Sherlock Holmes, Leonardo da Vinci, il vino e la controversa “lettera al fattore”. Il lavoro dello storico sulle fonti.

Premessa

Viviamo in un mondo che ricorre incessantemente al proprio passato: non c’è soggetto attivo che non produca documentazione sul tempo che fu, sulla tradizione, sulla memoria storica dei luoghi e delle pratiche antiche. Questa patina, spesso luccicante quanto artificiale, è costruita ad uso e consumo del presente, o meglio ne è una costante e consumata dilatazione. Le ragioni di tali attività sono diverse, ma convergono tutte nell’avvaloramento di prodotti, produzioni, nomee e benefici ad uso e consumo della contemporaneità.

Leonardo da Vinci e Zanobi Boni. Forse. 

Non vi è alcun dubbio riguardo l’interesse di Leonardo da Vinci per il vino, la viticoltura e l’enologia[1]. Altra cosa è invece l’attribuzione allo stesso di scritti e conoscenze che molto probabilmente non gli appartennero o che quantomeno sono di difficile attribuzione.

Nel novero dei testi incerti fa parte la lettera che Leonardo pare abbia inviato da Milano al suo castaldo (fattore), tale Zanobi Boni, il 9 dicembre del 1515. Partiamo innanzitutto dalla fonte: la lettera fu pubblicata per la prima volta a Londra, nel 1828, da John William Brown nel volume Life of Leonardo da Vinci: with a critical account of his work[2]. La nota del testo afferma che l’autografo della lettera, scritto da sinistra a destra alla maniera usuale di Leonardo (nel testo), era stato acquistato dal Sig. Bourdillon, nel 1822, da una signora abitante nei pressi di Firenze. Ma dell’originale non vi è alcuna traccia.

La lettera è rinvenibile, molti anni dopo che Wiliam Brown ne riferisse, in una collezione critica di Gustavo Uzielli, “Ricerche intorno a Leonardo da Vinci”, pubblicata a Firenze nel 1872, in cui si sosteneva in nota che “noi però, fatte le debite riserve, nutriamo qualche dubbio sull’autenticità di questa lettera”.

Se per lo studioso toscano di fine Ottocento il dubbio è d’obbligo, così non pare lo sia per alcuni autori a noi contemporanei: nell’ultimo scritto di Luca Maroni, ad esempio, dedicato al rapporto tra Leonardo da Vinci e il vino[3] si fa riferimento all’autenticità della lettera citando proprio il menzionato Gustavo Uzielli senza che venga fatto alcun riferimento ai forti dubbi espressi dallo stesso: “I massimi leonardisti come Carlo Pedretti e Gustavo Uzielli (che pubblicò la lettera nel suo “Ricerche intorno a Leonardo da Vinci”, Firenze, Pellas 1872), o come gli attuali Paolo Galluzzi e Alessandro Vezzosi, considerano autentica tale lettera[4]”.

Le riserve di uno studioso e la comparazione scientifica.

Quali furono le riserve espresse da Gustavo Uzielli? Esse non afferiscono né al dato esistenziale della lettera, su cui non poteva avere alcuna prova diretta, né alla conformità stilistica, morfologica e sintattica con altri scritti dello stesso Leonardo, ma al contenuto della stessa: “Queste due ultime frasi mostrano che Leonardo conosceva le proprietà degli ingrassi minerali, e le funzioni respiratorie delle parti aeree delle piante (funzione clorofilliana). La scoperta delle prime si attribuisce a Priestley nel 1771, e delle seconde a varî, vissuti in tempi assai posteriori a Leonardo”.

Gustavo Uzielli si chiese, molto semplicemente, come potessero essere note a Leonardo delle conoscenze scientifiche che sarebbero state note circa duecentocinquanta anni dopo.

Riporto qui le frasi ‘incriminate’ di Leonardo da Vinci: “Sapete che vi ho detto che sarebbe stato meglio concimare lo scasso a cordone (nel quale sono alloggiate le parti radicali della vite) quando il terreno sottostante è magro e ricoprire le radici con calce o la malta secca di vecchi muri perché questo le mantiene asciutte; e il fusto e le foglie attraggono dall’aria la sostanza necessaria per portare l’uva alla perfezione (a compimento)”.

Le caraffe ricevute e le pratiche adatte alla produzione di un vino eccellente. Forse.

