Il mare colore del vino

“(…) Ma subito trovò da esaltarsi di fronte al mare di Taormina.

– Che mare! E dove c’è un mare così?

– Sembra vino – disse Nenè.

– Vino? – fece il professore perplesso. – Io non so questo bambino come veda i colori: come se ancora non li conoscesse. A voi sembra colore di vino, questo mare?

– Non so: ma mi pare ci sia qualche vena rossastra – disse la ragazza.

– L’ho sentito dire, o l’ho letto da qualche parte: il mare colore del vino – disse l’ingegnere.

– Qualche poeta l’avrà magari scritto, ma io un mare colore del vino non l’ho mai visto – disse il professore, e a Nenè spiegò – Vedi: qui sotto, vicino agli scogli, il mare è verde, più lontano è azzurro, azzurro cupo.

– A me sembra vino – disse il bambino, con sicurezza.

– È daltonico – sentenziò il professore.

– Ma che daltonico? – si rivoltò la signora. – È testardo.

Si provò anche lei a convincerlo del verde e dell’azzurro del mare.

– È vino – disse Nenè.

– Vedi che è testardo? – disse la madre. – Ora addirittura afferma che è vino.

– Un momento – disse il professore. Tirò giù dalla reticella la sua cravatta, verde a strisce nere, e

mostrandola domandò al bambino – Che colori ha questa cravatta?

– Di vino – rispose implacabile Nenè: e sorrideva di malizia.

Il professore buttò la cravatta per aria.

– E meglio lasciar perdere: è testardo – disse la signora.

– Forse è anche daltonico – insistette, ma ormai senza convinzione, il marito.

«Il mare colore del vino: ma dove l’ho sentito? – si chiedeva l’ingegnere. – Il mare non è colore del vino, ha ragione il professore. Forse nella prima aurora, o nel tramonto: ma non in quest’ora. Eppure, il bambino ha colto qualcosa di vero: forse l’effetto, come di vino, che un mare come questo produce. Non ubriaca: si impadronisce dei pensieri, suscita antica saggezza».

«I dialoghi di Platone dovrebbe recitarli Eduardo De Filippo: in napoletano».

«Ma qui siamo in Sicilia, forse non è la stessa cosa».

Il treno correva lungo il più splendido mare che avesse mai visto: a momenti pareva assumere l’inclinazione dell’aereo quando decolla, il paesaggio rovesciato da un lato, a filo del volo”.

 

Tratto da Leonardo Sciascia, Il mare colore del vino, Einaudi, Torino 1973

Le eredità linguistiche di Luigi Veronelli

 

 

Il vino spara fulmini e barbariche orazioni

 

che fan sentire il gusto delle alte perfezioni.

 

[ Paolo Conte, Cuanta Pasión]

Non vi è dubbio, tranne in rare eccezioni, che quasi tutto il giornalismo vinicolo, e non faccio differenza tra professionisti e non del settore poiché la distinzione è spesso puramente formale, rivendichi una comune eredità di ciò che Veronelli ha lasciato. In molti lo hanno conosciuto, parecchi gli sono stati amici, alcuni hanno collaborato direttamente con lui, ma moltissimi ne reclamano una continuità lessicografica e interpretativa: «Quando Luigi Veronelli, per tutti ‘Gino’, apriva la strada del giornalismo enoico in Italia io non ero nato. Ieri avrebbe compiuto 85 anni e raccogliendo informazioni sulle guide ai ristoranti per la mia tesi di laurea, gli scrissi anche io nel 2003. Mi rispose con lettera dattiloscritta e firmata, e la conservo come quella che mio padre ricevette da Indro Montanelli, più vecchia di 30 anni. La quantità di allievi veri o presunti del Gino non si conta più e certi nomi non li menzionerei neanche. Di certo, l’Alessandro Masnaghetti – direttore di Enogea – intervistato da Ivano Antonini è stato uno dei più vicini e fidati. Non ascoltarlo è un peccato capitale. Un altro ricordo mica male lo devo a Daniele Cernilli, un giovane wine writer indipendente romano. Alla domanda ‘Che ruolo ha avuto Veronelli nell’aprire un sentiero della comunicazione che poi il Gambero Rosso ha reso strada a tutti gli effetti?’, così mi ha risposto l’ex direttore del Gambero:

