Il vino spara fulmini e barbariche orazioni
che fan sentire il gusto delle alte perfezioni.
[ Paolo Conte, Cuanta Pasión]
Non vi è dubbio, tranne in rare eccezioni, che quasi tutto il giornalismo vinicolo, e non faccio differenza tra professionisti e non del settore poiché la distinzione è spesso puramente formale, rivendichi una comune eredità di ciò che Veronelli ha lasciato. In molti lo hanno conosciuto, parecchi gli sono stati amici, alcuni hanno collaborato direttamente con lui, ma moltissimi ne reclamano una continuità lessicografica e interpretativa: «Quando Luigi Veronelli, per tutti ‘Gino’, apriva la strada del giornalismo enoico in Italia io non ero nato. Ieri avrebbe compiuto 85 anni e raccogliendo informazioni sulle guide ai ristoranti per la mia tesi di laurea, gli scrissi anche io nel 2003. Mi rispose con lettera dattiloscritta e firmata, e la conservo come quella che mio padre ricevette da Indro Montanelli, più vecchia di 30 anni. La quantità di allievi veri o presunti del Gino non si conta più e certi nomi non li menzionerei neanche. Di certo, l’Alessandro Masnaghetti – direttore di Enogea – intervistato da Ivano Antonini è stato uno dei più vicini e fidati. Non ascoltarlo è un peccato capitale. Un altro ricordo mica male lo devo a Daniele Cernilli, un giovane wine writer indipendente romano. Alla domanda ‘Che ruolo ha avuto Veronelli nell’aprire un sentiero della comunicazione che poi il Gambero Rosso ha reso strada a tutti gli effetti?’, così mi ha risposto l’ex direttore del Gambero:
‘Mi fa piacere parlare di Gino, perché il suo nome per tutti gli amici era quello. Lui ha inventato la critica enologica in Italia perché è stato il primo a parlare dei vini in modo non solo letterario, come avevano fatto Mario Soldati, Paolo Monelli e Piero Accolti prima di lui. Gino assaggiava e valutava in concreto, dando i punteggi ad ogni singola etichetta, e non parlando di vino in generale. Ha anche inventato un linguaggio, che molti hanno poi imitato con minore efficacia. ‘Vino da meditazione’ è un suo neologismo, oggi entrato nel modo di parlare e di scrivere di vino di tanti.
Ma Gino non era solo uno scrittore di vino, era un intellettuale a tutti gli effetti. Uomo coltissimo, grande polemista, pieno di coraggio e di personalità. Un vero Maestro, insomma, che io ho avuto la fortuna di conoscere profondamente e del quale mi definisco (e lui mi definiva) ‘allievo’. Orgogliosamente, aggiungo. Lui più scrittore e visionario, io più giornalista e ‘tecnico’, lui più ‘one man gang’, io più coordinatore di squadre di lavoro. Lui più ‘bomber’ e più geniale, io più catalogatore ed assaggiatore. Ma lui faceva sognare, aveva una capacità evocativa che pochi hanno avuto nel mondo del vino, da grande scrittore quale era. Le Guide all’Italia Piacevole di Garzanti del 1968, il Catalogo Bolaffi dei vini italiani, che ebbe diverse edizioni, dal ‘72 ai primi degli anni Ottanta, e che poi continuò per un paio di edizioni con la Giorgio Mondadori, sono state in assoluto le opere più complete ed innovative della sua epoca. Io credo di essermele imparate a memoria. Poi va sottolineato che quando Gino scriveva, non c’era nulla prima di lui. Noi, anche il Gambero, abbiamo trovato la parte più dura del percorso già fatta. Ricordo che quando uscì la guida dei vini nel novembre del 1987 lui mi disse che era un bel lavoro ma che si sarebbe aspettato più novità, visto che non c’era una sola azienda della quale lui non avesse già scritto. Aveva ragione. Tra gli allievi del Gino mi sembra di ricordare Gianfranco Fino, Luca Maroni (‘Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno’ [cit.]) e non so quanti altri. Facciamo che questa diventi una bacheca condivisa in cui condividere ricordi, racconti ed emozioni di quell’uomo senza cui, magari, molti di noi ora starebbero a parlare di giardinaggio e pesca sportiva. Vorremo bene anche a chi magari trova eccessivo buonismo attorno al ricordo di un personaggio controverso come ogni grande che si rispetti[1].»
