Quando Genova era immersa nei vigneti

Dintorni di Genova nella Tabula Peutingeriana, un’antica carta romana che mostrava le vie militari dell’Impero (qui in una copia della fine del XIX secolo). Genova è segnata come stazione di rifornimento.Di Conradi Millieri – Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=9923655

Nell’autunno del 1975 Mario Soldati compie l’ultima tratta del suo giro per l’Italia, viaggio iniziato nel 1968 e proseguito nel 1973, alla ricerca di vini genuini e così, dopo aver solcato i meravigliosi nettari del Levante, capita in una Genova sì sfigurata, ma di tanta grandezza e civiltà che non può partire senza dire nulla dei suoi vini. E dunque Soldati va di proposito alla trattoria di Checu, padrone e cuoco, soprannominato dai foresti “Toro”, in via Demarinis a Genova Sampierdarena, per bere il vino di Begato (proprio quello dell’omonimo Forte): «bianco, lieve, delizioso, meno aspretto e meno chiaro del Coronata, ma più scivolante e più profumato(…) E, all’orecchio di Remo Borzini, che mi è accanto, mormoro la felice definizione, ch’egli ebbe un giorno a dare di questi genovesi, isole resistenti se altri mai: ‘L’aristocrazia degli umili1’»

Già in un’operetta del 1770 attribuita a Girolamo Gnecco, conte di Nervi, ci si lamenta che «la cognizione forse anche esagerata della mediocrità de nostri prodotti e della nostra agricoltura: quanto la passion forse troppo eccedente per lo commercio, e per li vantaggi, che da esso ritraggonsi hanno certamente allontanato un buon numero di persone dalla ricerca di quelli, che può somminìstrar l’agricoltura. (…) Ella è una verità incontrastabile che, se le arti, e il commercio si stabiliscono a danno dell’agricoltura o per qualunque altro motivo si distraggono quelle ricchezze che sono necessarie alla buona coltivazione e al miglioramento de’ fondi; questi vanno sempre più degradando, e non riportano que’ maggiori profitti che se ne posson ritrarre. Dello spender ne fondi (mezzo vantaggiosissimo all’agricoltura) non posson far uso i poveri agricoltori unicamente occupati a cavarne il proprio sostentamento, e solamente può impiegarvi danaro il Proprietario, dal quale assai comunemente viene ad altro oggetto rivolto. La terra non dà ricchezze se non in proporzione di quelle, che le sono confidare non moltiplica il frutto fuorché in ragione del travaglio, e della spesa2».

Genova è, per chiunque vi approdasse dall’anno Mille in avanti, piena di vigneti: tutta la fascia costiera è vitata, da Sampierdarena ad Albaro, e di particolare bellezza e specializzazione, a danno del prevalente ulivo, è la collina di Carignano: «All’altro capo della città la collina di Carignano sembra invece caratterizzata da una precoce specializzazione viticola. Si veda per esempio, in un documento dell’anno Mille, la permuta di terre fra l’abate di S. Stefano e due cittadini genovesi riguardante cinque appezzamenti siti in Carignano, di cui quattro definiti cum vinea et alios arbores fructiferos e uno cum vinea et alios arbores fructiferos et olivectis e altri documenti coevi con ulteriori indicazioni, sempre in Carignano, di vigne o di coltura promiscua a base viticola. Dato che abbiamo nominato l’abbazia benedettina di S. Stefano possiamo aggiungere che se sulle sue terre non risulta assente l’ulivo, tuttavia i più antichi contratti ad pastinandum3 concernenti terre del monastero non prevedono esplicitamente piantagioni di ulivi, ma soprattutto di viti e di castagni. L’area suburbana genovese sembra, a cominciare dal XIII secolo, andare assumendo il suo peculiare paesaggio: accanto ai numerosi insediamenti ecclesiastici e monastici, sui quali esiste una abbondante documentazione, cominciano a sorgere le “ville” dei cittadini e l’agricoltura va precocemente modellandosi sulle esigenze del mercato cittadino, come dimostra anche la formazione dell’area orticola della piana del Bisagno4».