‘Mi fa piacere parlare di Gino, perché il suo nome per tutti gli amici era quello. Lui ha inventato la critica enologica in Italia perché è stato il primo a parlare dei vini in modo non solo letterario, come avevano fatto Mario Soldati, Paolo Monelli e Piero Accolti prima di lui. Gino assaggiava e valutava in concreto, dando i punteggi ad ogni singola etichetta, e non parlando di vino in generale. Ha anche inventato un linguaggio, che molti hanno poi imitato con minore efficacia. ‘Vino da meditazione’ è un suo neologismo, oggi entrato nel modo di parlare e di scrivere di vino di tanti.

Ma Gino non era solo uno scrittore di vino, era un intellettuale a tutti gli effetti. Uomo coltissimo, grande polemista, pieno di coraggio e di personalità. Un vero Maestro, insomma, che io ho avuto la fortuna di conoscere profondamente e del quale mi definisco (e lui mi definiva) ‘allievo’. Orgogliosamente, aggiungo. Lui più scrittore e visionario, io più giornalista e ‘tecnico’, lui più ‘one man gang’, io più coordinatore di squadre di lavoro. Lui più ‘bomber’ e più geniale, io più catalogatore ed assaggiatore. Ma lui faceva sognare, aveva una capacità evocativa che pochi hanno avuto nel mondo del vino, da grande scrittore quale era. Le Guide all’Italia Piacevole di Garzanti del 1968, il Catalogo Bolaffi dei vini italiani, che ebbe diverse edizioni, dal ‘72 ai primi degli anni Ottanta, e che poi continuò per un paio di edizioni con la Giorgio Mondadori, sono state in assoluto le opere più complete ed innovative della sua epoca. Io credo di essermele imparate a memoria. Poi va sottolineato che quando Gino scriveva, non c’era nulla prima di lui. Noi, anche il Gambero, abbiamo trovato la parte più dura del percorso già fatta. Ricordo che quando uscì la guida dei vini nel novembre del 1987 lui mi disse che era un bel lavoro ma che si sarebbe aspettato più novità, visto che non c’era una sola azienda della quale lui non avesse già scritto. Aveva ragione. Tra gli allievi del Gino mi sembra di ricordare Gianfranco Fino, Luca Maroni (‘Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno’ [cit.]) e non so quanti altri. Facciamo che questa diventi una bacheca condivisa in cui condividere ricordi, racconti ed emozioni di quell’uomo senza cui, magari, molti di noi ora starebbero a parlare di giardinaggio e pesca sportiva. Vorremo bene anche a chi magari trova eccessivo buonismo attorno al ricordo di un personaggio controverso come ogni grande che si rispetti[1]

Come sempre accade non esiste un interprete univoco di questa recente tradizione, ma ciò non vuol dire che il richiamo al maestro insuperato non sia foriera di lasciti che si discostano in maniera più o meno significativa da quello che egli volle tramandare. Ma forse, e questo riguarda la maggior parte delle situazioni, è pur vero che gli autori nel corso degli anni mutano la linea tratteggiata su cui sono incamminati, a volte in maniera lieve, a volte in maniera brusca e feroce. Sarebbe divertente in futuro confrontarsi con un’eredità interpretativa che colga le fasi di un Veronelli giovane (gli Scritti giovanili), di un secondo Veronelli (Per la critica dell’economia politica) e di un Veronelli maturo, o meglio de ‘Il Capitale’.