La “lettera al castaldo (fattore) Zanobi Boni”, il cui nome non comparve, se non in questo, in nessun altro scritto leonardiano, cominciava con Leonardo da Vinci che si lamentava sulla qualità del vino contenuto nelle ultime caraffe ricevute: “non furono secondo la espettatione mia le quatro ultime caraffe et ne ò auto rammarico”. Le caraffe, secondo l’interpretazione di Ignazio Calvi, avrebbero potuto contenere 40/50 litri di vino ciascuna. Se Leonardo trattò, nella prima parte della lettera, delle migliorie legate alla coltivazione della vite, la seconda si concentrò su alcune pratiche vinicole adatte alla produzione di un vino eccellente: le fermentazioni coperte e i frequenti travasi. “Poi pessimamente alli dì nostri facemo il vino in vasi discuoperti et così per l’aria fuggi l’exentia in el bullimento, et altro non rimane che un umido insipiente culorato dalle bucice et dalla pulpa: indi, non si muta come fare si debbe, di vaso in vaso, et per lo che viene il vino inturbidato et pesante nei visceri. Conciosiacosaché si voi et altri faciesti senno di tale raggioni berremmo vino excellente”. Anche in questo caso, aggiungo io, le proprietà legate alla fermentazione (bullimento) come principio chimico sono molto lontane, a venire, dall’epoca in cui visse Leonardo.

La lettera al castaldo Zanobi Boni venne poi riprodotta nelle “Raccolte Vinciane” (la prima fu del 1905). E solamente nella raccolta del 1934-1939[5] – Fascicoli XV-XVI si trova uno scritto di Ignazio Calvi, “Leonardo studioso di agricoltura”, in cui l’autore non asserì alcunché sull’autenticità della lettera affermando, al contrario, che se tale fosse stata (appunto vera), Leonardo avrebbe avuto un primato cronologico indiscutibile nel scoprire ciò che solo ai tempi a lui contemporanei (inizi del Novecento) erano conoscenze scientifiche ormai consolidate: la concimazione inorganica in generale e la calcitazione[6] in particolare.

Il condizionale d’obbligo.

Ignazio Calvi concluse così la disamina della presunta “lettera al Castaldo”: “In questo breve esame abbiamo usato spesso il condizionale perché sussiste qualche dubbio sull’autenticità della lettera: su questo punto l’Uzielli fa le sue debite riserve. Noi non potremmo dire su questo argomento alcunché di nuovo: il fatto della scrittura sinistrorsa non è senza dubbio sufficiente a convincere della sua autenticità. Comunque e d’altronde non vi sarebbero troppe ragioni di fondati dubbi, almeno per quanto attualmente se ne può dire”. Ignazio Calvi lasciò ai posteri il ragionevole dubbio: il condizionale d’uso e di dovere, le ipotesi scientifiche che potrebbero non avvalorare la contemporaneità leonardiana della lettera e, soltanto alla fine, uno spiraglio di apertura in contraddizione con le precauzioni sin lì asserite: “Comunque e d’altronde non vi sarebbero troppe ragioni di fondati dubbi, almeno per quanto attualmente se ne può dire”.

Un nuovo commento, che si rifà direttamente alle considerazioni di Uzielli, di Beltrami[7] e di Ignazio Calvi, ma con una nuova interpretazione di tipo stilistico, fu quello presentato da Carlo Pedretti nel suo commentario pubblicato nel 1977, in inglese, al secondo volume dei testi leonardiani raccolti ed editati da Jean Paul Richter a Londra nel 1883[8]. Carlo Pedretti reputava autentica la lettera, la cui compilazione attribuì, proprio perché scritta da sinistra a destra e non al contrario come avevano erroneamente attestato sia Uzielli che Beltrami che lo stesso Calvi, all’allievo ed esecutore testamentario Francesco Melzi: “On the basis of the literary style I would be inclined to accept it as authentic, but written by Melzi”.

In ultimo, nel volume curato da Alessandro Vezzosi[9], la “lettera al fattore” viene riportata con una didascalia che contiene la traduzione in inglese presente nel testo di John William Brown. Poco più sotto, nel commentario alla lettera [LDV VIN 013], Vezzosi riferisce quanto segue: “Lettera di Leonardo perduta, pubblicata dal Brown in “Life of Leonardo da Vinci” (Londra, 1828, p. 241): un certo Bordillon (così nel testo) l’avrebbe acquistata presso Firenze nel 1822”. Ancora una volta non si dice nulla di preciso sulla possibile attendibilità della lettera in questione.

Giunto a questo punto della ricerca e, non avendo avuto notizie di recenti ritrovamenti o di nuovi commenti, sarebbero molti i dubbi storici, epistemologici e letterari che continuano ad accompagnare la “lettera al fattore” di Leonardo da Vinci.

