Il ricordo del cannonau

Chiesa di Santa Reparata (2007) By Concettod – Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15498457

Entrammo nella Fiat 131 color aragosta – almeno presumo che si trattasse di quella autovettura e di quel colore (spesso la memoria si abbarbica in una penosa quanto inutile risalita a ritroso) – per tornare a casa di Rosa e di zia Pietrina tutta vestita di nero. La zia era in lutto da tanti anni e non usciva mai di casa, così diceva lei in una sorta di vanto. Insieme a loro abitava il figlio e fratello di Rosa, Peppe Antonio o Peppantonio, come immaginavo il suo nome, in una crasi sonora, da piccolo: pastore con una pancia grandissima e tonda quasi fosse un cocomero ingurgitato per intero che mi curavo di accarezzare dolcemente con le mani. Peppantonio mangiava tantissimo fin dal mattino presto: malloreddus, quasi una conca, pecorino, che produceva lui, salsiccia, pane carasau, vino rosso, può darsi cannonau. Una volta chiesi di andare a trovarlo al mattino presto nel suo casotto in cima ad una collina, che poteva essere una pianura, o una zona pianeggiante sopra un altipiano dove trovano rifugio il leccio, la sughera, la quercia, i corbezzoli e l’erica. Un po’ più in là dell’altipiano, ad est, si innalzano le estremità dei monti di Sa Pianedda, di Punta Ololviga e di Chentu Porcos dove nasce il maggior fiume della Sardegna, il Tirso che viene rinvigorito dalle sorgenti di Orunita, Musculajos ed Isteddì.

La punta di Ololviga domina l’altipiano di Buddusò fino alla località di sa Pianedda Di Concettod – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15498884

Arrivammo in ora tarda, alle sei di mattino circa, dentro una nebbia che avvolgeva sassi, arbusti, sugheri, muretti, pecore e, solo parzialmente, la pancia di Peppantonio. La mungitura delle pecore avviene solitamente in primavera e fino a giugno si prepara molto formaggio, poco a luglio e ad agosto a causa del gran caldo e della conseguente scarsezza del pascolo, molto invece e di migliore qualità in autunno, dopo le piogge abbondanti che, per inciso, ora non ci sono più tanto. Terminata la mungitura, il latte è versato in una caldaia solitamente di rame. Messa sul fuoco la caldaia, si scioglie nel latte una quantità abbastanza grande di caglio. Il presame, tenuto ad una certa temperatura, è rimestato colle mani o con un mestolo di legno dal manico lungo. Mentre procede la coagulazione, dopo un’ora o due, si tira fuori il latte rappreso con le mani o con un cucchiaio di legno e lo si getta nella forma, che è una scodella rotonda di legno duro di pero, perforata per far sgocciolare il siero. La forma di legno si poggia su un sostegno fatto di due stanghe di legno con due traverse, che sta sopra la caldaia, in modo che il siero possa sgocciolare. Per accelerare questo processo, si pone sulla forma una tavola di legno rotonda e grossa e si preme con essa il formaggio. Quando il formaggio ha raggiunto la compattezza necessaria, si lascia in riposo per 10-12 ore, poi si toglie dalla forma di legno e si mette in un mastello di legno che contiene la salamoia. Qui il formaggio rimane finché non si ritenga salato abbastanza. Poi le forme di formaggio si fanno seccare sui graticci di legno o di canna1.

Peppantonio parlava poco, solo lo stretto necessario: altrimenti cosa avrebbe fatto a fare il pastore se non per stare zitto. Rosa, al contrario, chiacchierava molto, quasi a colpi di glottide e di occlusive laringali, in un italiano rapido e con una marcata intonazione sarda nell’accento: una seconda lingua conosciuta alla perfezione, coniugazioni, sintassi e stilemi compresi, dove l’inflessione della lingua locale rimandava all’impossibilità di conciliarsi pienamente con le antiche occupazioni aragonesi o sabaude che fossero. Quando Peppenatonio morì ero ancora piccolo e lui credo abbastanza giovane. Mi dispiacque molto anche se abitavo a Torino e Peppantonio a Buddusò: la sua immagine non nitida mi viene in mente di tanto in tanto, così come la sua pancia e la coppola indossata persino a tavola e riposta poi sulla sedia per rispetto. Già Buddusò e poi perché Buddusò? Erano gli amici sardi di Torino di mio padre, che pure lui ed io (mia sorella, mio fratello e i miei figli) portiamo un cognome sardo dato che suo padre, ovvero mio nonno (io mi chiamo come lui, Pietro Stara), nacque e visse per un po’ di anni ad Ozieri prima di frequentare la scuola enologica di Alba e, dopo la prima guerra mondiale, la facoltà di Agraria a Bologna.

Si era fatto tardi e dunque salimmo in auto per tornare a casa di zia Pietrina, di Rosa e di Peppantonio. Riecheggiavano i suoni, i calici e le grida della Festa di Santa Reparata, o di qualche altra santa di minor entità, quando si avvicinò Natale (in Sardegna era, un tempo, nome assai comune di persona): chiese un passaggio a mio padre che glielo concesse più che volentieri. Natale aveva bevuto un bel po’ e credo che anche in quel caso si trattasse di cannonau. Ci salutò, entrò barcollante nel veicolo e, dopo pochi metri dalla partenza, si sdraiò dolcemente sulle mie gambe e su quelle di mio fratello.

1Max Leopold Wagner, La vita rustica della Sardegna rispecchiata nella sua lingua, Ilisso Edizioni, Nuoro 1996, pp. 267 – 270.

Titolo originale: Das ländliche Leben Sardiniens im Spiegel der Sprache. Kulturhistorisch-sprachliche Untersuchungen, Wörter und Sachen. Kulturhistorische Zeitschrift für Sprach-und Sachforschung, Beiheft 4, Carl Winter’s Universitätsbuchhandlung, Heidelberg 1921,

Il vino atmosferico

Una mia foto dei racconti di terra mare

L’atmosfera crepuscolare reca un’intonazione d’animo della sera o del chiaro di luna, che la piena luminosità della luce diurna dissolve dapprima nell’intollerabile vividezza dell’aurora e, a seguire, nella limpidezza sfolgorante del giorno; diversamente il vento di scirocco, in cui bisogna essere “assai impenitenti per avere il coraggio di scrivere qualche cosa che persone ragionevoli debbano leggere”; e altrimenti la nebbia, che “colma d’abisso che la circonda”. Dunque la notte, dove le forme regrediscono ad una figurazione primordiale e i contorni delle immagini si sfrangiano nell’oscurità.

L’atmosfera avvolge lo spazio e il tempo proprio come l’aura si configura come singolare intreccio tra i due: mentre la prima “non si confonde con il pensiero, eppure serve da mezzo al pensiero. Non si confonde con la sensazione, eppure la propaga, aumenta o diminuisce, comanda ogni sensazione”. (Daudet, Melancholia, 1928) La seconda, l’aura, si forgia come apparizione unica di una lontananza seppur vicina. “Seguire placidamente, in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sull’osservatore, fino a quando l’attimo, o l’ora, partecipino della loro apparizione – tutto ciò significa respirare l’aura di quei monti, di quel ramo”. (Walter Benjamin, Aura e choc in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica; prima stesura 1935- 1936)

Il vino, dal suo canto, partecipa alle strade, ai crocicchi, agli angoli bui e alle cose illuminate, ai bicchieri sfavillanti, al tintinnio della pioggia, agli sguardi sommessi, al cielo che si fa ombra, all’animo pesante oppure a quello leggero, ai banchi bianchi, al vociare intenso, alle risa, alla brezza, alla salsedine, in un attimo che si adagia sulla soglia del tempo.

Bastonate, zuffe e risse nelle terre del Chianti (1902 – 1930)

Di Lorenzo Noccioli – Opera propriahttp://www.puredesign.it/gallery2/main.php/v/calciostorico/, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4278200

La prima associazione dei produttori in Chianti (1902) e iniziano le scaramucce

Il 16 novembre del 1902, esattamente 120 anni fa, giorno meno e niente più, un’assemblea di vignaioli chiantigiani, su ordine del giorno del liberale Luigi Callaini, deliberava di «promuovere un’associazione fra i produttori del vino del chianti all’oggetto di proteggere la denominazione ‘Vino del Chianti’ con una marca speciale o con altro più efficace mezzo». Alcuni mesi dopo, il 7 febbraio 1903, a Siena si approvava lo statuto d’un “Sindacato enologico cooperativo del Chianti” che aveva appunto lo scopo di cui sopra. La cosa non era nuova perché anche i piemontesi, sempre nel 1902, avevano costituito il loro “Sindacato vinicolo Piemontese” promosso dagli onorevoli Teobaldo Calissano e Arnaldo Strucchi.

Quasi contemporaneamente alla deliberazione chiantigiana, i vignaioli appartenenti a zone diverse della Toscana aprirono le danze e le contese che avevano in essere una e una sola ragione che, senza in fondo in fondo, era poi una domanda: quale doveva essere la delimitazione territoriale della zona d’origine del vino Chianti?

Quelli di Poggibonsi non la prendono bene.

Scaramucce, piccole risse e randellate a piacere accompagnarono più o meno tutto il periodo che intercorse tra la fine del 1902 e il 1910. In quell’anno, però, le minor contese si trasformarono in una vera e propria scazzottata di rango: da una parte i viticoltori del Chianti Classico[1] e dall’altra quelli di Poggibonsi. Questi ultimi non avevano preso affatto bene la decisione presa in un’adunanza tenutasi il 18 febbraio 1910 presso il Comizio Agrario di Firenze dal ‘Comitato intercomunale Promarca d’origine del vino Chianti’, e ribadita nel successivo Convegno dei viticoltori chiantigiani tenutosi in Greve il 27 febbraio successivo, in cui si proibiva l’uso della parola “Chianti” ai vini di Poggibonsi.

L’anno prima, infatti, l’avvocato Giulio Brini coadiuvato dal professor Vittorio Racah[2] l’avevano chiusa lì: la zona del Chianti corrisponde ai terreni eocenici[3], ovvero al secondo periodo geologico dell’era cenozoica, compreso tra 58 e 27 milioni di anni fa, tra il Paleocene e l’Oligocene. A difendere i viticoltori di Poggibonsi e dintorni venne chiamato lo stesso Brini, il quale propose di adottare, senza successo alcuno, il nome generico “Chianti” e di farlo seguire dal nome del comune di produzione, permettendo così di estendere notevolmente il suo diritto d’uso.

Il primo “Consorzio per la difesa del vino tipico del Chianti e della sua marca d’origine” (1924)

Bisognerà aspettare il decennio successivo e la fine della Grande Guerra per avere un nuovo tentativo nazionale per la difesa dei vini tipici. Ricordo qui, brevemente, che la parola ‘tipico’ non è mia, ma fu in uso dai legislatori dell’epoca. Dapprima una interrogazione degli onorevoli Marescalchi e Di Pietra nel dicembre del 1919 portò alla nomina di una Commissione nominata dal Ministro Micheli che, nel 1920, era destinata ad elaborare un progetto di legge per la tutela dei vini tipici. La Commissione presentò alla Camera, l’11 marzo del 1921, il progetto di legge che prese il nome del ministro appena ricordato. Ma il progetto rimase tale e la legge non venne mai approvata. Essa venne sostituita dal D.L. 497 del 7 marzo 1924 trasformato in legge il 18 marzo 1926 dopo notevoli e complicate vicissitudini. Quelli del Chianti classico si buttarono a capofitto già sul D.L. del 1924 e costituirono il primo “Consorzio per la difesa del vino tipico del Chianti e della sua marca d’origine”, che adottò come marchio collettivo il gallo nero in campo oro circondato da un sottile cerchio con scritta in basso: Chianti! (Il punto esclamativo è mio)

L’articolo 1 dello Statuto del Consorzio accoglieva al proprio interno «i produttori e gli industriali di vino del Chianti classico, composto dei Comuni di Castellina in Chianti, Gaiole in Chianti, Greve e Radda in Chianti e Castelnuovo Bardanega limitatamente alle frazioni di S. Gusmè e Vagliagli».

Quelli di Sancasciano, scritto proprio così, ne fanno uno loro (1925)

Quelli di Sancasciano Val di Pesa non erano persuasi che le ragioni geologiche adottate dal Consorzio (galestri, alberesi e arenarie) fossero così convincenti, per cui, non molto allegramente, il 20 luglio del 1925 costituirono il ‘Consorzio per la difesa del vino tipico Chianti Sancasciano Val di Pesa e della sua marca di origine’, che aveva come marchio lo stemma del comune: due torri grigie in campo rosso. I produttori della Val di Pesa sostennero, in ragione del Consorzio, che i loro terreni non erano dissimili da quelli del Chianti storico, le uve pure e financo le tecniche di vinificazione. Quindi (rivolto ai classici) chiesero non molto sommessamente: «perché rompete i marroni? (credo che le parole fossero ben meno compiacenti)».  I “classici” si convinsero che quelli di Sancasciano non avevano poi così torto e optarono per accogliere, il 30 ottobre 1926, i terreni costituiti prevalentemente da galestri e ciottoli di alberese, ma non di arenaria, nel loro Consorzio. Mentre pareva che tutto fosse finito a “cantucci e vino”, dall’altra parte le istituzioni tecnico-agrarie, industriali e commerciali di Firenze, Arezzo e Pistoia diedero vita, il 22 febbraio 1927, al “Consorzio di Vino Chianti”, che ebbe come marchio distintivo un Bacchino (piccolo Bacco) danzante in campo azzurro: venne anche chiamato “Consorzio del Bacchino o del Putto” per distinguersi pienamente da quello del Gallo.