La collaborazione tra la più numerosa delle associazioni di sommelierie, l’Associazione Italiana Sommelier, e  Veronelli è piuttosto stretta tanto che nel 1980 Gino introduce il volume ‘Tuttovino’[2] scritto da  due personaggi tra i più rilevanti nel panorama eno-gastronomico dell’epoca: il giornalista Edoardo Raspelli e Franco Tommaso Marchi, segretario generale dell’A.I.S. dal 1969 e collaboratore di alcune tra le riviste più importanti dell’epoca. ‘Tuttovino’ è un dizionario enciclopedico del sommelier ed è pensato come strumento didattico, descrittivo, conoscitivo del mondo del vino: la breve presentazione di Veronelli è  una modalità di reciproco riconoscimento, ma è anche la consapevolezza di un suo proficuo superamento: «Millantavoltemillant’oppresso d’oppressioni, sai tu se m’assoggetto a introduzioni, prefazioni, presentazioni. Introibo, prefazio, presento sol’obbligato da millantavoltemillant’obbligazioni. Di bellezza (donna soz cile n’a home). O di denaro (oh, il denaro). O di stima. O d’affetto.

Qui di stima e d’affetto.

In anteprima il Franco Marchi e l’Edo Raspelli. Cui devo stimaaffettomillantavoltemila – m’inviano bozze d’opera monstre: ‘Tuttovino Dizionarion Enciclopedico del Sommelier’. Certo che temo. Tuttovinodizionarioenciclopedicodelsommelier, dici niente. Controimprovvisazioni, più che aspro son agher. L’ho lette le bozze, e sono, letterale, esterrefatto: quei due, mossi da indicibile amore, hanno ‘sputato sangue’. Chiedo, vogliono, esigo, impongono intervento.

In quest’opera trovi, una via l’altra cercata, una via l’altra elencata, una via l’altra spiegata, le voci tutte – ma tutte tutte (per la comprensione amorosa, se non hai anima non leggerli, solo li inaridisci)- del vino, con una minuzia e un intelligenza tali (gli ha dato ai due mano ‘tecnica’ Franco Spagnolli cui anche debbo, in quella supermoltiplicazione, stimaffetto) che il timore controimprovvisazioni si è mutato, proprio e appunto, in insgomento per perfezione. Quest’opera mi fa – essì, amici miei – re nudo. Nudo? Vabbè, va bene ai prìncipi. Portatemi, per il brindisi, quel mio vino testabalorda, anarchico, individualista[3]

Con un linguaggio estremamente colto, che rimanda alle avanguardie poetiche degli anni sessanta e con un testo apparentemente libero dalla sintassi, Veronelli assume come dato che «ogni ponte tra parola e cosa è crollato. La lingua in quanto rappresentazione della realtà è ormai un congegno matto. Tuttavia il riconoscimento della realtà rimane lo scopo dello scrivere. Ma come potrà effettuarsi? La lingua che ha fin qui istituito rapporti di rappresentazione con la realtà, ponendosi nei confronti di questa in posizione frontale, di specchio in cui essa direttamente si rifletteva, dovrà cambiare punto di vista. E cioè o trasferirsi nel cuore della realtà, trasformandosi da specchio riflettente in accurato registratore dei processi, anche i più irrazionali, del formarsi del reale; oppure, continuando a rimanere all’esterno della realtà, porre tra se stessa e questa un filtro attraverso il quale le cose, allargandosi in immagini surreali o allungandosi in forme allucinate, tornino a svelarsi. Questa è l’operazione essenziale del nuovo sperimentalismo[4].» In un linguaggio piano, tipico dei glossari, lo scopo del dizionario enciclopedico ‘Tuttovino’ è quello, a detta degli autori, di dare un’unità d’intenti ad un mondo variegato che si esprime a volte utilizzando parole che rimandano a concetti condivisi, a volte a concetti disquisiti e, in ultimo a parole che spesso non vengono neppure utilizzate. Agli inizi degli anni ottanta il mondo del vino sente ancora questa esigenza, che poi porterà su altre strade: da un linguaggio unificante, nel senso di restituire alla parola un segno universalmente condiviso, si è passati a segni rigidamente codificati tipici delle schede degustative delle varie associazioni di sommelerie. Vengono costruite delle gabbie semantiche, di senso compiuto naturalmente, che hanno da una parte la capacità di restituire una possibile valutazione organolettica del vino e, dall’altra, di confermare un predominio linguistico e di potere all’interno di una comunità allargata di degustatori. Ma un dizionario che ha l’onere di descrivere oltre che termini tecnici anche termini che hanno a che fare con le sensazioni organolettiche è obbligato a lasciare in una parte del suo contributo scientifico per aprirsi alla varietà sinonimica tratteggiata precedentemente: «Plumbeo. Dicesi di un vino bianco con aspetto smorto e grigiastro, grigio piombo[5]

