera, stanchi e un po’ acciaccati viene da domandarsi il senso delle nostre azioni: certo c’è la passione, certo c’è una vena di follia, ma poi pensiamo che c’è un tempo per ogni cosa: c’è un tempo per seminare e uno per raccogliere e allora forse quello che facciamo è una buona cosa e spingiamo oltre lo sguardo”.

I vini, a mio parere.
Ho avuto il modo e il piacere di berli in diverse occasioni e in più annate e, se dovessi dirne per ognuno di loro e per ogni annata e per ogni singola bottiglia, ne direi delle belle. Ma ne dico di tutti i colori, però insieme. Sicuramente non potete berli giovani, o troppo giovani, a meno che siate troppo vecchi da poter attendere. Insomma lasciateli lì nei loro contenitori di vetro per un bel po’, oppure, cosa migliore, andatevi a recuperare qualche annata più indietro per vedere l’effetto che fa. Non mirate alla perfezione, perché non è di questo mondo, ma cercate in ognuno di questi vini quel tanto di irregolarità che porta al pieno compiacimento. In tutti loro troverete quella piena succosità che ogni buon bevitore cerca. Poi quella polpa carnosa di un frutto sano e ricco e alcune piccole spigolature che il tempo, a suo piacimento, potrà smussare o meno. Irrequieti, dovrei dire, ma di quella irrequietezza portata da un’energia e da una vitalità di tutto riguardo. Ogni palato ne preferirà uno all’altro, un’annata ad un’altra e una bottiglia a quella accanto e sentirà, secondo il suo umore, più ciliegia e meno spezie, qualche tannino ruvido e diversi più dolci, talvolta tabacco e talaltra spezie per i vini più evoluti. Ma a voi e al vostro palato l’ultima parola.

Il tacchino induttivo.

tacchino«Fin dal primo giorno questo tacchino osservò che, nell’allevamento dove era stato portato, gli veniva dato il cibo alle 9 del mattino. E da buon induttivista non fu precipitoso nel trarre conclusioni dalle sue osservazioni e ne eseguì altre in una vasta gamma di circostanze: di mercoledì e di giovedì, nei giorni caldi e nei giorni freddi,sia che piovesse sia che splendesse il sole. Così arricchiva ogni giorno il suo elenco di una proposizione osservativa in condizioni più disparate. Finché la sua coscienza induttivista non fu soddisfatta ed elaborò un’inferenza induttiva come questa: “Mi danno il cibo alle 9 del mattino”. Purtroppo, però, questa concezione si rivelò incontestabilmente falsa alla vigilia di Natale, quando, invece di venir nutrito, fu sgozzato.[1]»

Bertrand Russell

Il concetto di induzione deriva dal greco epagoghé (επαγωγή), che significa “portar dentro”: il primo esempio filosofico è quello che ci proviene dal metodo aristotelico del sillogismo, la via che dalle cose particolari (singole) conduce agli universali.» (Aristotele, Topici, I. 12, 105a, 13-14). David Hume, un po’ più in là, nel Settecento, distingue tra due tipi di proposizioni (An Inquiry Concernine Human Understanding): quelle che riguardano le relazioni tra idee e quelle che riguardano le questioni di fatto. Le prime sono proposizioni il cui contenuto è limitato alle relazioni tra i nostri concetti e idee, di cui ogni proposizione vera può essere provata deduttivamente, poiché la negazione contiene una contraddizione. E’ ciò che in matematica si chiama reductio ad absurdum. Per ciò che riguarda le relazioni sulle questioni di fatto, per Hume e per gli Empiristi Inglesi che lo precedono (John Locke e George Barkeley), la cosa si complica leggermente: poiché il reale è provabile non per contraddizione logica, ma soltanto dai sensi, è solo tramite i nessi di causalità e poi di contiguità che si può arrivare a definire un processo di verità per induzione. La verità si apre alla dimostrabilità probabilistica e a tutto ciò che ne seguirà, anche dal punto di vista ideologico: «la conclusione di Hume non è semplicemente che non possiamo mai essere certi della conclusione di un argomento induttivo, ma è la tesi ben più radicale secondo la quale non possiamo mai essere in possesso di alcuna ragione per credere che sia vera piuttosto che falsa[2]

E allora «mostratemi chi devo desiderare. L’essere amato è desiderato perché un altro o degli altri hanno segnalato al soggetto che esso è desiderabile: per quanto speciale esso sia, il desiderio amoroso viene scoperto per induzione[3]

Ed è così per il vino: mostratemi cosa devo bere! Ma poi toglietevi dai piedi: lasciatemi la luna e tenetevi il dito!