Gli espansionisti

Quelli del Putto avevano, senza eufemismi, una visione espansionista: «Chianti non è il nome di un vino di una certa zona e cioè del Chianti storico, ma sibbene il nome generico di un certo tipo di vino e che quindi tale denominazione deve essere estesa ai vini prodotti nelle zone di San Casciano, Carmignano, Montalbano, Colli Fiorentini, Pomino, Rufina ecc. perché provvisti di pregevole finezza e particolari caratteri organolettici e commerciali e per essere da tempo immemorabile contraddistinti all’interno ed all’estero col nome di Chianti; inibendo a questi vini il nome di Chianti si verrebbe ingiustamente ad impedire il loro commercio specialmente all’estero e molte piazze sarebbero perse a vantaggio di nazioni concorrenti, in quanto che il Consorzio a tesi restrizionista non ha, né potrebbe mai avere, la potenzialità occorrente per il consumo dell’interno e per l’esportazione. Un criterio restrittivo nell’applicazione della Legge sui vini tipici e nel caso nostro del vino Chianti, oltre che danneggiare l’economia toscana e l’economia nazionale per la contrazione che inevitabilmente porterebbe specialmente all’esportazione, verrebbe anche a colpire ingiustamente una classe altamente benemerita di agricoltori che con spirito veramente patriottico si è data, senza eccessive considerazioni d’indole finanziaria, alla rapida ricostituzione della vite distrutta dalla fillossera».

E per mettere i puntini sulle ‘i’ e sulle lettere rimanenti dell’alfabeto ecco qui l’articolo 3 dello Statuto dei bacchini espansionisti, territorio e produzione del vino compresi:

«Col nome Chianti da tantissimi anni in Italia ed all’estero sono conosciuti, apprezzati e chiamati tutti i migliori, e genuini vini ed i vini tipici della Toscana, rossi e bianchi, prodotti nei terreni dell’eocene e del cretaceo dove abbondano le rocce calcaree, nei terreni di natura galestrosi, alberesi ed arenarii, delle zone collinari appartenenti ai Comuni di Greve, S. Casciano Val di Pesa, Barberino Val ,d’Elsa, Montespertoli, Galluzzo, Bagno a Ripoli, Casellina e Torri, Rignano sull’Arno, Reggello, Pelago,Pontassieve, Rufina, Dicomano, Fiesole, Carmignano, Montelupo, e Vinci della provincia di Firenze; Radda, Castellina in Chianti, Gaiole, Castelnuovo Berardenga, Poggibonsi della provincia di Siena; (escluse le zone delle crete); Larciano e Tizzana della provincia di Pistoia; Pian di Scò e Cavriglia della provincia di Arezzo; A parere del Consiglio potranno essere ammesse al Consorzio particolari zone di Comuni limitrofi. Detti vini, se rossi, provengono prevalentemente dalle uve dei seguenti vitigni: Sangioveto, Tribbiano, Canaiolo (rosso e bianco) e Malvasia, mescolate quasi sempre in a proporzioni diverse a seconda delle differenze annuali che presentano le diverse uve; se bianchi sono prodotti quasi esclusivamente col Tiribbiano e la Malvasia.

I vini stessi, vinificati o no col governo, presentano tutti i seguenti caratteri che danno a ciascuno di essi l’unica e vera impronta del vino Chianti.

Vino rosso — colore rosso rubino intenso, vivo e brillante se giovane, colore rosso granato se vecchio, odore vinoso, pieno di freschezza, e con caratteristico profumo intenso se invecchiato, sapore gradevolissimo, armonico; rotondo, vellutato, frizzante, se giovane e governato; caldo, asciutto, se vecchio; vino sciolto, e pronto e raramente tosto ma di corpo, di alcolicità che va in media da circa 11° a circa 13 gradi; spesso austero ma passante e di facile a digestione, con acidità totale normale variabile da circa a 6 e mezzo a 7 e un quarto, e col 21-26 di estratto secco.

Vino bianco — colore paglierino più o meno intenso, sapore secco, sottile, netto, delicato e fine, acidità giusta, alcolicità media da circa 10 e 5 a circa 12 gradi; con gradevole marcato profumo se invecchiato.

I vitigni che producono il vino Chianti sono generalmente coltivati in promiscuità con altre colture ed allevati alti a testucchio, od alla Chiantigiana e bassi a filare pieno; sono potati rispettivamente a tralciaia od a piegatoio ed archetto od a capovolto.

Il vino Chianti si adatta ai, trasporti più lunghi di terra e di mare, si presta all’invecchiamento breve e lungo, migliorando sempre i suoi caratteri organolettici, tanto da a farlo primeggiare fra tutti i più eletti vini da pasto e da esportazione».

Il Consorzio del Gallo e il nuovo Statuto

Mentre quelli del Bacchino, gli espansionisti insomma, se la cantavano e se la ridevano veniva emanato dal Ministero dell’economia Nazionale il Regolamento (approvato con R. D. 23 giugno 1927 n. 1440) alla Legge 18 marzo 1926 n. 562, di cui Part. 6 precisava che «gli Statuti dei Consorzi di difesa di vini tipici portanti denominazioni geografiche devono stabilire, oltre alle caratteristiche di cui all’art. 1, anche le zone di produzione che hanno diritto alle denominazioni medesime».

Ecco allora che il Consorzio del Gallo riformò il proprio Statuto nell’Assemblea che si tenne il 20 settembre 1927, introducendo l’articolo 4: «La zona di produzione di cui all’art. 6 1° comma del Regolamento 23 giugno 1927 n. 1440 e le zone ad essa limitrofe previste nel 2° comma dell’articolo stesso, sono costituite dai Comuni di Castellina in Chianti, Gaiole in Chianti, Greve e Radda in Chianti, dal Comune di Castelnuovo Berardenga, limitatamente alle frazioni di S. Gusmè e Vagliagli e da parti determinate dei Comuni di Barberino Val d’Elsa, Poggibonsi, S. Casciano Val di Pesa e Tavarnelle Val di Pesa, come dalla carta allegata al presente Statuto».

Veniva anche modificata, ampliandola, la definizione del vino Chianti:

«Art. 5 — Per ‘Chianti’ si deve intendere il vino genuino, governato o meno, proveniente dalle uve o dai mosti prodotti nel territorio delimitato dall’Art. 4 (salvo le esclusioni dell’ultimo capoverso dell’art. 6 del Regolamento 23 giugno 1927 n. 1440) da vitigni in prevalenza delle varietà Sangioveto, Canaiolo, Malvasia e Trebbiano, particolarmente coltivate in collina, in terreni in posto d’origine eocenica formati da galestro, alberese ed arenaria. Esso si distingue in vino da pasto superiore e vino da pasto fine.

Chianti da pasto superiore è quello che sia stato affinato mercè le trasformazioni fisiche, chimiche e biologiche che si compiono durante l’invecchiamento naturale dei vini per una durata non inferiore ai due armi compiuti dal primo giorno dell’anno solare successivo alla raccolta e che abbia i seguenti requisiti: colore rosso rubino con riflessi giallognoli, profumo caratteristico intenso, sapore asciutto, armonico, vellutato, alcolicità non inferiore a 11.5 per cento in volume e acidità da gr. 6,5 a 7 per litro.

Chianti da pasto fine è quello che presenta le seguenti caratteristiche: colore rosso rubino vivace, odore vinoso caratteristico, sapore gradevole, fresco, di alcolicità da 10 a 13 per cento in volume, e con acidità di gr. 6,5 a 7,5 per litro».

L’Art. 10 del citato Regolamento 23 giugno 1927, stabiliva che «in ogni caso, per ciascun vino tipico, non può essere costituito più di un Consorzio».

La palla passò, dunque, al Ministero dell’Economia Nazionale, che doveva decidere a quale dei due Consorzi spettasse la legittimità di rappresentare il vino Chianti. Esso pose, in data 11 ottobre 1927, ai rispettivi Consorzi due domande tanto semplici quanto complicate:

  1. Quali sono le zone limitrofe alla regione Chiantigiana che per eguaglianza di vitigni, clima, terreno, e tipo di vino prodotto, possono far parte della zona di produzione del Chianti?
  2. Quali altri tipici vini toscani potrebbero far parte di un unico Consorzio di difesa previsto dall’art. 10 del Regolamento?

I due Consorzi risposero, naturalmente, in maniera diametralmente opposta e il Ministero si vide costretto a convocarli per una adunanza, che si tenne a Roma il 25 ottobre 1927, in virtù del conseguimento di un possibile accordo. Accordo che saltò poiché le rispettive Federazioni degli agricoltori di Siena e di Firenze non avevano trovato in alcun modo un compromesso, richiesto in data 9 marzo 1928 e che sarebbe dovuto arrivare al tavolo ministeriale non oltre il 25 dello stesso mese, sulla delimitazione delle rispettive zone di competenza per la composizione di un unico Consorzio per la difesa dei vini tipici Toscani comprendente Chianti, Montalbano, Rufina, Colli Fiorentini, Montepulciano e Montalcino. A tutto questo si aggiungevano, memori delle antiche diatribe, le proteste dei produttori di Poggibonsi, che avrebbero voluto entrare nel Consorzio del Gallo e quelli delle Colline Pisane che, a loro volta, chiedevano di essere ammessi nel consesso del Bacchino.

Epilogo (si fa per dire)


La Commissione che nel 1930 dovette portare ad una soluzione definitivamente provvisoria, partì da un’altra domanda che più incasinata non poteva essere. «Che cos’è il vino Chianti?».

E così rispose: «Il vino tipico Chianti è unico e inscindibile: però per esso, oltre al marchio o segno distintivo proprio, previsto dall’art. 6 del R.D.L. 11 gennaio 1930, n. 62, convertito in legge con la Legge 10 luglio 1930, n. 1164, dovrà aggiungersi OBBLIGATORIAMENTE da tutti i consorziati una striscia che porti la denominazione di provenienza; e precisamente una delle seguenti: Chianti Classico, Montalbano, Rufina, Colli Fiorentini, Colli Senesi, Colli Aretini, Colline Pisane». Prevalse, alla fine dei conti, una visione commerciale, vennero chiuse le virgolette e si mise un punto.

A capo.

Bibliografia


– Avv. G. Brini, Il vino del Chianti e la marca d’origine, L’Agricoltura senese, 15 marzo 1910, anno XLVII, n° 5;
– Prof. Lelio Gibertoni e Emanuele Grill, Il vino Chianti Sancasciano Val di Pesa e la sua marca d’origine, Sancasciano Val di Pesa : Stab. Tip. Fratelli Stianti, [1926?];
– R. Ugolini, Sul Consorzio a difesa del vino tipico del Chianti e sulla opportunità che ne partecipi la produzione vinicola delle colline pisane, Pisa : Arti Graf Pacini-Mariotti, 1928;
– Per la tutela del vino Chianti e degli altri vini tipici toscani, Relazione della Commissione Interministeriale per la delimitazione del territorio del vino Chianti, Ministero dell’Agricoltura e delle foreste – Direzione generale dell’agricoltura, Tipografia Antonio Brunelli, Bologna 1932

Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta sul sito di Intravino


[1] Il riferimento storico è alla Lega del Chianti tra i comuni di Gaiole, Radda e Castellina costituita dalle Repubblica di Firenze nel 1378. Il più antico Statuto risale al 1384.

[2] http://www.viten.net/files/c34/c342cf2b6c975073f77a67531abd3f83.pdf

[3] Nella parte occidentale del territorio chiantigiano affiorano terreni calcareo-marnosi, calcareo-arenacei e marnoso-argillitici, riferibili ad una serie di sedimenti marini con età che vanno dal Cretacico all’Eocene (circa 130-40 ml di anni) e che i geologi comunemente chiamano “coltri alloctone”. Queste rocce hanno iniziato a depositarsi in ambiente di mare aperto a partire dal Cretacico direttamente su crosta oceanica di origine magmatica e vulcanica sottomarina; ancora oggi una parte di questi antichi fondali marini si trova nel settore nord-occidentale del territorio, a Strada in Chianti, e, più diffusamente nella zona di Impruneta. Questo mare cretacico doveva trovarsi più ad ovest del bacino di sedimentazione della Serie Toscana, lontano da importanti apporti dal continente; inizialmente si è così venuta a creare una lunga serie di sedimenti per lo più limosi e argillosi che ha dato origine alla Formazione di Sillano, con vasti affioramenti di marne, siltiti e argilliti nelle zone tra Mercatale Val di Pesa e Panzano in Chianti, compresa, appunto, la Pieve di S. Pietro a Sillano, e l’area occidentale di Castellina in Chianti. In https://www.chianticlassico.com/magazine/un-geologo-nel-chianti-classico/

Le parole per descrivere il vino nel 1980: “Tuttovino”