Bisognerà aspettare il 2001 per avere un nuovo dizionario dei termini del vino, un dizionario Veronelli, per l’appunto, curato da Alessandro Masnaghetti.

Veronelli denuncia in questo caso la iato, decisamente stridente a suo avviso, tra quanto le legislazioni comunitaria e nazionale permettono in termine di pratiche e quanto invece si dovrebbe fare per ottenere una esasperata qualità: «Mi sembra d’obbligo avvertire il lettore della più pesante delle difficoltà riscontrate nella stesura. Alessandro Masnaghetti ha esatto il rispetto pressoché parola per parola dei dettati di legge, sia italiana sia comunitaria, quando io avrei preferito far valere di più la mia indignazione di critico epicureo di fronte a pratiche, in perfetta regola con i dettati legislativi ma, a mio parere, al di fuori di un severo rispetto delle esigenze dell’esasperata qualità. Di un fatto inoppugnabile io ed Alessandro Masnaghetti possiamo comunque essere orgogliosi: in nessun altro momento della tradizione lessicografica la pubblicazione di un dizionario tutt’affatto nuovo (e come tale suscettibile di miglioramento e di completamento) si è trovata a corrispondere con tanta evidenza ad una situazione di tensione culturale attorno ai problemi di una scienza. Con eccezionale intensità agiscono oggi sull’enologia fattori molteplici, alcuni dei quali all’esterno, altri all’interno del sistema. Studiosi e wine-writer ne discutono con sintomatica vivacità, ed a volte nel pieno fervore polemico, le tanto mutate caratteristiche. Al meglio[6]

Se Masnaghetti indica una continuità metodologica del progetto Veronelli, è Sandro Sangiorgi a scavare nella miniera lessicologia veronelliana: «Ma il vero fuoriclasse è stato Luigi Veronelli. A lui il merito di aver fondato la convenzione dialettica professionale, a cui tutti, dalla metà del Novecento in poi, si sono ispirati per raccontare il vino ai clienti di enoteche e ristoranti o ai lettori di libri, guide e riviste. Non a caso l’Associazione Italiana Sommelier, prima di limitarsi alla freddezza descrittiva propria del linguaggio degli enotecnici, considerava Veronelli il vero punto di riferimento, almeno fino a quando su ‘Il Vino’, mensile dell’associazione, non scrisse la parola ‘sperma’ per commentare il gusto di uno Champagne Vintage Krug 1976. Ricordo la rivolta degli enotecnici, ai quali non piaceva l’idea che il vino ‘non fosse solo vino’, come invece avevo sempre pensato. Veronelli fu culturalmente emarginato dall’AIS perché la sua libertà di linguaggio impediva di poter impostare e diffondere un sistema descrittivo stabile e rassicurante, fatto di ‘abbastanza’ e ‘poco’ per definire le sfumature; un sistema che non permetteva in una scheda la coincidenza di ‘fresco’ e ‘caldo’. Tale sterile pragmatismo, che impedisce, ancora oggi, di riconoscere la differenza tra due vini leggendone le schede, si basava su una falsa distinzione, quella tra una valutazione ‘tecnica’ e una di ‘puro piacere’, come se il vino potesse vivere così, diviso. Non a caso proprio tra gli anni ottanta e novanta si diffusero una pletora di vini tecnicamente impeccabili ma incapaci di fornire la minima emozione. Un’ulteriore prova che il linguaggio della degustazione influenza l’identità e la fisionomia della produzione, come del resto confermò il periodo successivo.

Oltre la gabbia del codice unico.