[1] Bertrand Russell in A. F. Chalmers, Che cos’è questa scienza?, Mondadori, Milano 1979, p.24

[3] Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 1979, pp. 112, 113

Genova Wine Festival, come nasce una fiera

Ci trovammo una sera umida e appiccicosa del brumaio di due anni fa intorno ad una tavola di legnaccio compresso su cui poggiavano una serie di boccali traboccanti, per il tempo necessario (una lager, due stout, due weizen, sei Imperial Ipa e un succo al tamarindo): il sottoscritto, Fiorenzo (gli Intravinici di stanza locale) e una compagine cospicua dell’Associazione Culturale Papille Clandestine di Genova. “Perché non collaboriamo?” – “Perché no!!?!!”.
Ruminammo a lungo sulle possibili iniziative da portare a compimento in maniera congiunta; ci vennero in mente proposte di tutto riguardo e, soprattutto, di ampio respiro: la festa nazionale a premi dei picnic; il primo festival italiano della stele fallica (su imitazione di quello giapponese); il ritrovo mondiale delle persone con i capelli brizzolati; un convegno sulla fine delle quattro stagioni… Il brainstorming stava funzionando alla grande quando uno dei papilli ci interrogò mentre stava ingurgitando la sua quattordicesima Gose ai lattobacilli: “noi organizziamo il più bel festival della birra artigianale che ci sia nel territorio ligustico e non solo: perché non ne facciamo uno sul vino?” – “Ma dai! Che razza di sciocchini! Come abbiamo fatto a non pensarci prima?!?”
E così nacque l’idea del Genova Wine Festival: ci chiederete la ragione del nome in inglese. Potremmo rispondervi che Genova ha dei lunghi e consolidati rapporti con la perfida Albione; potremmo aggiungere che lo abbiamo fatto per internazionalizzare un evento locale. La verità, quella vera, è però un’altra: un componente anziano del gruppo di Papille Clandestine aveva la lingua impastata e arrotolata da una eccellente Cascadian Dark Ale frammista a degli untuosi popcorn, quando proferì uno strano verso che per molti noi suonò più o meno così: GWF! Insomma, per farla breve, proruppe dapprima l’acronimo. Ora si trattava di riempire di contenuti (ed in particolare di bottiglie) il Genova Wine Festival. Le idee non mancarono neppure in questo caso: ci fu chi volle portare all’attenzione dei genovesi “i vini poetici”; alcuni preferirono a questi “i vini solipsistici”; altri ancora sostennero che Genova si meritava “i vini melanconici”. Quando, tutto ad un tratto, una cameriera dagli occhi da lupa che masticava caramelle alascane, urlò in mezzo alla sala: “Chi ha ordinato il pigato?” Fu allora che, guardandoci intensamente negli occhi, per quanto la birra lo permettesse, ci intendemmo al volo: i vini che bevono i genovesi, all’incirca. Però buoni. Perché molti genovesi bevono vini cattivi che qui prendono il nome di cancaroni (Il dottor Trelawney era inglese: era arrivato sulle nostre coste dopo un naufragio‚ a cavallo d’una botte di bordò. Naufragato da noi‚ aveva fatto subito la bocca al vino chiamato «cancarone»‚ il più aspro e grumoso delle nostre parti. Italo Calvino, Il visconte dimezzato): soprattutto Liguria e basso Piemonte, poi alcune rassicurazioni dall’Oltrepò Pavese, suggestioni piacentine, dirimpettai sardi, propaggini toscane e qua e là suggestioni del territorio italico.
“Ma dove lo facciamo?” Escluse le case dei presenti, avevamo ben chiaro che il posto dovesse essere di assoluto e riconosciuto prestigio: lo stadio di calcio “Luigi Ferraris”! In men che non si dica partirono gli insulti, e poi i cori, mentre occhi torvi si incrociavano lungo sguardi di puro e semplice odio: “ma no, dai, facciamolo a Palazzo Ducale!” – Silenzio – Ci sedemmo e, al posto di lanciare i boccali, li usammo per un brindisi rasserenante.
“Ma quando?” – “Quando è libero!” “E cioè?” “Il 2 e il 3 di marzo”. “Ah! D’accordo!” “Ma di che anno?” “2019” “2019????” “Sì, esatto!” “Va bene, faccio in tempo a comprarmi un vestito buono”. Chiuso il sipario.

“Se il vino è al vino e il pane è al pane, di companatico cosa mettiamo?”. Approfondimenti, laboratori, degustazioni e risse in piena regola e senza esclusione di colpi. Per l’occasione abbiamo ingaggiato anche le giovani e speranzose novizie del Master in Wine Culture, Communication & Management dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Noi, al massimo, reggiamo una partita di briscola.
“E il costo d’ingresso? Belin, vivi a Genova e non dici una parola sulle palanche?” “12 euro con u gottu (il calice) ed è tutto grasso che cola”. Ci sarà anche il food, come dicono quelli bravi, ma i lavori sono in corso, ce n’est qu’un début, e presto saprete cose.