Sono passati poco più di cento anni da quando Ottavio Ottavi (1873) https://vinoestoria.wordpress.com/2022/07/20/le-parole-per-descrivere-il-vino-alla-fine-del-1800/ tenta di codificare un linguaggio di senso condiviso alle parole che servono per descrivere i vini. La critica enologica, in tutto il corso del ‘900, compie dei passi rilevanti nella sistemazione e nell’ampliamento di quel vocabolario. Il 1980 segna, simbolicamente, la fine di un percorso politico, economico, sociale e getta una luce fioca e traballante su qualcosa che è lì a venire. “Tuttovino” è un po’ anche questo: profondamente ancorato alla sua epoca, trascina con sé e a sé gran parte della letteratura enologica novecentesca e, nello stesso tempo, introduce concetti e sensibilità che, sebbene abbozzati, troveranno sistematizzazioni, concettualizzazioni e appigli nei decenni a seguire. Alcuni termini descrittivi passeranno a miglior vita, altri cambieranno di senso, chi parzialmente chi in maniera radicale, altri ancori troveranno nuova linfa sociale.
Il volume è scritto da due autori molto rilevanti rilevanti nel panorama eno-gastronomico dell’epoca: il giornalista Edoardo Raspelli e Franco Tommaso Marchi, segretario generale dell’A.I.S. dal 1969. “Tuttovino” è un dizionario enciclopedico del sommelier ed è pensato come strumento didattico, descrittivo, conoscitivo del mondo del vino. La presentazione non è affatto casuale né incidentale: è la penna di Gino Veronelli a siglare amicizie e rapporti di lungo corso. La breve presentazione di Veronelli non solo è una modalità di reciproco riconoscimento, ma è anche la consapevolezza dell’evoluzione di un tragitto da lui intrapreso anni addietro: «Millantavoltemillant’oppresso d’oppressioni, sai tu se m’assoggetto a introduzioni, prefazioni, presentazioni. Introibo, prefazio, presento sol’obbligato da millantavoltemillant’obbligazioni. Di bellezza (donna soz cile n’a home). O di denaro (oh, il denaro). O di stima. O d’affetto. Qui di stima e d’affetto. In anteprima il Franco Marchi e l’Edo Raspelli. Cui devo stimaaffettomillantavoltemila – m’inviano bozze d’opera monstre: ‘Tuttovino Dizionario Enciclopedico del Sommelier’. Certo che temo. Tuttovinodizionarioenciclopedicodelsommelier, dici niente. Controimprovvisazioni, più che aspro son agher. L’ho lette le bozze, e sono, letterale, esterrefatto: quei due, mossi da indicibile amore, hanno ‘sputato sangue’. Chiedo, vogliono, esigo, impongono intervento. In quest’opera trovi, una via l’altra cercata, una via l’altra elencata, una via l’altra spiegata, le voci tutte – ma tutte tutte (per la comprensione amorosa, se non hai anima non leggerli, solo li inaridisci) – del vino, con una minuzia e un’intelligenza tali (gli ha dato ai due mano ‘tecnica’ Franco Spagnolli cui anche debbo, in quella supermoltiplicazione, stimaffetto) che il timore controimprovvisazioni si è mutato, proprio e appunto, in insgomento per perfezione. Quest’opera mi fa – essì, amici miei – re nudo. Nudo? Vabbè, va bene ai prìncipi. Portatemi, per il brindisi, quel mio vino testabalorda, anarchico, individualista ».
Vi propongo qui una carrellata significativa delle parole usate per descrivere i vini e vi do volentieri un consiglio non richiesto: il libro è ancora reperibile nei remainder. Buona bevuta!