Molti di noi provarono a percorrere altre strade, la miniera veronelliana aspettava di essere scavata per aprire altre vene, in modo da superare il limite, la gabbia, di un codice unico e trasformarlo finalmente in un linguaggio di respiro universale. C’erano tutte le possibilità per attuare questo ambizioso progetto, quando la critica enologica mondiale fu colta dalla mania del voto, attraverso numeri e/o simboli, generando la conseguente catastrofe del premio. La consuetudine britannica di associare un voto alla scheda aveva il merito di tenere in equilibrio, anche graficamente, i due punti di vista; la tensione globale verso una comunicazione sempre più elementare spostò l’attenzione verso il punteggio, svuotando di contenuti la descrizione. Americani, tedeschi, anche i francesi e gli stessi inglesi non si sottrassero a questa modalità, perseguendo un altro obiettivo deleterio, quello di fornire alla persona consumatore, e così anche al produttore, un protocollo espressivo di riferimento, trasformato ben presto in modello qualitativo assoluto. Gli italiani non furono da meno: incapaci, ancora una volta, di sviluppare una visione propria, restarono succubi di modelli altrui, ossequiati con la scusa dell’universalità, ma in realtà con il fine di cavalcare l’onda buona e di non perdere il business immediato. La seconda parte degli anni novanta e questo scorcio d’inizio secolo sono stati desolanti dal punto di vista del nostro linguaggio del vino[7].» Altri autori, non meno importanti, hanno ereditato parti della codificazione linguistica di Veronelli, altri la hanno estesa e variata, altri infine la hanno abbandonata nel corso del tempo. Ma a tutto ciò si aggiunge un’altra domanda, la cui risposta è insita nel quesito stesso: è mai possibile scindere il linguaggio di Veronelli dalla sua filosofia (filosofie) e pratiche politiche? Ovviamente credo di no, perché l’intendere un vino o le culture enogastronomiche in un certo modo significa anche rappresentarle sul piano ideale e politico e, in questo, difficilmente si potrà pensare che non esistano eredità veronelliane, ma se molteplici esse sono, lo sono sicuramente anche ben collocate.

[1]     Alessandro Morichetti, Per la costruzione di una memoria condivisa di Luigi Veronelli, Intravino, http://www.intravino.com, giovedì 3 febbraio 2011

[2]     Franco T. Marchi, Edoardo Raspelli, Tuttovino. dizionario enciclopedico del sommelier.  le 2.000 parole che servono per parlare di vino, Edizioni AEB, Brescia 1980.

[3]     Luigi Veronelli, Prefazione, ivi

[4]     Avanguardia e sperimentalismo, in “Il Verri” n.8, aprile 1963, poi in Avanguardia e sperimentalismo, Feltrinelli 1964, in Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Gruppo 63, L’Antologia Introduzione, in http://www.nannibalestrini.it/gruppo63/prefazione.htm

[5]     Franco T. Marchi, Edoardo Raspelli, Tuttovino, cit. pag.143

[6]     Luigi Veronelli, Prefazione, Dizionario Veronelli dei termini del vino, Veronelli Editore, Bergamo 2001.

[7]     Sandro Sangiorgi, Il vino e la civiltà delle parole, in Porthos, 15 luglio 2008; rimando naturalmente anche al suo libro L’invenzione della gioia