Nell’attuale centro storico, dopo l’interramento del porto di Suxilie (Soziglia), l’intera area viene progressivamente adibita a diverse coltivazioni: i canneti (canneto il Lungo e canneto il Curto), lungo i rivi d’acqua, servono sia per l’edilizia che per scopi militari e poi granaglie e viti, che strappano terreni alla parte boschiva: via Luccoli, ad esempio, è un sentiero che attraversa un bosco consacrato alle divinità pagane. “Luculus” è la parola latina che indica il Bosco Sacro, dove”sacro” assume il significato etimologico di “separato5“.

Piazza Banchi segna, ad ovest, quella parte inurbata prima dei campi che, a nord, arriva sino a piazza Matteotti e da lì continua, attraversando piazza delle Erbe, sino al Castello.

«Ecco quindi i toponimi di Vigne da vineis e quello forse meno evidente di Campetto, deformazione tardo-medioevale di Ampelius da “àmpelos” greco vite e vigna. La città ruota allora nell’orbita bizantina, tantochè le Vigne di Soziglia vengono denominate Vigne dei Re perché oggetto di proprietà e di regalia imperiale: nel 965 tutta la zona è donata alla Basilica di San Siro (allora Cattedrale di Genova) e, dopo alcuni anni di alterne vicende circa l’effettivo possesso della stessa, nel 978 passa da Idone, visconte della città di Genova che la gestiva in quel momento, al figlio Oberto il quale per disposizione imperiale sul finire del X secolo lasciò definitivamente la proprietà alla Chiesa Genovese. Convenzionalmente nel 980 Oberto visconte coadiuvato da Ido di Carmandino promuove la costruzione di un nuovo, vero e proprio grandioso Tempio a Maria Vergine, in mezzo a quei terreni ancora coltivati a vigneto6, sotto l’egida di Teodolfo Vescovo7».

Ma è nella Val Bisagno che la curia vescovile ha il centro dei suoi interessi agricoli ed in particolare quelli legati alla coltivazione della vite ed alla produzione di vino, nelle zone di san Siro di Stroppa e di Montecignano. Dall’altra parte la val Polcevera vanta i vini della Costa di Rivarolo e di Coronata: «Il Bertolotti (Viaggio nella Liguria Marittima, 1834) con la sua abituale enfasi accenna ai vigneti di Val Polcevera ‘con indicibile studio tenuti’ per affermare poi: ‘La valle della Polcevera è la Tempe moderna. Se i suoi vini e i suoi olj corrispondessero in bontà alla singolare diligenza e vaghezza della sua coltivazione, ed alla magnificenza delle due ville, ella sarebbe più ricca che l’aurifera Valle di Cusco’». Le uve del Vino Coronata, tutte bianche, della Valpolcevera sono: Rollo, Vermentino, Bosco, Trebbiano, Bianchetta. Oggi rimane solo una piccolissima produzione del Coronata che così Francesco Mazzoli descrive: «Ne risulta un ‘bianco’ dal colore paglierino tendente al freddo, profumato di bosco. Gusto secco, asciutto ed allegro, con finale gradevolmente amarognolo e cosa allappantina. Talvolta sa di zolfo: dovuto a terreni nei quali detto minerale ha una consistente presenza. Ma tale sapore lo si toglie quasi del tutto con pazienti e tante travasature. I pigri però lasciano perdere: dicendo che è il gusto peculiare di Coronata8».