Uno storico, al pari di un detective del passato, di fronte a notizie incerte, contraddittorie e non sufficienti a descrivere pienamente un caso, deve obbligatoriamente fermarsi nella speranza che nuovi ritrovamenti, nuove fonti documentali, nuove scoperte gli diano la possibilità di giungere a una qualche conclusione, seppur provvisoria.  

Immagini

La più famosa illustrazione di Sidney Paget pubblicata sulla rivista britannica The Strand Magazine Di Sidney Paget – Strand Magazine, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=932530

Francesco Melzi – Portrait of Leonardo Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=78645105


[1] Cfr. Alessandro Vezzosi, Il vino di Leonardo, Morgana Edizioni, Firenze 1991; Luca Maroni, Leonardo da Vinci e il vino, Sens, Formello (RM) 2019

[2] No VIII. Leonardo da Vinci’s Instruction to his Steward respecting the manner of making Wine. Da Milano a Zanobi Boni, mio castaldo, lì 9 de Xbre, 1515.

[3] Cfr. nota 1

[4] Luca Maroni, cit., Capitolo IV, Il metodo Leonardo, pagina 180

[5] Milano; s.e.; 1939 XI,426 pag. ill. 21 cm; Raccolta Vinciana XV-XVI; Brossura Note: Bibliotheca Leonardiana 2223; Stampa: tipografia Allegretti, MI

[6] Correzione della natura acida di un terreno agrario mediante somministrazione di calce sotto forma di calce viva o spenta o di carbonato di calcio o di marne calcaree. Da Treccani.it

[7] Luca Beltrami, Documenti e memorie riguardanti la vita e le opere di Leonardo da Vinci: in ordine cronologico, Fratelli Treves, Milano 1919

[8] The Literary Works of Leonardo Da Vinci compiled and edited from yhe original manuscript by Jaen Paul Richter Commentary by Carlo Pedretti, Volume two, University of California Press, Berkley and Los Angeles 1977

[9] Alessandro Vezzosi, Il vino di Leonardo, Morgana Edizioni, Firenze 1991

Il grignolino e “l’Anarchico” di Silvio Morando. Di Andrea Ferreri

Mia breve descrizione (Andrea Ferreri):

Alla ricerca di storie e avventure, sommelier e comunicatore del vino, la passione mi permette e mi sprona a leggere, scrivere e riflettere.

Il vino per me è collegamento tra fatica e piacere, un viaggio tra l’irrazionale e l’applicato.

Foto di Andrea Ferreri

“Il Grignolino e le ultime elezioni politiche”,

Il Grignolino, come sua consuetudine, anche quest’anno non si è recato alle urne, astenendosi dal voto. Considerato un bianco tra i rossi e un rosso tra i bianchi, non si è mai sentito rappresentato da qualche altro vitigno. Non è neanche in grado di rappresentare bene se stesso dal momento che, nei suoi diversi territori prediletti, Monferrato e Astigiano, si comporta in modo differente: anche quando cresce nello stesso vigneto è capace di mostrarsi diverso nelle varie annate. A questa varietà piace ascoltare le stagioni, il clima e il passare del tempo: i grappoli della stessa pianta hanno sovente maturazioni disuguali e, addirittura, il medesimo grappolo può mostrare acini in più stati di avanzamento. In fin dei conti il Grignolino non è un vino comune: non ha un colore avvenente, è di pochi muscoli, in alcune annate diventa più rabbioso e si mostra maggiormente nervoso. In queste situazioni si presenta nella sua massima espressione, tirando fuori tannino e sapidità. La morbidezza è un privilegio di cui il Grignolino non ne sente la necessità. Questo vino sa adattarsi alle diverse situazioni della tavola ed è soprattutto vino della convivialità, perfetto per lo stare insieme. Potreste sentire varie voci sul Grignolino, alcuni lo evitano o peggio lo denigrano, ma per chi lo sa ascoltare e se ne appassiona, questo è il vino.  

L’Anarchico, il grignolino di Silvio Morando – Foto di Andrea Ferreri

“L’Anarchico, il vino di Silvio Morando”