la foto è tratta da A- Rivista anarchica online

Il vino armonico e il prestito dalle arti antiche

Nel 1975 Wladyslaw Tatarkiewicz dà alle stampe, a completamento della precedente opera (la Storia dell’Estetica), la ‘Storia delle sei Idee’ (Dzieje sześciu pojęć). Mentre la ‘Storia dell’Estetica’ è una storia degli autori, degli scrittori e degli artisti che hanno formulato idee sul Bello e sull’Arte, sulla Forma e sulla Creatività, la ‘Storia delle sei Idee’ si concentra sui problemi, sulle idee e sulle teorie estetiche che si sono succedute nel corso dei secoli. Dopo aver affrontato temi che spaziano dal concetto dell’Arte dall’antichità ad oggi, alla sua classificazione e suddivisione, al rapporto tra Arte e Poesia, Tatarkiewicz si concentra sulla concetto di Bello, fondato dalla Grande Teoria. Egli chiama così la concezione del bello nell’Antichità, dove per bellezza s’intende principalmente la proporzione fra le parti. Questa teoria è a suo dire fondamento duraturo, comprensivo e riconosciuto dell’intera sfera del Bello nella cultura europea: “I primi a formulare la Grande Teoria furono i Pitagorici. Secondo loro, la bellezza di un oggetto consiste nella proporzione delle parti; dunque, da qualcosa che può essere determinato con esattezza in forma numerica. I Pitagorici introdussero quindi la Grande Teoria nella sua versione ristretta. Essa nacque come generalizzazione dell’osservazione dell’armonia dei suoni: le corde di uno strumento producono suoni armonici, se il loro rapporto di lunghezza è espresso da numeri semplici(…) Una concezione analoga ben presto si estese al campo delle arti visive, all’architettura e alla scultura, come pure alla bellezza dei corpi viventi. Si rivolse alla sfera della vista come a quella dell’udito. I termini άρμονία e συμμετρìα (accordo e proporzionalità) rispondevano pienamente a questa teoria. Comunque che la teoria sia passata dalla arti visive alla musica, o anche che si sia formata in ambito figurativo in maniera autonoma e parallela, durante la Grecia classica, essa vigeva per entrambe le arti[1].”

La Grande Teoria si consolida in epoca medievale attraverso la lettura che Sant’Agostino fa di Boezio il quale sostiene nel suo ‘De institutione musica[2]’, che l’armonia musicale mundana (cosmica), derivante dagli astri[3] e non percepibile dall’uomo, si fonda sull’equilibrio dei quattro elementi presenti in natura – acqua, aria, terra e fuoco; così come la musica humana rappresenta l’armonia dell’uomo con sé stesso e di sé con il mondo. E per finire la musica instrumentis constituta, derivante dalle altre due, si costituisce attraverso il rapporto armonico dei suoni come imitazione della musica vocale: “Agli occhi del dotto medievale la musica rappresentava un incontro tra filosofia, teologia e pratica liturgica, l’una riflesso dell’altra su piani differenti. Seguendo la lezione del ‘Timeo’ platonico, la teoria musicale veniva vista come applicazione dell’ordine numerico su cui l’intero cosmo era fondato. Il canto era invece eco dei cori angelici in sempiterna lode del Creatore. In questa prospettiva, il concetto di harmonia veniva letto in chiave esemplaristica, ossia come processo di manifestazione dell’ordine archetipico nella gerarchia dell’Essere universale. La musica strumentale era qui imitazione della musica vocale. Questa era a sua volta  l’immagine nel tempo e nello spazio del canto angelico, superiore alla dimensione temporale e udibile solo attraverso l’’orecchio del cuore’ (simbolicamente, la conoscenza interioritatis hominis). I cori angelici (‘Trisagio’, ‘Alleluia’) costituivano infine lode e manifestazione nel suono metafisico della Perfezione divina, assimilata apofaticamente al silenzio. La teoria aritmetica delle proporzioni numeriche, in cui si descrivono vuoi le relazioni tra note musicali vuoi i ritmi, era a sua volta concepita esemplaristicamente come copia dell’ordine noumenico insito nella ‘mente di Dio[4]’.”

Sarà l’Illuminismo, soprattutto di matrice anglosassone, nel 1700, a mettere in forte discussione, su basi soggettivistico – espressive la Grande Teoria, che per rivoli diversi e riapparizioni carsiche è presente ancora oggi come descrittore del Bello e, se mi si permette, anche del Buono e del buon Gusto.

Molti fanno ancora oggi dell’armonia il punto non superabile nella valutazione di un vino.

 


[1] Wladyslaw Tatarkiewicz, Storia di sei Idee, Aesthetica Edizioni, Palermo 2011, pag. 135;

[2] Del 500 d. C. circa

[3] L’universo, secondo Platone, è strutturato sul modello degli accordi musicali.