Abboccato: di un vino che presenta una leggera e piacevole sensazione dolce per un contenuto residuo di zuccheri naturali: da 0,6 al 1,3%
Acerbo:
1) Termine usato nell’assaggio per indicare un vino non ancora affinato, aspro, con acidità eccessiva sgradevole, privo di delicatezza armonia e maturità. Non sempre questa caratteristica dipende dall’età, seppure i vini giovani siano frequentemente più acerba di quelli vecchi.
2) Vino con eccesso di acidità fissa, che dà la stessa sensazione all’assaggio della frutta acerba
Acetoso: termine usato per indicare un vino affetto da acescenza, con odore e sapore di aceto
Acido: termine usato per indicare un vino sano in cui la quantità degli acidi fissi è superiore alla media normale. Lo si dice normalmente di un vino troppo giovane che ha bisogno di maturare ancora.
Acidulo: di vino leggermente acido, in cui però l’acidità non è spiacevole ma, anzi, dà vivacità e carattere alla giovinezza. Comunque, nel rapporto di equilibrio di alcuni vini, si può avvertire una leggera disarmonia.
Acquoso: un vino debole che sembra annacquato
Acre: dicesi di un vino eccessivamente ricco in acidità fissa e in sostanze tanniche, aspro, irritante, bruciante, sgradevole alla degustazione sia all’olfatto che al gusto.
Acuto: termine relativo alla sensazione olfattiva in rapporto alla valutazione quantitativa. Si avverte per l’aggressività, in maniera sottile, immediata e pungente.
Affumicato: odore di affumicato. È una leggera sensazione olfattiva di fumo che si può nettamente avvertire in vini provenienti da alcuni vitigni, come, ad esempio, le schive dell’Alto Adige e del Trentino.
Ammaccato: Termine relativo alle sensazioni gustative. Si rivela dal caratteristico gusto di secco e ammuffito presente nei vini derivanti da uve colpite dalla grandine. È un vino che non si può conservare.
Anemico: si dice di un vino di coler scialbo, smorto, privo di qualità.
Angoloso: Termine relativo alle sensazioni gustative. Di sgradevole ruvidità., tipica nei vini immaturi e disarmonici. È anche sinonimo di spigoloso.
Animale: odore animale. Termine riferito ad una sensazione olfattiva a volte poco piacevole. L’odore animale può essere piacevole se armonizzato con altri odori positivi
Appassito: termine dell’aspetto gustativo riferito a un vino svigorito dalla troppo lunga permanenza nelle botti o da un lungo contatto con l’aria per aver perduto la sua freschezza e sapore.
Aromatico: si dice di u vino il cui odore ricorda l’aroma del vitigno dal quale proviene l’uva (traminer, malvasia, moscato).
Asciutto: si dice di un vino secco che nella degustazione lascia una sensazione gradevole di pulito, di asciutto
Aspretto: termine della degustazione, diminutivo di aspro. Si dice per una quantità di tannino non eccessiva, così che il vino è reso piacevole.
Asprigno: termine dell’aspetto gustativo. Si dice di un vino che ha un eccesso di acidità, spesso dovuto alle uve non ben mature dalle quali proviene.
Aspro: termine dell’aspetto gustativo: vino che provoca una sensazione di astringenza dovuta ad un eccesso di sostanze tanniche o di acidi. Dà una sensazione di ruvidezza, lega in bocca. Si riscontra generalmente nei vini rossi ed il più delle volte si attenua con l’invecchiamento.
Balsamico: termine relativo alle sensazioni olfattive di un vino molto profumato, piacevolmente aromatico.
Bluastro: colore bluastro. Tonalità molto scura del vino rosso, normalmente di acidità non molto elevata, che manca per lo più di trasparenza. Anche se si riscontra in alcuni vini rossi da taglio è un colore negativo.
Cane bagnato: odore di cane bagnato. Sensazione olfattiva che ricorda l’odore di selvatico, che si riscontra in alcuni vini, particolarmente in quelli rossi.
Carezzevole: termine che indica una sensazione gustativa di morbidezza e di equilibrio, gradevole, che si riscontra all’assaggio di vini ricchi di glicerina, armonici e ben equilibrati.
Cassato: si dice di un vino il cui colore sia alterato, “rotto”, con odore e sapore sgradevole, a seguito di processi ossidativi di casse ossidatica (v. Ossidato)
Catrame: gusto di catrame. Sensazione gustativa propria dei grandi vini rossi invecchiati che ricorda la liquirizia. Sarebbe la traduzione italiana del termine francese “goudron”.
Chiuso: odore di chiuso. Sensazione olfattiva di un particolare e poco gradevole odore che si riscontra in alcuni vini rossi lungamente invecchiati specie in bottiglia. Potrebbe essere dovuto ad un basso livello ossido-riduttivo. Si disperde facilmente lasciando la bottiglia aperta o arieggiandola con la decantazione.
Completo: si dice di un vino di ottima costituzione, riscontrabile nelle grandi annate, che riunisce caratteristiche positive di qualità (visive, olfattive, gustative)
Deciso: nella terminologia dell’aspetto gustativo indica un vino dal m sapore “franco”
Decrepito: si dice di un vino che ha perduto gran parte delle sue caratteristiche positive di colore odore e sapore per eccessivo invecchiamento. Nella valutazione gustativa è impossibile esprimere su questi vini alcun giudizio obiettivo.
Diuretico: si dice di una sostanza capace di aumentare la secrezione delle urine: lo sono particolarmente i vini bianchi provenienti da vitigni situati in terreni ricchi di sali minerali.
Dolcigno. Dicesi di un vino a sapore leggermente dolce, ma poco gradevole.
Elegante: si dice di un vino di razza, che racchiude in armonia le caratteristiche di pregio rilevabili all’olfatto, al gusto e alla vista.
Feccioso: si dice di un vino che presenta un caratteristico odore o gusto derivante dal prolungato soggiorno sulle proprie fecce. Si dice anche di un vino estremamente torbido.
Fiacco: si dice di un vino mancante di nerbo, tendente a perdere il primo equilibrio dopo qualsiasi pratica di cantina (filtrazione, travaso eccetera).
Foxy: termine inglese che viene usato per definire il sapore caratteristico dei vini prodotti da uve americane e da ibridi produttori. Si dice anche volpino (V. volpino)
Fradicio: sapore di “fradicio” o “marcio”. Sensazione gustativa che si rivela dal vino che è stato conservato in botte con qualche doga marcia o per il contratto con feccia o deposito già affetti da fermentazioni putride. Questo difetto può provenire anche da uve marce, attaccate da Botritys, soprattutto in annate caratterizzate da avverse condizioni climatiche.
Generoso: si dice di un vino di grado alcolico elevato, normalmente oltre i 14-15 gradi. Può suscitare nell’assaggiatore un senso tonificante e di benessere: se bevuto in quantità moderate può essere consigliato sia nella medicina sia nella dietologia. Questo termine viene e indicato particolarmente per indicare vini passiti liquorosi, Vini Santi.
Grave: si dice di un vino che ha poco alcol, molto corpo, molto estratto; è un vino che, bevuto anche in minima parte, pesa sullo stomaco.
Grigio: è il tipico colore intermedio fra quello dei vini rosati e quello dei vini bianchi. Certe va varietà hanno gli acini di color grigio (Pinot grigio).
Grosso: si riferisce ad un vino che ha corpo, aroma, colore e contenuto alcolico superiore alla media: può essere anche detto “passante”: non è carattere dispregiativo.
Gusto ci carta: è una sensazione sgradevole, un sapore difettoso, acquisito da un vino fatto passare in filtri di cartone non ben depurati.
Gusto di cotto: gusto accidentalmente preso da un mosto o da un vino riscaldato a temperature molto elevate. Nei mosti questo gusto si riscontra nei prodotti riscaldati a fuoco diretto e all’aria. Alcuni vini giovani, sensibili all’aria, presentanti un’incipiente casse ossidasica, prendono un gusto di cotto. di uva stramatura (v. anche COTTO).
Gusto di farmacia: sapore sgradevole preso da un vino venuto a contatto con taluni prodotti chimici, oppure derivante dalla vinificazione di uve affette da muffa grigia, con conseguente formazione di gusti tendenti all’ammuffito: iodati, di fenolo.
Gusto di feccia: è il caratteristico gusto, e anche odore, acquisito da un vino lasciato soggiornare a lungo sul deposito feccioso, soprattutto allorché quest’ultimo è in fase di putrefazione.
Gusto di filtro: sapore difettoso che un vino ha acquisito nel passaggio attraverso i setti filtranti non ben depurati.
Gusto di gomma: termine usato in California per contraddistinguere certi vini che hanno abitualmente un ph molto elevato. Normalmente il gusto anomalo di gomma deriva dall’uso di tubi di gomma mal depurati, o di cattiva qualità.
Gusto di iodio: gusto che si riscontra in alcuni vini prodotti in terreni prossimi al mare, o ascrivibile a vini provenienti da uve colpite dalla muffa grigia (v. GUSTO DI FARMACIA).
Gusto di lievito o di fermento: sapore di vini ancora giovani, riscontrabile anche in quelli che hanno subito tardive rifermentazioni. Se intenso, può considerarsi un gusto anomalo, derivante da ritardi nei travasi, con formazione di odori e sapori che ricordano il pan tostato.
Gusto di muffa: difetto di un vino che è stato a contatto con un recipiente di legno ammuffito 0 proveniente da uve alterate da marciume (v. MARCIUME GRIGIO).
Gusto di noce: sapore speciale e caratteristico che ricorda quello di noce, conferito al vino da particolari lieviti utilizzati nella produzione dei vini ‘‘jeunes” francesi, dei vini spagnoli di Jerez, di alcuni vini sudafricani e californiani tipo Sherry, oppure provenienti da un prolungato riscaldamento.
Gusto di palude: cattivo sapore, caratteristico di alcuni vini provenienti da ibridi.
Gusto di pelle di capra (di caprino): gusto trasmesso al vino dopo conservazione in otri o recipienti fatti con pelle di capra.
Gusto di secchino: è detto anche gusto di fusto o di legno. Deriva da un’anomala conservazione dei contenitori in legno, a seguito dello sviluppo di muffe; può confondersi con analogo inconveniente ascrivibile alla formazione di muffe sul tappo.
Gusto di secco: sapore aspro, proveniente spesso da uve con acini disseccati, oppure da uve grandinate, o colpite da peronospora.
Gusto di tela: tipico sapore difettoso di un vino passato in filtri di tela non ben lavati.
Gusto di vecchio: vino con sentore di vecchiaia prematura, che si avvia alla decrepitezza. È un carattere irreversibile, causato dal contatto prolungato del vino con l’aria; dapprima si ha un vino ossidato, poi maderizzato e marsaleggiante. Questi caratteri sono dovuti a derivati aldeidici e acetalici.
Gusto di zolfo: in realtà è l’odore di anidride solforosa che svaluta numerosi vini bianchi ed anche alcuni vini rossi; è facile da evitare con l’impiego razionale dell’anidride solforosa (SO). Il suo eccesso non è solamente grave a causa del suo odore pungente, soffocante, aggressivo per le mucose, lo è anche perché cancella una gran parte degli elementi gradevoli dell’aroma, indebolendo il carattere di un vino o neutralizzandolo.
Gustoso: si dice di un vino che ha sapore e aroma di frutta fresca (non necessariamente di uva): è una caratteristica tipica di molti vini giovani.
Imbevibile: dicesi di un vino che in seguito a profonde alterazioni del sapore e dell’odore, o per accentuata anomala torbidità, è divenuto inadatto alla commercializzazione e al consumo.
Latta: sgradevole sensazione gustativa provocata particolarmente da errati accopiamenti cibo-vino, che ricorda appunto il gusto metallico della latta. Si riscontra particolarmente con vini bianchi aciduli che accompagnano piatti di pesce salato e sott’olio.
Legnoso: si dice di un vino che al gusto ricorda il tipico sapore di muffa secca, che è proprio dei fusti o delle botti rimaste molto tempo poco curate: il vino assume così quel caratteristico aroma e gusto di legno intaccato da varie specie di muffe.
Lucido: termine riferito all’aspetto di un vino, che nella scala dei valori si classifica come meno che limpido.
Macchiato: dicesi di un vino bianco che ha preso un colore più o meno rosato a seguito di un soggiorno in un fusto che aveva prima contenuto del vino rosso. Vini macchiati si ottengono anche dalla vinificazione in bianco di uve nere per l’ottenimento di prodotti base da spumantizzare (pinot neri).
Magro: si dice di un vino debole, povero di sostanze estrattive, quindi di esile struttura. Questo termine viene però usato anche per indicare dei vini che, seppure deboli, hanno buon nerbo e discreta sapidità, per la ricchezza di Sali minerali. In quest’ultimo caso è caratteristica positiva.
Nerbo: si dice di un vino di qualità che alla degustazione rivela corpo e carattere. È un elemento positivo e di qualità.
Nervoso: termine usato per indicare vini particolarmente bene equilibrati, la cui morbidezza è arricchita da brio e vivacità. Si dice di un vino vivo, che ha anche qualcosa di più, dovuto forse a sostanze specifiche, tale da dare impressione che la vivacità non si fermi alla sola sensazione delle papille gustative ma arrivi a tutti i nervi.
Netto: sinonimo di franco: indica di un vino dal sapore fondamentale particolarmente evidenziato, dalle sensazioni gustative che si completano vicendevolmente in bocca.
Neutro: si dice di un vino che non ha né aromi né altre caratteristiche particolari derivanti dal vitigno di provenienza o dal terreno. Si tratta generalmente di vini che si prestano particolarmente bene a miscele e tagli come mezzo per ricavare, con altri vini che vengono aggiunti, determinati tipi. Un vino di questo carattere ha sempre un’acidità piuttosto modesta.
Nobile: è un termine che si può giustamente usare per indicare vitigni, vigneti e vini con caratteristiche decisamente superiori alla norma. Un vitigno nobile, come un vigneto nobile, produce vino di certa distinzione e classe.
Opalescente: si dice di un vino che ha una velatura o un’appannatura che dà luogo, con il passaggio della luce, a riflessi variamente colorati (v. Iridescenza)
Ordinario: termine usato per qualificare un vino senza caratteri specifici, ma sano e senza difetti, di qualità comune, consumato come vino da tavola, di uso corrente.
Passante: si dice di un vino leggero con tenore alcolico e struttura modesti; gradevole a bersi e non impegnativo.
Passato: nella terminologia dell’aspetto gustativo si dice di un vino in fase di decadimento a causa dell’invecchiamento eccessivo o di una sosta prolungata in luogo a temperatura elevata.
Pelliccia: sensazione olfattiva di un odore organico che ricorda proprio quello della pelliccia animale. Si riscontra particolarmente nei vini rossi. Quando l’odore è più accentuato ricorda la pelliccia bagnata.
Piccante: è sinonimo di mordente. Dicesi di un vino ricco in anidride carbonica, che pizzica in bocca. Talvolta si usa impropriamente questo termine per contraddistinguere un vino con incipiente acescenza.
Piccolo: si dice di un vino poco importante, e cioè carente di corpo o di forza, che tuttavia può essere anche gradevole. Questo carattere è riscontrabile generalmente nei vini comuni, di suo quotidiano.
Pieno: è uno dei termini più positivi ed espressivi che si attribuisce al gusto. Si dice di un vino di un buon tenore alcolico, corposo ed equilibrato, che dà l’esatta sensazione del termine.
Polposo: nella terminologia dell’aspetto gustativo si dice di un vino “carnoso”, denso come consistenza.
Polveroso: termine riferito alla limpidezza. Si dice di un vino i cui sedimenti, ridotti in particelle minutissime, danno l’impressione di una nuvoletta di polvere. Talvolta si rileva anche al gusto.
Post-sensazioni: Sono quelle che appaiono dopo aver ingerito il vino o comunque dopo la sua espulsione dalla cavità orale, quando cioè lo stimolo se ne è andato o ha cessato la sua azione.
Potente: si dice di un vino a gradazione alcolica elevata con aroma e sapore molto accentuati. Si può usare anche il termine “possente”.
Povero: si dice di un vino mediocre, poco interessante, carente di struttura e nei componenti fondamentali, ma non necessariamente cattivo.
Precoce: si dice di un vino che giunge presto a maturazione, diventa bevibile in breve tempo, e guadagna poco con l’invecchiamento. Termine molto simile a “pronta beva”.
Pulito: termine che viene usato per indicare un vino genuino, gradevole al palato e sprovvisto di aromi estranei. Si dice tanto di un vino giovane, quanto di uno invecchiato.
Pungente: nella terminologia dell’aspetto gustativo si dice di un vino che dà un’immediata sensazione calorica sulle parti della bocca e nella faringe.
Putrido: si dice di un vino malato, affetto da girato, all’ultimo stadio della malattia. La materia organica (feccia) in via di decomposizione, sviluppa odori e sapori disgustosi. Un vino putrido è da buttare.
Quieto: si dice di un vino che non ha caratteri di effervescenza per svolgimenti gassosi (v. tranquillo).
Rasposo: termine riferentesi al sapore acquisito da un vino vinificato in presenza dei raspi per un periodo troppo accentuato. Si avverte un erbaceo troppo pronunciato e poco gradevole, che sfocia in un legno grossolano, con acidità fissa e tannini troppo accentuati.
Razza: nella terminologia dell’aspetto gustativo indica un vino in cui sono fusi perfettamente armonia e tipicità. È un giudizio altamente positivo, che si riscontra nei vini di qualità.
Robusto: si dice di un vino ricco di alcol, di estratto, pieno, che si rivela anche ben strutturato all’analisi chimica.
Rottura di colore: alterazione di natura enzimatica che consiste in un intorbidimento del liquido accompagnato da alterazione di colore. I vini rossi evidenziano un incupimento che precede la rottura definitiva: le sostanze coloranti si depositano e sedimentano sotto forma di materia amorfa di colore bruno o cioccolato, mentre la fase liquida assume tonalità brunastre o tendenti al mattone: nei vini bianchi si ha un ingiallimento spinto che porta la tinta fino al colore ambrato carico, bruno. Si tratta nell’uno e nell’altro caso della “casse” bruna e ossidatica, frequente nei vini provenienti da uve attaccate da muffa grigia.
Ruggine: sgradevole sensazione gustativa che ricorda proprio il sentore metallico della ruggine che è evidenziata particolarmente da errati accoppiamenti cibo-vino: un tipico gusto di ruggine è quello dato dal salmone affumicato, dalla bottarga, dalle aringhe affumicate… con vini bianchi secchi, rotondi.
Ruvido: nella terminologia dell’aspetto gustativo si dice di un vino generalmente giovane, che di solito è stato fatto fermentare troppo a lungo con le parti solide del grappolo e soprattutto con i raspi. Si può modificare de ottenere nel tempo con la maturazione e l’invecchiamento. Questo termine è molto simile ad angoloso, aspro, duro.
Salato: si dice di un vino che al gusto dà questa impressione. È una delle più importanti sensazioni gustative: viene percepita ai bordi e al centro della lingua.
Salmastro: si dice di un vino che al gusto esprime il tipico sapore del sale comune di cucina o il salato amarognolo dell’acqua marina. Si riscontra in taluni vini prodotti in terreni limitrofi al mare.
Sano: si dice di un vino che non presenta alterazioni o difetti, pulito, ben equilibrato.
Sapido: nella terminologia dell’aspetto gustativo indica un vino di buona razza, che dà una gradevole sensazione in bocca. Si rileva particolarmente nei vini provenienti da terreni ricchi di Sali minerali. È molto simile a salato.
Saponoso: si dice di un vino che al gusto è poco gradevole, insipido, con scarsa acidità, che al palato dà una sensazione di mollezza.
Saporoso: si dice di un vino maturo, morbido, espressivo, senza spigolosità.
Sbattuto: termine che si usa per indicare un vino che ha subito un “trauma” o dovuto al trasporto o a pratiche di cantina come travasi, filtrazioni, centrifugazioni… È comunque uno stato transitorio, più o meno lungo, che ha termine quando il vino è riposato ed ha trovato il suo giusto equilibrio.
Sbollito: si dice di un vino che la gusto dà una sensazione di stanchezza e che non ha seguito un processo di invecchiamento favorevole perdendo nerbo e personalità.
Scappa in bocca: termine usato nella degustazione per indicare un vino che dà delle sensazioni, seppur gradevoli, troppo sfuggenti tanto da riuscire deludente.
Serico: termine riferito da un vino particolarmente morbido e fine che ricorda la morbidezza della seta. Si dice anche setoso.
Smaccato: termine riferito ad un vino di sapore dolce e fruttato, piuttosto ordinario e sgradevolmente persistente. È un elemento negativo.
Spesso: si dice di un vino ricco di sostanze estrattive, grossolano.
Stagionato: si dice di un vino che, senza essere vecchio, ha raggiunto la giusta maturità.
Tenue: nella terminologia dell’aspetto olfattivo e visivo esprime una valutazione di intensità. È sinonimo di sfumato.
TERMINOLOGIA DELL’ASPETTO GUSTATIVO
I vini vengono classificati tenendo conto di quattro diversi parametri:
In rapporto agli zuccheri
secco (inferiore allo 0,3%)
rotondo (0,4-0,5%)
abboccato (0,6-1,3%)
amabile, sulla vena (1,4-2,5%)
pastoso (4-5%)
dolce (5-10% e più)
In rapporto all’acidità
sapido (5-6%)
fresco (6-7%o)
acidulo (8-9%0)
acido (9-10%)
nervoso (10-12%)
acerbo (12%o e più)
insipido (3-5%)
In rapporto all’alcol
leggero (10-11%)
caldo (11-13%)
molto caldo (13-14%)
generoso (14% e più)
In rapporto agli estratti
pesante (+ del 35)
robusto (30-35%)
di corpo (25-30%)
pieno (22-25%)
sapido (18-22%)
magro (16-18%)
vuoto (14-15%)

TERMINOLOGIA DELL’ASPETTO OLFATTIVO
L’esame dell’aspetto olfattivo di un vino è composto di due momenti: l’intensità e la qualità, quest’ultimo suddiviso in due periodi: Valutazione e riconoscimento.
Intensità
Intenso
Persistente o continuo
Pronunciato
Ampio
Sottile
Sfuggente
Tenue
Qualità


1° Valutazione
Acuto
Delicato
Etereo
Fine
Fragrante
Fresco
Fruttato
Netto
Penetrante
Sgradevole
Vinoso

2° Riconoscimento
Alcuni odori di frutti:
Lampone
Fragola
Mela acerba
Mela delizia
Mela renetta
Mela cotogna
Pesca
Prugna
Marasca
Limone
Arancia
Pera Williams
Mandorla fresca
Mandorla tostata
Nocciola
Albicocca
Bergamotto
Cacao
Melograno
Ciliegia
Pompelmo
Fichi secchi
Confetture varie
Prugna secca
Noce di cocco
Mallo di noce
Vaniglia
Ribes nero
Banana
Ananas
Mora selvatica
Alcuni odori di fiori
Rosa fresca
Rosa appassita
Violetta
Garofano
Sambuco
Ginestra
Tiglio
Fior di pesco
Fresia
Fior di campo
Alcune erbe aromatiche
Salvia sclarea
Lauro
Liquerizia di legno
Caffè
Cannella
Chiodi di garofano
Spezie
Anice
Maggiorana e basilico
Ginepro
Limoncella
Finocchio
Alcuni odori organici
Pelliccia
Ambra
Sterco di pollo
Buccia di formaggio
Alcuni odori di sottobosco
Tartufo
Mirtillo
Resina
Muschio
Odori diversi
Erbaceo
Erba tagliata
Fieno
Pietra focaia
Terra
Pasticceria
Agliaceo
Catrame
Muffa
Confettura
Crosta di pane
Miele

TERMINOLOGIA DELL’ASPETTO VISIVO
L’aspetto visivo di un vino viene esaminato secondo quattro momenti successivi in un ordine bene preciso:
1° fluidità (in rapporto diretto con l’alcol e la glicerina)
scorrevole
oleoso
presenza di archetti stretti o ampi