Che poi il vitigno di maggior pregio risieda in zone periferiche rispetto al grande centro urbano di Genova viene spiegato, da Quaini, con il fatto che i trasporti via mare sono più rapidi, più economici e più efficaci rispetto a quelli di terra a dorso di mulo, soprattutto in una regione come quella ligure, da cui l’interesse della capitale ad approvvigionarsi lontano dai suoi stretti confini urbani. Non solo come alimento e bevanda di importazione, il vino per la città di Genova è un mezzo importante di commercializzazione, soprattutto quello pregiato: «Alla Francia ed all’Inghilterra, dove, a detta di Giacomo Bracelli e Flavio Biondo, risultano estremamente apprezzati i vini delle Cinque Terre, noi potremmo aggiungere la corte papale, che già nel periodo avignonese importava vini da quei luoghi via mare. Sappiamo d’altronde che il commercio vinicolo era uno dei rami più fiorenti del traffico navale genovese. Certamente già nel Duecento c’è nel porto di Genova un pontile del vino, al quale attraccano le navi espressamente adibite al trasporto del prezioso liquido; ci sono una o più associazioni di tiratores lignorum che operano per l’attracco e forse anche per lo scarico dei navigli. Al pontile del vino approdano tanto le navi provenienti dalla Riviera di Levante quanto quelle provenienti dalla Riviera di Ponente, dalla Corsica e dall’Oltremare. I vini pregiati come quelli delle Cinque Terre e di Taggia, alimentano l’esportazione; i meno pregiati servono per il consumo interno, soprattutto per il vettovagliamento delle navi, ai cui marinai il vino (spesso ridotto in aceto) è indispensabile come la galletta. Né manca una produzione propria genovese come, ad esempio, quella dei vigneti della Val Polcevera, della Val Bisagno o di Quarto9»

1 Mario Soldati, Vino al vino. Alla ricerca dei vini genuini, Mondadori, Milano 2006 (ed originale 1977), pp. 606, 607, 609

2 Riflessioni sopra l’agricoltura del Genovesato co’ mezzi propri a miglîorarla e a toglierne gli abusi e vizj inveterati. Operetta dedicata a sua eccellenza il signor Marchese di Grimaldi, Stamperia Gesiniana, Genova MDCCLXX (pp. XX, XXI)

3 Con questo tipo di patto il “pastinatore” (letteralmente aratore, cioè il conduttore), decorso un periodo di mediamente sette anni dalla stipula del contratto, acquisiva la proprietà piena di metà del terreno coltivato A seconda delle colture: per la vigna era ad esempio di 12 anni. Si veda B. Andreolli, Contratti agrari e trasformazione dell’ambiente, in Uomo e ambiente nel Mezzogiorno Normanno-Svevo, per Atti VIII giornate normanno-sveve, Bari 1987

4 Atti della Società Ligure di storia Patria, Nuova Serie XII – (LXVIII) in http://www.storiapatriagenova.it/docs/biblioteca_digitale/ASLi_ns/ASLi_ns_12_2.txt

5 Giorgio Stara-Tedde (mio prozio), I boschi sacri dell’antica Roma, in “Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma”, 33 (1905), pp. 189-232

6Extra muros Janue apud rivum Suxilie ubi erant vinee”: a partire dal 1155 anche questa zona venne inglobata nelle “mura del Barbarossa”.

7 Francesco Pittaluga (a cua di), Breve storia della Basilica delle Vigne dalle origini ai giorni nostri, in http://www.acompagna.org/rf/1206_v/basilica_vigne.pdf

8 Francesco Mazzoli in Giannetto Beniscelli, La Liguria del buon vino, Editore Siag, Genova pp. 290, 291

9 Laura Balletto, Vini tipici della Liguria tra Medioevo e Età Moderna, in Il vino nell’economia e nella società italiana Medievale e Moderna, Quaderni della Rivista di Storia dell’agricoltura, Accademia economico-agraria dei Georgofili, Firenze 1989

Ariete ascendente Gemelli

Ugo Tognazzi ne “Il magnifico cornuto” (1964), di Antonio Pietrangeli Di Gawain78 – catturato personalmente dall’autore sotto indicato, senza apportare alcuna modifica., Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=2004628

E’ sempre tempo di oroscopi, di divinazioni e di predizioni per l’anno in corso o a venire. Di rassicurazioni che non rassicurano, un po’ come quella dello scudetto al Piemonte Footbal Club nei prossimi dieci anni. Riporre speranze è tremendamente umano, psicologicamente ragionevole e scientificamente assai dubitabile. Ma qui non importa nulla: quanti agnostici certificati, quanti sbattezzati, quanti imprecatori seriali buttano l’occhio agli astri che costruiscono le impalcature del Cielo e, di ribattuta, congegnano le armature della Terra?  E nulla di più urticante di coloro che, professando il loro miscredenza informatissima, strizzano l’occhio alla quadratura che Giove intrattiene con Plutone in Capricorno o che, ammiccando ad Urano sostenuto per tutto l’anno dal lungo Trigono con Saturno, poi ti dicono, con serena empietà: “L’avevo immaginato che sei dell’Ariete!” Non vi è risposta possibile davanti ad un attacco così virulento: nel segno viene compreso un atto e un destino, una predestinazione  e un Caso da cui non ci si può sbrogliare né liberare. Pare di essere sotto le grinfie teoriche del benedettino Gotescalco (IX secolo) , il quale non solo misconosceva il valore della libertà, ma affermava una predestinazione alla vita eterna e una predestinazione alla dannazione. Ma poi, mi chiedo, è possibile che questo qui conosca tutti e quanti i 500 milioni di arieti presenti sul pianeta terra? Di sicuro è molto fortunato ad avere una così alta cognizione del dolore. Come quelli che amano od odiano i popoli. In blocco. Non ho mai capito come facciano ad entrare così nel dettaglio.