[4] Ernesto Mainoldi, La filosofia della musica nel Medioevo, in http://lgxserver.uniba.it/lei/filmusica/fmclmed1.htm

Andreas Cellarius: Harmonia macrocosmica seu atlas universalis et novus, totius universi creati cosmographiam generalem, et novam exhibens, 1 gennaio 1661

Al contrario. Racconto molto breve

La sottile bruma non aveva ancora scoperchiato l’alba e il mare odorava di sale e macaia: le narici inalarono vivamente il ricordo fresco del vermentino ligure di Ponente Terre Bianche. Montai sullo scooter facendo dovuta attenzione a che l’asfalto bagnato di quelle primigenie ore del mattino, lasciandosi alle spalle le oscure ore notturne, sulfuree di zolfo e catrame, del Taurasi cantine Lonardo, non mi facesse precipitare a terra. Imboccai l’Aurelia verso Levante mentre il sole  rosso arancio si sporgeva struggente, sul dorso dei promontori rocciosi, di nerbo e di  frutta al pari di un brunello del Podere Le Ripi Lupi e Sirene, che si gettano a mare.

Qua e là, lungo la strada, “da quelle zagare disfatte dal lume della luna, da quell’effluvio di un amore esasperato, affondato in fragranza, uscì dall’albero il giallo, dal loro planetario scesero a terra i limoni” (Pablo Neruda). Sapevano di spergola Rio Rocca del Farneto, di aria frizzante, di salvia e fiori bianchi.

Mi fermai a Mulinetti per percorrere a piedi la crêuza che porta sino a sant’Apollinare di Sori. Risalii strade acciottolate contornate da ulivi, mimose,  ginestre, tigli e fiori di albicocca a dare il giallo e il bianco. Tutto a prolungare il palato di agrumi dello Champagne De Saint Gall Brut Blanc de Blancs Premier Cru.

Il sole a mezzogiorno intiepidiva basalti e brecce serpentinose, composte da solfuri di ferro , di rame e dalla pirite quasi a cambiare costa e a spingermi più in giù verso il Tramonti bianco della costa d’Amalfi; dopo la breve sosta, giunsi al prato antistante la chiesa romanica, risalente al XII secolo, nella frazione di Sant’Apollinare di Sori. Lo sguardo si aprì ad infiniti spazi di là da quella: ad oriente ed occidente, e il sovrumano mare. Altri terrazzamenti scoscesi che regalavano ciliegi, rose, more a venire, capperi e sale forse solo come il rosato di Sicilia dell’azienda agricola Bonavita sapeva offrire.

E quindi ancora giù a precipizio sino agli scogli di Pontetto

E ‘nt’a barca du vin ghe naveghiemu ‘nsc’i scheuggi
emigranti du rìe cu’i cioi ‘nt’i euggi
        E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli
emigranti della risata con i chiodi negli occhi

finché u matin crescià da puéilu rechéugge
frè di ganeuffeni e dè figge
      finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere
fratello dei garofani e delle ragazze

bacan d’a corda marsa d’aegua e de sä
che a ne liga e a ne porta ‘nte ‘na crêuza de mä
      padrone della corda marcia d’acqua e di sale
che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare (
Fabrizio de André, Crêuza de mä)

Foto di Immagine creata da Rinina25 & Twice25   Genova Sant’Ilario creuza de ma

In piccolo Sant’Apollinare

Perché scomponiamo il gusto in un racconto: Roland Barthes legge Brillat-Savarin

barthes

“Pretendere che non si debbano cambiare i vini è un’eresia; la lingua si sazia e, dopo il terzo bicchiere, anche il vino migliore dà una sensazione appena ottusa.”