2° effervescenza (per gli spumanti)
perlage fine e persistente
perlage breve e grossolano
spuma persistente o evanescente


3° limpidezza
cristallino (solo-per vini bianchi)
lucente (solo per vini bianchi)
brillante
limpido
velato
opaco
torbido
presenza di tartrati

4° colore
Vini bianchi
Bianco carta
Paglierino con riflessi verdolini
Giallo paglierino
Giallo paglierino carico
Giallo oro
Giallo oro antico
Ambrato
Riflessi verdolini – dorati – ambrati
Vini rosati
Cerasuolo
Rosato
Ramato
Buccia di cipolla
Riflessi aranciati
Vini rossi
Rosso porpora
Rosso rubino scarico
Rosso rubino
Rosso rubino carico
Rosso rubino tendente al granato
Rosso granato
Rosso ambrato
Rosso aranciato
Rilessi mattone


Terroso: Si dice di un vino dal sapore poco gradevole e marcato, specifico delle zone di provenienza (specie quelle pugliesi) che lascia nella parte posteriore della bocca questo tipico sapore.
Untuoso: nella terminologia dell’aspetto gustativo si dice di un vino grasso, che dà una sensazione di untuosità per ricchezza di sostanze estrattive e soprattutto di glicerina.
Uova marce: sgradevole sensazione olfattiva e gustativa dovuta alla presenza di acido solfidrico o sue combinazioni come i mercaptani. Si ha particolarmente in vini provenienti da vinificazioni mal condotte, con troppo prolungato contatto con fecce in decomposizione, in condizioni di riduzione. Se è poco pronunciato può essere eliminato o diminuito con travaso arieggiante.
Vaniglia: pianta coltivata ai Tropici in diverse varietà. Piacevole sensazione olfattiva che si riscontra particolarmente nei vini rossi invecchiati in botte.
Vecchio: si dice di un vino che ha raggiunto o superato la maturazione e che ha assunto caratteri ben definiti di profumo, sapore e colore. Questo termine è relativo, perché varia secondo i vini a cui si riferisce: di solito si intende un periodo tra i 5 e i 15 anni.
Velato: nella terminologia dell’aspetto visivo si dice di un vino la cui limpidezza è alterata da una minima quantità di materia in sospensione. È proprio dei vini giovani appena dopo la fermentazione primaria, scompare dopo un po’ di tempo con la sedimentazione spontanea. A volte può essere causato anche da una malattia.
Vini tipici: possono così essere dichiarati solo i vini da tavola posti in commercio con una indicazione geografica di origine. In pratica con tale termine si intendono gli ex vini a denominazione semplice non speciali, ora non più dichiarabili tali.
Vino corrente: si dice di un vino senza particolari pregi, di largo consumo, moderatamente alcolico, che generalmente si consuma giovane. Bisogna considerare che i vini correnti rappresentano il 70 per cento della produzione italiana. Questo tipo di vino, pur non avendo doti di alta qualità, si presenta onesto anche nel prezzo, che naturalmente deve essere basso ma giusto.
Vino da arrosto: a grandi linee, per quanto riguarda l’abbinamento cibo-vino (armonia) sono considerati vini da arrosto quei tipi rossi di qualità superiore, di buon corpo e tenore alcolico, con medio o lungo invecchiamento. Prendono questo nome perché si abbinano appunto con le carni rosse e con la selvaggina.
Vino da dessert: genericamente sono chiamati da dessert tutti i vini che hanno un sapore dolce, armonico, variabile a seconda del contenuto zuccherino. Di essi fanno parte vini bianchi e rossi, tranquilli e spumanti, passiti e liquorosi. Vengono serviti a fine pasto per accompagnare appunto frutta e dolci ad eccezione degli agrumi, dei gelati e delle preparazioni dolciarie a base di cioccolato.
Vino da messa: è il vino impiegato durante il rito della Messa. Deve essere prodotto in conformità alle regole della chiesa cattolica per quanto riguarda la genuinità e il contenuto alcolico. Generalmente sono vini dolci e semi passiti provenienti da moscati o malvasie (e, qualche volta, ci sono anche dei vini qualitativamente non ottimi).
Vino da pasto: viene così chiamato perché è il vino moderatamente alcolico, di largo consumo, che solitamente viene bevuto a tavola durante i pasti. Sono rossi, rosati o bianchi, dei tipi comuni, fini o superiori che spesso vengono inquadrati nella categoria dei V.Q.P.R.D., perché hanno ottenuto il riconoscimento della denominazione d’origine controllata.
Vino da pesce: in genere è un vino bianco. Oggi però questa indissolubile equazione è superata: con diverse preparazioni culinarie bene si armonizzano anche vini rosati e rossi leggeri, fragranti, giovani. La consistenza delle carni del pesce, la provenienza, il sistema di cottura e gli ingredienti che vi partecipano (anche la quantità di essi) vanno parimenti al corpo, al grado alcolico e di maturazione: comunque quest’ultimo, generalmente, non deve superare i due anni se non per vini bianchi eccezionali che si prestano ad un maggior invecchiamento.
Vino da taglio: viene utilizzato per correggere gli altri vini, migliorandoli. È in genere un vino dalle caratteristiche speciali principalmente carico di colore e ricco di alcol. Anche le norme che regolano la D.0.C. lo ammette in percentuali che variano da tipo a tipo (v. TAGLIARE, TAGLIO).
Vino da tavola: nella normativa CEE sono vini da tavola i vini diversi dai V.Q.P.R.D., provenienti esclusivamente da varietà di viti consentite, prodotti nella Comunità, aventi una gradazione acolica effettiva ben determinata secondo le zone, quella totale non superiore ai 15 gradi (ma anche 17 in taluni casi), aventi inoltre un’acidità totale non inferiore a g 4,5 per litro. In passato questi prodotti erano normalmente chiamati semplicemente ‘‘vino” o ‘vino comune”; con le norme CEE del 1970 questi nomi sono stati cambiati in ‘‘vino da pasto”, ora a sua volta sostituito (ma non in tutta la legislazione) con il nuovo termine di “vino da tavola”’. La menzione ‘vino da tavola” deve essere dichiarata obbligatoriamente sull’etichetta, in tutte le confezioni. | vini da tavola si dividono in due categorie: con indicazione geografica e senza indicazione geografica.
Vino fiore: si può dire di un vino ottenuto per fermentazione di un mosto fiore, od anche separato dalle vinacce, nella vinificazione in rosso, per semplice azione della forza di gravità (sgrondatura), quindi senza far uso di presse o torchi (v. MOSTO FIORE).
Vino in cucina: nell’elaborazione delle vivande il vino è sempre entrato come componente molto importante. Il suo uso competente porta indubbie esaltazioni qualitative al cibo. Il vino che viene usato in cucina non deve presentare alcun difetto; sono consigliabili vini di buona acidità, non eccessivamente tannici, di corpo discreto e profumati, giovani. Errato l’uso di vini scadenti o difettosi come qualcuno ancora fa; ciò vale per qualsiasi salsa o ricetta: significherebbe rovinare o squalificare una vivanda per un risparmio irrisorio. Il vino in cucina viene impiegato validamente anche nella preparazione di piatti delicati, come il pesce e salse leggere, mentre il suo uso più largo è nelle marinature e nelle cotture in civet per l’importante intervento nella cottura: ha lo scopo di legare le varie sostanze (ingredienti) dando una predominante di gusto caratteristica.
Vino nuovo: si dice di un vino (ottenuto con la tecnica particolare della macerazione carbonica) che viene imbottigliato a un paio di mesi dalla vendemmia e che deve essere consumato; per un miglior apprezzamento, entro sei mesi. Anche in Italia negli ultimi tempi si è cominciato ad immettere nel commercio parecchi tipi di vino nuovo, che hanno incontrato i favori del pubblico per le loro caratteristiche di freschezza, fragranza e di piacevole ‘beva’.
Vinosità: qualità positiva di un vino, specialmente giovane, riscontrabile all’olfatto (v. VINOSO).
Vinoso: nella terminologia dell’aspetto olfattivo indica un vino giovane, di buona struttura e gradazione alcolica, equilibrato, che ha il tipico odore del vino fresco. Da non confondere con “fruttato”.
Viscosità: nella terminologia dell’aspetto visivo è riferita alta fluidità di un vino. Si rileva particolarmente versando il vino nel bicchiere ed osservandone il comportamento sulla parte che ne lambisce la parete. La fluidità influisce sullo svolgimento dell’anidride carbonica negli spumanti.
Vivace: nella terminologia dell’aspetto gustati-vo si dice di un vino fresco, che spesso si presenta leggermente asprigno. E soprattutto dei vini giovani.
Vivo: si dice di un vino la cui vivacità è dovuta alla sua acidità fissa che impressiona piacevolmente il palato.
Volpino: termine che viene usato per definire il gusto caratteristico dei vini ottenuti da uve americane e da ibridi produttori di-retti. Si dice anche “foxy”.
Vuoto: nella terminologia dell’aspetto gustativo si dice di un vino poco alcolico e soprattutto che manca di struttura e di quella acidità fissa che gli darebbe la freschezza. È un elemento negativo. Vuoto è sinonimo di insipido, di piatto.

Le foto sono fatte da me

La storia dei tre arzilli dolcetto che dormivano educatamente nella loro bottiglia (con possibili varianti)

Farigliano – Tanaro d’inverno Di Luigi.tuby – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=18345596

Ho preso questo racconto breve di Raymond Queneau e l’ho rimodellato a mio piacimento Questo testo venne presentato all’83a riunione di lavoro dell’Opificio di letteratura potenziale (Oulipo) e si ispira alle istruzioni destinate agli ordinatori oppure all’insegnamento programmato. Il racconto originale si trova in «Les Lettres Nouvelles», luglio-settembre 1967, oppure in Raymond Queneau, Segni, cifre, lettere e altri saggi, Einaudi, Torino 1981

  1. Volete conoscere la storia dei tre arzilli dolcetto?

Se sì, passate al n. 4.

Se no, passate al n. 2.

  1. Preferite quella dei tre grignolino smilzi?

Se sì, passate al n. 16.

Se no, passate al n. 3.

  1. Preferite quella dei tre piccoli pignoletto?

Se sì, passate al n. 17.

Se no, passate al n. 21.

  1. C’erano una volta tre dolcetto vestiti di rosso rubino che dormivano educatamente nella loro bottiglia. Il loro viso rotondo e tannico respirava dai buchi del sughero e si sentiva il loro russare dolce e armonioso.

Se preferite un’altra descrizione, passate al n. 9.

Se vi va bene questa, passate al n. 3.

  1. Non sognavano. In realtà queste creature non sognano mai.

Se preferite che sognino, passate al n. 6.

Se no, passate al n. 7.

  1. Sognavano. In realtà queste creature sognano sempre e le loro notti sprigionano sogni affascinanti.

Se desiderate conoscere questi sogni, passate al n. 11.

Se non ci tenete, passate al n. 7.

  1. I loro piedini affondavano in caldi monosaccaridi esosi e portavano a letto guanti di fenoli rossi.

Se preferite guanti di colore diverso, passate al n. 8.

Se vi va bene questo colore, passate al n. 10.

  1. Portavano a letto guanti di antociani ossidati di colore rosso aranciato.

Se preferite guanti di colore diverso, passate al n. 7.

Se questo colore vi va bene, passate al n. 10.

  1. C’erano una volta tre dolcetto che giravano il mondo rotolando sulle strade maestre. Venuta la sera, stanchi morti, si addormentarono molto rapidamente.

Se volete conoscere la continuazione, passate al n. 3.

Se no, passate al n. 21.

  1. Facevano e tutti e tre lo stesso sogno; infatti si amavano teneramente e, da buoni e baldi trimelli, sognavano sempre allo stesso modo.

Se volete conoscere il loro sogno, passate al n. 11.

Se no, passate al n. 12.

  1. Sognavano di andare a prendere i solfiti alla cantina sociale e di scoprire, aprendo i sacchetti, che si trattava di solforosa caducata. Inorriditi si svegliano.

Se volete sapere perché si svegliano inorriditi, consultate la Treccani alla parola «caduco» e non parliamone più.

Se giudicate inutile approfondire la questione, passate al n. 12.

  1. Poffarbacco! esclamano aprendo gli occhi. Poffarbacco! che sogno abbiamo partorito ! Brutto presagio, dice il primo. Certo, dice il secondo, è proprio vero, eccomi triste. Non turbatevi cosi, dice il terzo che era il più furbo, non bisogna preoccuparsi, ma capire, insomma, ve lo ana-lizzerò.

Se volete conoscere subito l’interpretazione di questo sogno, passate al n. 15.

Se invece desiderate conoscere le reazioni degli altri due, passate al n. 13.

  1. Ce le spari grosse, dice il primo. Da quando in qua analizzi i sogni? Già, da quando? incalza il secondo.

Se volete sapere anche da quando, passate al n. 14.

Se no, passate ugualmente al n. 14, perché non lo saprete comunque.

  1. Da quando? esclamò il terzo. E che ne so! Sta di fatto che ho esperienza in materia. State a vedere.

Se volete vedere anche voi, passate al n. 15.

Se no, passate ugualmente al n. 15, tanto non vedrete niente lo stesso.

  1. Ebbene, vediamo! dissero i suoi fratelli. La vostra ironia non mi piace, replicò l’altro, e non saprete niente. D’altronde, durante questa conversazione piuttosto animata, il vostro senso d’orrore non si è attenuato? o non è addirittura svanito? A che pro allora smuovere il pantano del vostro inconscio di liquidi odorosi? Andiamo piuttosto a rinfrescarci alla fontana e a salutare questo gaio mattino nell’igiene e nella santa euforia! Detto fatto: eccoli che scivolano fuori dalla bottiglia, si lasciano dolcemente scivolare per terra sino al teatro delle loro abluzioni.