Capita che, talvolta, il conoscitore dei segni abbia  la capacità di edulcorare la perentorietà del giudizio con una chiosa finale: “E qual è il tuo ascendente?” Io dovrei rispondere: “Gemelli”. Perché, ed è questa la mia tremenda verità, sono un Ariete ascendente Gemelli, e non dell’Ariete ascendente Gemelli come se questi fosse un mio attributo qualsiasi. E qui cala il Sipario.

Tra le circonlocuzioni  e gli arzigogoli dei segni, ho scoperto che Ugo Tognazzi fu dell’Ariete ascendente Gemelli. Senza trascendere in impropri paragoni, colgo l’occasione per farvi riascoltare dalla voce dei sui scritti questo pezzo, quando lui, Abbuffone senza pari, parlò così di Ingrid , nel 1962, una “Svedese al fiasco” ( Ugo Tognazzi, L’abbuffone, Rizzoli Editore, Milano 1974):

“«Com’è bello avere un pied-à-terre. Ti senti diverso. Più importante. Sai,» dici agli amici «nel mio pied-à-terre di Milano…». Parlare di un pied-à-terre di Milano potrebbe anche sottintendere d’averne altri, sparsi un po’ per tutta Italia. Quello di Milano, invece, per me era l’unico. Il primo pied-à-terre della mia vita. E non mi sembrò vero di portarci subito a vivere qualcuno. E cioè Ingrid. La incontrai non mi ricordo dove, non mi ricordo quando; né mi ricordo se indossasse o meno il vestito di chiffon che, in genere, è l’unica cosa che resta in mente agli smemorati, almeno quelli delle canzoni. Che fosse di chiffon o meno, in ogni caso, ha poca importanza, poiché Ingrid amava vestirsi esclusivamente di se stessa. E infatti io così la ricordo: nuda, che girava per casa, con queste sue tettone nordiche puntate in avanti, come due meravigliose frecce indicatrici, Ingrid. Una svedese dalla testa ai piedi.

«Tu attore» mi diceva «tradimento facile! Io devo te controllare ventiquattr’ore su ventiquattro» Devo dire che il controllo che esercitava su di me era un po’ particolare. Mi teneva a letto. Al guinzaglio, diciamo. Ogni tanto si faceva una camminatina dal letto alla doccia, tragitto che indica ancor più chiaramente a quale particolare tipo di controllo ella mi sottoponesse… Sotto il lenzuolo di quel letto milanese c’era più traffico che non in piazza san Babila. Ingrid. Un pivot inesorabile. Sempre in canestro. Sempre su di giri. Anzi, sempre più su di giri. Chi mi conosce sa che non sono certamente spaventato da queste cose. Tutt’altro, ma Ingrid, con l’andar dei giorni, mi stupì, se non altro per la regolarità, per la continuità delle prestazioni. Sulle prime pensai al mitico «calore nordico». Poi cominciai a sospettare che ricorresse a qualche pastiglia proibita. Anche perché, nonostante il mio primato nazionale in materia, pensavo che prima o poi, se così fossero continuate le cose, avrei dovuto ricorrervi molto probabilmente anch’io, se non altro per essere certo di tenerle testa, per tener alto il buon nome del maschio italiano. Un giorno decisi quindi di seguirla quando, dopo, si alzò dal letto dicendo il suo ormai consueto: «Scusami, vado un istante in cucina a bere qualcosa…». Ingrid. L’ho sorpresa mentre beveva a canna da un fiasco di Chianti di terz’ordine. Era quello il suo afrodisiaco. Il vino. Dopo il drogaggio s’infilava di nuovo nel letto, e si scatenava. Vino. Non era fine. Ma che m’importava. Dopotutto, non era la finezza che caratterizzava i nostri show sotto le lenzuola. Così, la sera dopo, sistemai il fiasco di vino rosso sul comodino. Quando Ingrid lo vide, mi guardò con gli occhi colmi di vizio, m’afferrò peri capelli e, avvicinando le sue labbra alle mie, mi sussurrò: «Porco!».