Il 7 maggio 2022 mi sono recato a Vignale Monferrato presso la cantina del vignaiolo Silvio Morando attirato dall’etichetta di uno dei suoi vini, ”L’Anarchico”. La spiegazione del nome all’etichetta deriva senz’altro dalle caratteristiche del grignolino, ma la motivazione è anche da ricercare nella storia di famiglia del vignaiolo. L’ispirazione dell”’anarchico” è difatti anche un omaggio allo zio Silvio, fratello del nonno, nato nel 1888, che condusse una vita fuori dagli schemi. Partecipò alla guerra di Libia, alla I Guerra Mondiale e seguace poi di Errico Malatesta[1], mosso dai suoi ideali, partì volontario nel 1936 per la guerra di Spagna dove conobbe Buenaventura Durruti[2]. Al suo ritorno, nel 1939, piantò la vigna. La scheggia di mortaio sul braccio impossibile da togliere e con cui visse tutta la vita rappresentò una testimonianza della sua storia. Tante sono le storie legate allo zio Silvio. Come quando nel 1913 venne incarcerato in via preventiva per una settimana, per la presenza in Italia dello Zar Nicola II, in quanto considerato e catalogato negli archivi di stato come ”anarchico pericoloso”, insieme ad altri compagni. Il papà di Silvio Morando ha raccontato al figlio di quando da bambino, esattamente il 10 luglio 1940, andò a chiamare lo zio che si trovava nel vigneto a passare il verderame con la pompa a spalla. Il duce era in paese per tenere il ”discorso sulla guerra” e Silvio sfasciò la pompa contro il trogolo maledicendo il duce che avrebbe portato l’Italia in guerra e miseria.

Foto di Andrea Ferreri

 Il vino che vorrei raccontare è proprio ”l’Anarchico”, il Grignolino della vendemmia 2020, assaggiato con Silvio Morando, che ha accompagnato la nostra conversazione su temi legati al vino, al lavoro, alla vita, insomma all’anarchia. Assaggiare questo vino il 7 maggio 2022, a cinquant’anni dalla morte dell’anarchico Franco Serrantini[3], avvenuta in carcere a seguito di percosse e senza alcun soccorso medico dopo due giorni dal suo arresto nel corso di una manifestazione antifascista indetta a Pisa, rende l’assaggio stesso di questo vino unico e irripetibile. La bellezza del vino sta nella necessità di chiudere gli occhi, di farsi trasportare e saperlo ascoltare, in quanto ”il vino è un valore reale, perché ci dona l’irreale”. Anche Renato Ratti, persona avanti con i tempi, nelle sue lezioni alla scuola enologica di Alba diceva che in una bottiglia si trovano rinchiuse la storia e la vita di chi ha prodotto quel vino. L’uva del grignolino ha disformità dalla nascita e diversità di maturazione, sono necessarie tre vendemmie per portare in cantina i grappoli alla giusta maturazione ed è necessaria anche una successiva cernita a seguito delle raccolte. Questo Grignolino viene macerato per pochi giorni a grappolo intero e completa la fermentazione in piccole vasche. Vasche separate per vigne con caratteri diversi, tutte da vigne vecchie. L’affinamento avviene solo in acciaio per alcuni mesi e, una volta imbottigliato, necessita alcuni mesi di riposo prima di essere commercializzato (di solito intorno a settembre dell’anno successivo alla vendemmia). Di questo vino se ne producono circa 2000 bottiglie a seconda dell’annata, con una resa per ettaro di circa 50 quintali. Le etichette dei vini di Silvio Morando sono state disegnate da Cecilia Bozzoli[4], illustratrice di Uscio (Ge) che vive a Losanna, autrice di un libro a fumetti “Celeste bambina nascosta” che racconta la storia della migrazione italiana in Svizzera attraverso gli occhi e l’esperienza di una bimba. Nel 2017, al 90° anniversario dell’uccisione di Sacco e Vanzetti[5], venne prodotta una magnum con riportata una dedica ai due emigrati anarchici, mantenuta per tutte le successive etichette de ”L’Anarchico”. Il colore di questo vino è di un rosso sangue arterioso, un sangue pulito necessario a lavar via la sporcizia del mondo, il profumo è fruttato con ricordi di frutti di bosco e ciliegia sotto spirito, note di grano e nuance di rosa appassita accompagnate da una nota salmastra. Profumi che ricordano i campi, la libertà e anche il lavoro. In bocca il vino è deciso, sia fresco che tannico. Con una bella intensità palatale e una piacevole persistenza. Un anarchico puro che ben si gusta o meglio si beve, perché a chi lo ascolta sa farsi voler bene. Mi è capitato successivamente di fare una piccola verticale delle annate 2020 e 2021, due vini differenti con un’ultima annata che risulta al naso più fruttata, con sensazioni anche agrumate e una bocca ancor più piacevole ed elegante. Possiamo definire nel 2021 un ”anarchico” più borghese e ingentilito rispetto alla vendemmia precedente. Terminerei il racconto sul vignaiolo Silvio Morando con la sua scelta commerciale di non vendere il vino ai paesi in cui è in vigore la pena di morte. Ricordiamo come da ultimo rapporto di Amnesty International del 2021, 55 paesi al mondo detengono la pena capitale, tra cui gli Stati Uniti, il paese dove l’Italia mantiene il più importante business per il vino (dati Istat), il Giappone, undicesimo paese per valore di vino esportato, la Russia, la Corea del sud e la Cina, paese con il più alto numero di esecuzioni sebbene il reale ricorso alla pena di morte rimanga un numero sconosciuto e non solo in quest’ultimo paese. Il numero delle esecuzioni è a volte ignoto poiché rientrante nelle informazioni classificate come segreto di Stato.