Se volete sapere che cosa succede nel teatro delle loro abluzioni, passate al n. 16.

Se non lo volete sapere, passate al n. 21.

  1. Tre grignolino smilzi li stavano a guardare.

Se i tre grignolino non vi piacciono, passate al n. 21.

Se vi vanno bene, passate al n. 18.

  1. Tre piccoli pignoletto li stavano a guardare.

Se i tre piccoli pignoletto non vi piacciono, passate al n. 21.

Se vi vanno bene, passate al n. 18.

  1. Vedendosi cosi adocchiati, i tre arzilli dolcetto che erano molto pudichi se la svignarono.

Se volete sapere che cosa fecero dopo, passate al n.19.

Se non lo volete sapere, passate al n. 21.

  1. Scivolarono molto veloci per raggiungere le loro bottiglie e, tappandosele alle spalle, vi si addormentarono di nuovo.

Se volete sapere il seguito, passate al n. 20.

Se non lo volete sapere, passate al n. 21.

  1. Non c’è seguito, il racconto è finito.
  1. Anche in questo caso, il racconto è finito.

La foto è tratta da frenchpeterpan.com (1962)

IL CIBO DEI RIBELLI. In onore di quelle donne e di quegli uomini che hanno combattuto per la giustizia e la libertà. Le nostre.

Carmen Bisighin, che ho avuto l’onore di conoscere, mamma del mio caro amico Riccardo, apre il corteo di Giustizia e Libertà a La Spezia

LA PASTASCIUTTA DEL 25 LUGLIO 1943

Nella notte tra il 24 e il 25 luglio il Gran Consiglio del Fascismo approva con 19 voti favorevoli, 7 contrari e 1 astenuto, l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi che esautora Mussolini dalle funzioni di capo del governo. Poche ore dopo l’ormai ex duce è fatto arrestare e imprigionare dal re Vittorio Emanuele III. Non è la fine del fascismo, ma l’inizio di una nuova storia.

E’ una storia che parte dalla fine, quella dei sette Fratelli Cervi e di Quarto poligono Camurri. Dallo sparo unisono che alle 6,30 del 28 dicembre 1943 falciò al Poligono di Tiro di Reggio Emilia le vite di Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore insieme al compagno di lotta di Guastalla. (Istituto Alcide Cervi – Gattatico (RE)

Alcide Cervi racconta in “I miei sette figli” (Editori Riuniti, Roma 1989)

“[…] Prendiamo il formaggio dalla latteria, in conto del burro che Alcide Cervi si impegna a consegnare gratuitamente per un certo tempo quanto basta. La farina l’avevamo in casa, altri contadini l’hanno pure data, e sembrava che dicesse ‘mangiami’, ora che il fascismo e la tristizia erano andati a ramengo. Facciamo vari quintali di pastasciutta insieme alle altre famiglie. Le donne si mobilitano nelle case, intorno alle caldaie, c’è un grande animazione, e il bollire suonava come una sinfonia. Ho sentito tanti discorsi sulla fine del fascismo ma la più bella parlata è stata quella della pastasciutta in bollore. Guardavo i miei ragazzi che saltavano e baciavano le putele, e dicevo: ‘Beati loro, sono giovani e vivranno in democrazia, vedranno lo Stato del popolo. Io sono vecchio e per me questa è l’ultima domenica.’ Ma intanto la pastasciutta è cotta, e colmiamo i carri con i paioli. Per la strada i contadini salutano, tanti si accodano al carro, è il più bel funerale del fascismo. Un po’ di pastasciutta si perde per la strada per via delle buche, e i ragazzoli se la incollano sotto il naso e sui capelli. Arriviamo a Campegine tra braccia di popolo e scarichiamo la trattoria. Uno dice: ‘Mettiamoli tutti in fila, per la razione.’ Nando interviene: ‘Perché? Se uno passa due volte è segno che ha fame per due.’ E allora pastasciutta allo sbrago, finché va. Chi in piedi e chi seduto, il pranzo ha riempito la piazza grande […]”.

Testimonianza di Eletta Bigi nata nel 1925 a Campegine  

“Facevo la staffetta quando c’era bisogno, fra Campegine, Cavriago, Poviglio, Cadelbosco, sempre in bicicletta. Ho fatto tanti chilometri. Facevo quello che c’era bisogno di fare. Al primo giro Gelindo mi ha mandato a prendere una rivoltella dai recitanti, dai Sarzi. Va bene, io ci sono andata. Già prima della pastasciutta. Poi il 25 luglio era caduto il duce. I Cervi non avevano la radio, non avevano nemmeno la luce elettrica per farla andare. Ma la gente andava in giro, c’era tanto entusiasmo. Così Aldo è andato a Reggio Emilia, al suo ritorno Gelindo diceva: “Anche qua bisogna fare qualcosa”. Ha contattato il fornaio Amadeo Rapacchi di Case Cocconi che faceva anche la pasta. Abbiamo portato 170 chili da impastare: 100 chili hanno dato i Cervi dei “Campi Rossi”, 50 chili i Cervi del “Tagliavino” e 20 chili i Bigi di Vicolo Parigi. Rapacchi aveva le macchine per fare il pastaio. E poi era antifascista anche lui. La pasta veniva fuori dagli stampi, faceva i maccheroni. Che poi dovevano asciugare, però usava degli attrezzi per stendere e aveva i forni per asciugare. La pasta cruda è stata portata nei sacchi, sul carretto del latte, alla latteria di Caprara, per bollirla nelle caldaie e un po’ di pasta è stata portata anche alla latteria di Campegine. Sotto le caldaie con la legna si faceva il fuoco. E io c’ero a grattugiare il formaggio. La pasta cotta è stata messa nei bidoni del latte e condita con il burro e il formaggio. Ce li ha messi la latteria. Avevamo una biga con il cavallo guidato da Gelindo, così siamo andati in piazza. Sotto i platani, fra il Comune e il cimitero. C’era il sole. Quanta gente, era piena la piazza, perché la gente aveva fame. Usciva di casa con il piatto in mano. Non c’erano mica i piatti di plastica. E noi l’abbiamo distribuita dai bidoni sui piatti. Gelindo ha anche parlato con il maresciallo dei Carabinieri, diceva: “Facciamo niente di male, diamo solo da mangiare alla gente, la gente ha fame!” C’era il pozzo in piazza, la fontanella, abbiamo bevuto solo acqua, niente vino. E niente pane, niente dolce, la pasta e basta”.

Ingredienti

Piatto unico e senza pane, per saziare centinaia di persone ci vogliono circa 2 quintali di pasta, oppure 1 kg per 3 persone. Maccheroni di farina di grano tenero, senza uova, impastata con l’acqua.

Preparazione

Bollire per alcuni minuti e condire con burro e parmigiano-reggiano. Senza pomodoro, senza ragù. Da servire con acqua pubblica, dal pozzo o dal rubinetto

Fonte: in «Pollicino Gnus» numero 209 – ottobre 2012, Sapori sovversivi, pp. 8- 10 https://www.pollicinognus.it/pdf/2012/209-ott2012-monografico-Sapori%20Sovversivi.pdf

anarchici nella Resistenza (tratto da A- Rivista Anarchica)

8 SETTEMBRE 1943

La data dell’annuncio dell’armistizio con gli Alleati e della fine dell’alleanza militare con la Germania, ma anche la data della dissoluzione dell’esercito italiano e della cattura di centinaia di migliaia di militari, a causa della mancanza di precise disposizioni da parte dei Comandi militari. La data dei primi episodi di Resistenza contro i tedeschi (a Roma, a Cefalonia, a Corfù, in Corsica, nell’isola di Lero), ma anche la data della frettolosa fuga del Re e dei membri del governo Badoglio a Brindisi (senza un piano di emergenza e senza disposizioni ai militari). Resistenzaitaliana.it

Alla vigilia dell’annuncio dell’armistizio la parola ricorrente nei diari è «incubo»: “il risveglio, dopo una notte di incubi – annota Bruna Talluri, che di lì a poco prese posto nelle fila della cospirazione – non ha dissipato i miei timori e neppure la penosa incertezza del domani. Molti parlano di tradimento. Noi non abbiamo tradito nessuno, mentre siamo stati traditi dai fascisti prima e poi dai nazisti. Gli inglesi in Calabria; i Tedeschi nel Lazio e sul Po. Povera Italia, quali mortali ferite ti hanno inferto i banditi delle glorie imperiali! Io credo che le truppe alleate non abbiano nessun interesse a piantare le tende nelle regioni italiane, ma se questo dovesse avvenire si risveglierebbe in noi lo spirito, da troppo tempo assopito, delle tradizioni rivoluzionarie e avremo la forza di gridare: «Vai fuori d’Italia, vai fuori o straniero». Noi vogliamo la libertà dei popoli e l’associazione dei popoli liberi. Oggi dobbiamo combattere contro i nazisti, che sono i nostri veri nemici. Noi non abbiamo tradito nessuno, mentre siamo stati traditi dai fascisti prima e poi dai nazisti”. (Luigi Ganapini, Voci dalla guerra civile, Storie di italiani 1943-1945, il Mulino, Bologna 2012)

 Testimonianza di  Bruna Talluri  

Cena di guerra.

“Ti siedi a tavola (argomento volgare che dimostra ancora una volta come lo spirito non basta per vivere) e sogni ad occhi aperti con lo stomaco che gorgoglia una sfilata di pani appena tolti dal forno con un contorno altrettanto profumato di salamini e di bistecche, di polli ben crogiolati allo spiedo e di patatine croccanti … il sogno svanisce. L’uggia allo stomaco rimane. Togli una briciola alla tua razione di pane, frenando il desiderio di mangiartela tutta in un solo boccone. Questo è il primo atto. Il primo gesto istintivo. Poi arriva pomposamente in tavola la focaccia di foglie di cavolo e la fame, quella vera, fa sembrare eccellente un piatto che, in una situazione normale, avresti gentilmente rifiutato. Divori silenziosamente la tua razione di cavoli, lesinando il pane per timore che non ti basti e studi possibili riduzioni geometriche per calcolare il numero di bocconi che puoi ricavare con il pane che ti rimane […]. Arriva il “pezzetto” e pulisci, lucidandolo con cura il tuo piatto. La cena è finita nel giro di pochi minuti. Altra pausa piena di speranza in una qualunque sorpresa. Entrano in scena gli aranci. Cavoli e aranci. Prima li sbucci, magari con il coltello e con la forchetta, lasciando sul piatto le bucce, poi, quasi distrattamente, mangi anche le bucce perché hai fame.

La cena è finita.

Siamo lieti e soddisfatti di essere un popolo civile, che tira la cinghia con il sorriso sulle labbra per vincerei barbari nemici che mangiano cinque volte al giorno e si lavano con il sapone, mentre noi ci laviamo con il grasso di maiale. Non riusciamo a reggerci in piedi, ma vinceremo”. (Patrizia Gabrielli, Scenari di guerra, parole di donne, Bologna, Il Mulino, 2007)

Fonte: Lorena Carrara, Elisabetta Salvini, Partigiani a tavola. Storie di cibo resistente e ricette di libertà, Lupetti Editore, Bollogna – Milano 2015

LA GUERRA PARTIGIANA

Beppe Fenoglio

“Eppure aveva dormito magnificamente nel fienile sotto lo spartiacque. Si era addormentato di colpo, aveva fatto appena in tempo a finir di seppellirsi sotto il fieno, con appena un piccolo tunnel scavato davanti alla bocca. La pioggia crosciava sul tetto buono del fienile, violentissima e dolce. Un sonno di piombo, senza sogni, senza incubi, senza la minima interferenza della difficile, terribile cosa da fare l’indomani. L’aveva poi svegliato un canto di gallo, l’uggiolio di un cane a valle e il silenzio della pioggia. Subito era sgusciato via da sotto il monticello di fieno. Sobbalzando sul sedere si era trasportato sul bordo del fienile ed era rimasto con le gambe penzoloni nel vuoto. Lì lo possedette la piena coscienza di sé, di Fulvia, di Giorgio e della guerra. Allora tremò, di un tremito unico ed interminabile che andò a trovargli fin i talloni, e pregò che la notte resistesse al giorno un po’ meglio di quel che facesse. Quand’ecco uscire dalla casa il contadino e sfangare verso la stalla, ancora fantomatico nella luce che cresceva a fiotti grigi. Milton stava strusciandosi il mento e il fruscio quasi metallico della barba lunga e rada si diffondeva per metri all’intorno. Infatti il contadino guardò su e restò secco. – Hai passato la notte lassù? Be’, meglio così. Non è successo niente ed io ho potuto dormire. Se ti avessi saputo sotto il mio tetto, non avrei chiuso occhio. Ma ora scendi –. Milton saltò a piedi uniti nell’aia, atterrando con un gran botto e un ampio spruzzo di fango. Restò piantato dov’era piombato, a testa china, tastandosi il cinturone. – Avrai fame, – disse il contadino, – ma io non ho proprio da darti da mangiare. Di una pagnotta mi potrei privare… – No, grazie. – O vuoi un bicchiere di grappa? Fossi matto. Il pane aveva sbagliato a rifiutarlo, ora si sentiva vuoto e inconsistente, quasi senza baricentro nei tratti più ripidi della calata, e si disse che gli conveniva fermarsi a chieder pane in qualche casa isolata prima di arrivare in vista di Canelli”. (Beppe Fenoglio, Una questione privata, Einaudi, Torino 1990)

“A un capo del paese un ribelle stava quartando un vitello per il rancio. Johnny si letificò animalmente, sentendosi una fame vorace, as new for a new dimensioned man. Nell’aria solatia e cristallina le carni aperte apparivano brillantate: il macellaio, incredibilmente insanguinato e furiosamente contratto in quella inesperta fatica di pura memoria visiva, si volse al loro passaggio con un fastidio non dissimulato, Era un contadino, giovane, balzato i primi giorni nei partigiani, come in una allegra e feroce rivolta al suo destino di servitù alla terra: leonino e di fronte angustissima, negli occhi glaciali un’unica scintilla soltanto nell’effusione della ferocia. Parve risentire estremamente il goalless, wallking passaggio dei due partigiani, uno dei quali nuovo e d’aspetto inequivocabilmente cittadino, passanti a bocca torta davanti alla sua all-serving fatica”. (Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi, Torino 1994)

Avevo sei anni!