Fu la mia fine. Mettetevi nel mio pigiama. Una svedese impazzita che scambia un Chianti malandato in beveraggio da bordello. Beveva lei, e pretendeva che bevessi anch’io. Uno, due fiaschi per notte. All’alba, la camera da letto sapeva di osteria. E più aumentavano i fiaschi consumati, più diminuivano i freni inibitori di Ingrid.

Dopo la terza « prestazione », ormai completamente ubriaca, veniva colta da crisi depressive miste ad attacchi di gelosia: mi schiaffeggiava, mi graffiava, mi mordeva le orecchie, Il che, oltretutto, era anche, così poco nordico. L’epilogo dell’avventura arrivò improvviso una notte d’agosto. Ingrid, al massimo dell’orgasmo, mi colpì con una fiascata in mezzo alla fronte. Sanguinante, mentre lei mi mordeva le chiappe, telefonai alla volante. La portarono al commissariato, lei e il suo fiasco di droga. Sul pianerottolo la vidi avvinghiarsi al sergente dei carabinieri. «Porco!» gridava. «Anche tu sei un porco!» Di lei m’è rimasto un ricordo. Un piccolo segno rosso, in alto, a destra, sulla natica sinistra.

A guardarlo bene, sembra proprio una voglia di vino”.

La narrazione del “giovane Draghi”

I ragazzi della via Pál
Di Sconosciuto – hu:Fájl:Molnar – Pál street boys 1907.jpg Takkk scan of the original book – A könyv eredetijéből szkennelte Takkk, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16140938

In questi giorni, i quotidiani, i siti, le riviste e via cantando, che sostengono la candidatura di Draghi alla guida del Governo, utilizzano a piene mani una narrazione parallela: il “giovane Draghi”. Veniamo a scoprire, in vario modo e per varie testimonianze, che gran parte di quelli che studiarono insieme al Liceo “Massimo” di Roma, zona Eur, ebbero poi una importante riuscita professionale: chi professore universitario di materie umanistiche, chi avvocato, chi architetto o fisico di fama internazionale. Questo a sottolineare, semmai ve ne fosse bisogno, della serietà del gruppo di provenienza: una classe dirigente in fieri, come capitava a molti degli istituti liceali del dopoguerra in una scuola il cui accesso era fortemente segnato da una rigida appartenenza sociale. Potremmo scoprire, facendo un giro qua e là per lo Stivale, che furono numerose quelle classi, negli stessi anni, a fornire ceto reggente alla nazione. Ma, in questo caso, quello che conta della narrazione è la certificazione dell’origine controllata e garantita del gruppo di provenienza: grande etica, composta serietà, riservatezza caratteriale d’obbligo a cui si accostano doti giovanili di “leggero casino”, stando alla definizione data dal compagno di classe e ordinario di Fisica Spaziale in pensione, il professor Ezio Bussoletti, ad esempio quando venivano utilizzati i cannoli riempiti di panna come cannoni o quando  il professore di filosofia veniva assaltato “con le ‘famigerate’ pistole a riso[1]”. I compiti, poi, se li passavano tutti e Draghi non era sicuramente un’eccezione, si fa intendere. Lo stesso Giancarlo Magalli, all’Adnkronos, riferisce così dell’ex compagno di classe Mario Draghi: “Draghi era intelligente, simpatico e una persona molto corretta: non era uno di quelli che faceva la spia al professore – dice Magalli scoppiando in una risata – Insomma, era una persona estremamente piacevole. Da ragazzino era come adesso, con la sua riga, pettinato come adesso e sempre con quel sorriso che era il suo biglietto da visita[2]”. In questo caso l’ordine del discorso si premura di sottolineare, a fianco degli elementi dirimenti e risolventi attribuibili a Draghi, ovvero etica, serietà e competenza, altri capaci di corroborare aspetti di apparente minor conto, ma che sono portatori di una notevole valenza politico-relazionale: la fedeltà al gruppo di appartenenza.