[1] https://www.anarcopedia.org/index.php/Errico_Malatesta

[2] https://www.anarcopedia.org/index.php/Buenaventura_Durruti

[3] https://www.bfscollezionidigitali.org/oggetti/17966-franco-serantini

[4] http://ceciliabozzoli.com/

[5] https://www.anarcopedia.org/index.php/Sacco_e_Vanzetti

Le foto sono di Andrea Ferreri

Quando la Toscana anticipò di gran lunga (1716) l’idea della denominazione di origine controllata

Di Herstory – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10664405

La fortuna dei banchetti medicei è altalenante e dipende dallo stile impresso dai singoli regnanti: se da una parte l’ascesa al papato di Leone X porta nel 1513 a un sontuoso banchetto di celebrazione dell’Avvento seguito da eventi mondani di rilievo, il suo successore, anch’egli della famiglia de’ Medici, prende il nome di Clemente VII, torna a un più consono regime di morigeratezza. Allo stesso modo si configura il regno di Cosimo I de’ Medici, che raggiunge il potere nel 1537, noto per la sua parsimonia, vivacemente stravolta dal figlio Francesco nel 1565: «Ricchi banchetti accompagnarono i festeggiamenti. Francesco non mostrava la sobrietà paterna. La sua tavola era ricca ed estrosa, proprio come la sua vivace personalità. Era capace di mangiar “paste e torte con tutta sorte di spezierie, gengiovi, noce moscadagherofani, pepe”. Si faceva servire “polpe di cappone, fagiani, francolini, pernici, starne e passere, minutissime grattugiate intrise con rossi d’uovo, crusca di zucchero e farina inzafferanata”. Non esitava ad “empirsi di cibi grossi […] come agli d’India con pepe nero, cipolle, porri, scalogni, aglietti, cipolle maligie crude, ramolacci, radice, rafano tedesco, raperonzoli, carciofi, cardoni, gobbi, sedani, ruchetti, nasturzi indiani, castagne, pere, funghi, tartufi e in strabocchevole quantità sorte di ogni formaggio”. I piatti erano poi accompagnati da “vini crudi, frizzanti, fospati e indigesti: Grechi fumosi e gagliardi, vin di Spagna, di Reno, di Portecole, Lacrima, Centola, Chiarello, vino di Cipro, Malvagia di Candia, vino secco di Spagna, di Riva d’Avia, di Corsica e di Pietranera, con la neve”1».

Occorre aspettare il regno di Cosimo III de’ Medici, salito al trono nel 1670, per avere un vero e proprio salto di qualità nel riconoscimento dell’origine di un vino. Il primo passo viene compiuto da Ferdinando II, padre di Cosimo, che invita a corte nel 1666 uno scienziato-cortigiano, Francesco Redi, il quale rimane anche sotto la corte di Cosimo III sino al 1694, anno della morte dello stesso: «Pochi scienziati moderni sono riusciti a svolgere, in modo così organico e continuo come Redi, il doppio ruolo di scienziato e di cortigiano. Medico e figlio di un medico, egli rinunciò consapevolmente alla prospettiva dell’insegnamento universitario, che aveva da sempre costituito l’unico mezzo per garantire agli scienziati la possibilità di fare ricerca a tempo pieno, e trascorse quasi tutta la vita a Corte.

Il naturalista aretino sperimentò così la dimensione dello scienziato-cortigiano in modo più completo e coinvolgente di altri scienziati della propria generazione come Borelli e Viviani; forse più dello stesso Galileo. A differenza di quanti avevano fino ad allora ricoperto l’incarico di “Matematico” o di “Filosofo” del Granduca, infatti, Redi svolse per oltre trent’anni le funzioni di Archiatra, cioè di medico personale e di confidente segreto di due Granduchi successivi, Ferdinando II e Cosimo III, con i quali intrattenne uno speciale rapporto di intimità e collaborazione. […]2»