Uno dei testi riconosciuto unanimemente come lo spartiacque della critica eno-gastronomica, o forse sarebbe meglio dire il libro che sancisce la  nascita delle critica gastronomica come disciplina autonoma, è lo scritto d iJean-Anthelme Brillat-Savarin composto tra il 1820 e il 1823: “La fisiologia del gusto o Meditazioni di gastronomia trascendente” editato, in forma anonima, a Parigi nel 1825. Questo può accadere anche perché nella seconda metà del Settecento, nel 1764 per la precisione, si verifica un piccolo fatto estremamente significativo: per la prima volta, nel secondo volume del ‘Traité des livres rares[1]’, i libri di cucina vengono classificati come ‘arte’ e non vengono più catalogati nella sezione di ‘Scienze e arti’, anche se rimangono nella sottoclasse di ‘Medicina’. Successivamente, nel ‘Catalogo Perrot’, grazie al lavoro Née de La Rochelle e Belin junior, la ‘cucina’ esce dalla sottoclasse ‘Medicina’ e viene separata da ‘Igiene’ e ‘Dietetica’. Anche se in seguito i cataloghi torneranno a mettere la ‘cucina’ nell’antica classificazione medica, la rottura epistemologica del periodo settecentesco è netta ed evidente. La cucina nel Settecento non è più al servizio della gola ma, come tutte le arti, del buon gusto e non deve più rispondere ai caratteri soggettivi legati allo stato umorale di colui che mangia o al “temperamento” di una popolazione, ma deve rispondere, in qualche modo, a dei canoni generali di piacevolezza.

Il testo di Brillat-Savarin si compone di due parti: la prima si compone di XXX meditazioni che partono dall’ esplicazione “Dei sensi” e terminano con il “Florilegio”; la seconda parte, di commiato, è il suo viaggio gastronomico attraverso alcune ricette storiche sia in terra natia che di emigrazione, che lo videro partecipe in prima persona.

Un secolo e mezzo più tardi, il grande semiologo Roland Barthes propone di leggere, quindi di interpretare, le meditazioni trascendenti di Brillat-Savarin, iniziando da un capitoletto che intitola così: “Gradi”.  Barthes ritiene che Brillat-Savarin renda esplicita una delle più importanticategorie formali della modernità: “lo scomporsi dei fenomeni in varî gradi[2]”.

“Il gusto è appunto quel senso che conosce e pratica approcci multipli e successivi: entrate, ritorni, accavallamenti, tutto un contrappunto della sensazione[3]”. In questo modo la sensazione gustativa viene assoggettata al tempo e su di lei si può sviluppare un racconto come nel campo letterario. Soltanto questa subordinazione del gusto allo scandirsi del tempo permette di acquisire sorprese e sottigliezze: “si tratta dei profumi che, per così dire, si pongono già in partenza come ricordi: nulla avrebbe impedito a Brillat-Savarin di analizzare la madeleine di Proust[4]”.

Vi sono, infatti, per Brillat-Savarin tre sensazioni del gusto: quella diretta, che corrisponde alla prima impressione in bocca, quando ciò che beviamo (mangiamo) è ancora sulla parte anteriore della lingua; quella completa, che si compone dalla prima impressione più quella del cibo (liquido) che è passato nel retrobocca e “colpisce tutto l’organo con il sapore e con il profumo[5]”.

Ed infine la sensazione riflessa, che è il  giudizio dell’anima sulle impressioni che l’organo le ha trasmesso.

Senza quella storia, oggi non descriveremmo il vino così come lo facciamo, né parleremmo delle sue evoluzioni nel tempo e delle sue inspiegabili trasformazioni.

[1] Bibliographie instructive, ou Traité de la connoissance des livres rares et singuliers … / par Guillaume-François De Bure, le jeune, … Tome 1. ó-7.]. – A Paris : chez Guillaume-Francois De Bure le jeune, Libraire, quai des Augustins, 1763-1768. – 7 v.

[2] Brillat-Savarin letto da Roland Barthes, Sellerio Editore, Palermo 1978 (Edizione originale: Physiologie du goût avec una Lecture de Roland Barthes, Hermann, Paris 1975), pag. IX

[3] Ibidem, pag X

[4] Ivi

[5] Jean-Anthelme Brillat-Savarin, Fisiologia del gusto o Meditazioni di gastronomia trascendente, Slow Food Editore, Bra (Cn) 2008, pag. 50

 

Brillat – Savarin.