
Siamo abituati a pensare che scegliamo di bere prevalentemente questo o quello sulla base delle nostre propensioni individuali in materia di gusto o sul fondamento delle culture di provenienza, degli influssi astrali, delle condizioni climatiche, delle compagnie cantanti, del momento in cui accade (ad esempio durante una partita di pallone o alla festa da ballo delle debuttanti), delle condizioni sociali o semplicemente per non deludere ed eludere il potenziale partner. Tutte cose che contano indubbiamente, ma che non bastano a spiegare la reciprocità che un determinato liquido ha nei nostri confronti. Non perché esso sia portatore di un’intelligenza superiore (anche se in molti è evidente) o inferiore, non perché antropomorfizzato o perché parli e sussurri nelle orecchie dopo un’incredibile sbronza (cosa possibile naturalmente), ma per le sue capacità adattive e di riconoscimento. In qualche modo il liquido ci sceglie. Se poi si è scalato adeguatamente il tracciato della conoscenza e ci si può fregiare del titolo di benemerenza, senza alcuna decenza, da degustatore, allora la cosa è ancor più che evidente.
Jean-Luc Henning (Érotique du vin, éditeur ZULMA, 1999) già alla fine dello scorso secolo annota che il degustatore di vino sia uno strano animale, ovvero uno che prova piacere con i preliminari: “si limita ad avvicinarsi alle cose, a sfiorarle semplicemente, senza mai lasciare che il vino penetri in lui, rifiutando di continuare, accontentandosi delle premesse del piacere, di piccoli cenni di apprezzamento, di furtarelli amorosi. Come se sperasse in qualcosa di più, ma preferisse alla fine limitarsi alla sola speranza”. Dopo averlo guardato dall’alto e dal basso, in controluce e attraverso di essa, fatto roteare come dei dervisci rotanti che girano sulle spine dorsali, dopo averlo gargarizzato muovendo sapientemente l’apparato zigomatico, il degustatore “chiude gli occhi per imbeversi meglio nel liquido e per apprezzarne più a fondo la rotondità delle forme, la qualità e l’elasticità delle carni, e poi, pffffft!, risputa fuori immediatamente il prodotto delle sue meditazioni”. Quasi se il vino non gli interessasse più o gli interessasse in modo diverso.

Anche Søren Kierkegaard, circa due secoli fa, senza mai accennare né l vino né alla birra o ad altra bevanda del godimento, la racconta allo stesso modo allorché sostiene che “l’attesa è una freccia che vola e che resta conficcata nel bersaglio, mentre la realizzazione dell’attesa è una freccia che oltrepassa il bersaglio”.
L’attesa, per il degustatore di vino, è già il raggiungimento del fine proposto. Ed è proprio in quell’attesa che il degustatore di vino indugia.
Il degustatore di birra, dal suo canto, osserva la limpidezza e il colore, la trama, l’abbondanza e la consistenza della schiuma, gli sconfinati territori olfattivi, si adopera nella complessa evoluzione gustativa, dalle percezioni tattili, persino trigeminali!, ma soltanto per arrivare a quelle post-gustative. Insomma il tutto si chiude, come la retorica amorosa ha raccontato in innumerevoli pubblicazioni e film d’autore, nella fumosa sigaretta del dopo.
Vi è dunque tra soggetto deglutente con cognizione e di causa e il liquido bevuto una stretta complicità d’intenti e di proposizioni vitali. Nulla esclude, d’altra parte, che si possa passare da un liquido ad un altro, con tempi e modalità diverse, a rappresentare condizioni e stati d’animo differenti, anche se, in ogni caso, prevale un indirizzo preferenziale d’intenti.
Mi parve di sentire, infatti, ad un festival dedicato alla birra acida, una Kriek carica di lamponi e ciliegie rivolgersi ad un tipo tutto in tiro, con completo in giacca e cravatta, e dirgli: “ma come ti vesti, brutto buzzurro!?!!!”