Ed è proprio Francesco Redi a comporre il famoso ditirambo Bacco in Toscana, che è concepito come un’azione scenica e somiglia, da questo punto di vista, al Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo de’ Medici. Dopo alcuni versi introduttivi parla Bacco che, rivolgendosi ad Arianna, tesse alla presenza di Satiri e Baccanti un lungo e tripudiante elogio del vino. L’opera, pur sotto la trama giocosa, è ricchissima di erudizione. Una grande libertà metrica favorisce procedimenti ritmici che sono molto simili a quelli della tecnica musicale. Il testo, concepito nel 1666 ed elaborato nel 1673 (si stima che avesse circa 400 versi), viene dato alle stampe soltanto nel 1685 dopo una stesura definitiva di 980 versi3: Bacco passa in rassegna i vini della Toscana, in particolare del contado fiorentino, insieme ad alcuni non toscani, che egli conosceva per esperienza personale o semplicemente letteraria, in tutto 57, eleggendo infine il migliore di tutti i vini, il Montepulciano, e facendo l’elogio di alcuni degli uomini migliori dell’epoca, con in testa il Mecenate Granduca Cosimo III. Proprio sul vino di Montepulciano, elogiandone le grandiose qualità, scrisse un’ode al Conte Federico Veterani in quegli anni, per ringraziarlo di alcuni assaggi di vino che gli aveva mandato:

In quel vetro, che chiamasi il tonfano
scherzan le Grazie, e vi trionfano;
ognun colmilo, ognun votilo,
ma di che si colmerà?
Bella Arianna con bianca mano
versa la manna di Montepulciano;
colmane il tonfano, e porgilo a me.
Questo liquore, che sdrucciola al core
o come l’ugola e baciami, e mordemi!
O come in lacrime gli occhi disciogliemi!
Me ne strasecolo, me ne strabilio,
e fatto estatico vo in visibilio.
Onde ognun, che di Lieo
riverente il nome adora,
ascolti questo altissimo decreto,
che Bassareo pronunzia, e gli dia fe,
Montepulciano d’ogni vino è il re.
A così lieti accenti
d’edere e di corimbi il crine adorne
alternavano i canti,
le festose Baccanti;
ma i Satiri, che avean bevuto a isonne,
si sdraiaron sull’erbetta
tutti cotti come monne

Diversi anni dopo, il 24 settembre 1716, a Firenze, il Granduca Cosimo III de’ Medici emana il Bando Sopra la Dichiarazione de’ Confini delle quattro Regioni Chianti, Pomino, Carmignano, e Val d’Arno di Sopra, nel quale vengono specificati i confini delle zone entro le quali possono essere prodotti i vini citati (in pratica una vera e propria anticipazione del concetto di denominazione di origine), e un decreto con il quale istituisce una Congregazione di vigilanza sulla produzione, la spedizione, il controllo contro le frodi e il commercio dei vini (una sorta di progenitrice dei consorzi). La Congregazione, oltre dover vigilare sulla qualità dei vini, deve indicarne la quantità prodotta e, allo tesso tempo, se si tratta di produzione di “poggio di piano, se puro o governato”. Anche coloro che comprino del vino per esportarlo devono comunicarlo alla Congregazione, la quale, riferendosi al bando del 18 luglio che imponeva la costituzione della Congregazione per il commercio, il 24 di settembre, come già citato, indica la delimitazione delle zone menzionate. I vini non prodotti in queste zone non possono avvalersi dei nomi di origine4.

Sarà poi con Ferdinando III di Toscana, alla fine del Settecento, che il Granducato si dividerà in comunità e province. La provincia del Chianti è costituita dalle comunità di Radda, Gaiole e Castellina: «Arroge a ciò che la Repubblica Fiorentina divise, e il Granducato Mediceo conservò il distretto politico del Chianti in tre terzi, cioè, Terzo di Radda, Terzo di Gajole e Terzo della Castellina, conosciuti rapporto alla disposizione militare col nome di Lega della Castellina del Chianti e rapporto al potere civile dipendenti dalla potesteria di Radda, allora subalterna al Vicariato di Certaldo, mentre quella della Comunità di Greve alla stessa epoca dipendeva dal Vicario di S. Giovanni in Val d’Arno.

Dal che ne consegue che per regione, o vogliasi dire provincia del Chianti, si dovrebbe intendere la contrada circoscritta a grecale dal crine dei monti che stendonsi da Monte Muro a Monte Luco; cioè fra le sorgenti della Greve e quelle dell’Ambra; a levante da quella stessa criniera che continua da Mone Fenale per Cita mura e S. Gusmé dove la montuosità si declina per aprire l’adito alle Valli dell’Ombrone e dell’Arbia; mentre a libeccio si rialza una diramazione di poggi che da Cerreto Ciampoli s’innoltra per Vagliagli alla Castellina. Ivi la giogaja biforca per dirigere un braccio a maestro verso S. Donato in Poggio, l’altro a levante-grecale per Radda e Cultibuono, dove collegasi ai monti che chiudono il Chianti dal lato di grecale. Quest’ultimo braccio, che attraversa il centro del Chianti, divide le acque del fiume Pesa, che vuotasi nell’Arno, da quelle del fiume Arbia, che in direzione contraria a quella del fiume Pesa va a fluire nell’Ombrone senese. In guisa che il Chianti può dirsi il pernio di divisione fra due fiumi reali e fra le due Valli maggiori della Toscana5»