Come sempre accade non esiste un interprete univoco di questa recente tradizione, ma ciò non vuol dire che il richiamo al maestro insuperato non sia foriera di lasciti che si discostano in maniera più o meno significativa da quello che egli volle tramandare. Ma forse, e questo riguarda la maggior parte delle situazioni, è pur vero che gli autori nel corso degli anni mutano la linea tratteggiata su cui sono incamminati, a volte in maniera lieve, a volte in maniera brusca e feroce. Sarebbe divertente in futuro confrontarsi con un’eredità interpretativa che colga le fasi di un Veronelli giovane (gli Scritti giovanili), di un secondo Veronelli (Per la critica dell’economia politica) e di un Veronelli maturo, o meglio de ‘Il Capitale’.
La collaborazione tra la più numerosa delle associazioni di sommelierie, l’Associazione Italiana Sommelier, e Veronelli è piuttosto stretta tanto che nel 1980 Gino introduce il volume ‘Tuttovino’[2] scritto da due personaggi tra i più rilevanti nel panorama eno-gastronomico dell’epoca: il giornalista Edoardo Raspelli e Franco Tommaso Marchi, segretario generale dell’A.I.S. dal 1969 e collaboratore di alcune tra le riviste più importanti dell’epoca. ‘Tuttovino’ è un dizionario enciclopedico del sommelier ed è pensato come strumento didattico, descrittivo, conoscitivo del mondo del vino: la breve presentazione di Veronelli è una modalità di reciproco riconoscimento, ma è anche la consapevolezza di un suo proficuo superamento: «Millantavoltemillant’oppresso d’oppressioni, sai tu se m’assoggetto a introduzioni, prefazioni, presentazioni. Introibo, prefazio, presento sol’obbligato da millantavoltemillant’obbligazioni. Di bellezza (donna soz cile n’a home). O di denaro (oh, il denaro). O di stima. O d’affetto.
Qui di stima e d’affetto.
In anteprima il Franco Marchi e l’Edo Raspelli. Cui devo stimaaffettomillantavoltemila – m’inviano bozze d’opera monstre: ‘Tuttovino Dizionarion Enciclopedico del Sommelier’. Certo che temo. Tuttovinodizionarioenciclopedicodelsommelier, dici niente. Controimprovvisazioni, più che aspro son agher. L’ho lette le bozze, e sono, letterale, esterrefatto: quei due, mossi da indicibile amore, hanno ‘sputato sangue’. Chiedo, vogliono, esigo, impongono intervento.
In quest’opera trovi, una via l’altra cercata, una via l’altra elencata, una via l’altra spiegata, le voci tutte – ma tutte tutte (per la comprensione amorosa, se non hai anima non leggerli, solo li inaridisci)- del vino, con una minuzia e un intelligenza tali (gli ha dato ai due mano ‘tecnica’ Franco Spagnolli cui anche debbo, in quella supermoltiplicazione, stimaffetto) che il timore controimprovvisazioni si è mutato, proprio e appunto, in insgomento per perfezione. Quest’opera mi fa – essì, amici miei – re nudo. Nudo? Vabbè, va bene ai prìncipi. Portatemi, per il brindisi, quel mio vino testabalorda, anarchico, individualista[3].»