Testimonianza di Marisa Zanetti in Donne della Resistenza : testimonianze di staffette partigiane della pianura bolognese / [a cura di Graziano Zappi “Mirco”], Comitato Antifascista Il Casone Partigiano in Partigiani a tavola, cit.

“Eravamo tutti in cucina. […] A un certo momento, mentre guardavo fuori, mi resi conto, tutto ad un tratto, che eravamo circondati da mezzi cingolati, da autoblindo […]. Faccio appena in tempo a dire: “Marcello corri, corri che ci sono i tedeschi” e lui corre su per la scala di legno e va a nascondersi. Con due calci contro la porta entrano due fascisti che avevano non so se un mitra o un fucile. Dietro di loro c’era un ufficiale tedesco con quattro o cinque tedeschi. Uno dei fascisti grida: “Marcello Zanetti”. Mio padre si alza: e sta per rispondere quando il graduato tedesco dice: “No, non voi, la bimba, la bimba”. Allora io scendo dalla sedia e mi metto a sedere sulla rola (era un ripiano dove ci si sedeva per cuocere della carne e per scaldarsi meglio) del camino con il fuoco acceso. L’ufficiale mi viene vicino e molto educatamente mi chiede: “Ti piace il cioccolato?”. “Certo che mi piace rispondo”. Lui mette un pezzo di cioccolato sulla rola di fianco a me e poi mi dice: “Guarda io sono un amico di Marcello e avrei bisogno di parlargli ma non riesco a trovarlo, tu sai dov’è?” Io dico: “Sì, è a lavorare”. “A lavorare dove?” “In stazione di ferrovia, a quest’ora è a lavorare”. “Guarda che io in stazione ci sono andato e non l’ho trovato”. Allora io ho fatto un’esclamazione. Mi pare di ricordare di essere stata quasi un’attrice in quel momento: “Ahhh” Poi ho allungato una mano, un po’ timidamente, verso la manica del suo cappotto e ho detto: “Allora sa una cosa? A Marcello piacciono molto le signorine. Vedrà che è andato a cercare una signorina”. Detto questo, il tedesco mi allungò il cioccolato, mi mise una mano sulla testa, mi scompigliò i capelli. E poi diede quattro cinque ordine secchi, ed uscirono tutti quanti. Avevo sei anni”.

Svariati attori per svariati drammi: il Produttore, il Critico, il Vino

Pessoa in 1929, drinking a glass of wine in a tavern of Lisbon’s downtown.
By Unknown author – Círculo de Leitores, Fernando Pessoa – Obra Poética, Vol. I, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=9478815

L’essere umano è abituato a distruggere grammatiche per edificarne delle altre: nel campo della degustazione del vino si contrappongono, nella sostanza, due pratiche filosofiche che rilevano consuetudini sensoriali.

La prima e più diffusa, di ordine “fisicalista”, suppone che la realtà sia costituita essenzialmente da elementi fisici esterni e indipendenti dalla mente. La separazione tra mente e realtà fisica produce uno spazio oggettuale e indipendente in cui si realizza il processo di valutazione: questo spazio relazionale biunivoco può essere riempito e condizionato da influenze personali o impersonali, sociali, economiche, culturali, politiche e via dicendo. Benché e nonostante le influenze esterne, lo spazio di oggettivazione ha comunque uno suo statuto disciplinare coerentemente inteso e modificabile soltanto quando la comunità di appartenenza (sommelier, enologi o altro) stabilisce che uno o più parametri valutativi in quel preciso campo sono da rinnovare, da aggiornare o da cambiare completamente. Il vino “fisicalista” è oggetto di comprensione e valutazione: sebbene la relazione sia biunivoca, il peso del giudizio risiede unicamente nel soggetto dotato di coscienza attiva e verbale. Il vino, come è facile intuire, non ha diritto di parola e neppure di replica.

La seconda, di ordine puramente relazionale, annulla il campo oggettuale e valutativo per concedere sollo allo spazio relazionale, mente-mente, lo statuto disciplinare atto a produrre la forma e la conoscenza del vino. Questi, ma potrebbe essere qualsiasi altra realtà oggettuale, si costituisce, si dà fisionomia e significato solo nel rapporto tra persone. Il frame, ovvero la cornice spazio-temporale, significa ed esaurisce il senso del vino: non esiste un prima e non potrà esserci un dopo. Al di fuori del contesto di condivisione non si dà alcuna forma di giudizio: l’assenza della relazione è l’assenza dello spazio concettuale.

Potrebbero bastarci le grammatiche dell’oggetto (che cosa bevo) o le grammatiche del mezzo (con chi bevo) se la trattazione del soggetto significasse solo la messa in discussione delle categorie di “oggettivo” e di “soggettivo” e la loro inverosimile alterità reciproca. Il problema del chi beve, del chi giudica e del chi fa che cosa coinvolge il tema del soggetto in almeno due direzioni: quella della molteplicità e quella di una sua plausibile sparizione.

Parafrasando Roland Barthes si dovrebbe affermare che il Produttore regna ancora nei manuali di sommellerie, nelle biografie degli assaggiatori, nelle interviste della coscienza stessa degli uomini e delle donne di piacere, tese ad unire, con i loro diari intimi, la persona e l’opera. Allo stesso modo si cerca sempre la spiegazione della produzione di un vino sul versante di chi l’ha realizzato, come se, attraverso l’allegoria più o meno trasparente della pratica, fosse sempre, in ultima analisi, la voce di una sola e medesima persona, il Produttore, a consegnarci le sue «confidenze». Attribuire un Produttore ad un vino significa imporgli un punto fisso d’arresto, dargli un significato ultimo, chiudere l’assaggio. E’ una concezione molto comoda per la critica, che si arroga così l’importante compito di scoprire il Produttore (o le sue ipostasi: la società, la storia, la psiche, la libertà) al di sotto dell’opera: trovato il Produttore, il vino è «spiegato», il Critico ha vinto; non deve sorprendere, perciò, il fatto che storicamente il regno del Produttore sia stato anche quello del Critico, e che la critica sia oggi, insieme al Produttore, minata alla base.

“Guardando le modificazioni storiche che si sono succedute, non sembra indispensabile, assolutamente, che la funzione-autore rimanga costante nella sua forma, nella sua complessità e finanche nella sua esistenza. Si può immaginare una cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero ricevuti senza che la funzione-autore apparisse mai. Tutti i discorsi, qualunque sia il loro statuto, la loro forma, il loro valore e qualunque sia il trattamento che si fa loro subire, si svolgerebbero nell’anonimato del mormorio. Non si ascolterebbero più le domande così a lungo proposte: “Chi ha realmente parlato? È veramente lui e nessun altro? Con quale autenticità o con quale originalità? E che cosa ha espresso dal più profondo di se stesso nel suo discorso?” Ma altre come queste: “Quali sono i modi di esistenza di questo discorso? Da dove viene tenuto, come può circolare e chi può appropriarsene? Quali sono le ubicazioni predisposte per dei soggetti possibili? Chi può riempire queste diverse funzioni del soggetto?” E dietro a tutte queste domande non si capterebbe altro che il rumore di un’indifferenza: “Cosa importa chi parla?1

Questo ancora per dire che la questione dell’asservimento della Critica alla Produzione in un’ottica eminentemente clientelare è solo una piccola parte di una controversia molto più ampia: se non si riesce a comprendere in che modo funzionano i dispositivi di potere nella formazione dei discorsi, non si riesce neppure a capire come il soggetto, sia esso Produttore o Critico, possa ricoprire una molteplicità di ruoli, ovvero di funzioni, necessari alla replica o al capovolgimento dei meccanismi di potere. Il non-detto ha, in tutto questo, un peso enorme. Così come l’autocensura. Prima del chi parla, occorre chiedersi da quale pulpito strepita chi, per ordinamento sociale, ha diritto di parola.

E, infine, il confronto con noi stessi, quel difficile passaggio di indulgenza, mai di auto-assoluzione, per il fatto che non tanto di incoerenza si tratta perché coerenza dovrebbe essersi data, ma di inequivocabile e instabile molteplicità: se altri parlano per noi, noi non possiamo che parlare per altri: “Ho creato in me diverse personalità. Creo costantemente personalità. Ogni mio sogno, appena lo comincio a sognare, è incarnato in un’altra persona che inizia a sognarlo, e non sono io. Per creare mi sono distrutto: mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi” (Fernando Pessoa).

Allora, forse, le domande da fare e da porsi è: quali attori vogliamo interpretare e per quali drammi? Quali produttori e per quali vini? Quali critici e per quali vini?

1 Michel Foucault, Qu’est-ce un auteur (1969) in Id. Dits et écrits, Gallimard, Paris, 1994, tr.it. Che cos’è un autore? in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano, 1984.

Ricetta letteraria (n°3) Sulle orme di James Joyce

James Joyce nel 1915
Di Alex Ehrenzweig -commons:File:James_Joyce_by_Alex_Ehrenzweig,_1915.jpg, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=3191236

Al mattino del 16 giugno 1904 con Mr Leopold Bloom. E, per chi non lo sapesse, il 1904 fu un anno bisestile del secolo scorso. E anche il 2020 lo fu.

«Mr Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e di volatili. Gli piaceva la spessa minestra di rigaglie (interiora di volatili), gozzi piccanti, un cuore ripieno arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto d’urina leggermente aromatica. I rognoni erano nel suo pensiero mentre si muoveva quietamente per la cucina, sistemando le stoviglie per la colazione di lei (la moglie Molly) sul vassoio ammaccato. Luce e aria gelida nella cucina ma fuori una dolce mattina d’estate dappertutto. Gli facevano venire un po’ di prurito allo stomaco. I carboni si arrossavano. Un’altra fetta di pane e burro: tre, quattro: giusto. Non le piaceva il piatto troppo pieno. Giusto. Lasciò il vassoio, sollevò il bollitore dalla mensola e lo mise di sbieco sul fuoco. Stava lì, grullo e accosciato, col beccuccio sporgente. Tazza di tè fra poco. Bene. Bocca secca. La gatta interita girò attorno a una gamba del tavolo con la coda ritta.– Mkgnao!– Oh, sei qui, disse Mr Bloom, distogliendosi dal fuoco. La gatta rispose miagolando e girò di nuovo interita intorno a una gamba del tavolo, miagolando. Proprio come quando incede impettita sulla mia scrivania. Prr. Grattami la testa. Prr. Mr Bloom guardava curioso, gentile, la flessuosa forma nera. Pulita a vedersi: la lucidità del pelo liscio, il bottoncino bianco sotto la radice della coda, i lampeggianti occhi verdi. Si chinò verso di lei, mani sulle ginocchia. – Latte per la miciolina, disse. – Mrkgnao! piagnucolò la gatta. Li chiamano stupidi. Capiscono quello che si dice meglio di quanto noi non si capisca loro. Capisce tutto quel che vuole. Vendicativa anche. Chi sa che cosa le sembro io. Alto come una torre? No, mi salta benissimo. – Ha paura dei polli, lei, disse canzonatorio. Paura del pìopìo. Mai vista una miciolina così sciocchina. Crudele. La sua natura. Curioso che i topi non stridono mai. Sembra gli piaccia.– Mrkrgnao! disse forte la gatta. Guardò in su con gli occhi avidi ammiccanti per la vergogna, miagolando lamentosamente e a lungo, mostrandogli i denti bianco latte. Egli guardava le fessure nere degli occhi che si restringevano per l’avidità fino a che gli occhi divennero pietre verdi. Poi s’avvicinò alla credenza, prese il bricco che il lattaio di Hanlon gli aveva appena riempito, versò il latte tiepido gorgogliante in un piattino e lo posò lentamente in terra.– Grr! esclamò lei e corse a lambire. Guardò i baffi splendere metallici nella debole luce mentre lei ammusava tre volte e leccava lievemente. Chissà se è vero che se glieli tagli non pigliano più topi. Perché? Risplendono al buio, forse, le punte. O una specie di antenne al buio, forse. Tese l’orecchio al leccottìo. Uova e prosciutto, no. Niente uova buone con questa siccità. Ci vuole acqua fresca e pura. Giovedì: non è nemmeno giornata per un rognone di castrato da Buckley. Fritto nel burro, un zinzino di pepe. Meglio un rognone di maiale da Dlugacz. Aspettando che l’acqua bolla. Leccò più lentamente, poi ripulì ben bene il piattino. Perché hanno la lingua così ruvida? Per leccare meglio, tutta buchi porosi. Niente da mangiare per lei? Si guardò intorno. No.