Potrebbe apparire, come in molti casi avviene, che queste curiosità siano derubricabili al pianeta gossip, alle indiscrezioni indomabili e a consorterie similari. Ritengo, al contrario, che ogni discorso che abbia sede in un centro di potere comunicativo (e dunque politico), anche quello apparentemente più banale, serva a profetizzare il futuro, non solo perché annuncia quel che sta per accadere, ma perché contribuisce alla sua realizzazione: esso spinge, in altre parole, all’adesione collettiva ad un progetto. Ecco allora, che la narrazione del “giovane Draghi” serve, inevitabilmente, alla narrazione del “Draghi presidente della Bce” e, ora, a “Draghi nuovo presidente del Consiglio”.

In questo, come in altri casi, ciò che occorre sono narrazioni altre in cui le verità si costituiscano a partire da contenuti verificabili e attendibili sullo sfondo di progetti politici radicalmente alternativi.


[1] Cfr. Pierluigi Bussi, “Draghi alunno brillante, ma non rinunciava alle battaglie con i cannoli e agli assalti ai prof con le pistole a riso”, in https://www.repubblica.it/politica/2021/02/03/news/mario_draghi_liceo_massimo_compagno_classe-285863745/

[2] Cfr. HuffPost, “Magalli, compagno di Liceo di Draghi: “A scuola era corretto: non faceva mai la spia al prof”, in https://www.huffingtonpost.it/entry/magalli-compagno-di-liceo-di-draghi-a-scuola-era-corretto-non-faceva-mai-la-spia-al-prof_it_601a9bd3c5b6c2d891a4d622

I limiti del diritto di critica di un influencer del vino

Cesare Polacco in un Carosello Tricofilina del 1959Di ignoto – 30 anni di Tv in Italia, Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4838042

L’altra sera, mentre stavo sgranocchiando un bastoncino di merluzzo fritto appena tiepido intinto nella maionese, ho ricevuto questa mail di cui non posso non rendervene conto:

“Carissimo Piotr da Genua, mi chiamo Ursula e vivo a Poggibonsi. Sto muovendo i miei primi passi nel mondo degli influencer del vino e dei distillati e non riesco ad esprimere compiutamente la mia stima nei tuoi confronti: almeno di una buona misura al di là dei tuoi ben 27 milioni di follower. Al momento io ne ho solo 100.000 e vorrei chiederti alcuni consigli e suggerimenti: sulle modalità di nascondere alcuni aspetti pubblicitari evidenti, su come confondere le acque ed essere presi sul serio. Insomma un po’ di ragionamenti a tutto campo a partire dalla tua meravigliosa e, soprattutto vincente, impresa. Con stima immutata, almeno fino a quando manterrai i tuoi follower.

Ursula di Poggibonsi”.

“Carissima Ursula,

ti rispondo con immenso piacere anche perché mi dai l’occasione ghiotta di svelare (ma non troppo ovviamente) alcuni segreti del mestiere. Comincio col dirti che hai un nome bellissimo, perfetto per una influencer ai primi passi, che mi ricorda molto quello di una cara amica tedesca che vive a Bruxelles (non ricordo più cosa faccia, ma so che ogni tanto la noto in TV tra una televendita e l’altra).

Sai, se devo raccontartela proprio tutta, diventai influencer perché sono molto bello: non ho avuto alcuna difficoltà ad impormi nel mondo dell’immagine contemporanea. Ho rifiutato soltanto di esibirmi, come modello, per qualche ricco tardone annoiato. Avevo ed ho fame di numeri, che poi vuol dire soldi fumanti. Quindi partiamo da questo: se sei bella e non ti tirano le pietre hai già fatto mezza strada; altrimenti devi cercare nuove risorse (simpatia, intelligenza, fascino, un cugino ricco, dei responsabili…).