1 – G. Cipriani, Il vino a corte, in Z. Ciuffoletti (a cura di), Storia del vino in Toscana. Dagli Etruschi ai nostri giorni, Polistampa, Firenze 2000, p. 72.
2 – Francesco Redi, Scienziato e cortigiano. Il sito è interamente dedicato alla figura della scienziato di corte.
3 – Cfr. F. Redi, Bacco in Toscana. Con una scelta delle annotazioni, a cura di G. Bucchi, Antenore, Roma-Padova 2005
4 – A.M. Pult Quaglia, La legislazione sul vino nella Toscana moderna, in La vite e il vino. Storia e diritto (secoli XI-XIX), Carocci, Roma 2000 pp. 209-227
5 – E. Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, Firenze 1833, link qui.

L’identità di un territorio. Per non farla facile

Il caos primigenio da cui ebbe origine il mondo. Tableaux du temple des muses – tirez du cabinet de feu mr. Favereau…gravez en tailles-douces par les meilleurs maistres de son temps, pour representer les vertus and les vices, sur les plus (14561047708).jpg Creato: 1 gennaio 1676
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Origine, identità e qualità. Tutti termini che rimandano inequivocabilmente ad archetipi primordiali e ipotesi indiscusse di natura divina. La formula peggiore, dunque, sarebbe quella di fornire un prontuario di ricette “apri e gusta” dove inserire qualche vecchia foto di paese o di colline, due canzoni popolari, tre balli, qualche parola in dialetto, un bagnet vèrd per il bollito, il tutto sapientemente diluito con un buon bicchiere di grignolino (vino che amo molto). Perché un’identità territoriale costruita a tavolino, come se fosse una sommatoria e combinatoria di elementi presi qua e là da un baule del passato a cui si aggiungono coriandoli di modernità tecnologizzata, sa di parrucchino posticcio: basta un colpo di vento o uno starnuto ben dato e vola via. E poi sta male. Il mondo ne è pieno: ogni territorio, ogni luogo ne produce qualcuna: vuoi per una pubblicità muraria o per via giornalistica, vuoi per qualche redazionale, vuoi per qualche video più o meno commerciale, vuoi per qualche sito internet o blog in attesa di commenti che non verranno mai.

Ed è da qui che vorrei partire: un’identità, qualunque essa sia, è un fenomeno storico e negoziale. Implacabilmente plurale. Il primo ancoraggio ideale ancorché semantico del concetto “identità” si usa farlo con un’altra parola anch’essa utilizzata sino allo stordimento, per non dire alla nausea: “tradizione”. Nel suo significato etimologico della parola “tradizione” il vocabolario dice:

tradizióne s. f. [dal lat. traditio -onis, propr. «consegna, trasmissione», der. di tradĕre «consegnare»; nel lat. tardo anche «tradimento», dapprima con riferimento alla consegna dei libri sacri (v. traditore, in etim.), poi con uso assol.: di qui il raro sign.

Sorpresa: tradizione e tradimento, che nel nostro immaginario sono due parole molto distanti fra loro, derivano entrambe dal verbo latino “tradĕre”, letteralmente “consegnare”.

Nel primo caso, dunque, la consegna riguarda tutto ciò che passa dalle mani di una generazione a quelle di un’altra, per salvaguardarlo dallo scorrere del tempo; nel secondo caso, invece, la consegna riguarda qualcosa che dovrebbe essere protetto. Il verbo tradire (il latino tradĕre), porta con sé il significato di “consegnare” un ordine precostituito, un sistema preesistente, “in nome di una nuova consegna, di un nuovo ordine, di un nuovo sistema. Esso sancisce dunque il dramma del passaggio dal vecchio al nuovo e quindi in sostanza l’eterno dramma del processo evolutivo. Il tradimento ha dunque sempre a che fare con l’abbandono da parte di un sistema di precedenti regole o configurazioni a favore della novità”.