Con le scarpe che scricchiolavano in sordina salì la scala fino al vestibolo, si fermò alla porta della camera da letto. Forse le piacerebbe qualcosa di saporito. Fettine di pane imburrato le piacciono la mattina. Forse però: una volta tanto. Disse a bassa voce nel vestibolo vuoto:– Vado qui all’angolo, torno tra un minuto. Udita la sua voce dir questo soggiunse:– Vuoi niente per colazione? Un debole grugnito assonnato, rispose: – Mn. No. Non voleva niente. Sentì poi un profondo sospiro caldo, più debole, mentre la donna si rivoltava e gli anelli d’ottone ballonzolanti della lettiera tintinnavano. Bisogna mi decida a farli riparare. Peccato. Fin quassù da Gibilterra. Dimenticato quel po’ di spagnolo che sapeva. Chissà quanto l’ha pagato suo padre. Vecchio stile. Eh sì, naturalmente. Comprato all’asta del governatore. Venduto al primo colpo. Tenace nel contrattare, il vecchio Tweedy. Sissignore. Fu a Plevna. Vengo dalla gavetta, signore, e ne sono fiero. Eppure aveva abbastanza cervello da far soldi coi francobolli. Questo si chiama esser previdenti. La sua mano tolse il cappello dal piolo, sopra il suo cappotto pesante con le iniziali, e l’impermeabile usato comprato all’ufficio oggetti smarriti. Francobolli: figurine dal retro adesivo. Direi che un sacco d’ufficiali siano nel giro. È naturale. La scritta sudaticcia nell’interno del cappello gli disse muta: Plasto i migliori capp. Sbirciò rapido all’interno della banda di cuoio. Cartoncino bianco. Bene al sicuro. Sulla soglia si tastò nella tasca posteriore dei pantaloni per accertarsi se aveva la chiave. Non c’è. Nei pantaloni che mi sono cambiato. Devo prenderla. La patata c’è (portafortuna che tiene in tasca). L’armadio scricchiola. Inutile disturbarla. Quando s’è rivoltata era piena di sonno. Si tirò dietro la porta d’ingresso molto piano, ancora un po’, finché la parte inferiore del battente ricadde piano sulla soglia, lento coperchio. Sembrava chiusa. Va bene finché torno comunque. Attraversò dalla parte del sole, evitando la botola malferma della cantina del numero settantacinque. Il sole si avvicinava al campanile della chiesa di S. Giorgio. Sarà una giornata calda immagino. Specialmente con questo vestito nero si sente di più. Il nero conduce, riflette (rifrange?), il calore. Ma non potevo uscire con quel vestito chiaro. Come andassi a un picnic. Le palpebre gli si abbassavano spesso dolcemente mentre camminava nel beato tepore. Il furgoncino del pane di Boland che distribuisce a domicilio in telai il nostro quotidiano ma lei preferisce le forme di pane di ieri rivoltate nel forno con la crosta superiore calda crocchiante. Ti fa sentir giovane. In qualche luogo dell’Oriente: mattina presto: muoversi all’alba, viaggiare intorno davanti al sole, rubargli una giornata di cammino. Seguitare sempre così mai diventare più vecchio d’un giorno tecnicamente. Camminare lungo una spiaggia, paese straniero, arrivare alla porta d’una città, sentinella lì, vecchio soldataccio anche lui, i baffoni del vecchio Tweedy appoggiato a una specie di lunga lancia. Vagare per strade all’ombra di tende. Volti in turbante che passano accanto. Oscure caverne di negozi di tappeti, un omone. Turko il terribile, seduto a gambe incrociate a fumare una pipa dalle grandi volute. Grida di venditori per le strade. Bere acqua aromatizzata al finocchio, sorbetto. Vagabondare tutto il giorno. C’è caso di incontrare qualche ladrone. Be’, incontriamolo. S’avvicina il tramonto. Le ombre delle moschee lungo le colonne: sacerdote con un cartiglio arrotolato. Un fremito negli alberi, segnale, il vento della sera. Io passo avanti. Cielo d’oro evanescente. Una madre sta a guardare dalla soglia. Chiama i figli a casa nella loro lingua oscura. Muro alto: oltre esso corde pizzicate. Luna nel cielo notturno, violetto, colore delle giarrettiere nuove di Molly. Corde. Ascolta. Una fanciulla suona uno di quegli strumenti, come si chiamano: ribeche (antico strumento a corda). Io passo. Probabilmente non è affatto così. Roba che si trova nei libri: nella scia del sole. Sole raggiante sulla testata. Sorrise, compiaciuto. Quello che disse Arthur Griffith della testatina sopra all’articolo di fondo del Freeman: il sole dell’autonomia che sorge a nord-ovest dal vicolo dietro la banca d’Irlanda. Prolungò il suo sorriso compiaciuto. Trovata da giudeo quella: sole dell’autonomia che sorge a nord-ovest. Si avvicinò alla mescita di Larry O’Rourke. Dall’inferriata della cantina veniva fuori a fiotti il molle fortore della birra. Dalla porta aperta il bar sprizzava effluvi di zenzero, polvere di tè, briciole di biscotti. Buon locale, comunque: proprio dove finisce il traffico della città. Per esempio M’Auley laggiù: niente bene come posizione. Certo se facessero passare una linea tranviaria lungo la Circonvallazione Nord dal mercato del bestiame fino al porto il valore andrebbe su come un razzo. Testa calva dietro la persiana. Vecchio volpone. Non c’è da provare a lavorarselo per un’inserzione. Del resto il suo mestiere lo sa meglio lui. Eccolo là, proprio lui, il mio bravo Larry, appoggiato in maniche di camicia al recipiente dello zucchero attento al garzone in grembiule che fa la pulizia con secchia e cencio. Simon Dedalus gli fa il verso a perfezione, con gli occhi strizzati. Sa che cosa le dico? Che cosa Mr O’Rourke? Sa che cosa? I russi, i giapponesi se li mangerebbero per colazione.

Fèrmati a scambiare una parola: sul funerale magari. Peccato il povero Dignam, Mr O’Rourke.Voltando per Dorset street disse arzillo salutando attraverso la porta aperta:– Buon giorno, Mr O’Rourke. – Buon giorno a lei.– Bel tempo, eh.– Come no. Dove li trovano i quattrini?Vengono garzoni dai capelli rossi dalla contea di Lei-trim, sciacquano vuoti e scolano fondi di bicchiere in cantina. E poi, attenzione,ti rispuntano come altrettanti Adam Findlar e Dan Tallon. Pensa anche alla concorrenza. Sete universale. Bel rompicapo sarebbe attraversare Dublino senza passare davanti a nessun bar. Metter da parte non possono. Fregano gli ubriaconi, forse. Segnano tre e riportano cinque. E con questo? Uno scellino qua uno là, a sgoccioli. Forse sulle ordinazioni all’ingrosso. Fanno il doppio gioco coi viaggiatori di commercio. Sistemala col padrone e ci dividiamo la torta, capito? Quanto farebbe al mese sulla birra soltanto? Diciamo dieci barili di merce. Diciamo uno sconto del dieci per cento. No, di più. Dieci. Quindici. Oltrepassò San Giuseppe, la scuola governativa. Urla di marmocchi. Finestre aperte. L’aria fresca rinforza la memoria. Oppure un coro cadenzato. Abbicci dieffegi cappel-lemmenne opicu errestiuvu vu doppio. Ragazzi sono? Sì. Inishturk. Inishark. Inishboffin. Hanno l’aggiograffia. Io ho la mia. Slieve Bloom».

(J. Joyce, Ulisse, trad. di G. De Angelis, Mondadori)

FINANZIERA ALLA PIEMONTESE (che sarebbe sicuramente piaciuta a Mr Leopold Bloom)

Ingredienti

100 g di animelle di vitello (lacèt)

100 g di cervella di vitello

100 g di filone di vitello (midollo spinale)

100 g di creste di gallo

2 testicoli di vitello

100 g di polpa di vitello tritata

100 g di filetto di vitello

100 g di rognone di vitello

100 g di fegato di vitello

100 g di fegatini di pollo

150 g di piselli sbucciati

100 g di funghi porcini sott’olio

burro

olio d’oliva

brodo

farina di grano 00 q.b.

un bicchiere di Barolo

un bicchierino di Marsala secco

un cucchiaio di aceto

sale

Procedura

Prendete un tegame piuttosto capiente atto a contenere tutti gli ingredienti della finanziera. In esso fate rosolare con un po’ di burro il rognone fatto a pezzettini e il filetto di vitello tagliato a striscioline. Appena rosolati, salate, aggiungete un po’ di brodo e mettete il tegame in caldo, a fiamma molto bassa. Con la carne tritata fate delle pallottoline grandi come nocciole, infarinatele e passatele in padella con un po’ di burro. Appena rosolate, salatele e mettetele nel tegame col filetto e il rognone.

Cuocete poi, in padella, gli altri ingredienti, uno alla volta e infarinati, cioè: i filoni, la cervella, i testicoli tagliati a fette, il lacetto, le creste di gallo, i fegatini di pollo e il fegato di vitello. Via via che hanno raggiunto la cottura, sistemateli sempre nel tegame, che manterrete umido col brodo e col Barolo che unirete poco alla volta. Cuocete infine i piselli con un po’ d’olio e di brodo e fate saltare in padella i funghi porcini sott’olio: unite poi piselli e funghi agli altri ingredienti. Amalgamate bene i componenti della finanziera che devono essere ben legati fra di loro.

Aggiustate di sale, se è il caso. Aggiungete il cucchiaio di aceto e il bicchierino di Marsala, alzate il fuoco per due minuti, poi servite immediatamente.

Tratto da https://langhe.net/recipes/finanziera/

Logogrifo di Barbera: BRERA (Gianni).

8 Settembre 1919 – 19 dicembre 1992

In memoria.

«Il vino va odorato con un lieve moto circolare del bicchiere, che lo arrubini e appanni prima di ricomporsi. Poi lo si accosta lentamente alle labbra e si alza in modo che la lingua ne sia ragionevolmente bagnata: papille gustative, terminazioni nervose delle gengive e delle guance, palato, retrobocca danno la misura del gusto, dell’acidità, del vigore e di tutte le doti o difetti che ho enumerato più sopra. Ma quando si sia definita la classe del vino, allora non bisogna indugiare troppo. Le ingenue ragazzole che centellinano sorso a sorso lo champagne, trattenendolo in bocca al punto da annegare le papille, quelle sono le più facili a perdere la tramontana. Il bere deve essere lento e continuo, quasi a formare sulla minor porzione di lingua un ruscelletto fluido e costante: meno si spande per la bocca e meno il vino ubriaca. Per contro, i bevitori ingordi si sborniano grossolanamente; ubriacarsi è quasi sempre disdicevole; inebbriarsi può essere bello ma è ben presto vietato agli abitudinari; bere, senza affogare il cervello è piacere sottile e raro, da veri specialisti».

Tratto da Gianni Brera, Il vino che sorride, http://www.brera.net/gianni/articoli/vino.html

Sarebbe meglio che ogni vino avesse un buon odore, cosicché nessuno possa permettersi di proferire queste spaventevoli parole: “Non vi è alcuna corrispondenza tra naso e bocca!”

Di Anonimo – sconosciuta, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=717378

“Il profumo ha una forza di persuasione più convincente delle parole, dell’apparenza, del sentimento e della volontà.

Non si può rifiutare la forza di persuasione del profumo, essa penetra in noi come l’aria che respiriamo penetra nei nostri polmoni, ci riempie, ci domina totalmente, non c’è modo di opporvisi”.

(Patrick Süskind, Il profumo)

Sarebbe meglio, in linea generale, che ogni vino avesse un buon profumo, meglio ancora se adeguato, confacente, consono, opportuno e proporzionato al contenuto liquido che esprime in bocca, cosicché nessuno, e ribadisco nessuno, possa permettersi di proferire queste spaventevoli parole: “Non vi è alcuna corrispondenza tra naso e bocca!”
Nel caso in cui i profumi siano di gran lunga superiori all’effettiva risonanza al palato, il bevitore non potrà fare a meno di essere deluso, sconcertato, e anche un po’ infastidito da quella profanazione del naso che mal si addice al contenuto assai modesto di un corpo asciutto e privo di quelle esuberanze giovanili che l’olfatto aveva ingannevolmente celato. I rinforzi, che siano mutande imbottite o push-up prorompenti, si sgonfiano assai presto e con cocente delusione degli interessati.
Al contrario, dei profumi difettosi costringono il malcapitato degustatore ad un atteggiamento sospettosamente prevenuto e irrimediabilmente difensivo: egli o ella è obbligata a dividere non solo il percorso della degustazione in due momenti nettamente separati (olfazione e deglutizione, per non parlare della vista), ma lo è altrettanto a separare parti del corpo (naso, papille, gola…) tanto da non permettere loro una dovuta corrispondenza e una necessaria unità d’intenti. Questa lacerazione corporea si tramuta ben presto in una afflizione d’animo assai tormentata e poco ben disposta.
A tal proposito sarebbe opportuno seguire l’indicazione che il fu Michel de Montaigne diede senza che alcun profumiere, o albergatore, o ristoratore, o scalco, o bottigliere gliene chiedesse conto: “La mia preoccupazione principale, quando cerco un alloggio, è di fuggire l’aria fetida e pesante. Quelle belle città, Venezia e Parigi, sminuiscono la mia predilezione per esse con il cattivo odore, l’una della sua laguna, l’altra del suo fango”. (Degli odori, capitolo LV nei Saggi)