In secondo luogo ricordati che noi facciamo sempre, e ripeto sempre, quello che mia nonna torinese chiamava “réclame”. Pubblicità: diretta o indiretta che sia. Per soldi, ininterrottamente, per amore manco per niente. La nostra vita è un immenso palcoscenico pubblicitario dove i piani non solo non si confondono, ma assumono tutti insieme l’unico di peso e di rilievo, ovvero quello che ci sponsorizza in un determinato momento. Infine rammenta che ogni uomo ed ogni donna, come disse Giuda Iscariota, ha un prezzo. Decidi qual è il tuo. Io, ad esempio, agli inizi mi sono venduto per poco. Se non ricordo male per trenta denari.

Quando la pubblicità è pubblicità, devi fare solo propaganda come dicono quelli che ti pagano per farla. Il problema sopraggiunge quando quelli che pagano per la promozione chiedono che sembri un’opinione personale. Allora, ecco lì che devi giraci un po’ intorno: inventa storie, interviste, argomentazioni di ogni sorta. Di questi tempi sono molto apprezzati pareri di personaggi insigni, ad esempio i virologi. Ma vanno bene anche i ricercatori squattrinati, i blogger in cerca d’autore, teatranti e musicanti disoccupati, dei deputati centristi in cerca di governo e così via. Io, per non farmi mancare nulla, utilizzo molto alcuni aforismi del passato: i filosofi in primis. Poco lo Hegel, che non lo capisce quasi nessuno. Meglio qualche filosofo francese, che ricordi i nomi di certi profumi, come Gaston Bachelard, Jean Baudrillard, Gilles Deleuze: non importa che le citazioni siano corrette: nessuno le va a controllare (tanto meno i nostri clienti). Così il tutto si ammanta di cultura superiore. Ma stai attenta a non esagerare, che poi ti beccano. Anche la storia, a piccole dosi, serve: quella mitica, non documentata, fatta di frasi fatte attribuibili a chiunque (pure ai tuoi zii di Pontassieve).

La grande abilità che dobbiamo mettere in campo è la dissimulazione: già il mio devoto insegnante di religione sosteneva che le virtù sono spesso dei vizi mascherati. Per cui egli preferì darsi direttamente ai vizi senza mai passare da alcuna virtù. Pace alla sua anima. La nostra non potrà mai essere quella dissimulazione onesta su cui scrisse parole sorprendenti l’illustrissimo Torquato Accetto intorno al 1600: al contrario noi dobbiamo usare la sagacia per trarre in inganno con la verità medesima. Ti parranno concetti strani, incomprensibili, e tali furono anche per me fino a quando, dopo un bella mangiata di scialatielli con la nduja, ebbi l’illuminazione: verità, realtà, finzione, falsità, menzogna fanno parte dello stesso gioco soprattutto quando esse si depositano non tanto sulle cose in sé, ma sulle quelli che di quelle cose parlano. E quelli siamo noi! Dunque, non schierati mai e non prendere posizione a meno che non ti convenga. Oppure prendila quando sarai ben certa che si tratti di opinione ampiamente comune e condivisa. Enfatizza cose banali dando loro un rilievo politico che non potrebbero mai avere se proferite da persone sane di mente.

Per concludere questa veloce carrellata ti dirò del diritto di critica: tenuto conto che a noi non ce ne frega molto di qualsiasi diritto, esercitiamo la critica come sistema di meticoloso affossamento dei prodotti concorrenti. Ma con estrema attenzione: non potremmo mai scrivere che un vino fa schifo. E neppure dirlo con tono soave e compiaciuto quasi fossimo dei novelli critici letterari. Ecco allora il mio consiglio: fai fare il lavoro sporco ad altri! Utilizza qualche tuo bel follower collaudato e mandalo allo sbaraglio sui social, sulle valutazioni e sui punteggi online… ma sempre in punta di penna: che insinui il dubbio, il discredito e vedrai che se son rose, appassiranno! E lo stesso dicasi, in maniera specularmente opposta, per i prodotti che ti interessa favorire.

Sperando di esserti stato di qualche utilità, ti manderò il mio iban per una donazione volontaria”.

Con affetto,

Piotr da Genua.