Non esistono quindi delle identità identiche a sé che si ergono immutabili a discapito di quanto muta incessantemente. Sono genovese di adozione e torinese di nascita. Mio nonno veniva da un paese ai piedi della Langa e dopo l’androne del bollito: Farigliano. L’androne del bollito è Carrù. Se qualcuno mi chiedesse di definire l’identità di quei luoghi, me ne starei zitto per un po’. Dovrei pensarci, insomma. Non sono più i luoghi che lungo i suoi novant’anni di vita conobbe mio nonno, ma non sono più neppure i luoghi di quando ero ragazzo. Troppe, tante cose sono cambiate: le piazze e le strade vuote, i bar, gli sguardi miei e quelli della gente, le parole al vento, i dialetti e le lingue parlate (quante se ne parlano nelle vostre campagne e nelle vostre vigne?), i lavori, i vestiti e i cappelli della domenica, le feste, gli smartphone e potrei continuare. Forse la morfologia del territorio è cambiata meno: qualche casa e qualche parcheggio in più, due villette a schiera qua e là, il Tanaro che si è ripreso le sue rive. Ma io so che non è più quello che avevo vissuto sino a poco tempo fa: non so se sia diventato una grande periferia di un centro urbano di chissà dove, o soltanto una delle tante sedi suburbane all’interno della grande rete delle connessioni informatiche.

Così “origine”, non da meno di “identità”, e forse negli stessi termini, è un concetto che crea qualche problema. Riprendo qui un brano di Foucault: «Perché Nietzsche genealogista rifiuta, almeno in certe occasioni, la ricerca dell’origine (Ursprung)? Innanzitutto perché in essa ci si sforza di raccogliere l’essenza esatta della cosa, la sua possibilità più pura, la sua identità accuratamente ripiegata su se stessa, la sua forma immobile ed anteriore a tutto ciò che è esterno, accidentale e successivo. Ricercare una tale origine, è tentare di ritrovare “quel che era già”, lo “stesso” d’un immagine esattamente adeguata a sé; è considerare avventizie tutte le peripezie che hanno potuto aver luogo, tutte le astuzie e tutte le simulazioni; è cominciare a togliere tutte le maschere, per svelare infine un’identità originaria. Ora, se il genealogista prende cura d’ascoltare la storia piuttosto che prestare fede alla metafisica, cosa apprende? Che dietro le cose c’è “tutt’altra cosa”: non il loro segreto essenziale e senza data, ma il segreto che sono senza essenza, o che la loro essenza fu costruita pezzo per pezzo a partire da figure che le erano estranee. La ragione? Ma è nata in modo del tutto “ragionevole” – dal caso. L’attaccamento alla verità e il rigore dei metodi scientifici? Dalla passione dei dotti, dal loro odio reciproco, dalle loro discussioni fanatiche e sempre riprese, dal bisogno di prevalere, – armi lentamente forgiate nel corso di lotte personali. E la libertà, sarebbe forse, alla radice dell’uomo, quello che lo lega all’essere e alla verità? Nei fatti, non è che “un’invenzione delle classi dirigenti”. Là dove le cose iniziano la loro storia, quel che si trova non è l’identità ancora preservata della loro origine, – ma la discordia delle altre cose, il disparato». M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977 (ed. orig. Hommage à J. Hyppolite, Paris 1971), ora in Id., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, pp. 45-46.

Dunque nulla da fare? Se sono veri i presupposti e i fondamenti dai quali sono partito, allora sarà necessario che la comunicazione su ciò che l’identità di un territorio significa, o le sue plurali identità, venga descritta ed analizzata per quello che è, sia nelle modalità in cui si dispiega concretamente e sia nelle modalità in cui essa viene rappresentata: servono, dunque, interviste, mappe mentali  che coinvolgano gli abitanti così da evitare una forma di etnicizzazione politica della costruzione identitaria (ad essa contribuiscono le vecchie famiglie, i nuovi nati e i nuovi venuti). La memoria storica, prodotto della ricerca storiografica, che utilizza fonti scritte, orali, materiali e materie di ogni genere e forma si deve intersecare con la memoria individuale e collettiva, con la continua interpretazione e reinterpretazione narrativa di coloro che in quei luoghi dimorano. E poi, dall’altra parte, mappe, carte storiche e tematiche, elaborazioni GIS (Geographic Information System), dati statistici, iconografici e visuali: insomma tutti materiali di indagine quantitativa così come vengono definiti in sociologia.

Ecco che allora, e solo in quel momento, potremmo dire che l’unità del paesaggio è data da uno “spazio dell’azione”, da un “contesto” e da uno “sfondo”. E solo allora potremmo dire che ciò che rimandiamo agli altri (immagini, prodotti o storie di vita…) non è soltanto un artefatto posticcio di un collage di luoghi comuni o una foto sbiadita di un mondo irrimediabilmente scomparso.