Con un linguaggio estremamente colto, che rimanda alle avanguardie poetiche degli anni sessanta e con un testo apparentemente libero dalla sintassi, Veronelli assume come dato che «ogni ponte tra parola e cosa è crollato. La lingua in quanto rappresentazione della realtà è ormai un congegno matto. Tuttavia il riconoscimento della realtà rimane lo scopo dello scrivere. Ma come potrà effettuarsi? La lingua che ha fin qui istituito rapporti di rappresentazione con la realtà, ponendosi nei confronti di questa in posizione frontale, di specchio in cui essa direttamente si rifletteva, dovrà cambiare punto di vista. E cioè o trasferirsi nel cuore della realtà, trasformandosi da specchio riflettente in accurato registratore dei processi, anche i più irrazionali, del formarsi del reale; oppure, continuando a rimanere all’esterno della realtà, porre tra se stessa e questa un filtro attraverso il quale le cose, allargandosi in immagini surreali o allungandosi in forme allucinate, tornino a svelarsi. Questa è l’operazione essenziale del nuovo sperimentalismo[4].» In un linguaggio piano, tipico dei glossari, lo scopo del dizionario enciclopedico ‘Tuttovino’ è quello, a detta degli autori, di dare un’unità d’intenti ad un mondo variegato che si esprime a volte utilizzando parole che rimandano a concetti condivisi, a volte a concetti disquisiti e, in ultimo a parole che spesso non vengono neppure utilizzate. Agli inizi degli anni ottanta il mondo del vino sente ancora questa esigenza, che poi porterà su altre strade: da un linguaggio unificante, nel senso di restituire alla parola un segno universalmente condiviso, si è passati a segni rigidamente codificati tipici delle schede degustative delle varie associazioni di sommelerie. Vengono costruite delle gabbie semantiche, di senso compiuto naturalmente, che hanno da una parte la capacità di restituire una possibile valutazione organolettica del vino e, dall’altra, di confermare un predominio linguistico e di potere all’interno di una comunità allargata di degustatori. Ma un dizionario che ha l’onere di descrivere oltre che termini tecnici anche termini che hanno a che fare con le sensazioni organolettiche è obbligato a lasciare in una parte del suo contributo scientifico per aprirsi alla varietà sinonimica tratteggiata precedentemente: «Plumbeo. Dicesi di un vino bianco con aspetto smorto e grigiastro, grigio piombo[5].»
Bisognerà aspettare il 2001 per avere un nuovo dizionario dei termini del vino, un dizionario Veronelli, per l’appunto, curato da Alessandro Masnaghetti.
Veronelli denuncia in questo caso la iato, decisamente stridente a suo avviso, tra quanto le legislazioni comunitaria e nazionale permettono in termine di pratiche e quanto invece si dovrebbe fare per ottenere una esasperata qualità: «Mi sembra d’obbligo avvertire il lettore della più pesante delle difficoltà riscontrate nella stesura. Alessandro Masnaghetti ha esatto il rispetto pressoché parola per parola dei dettati di legge, sia italiana sia comunitaria, quando io avrei preferito far valere di più la mia indignazione di critico epicureo di fronte a pratiche, in perfetta regola con i dettati legislativi ma, a mio parere, al di fuori di un severo rispetto delle esigenze dell’esasperata qualità. Di un fatto inoppugnabile io ed Alessandro Masnaghetti possiamo comunque essere orgogliosi: in nessun altro momento della tradizione lessicografica la pubblicazione di un dizionario tutt’affatto nuovo (e come tale suscettibile di miglioramento e di completamento) si è trovata a corrispondere con tanta evidenza ad una situazione di tensione culturale attorno ai problemi di una scienza. Con eccezionale intensità agiscono oggi sull’enologia fattori molteplici, alcuni dei quali all’esterno, altri all’interno del sistema. Studiosi e wine-writer ne discutono con sintomatica vivacità, ed a volte nel pieno fervore polemico, le tanto mutate caratteristiche. Al meglio[6].»
Se Masnaghetti indica una continuità metodologica del progetto Veronelli, è Sandro Sangiorgi a scavare nella miniera lessicologia veronelliana: «Ma il vero fuoriclasse è stato Luigi Veronelli. A lui il merito di aver fondato la convenzione dialettica professionale, a cui tutti, dalla metà del Novecento in poi, si sono ispirati per raccontare il vino ai clienti di enoteche e ristoranti o ai lettori di libri, guide e riviste. Non a caso l’Associazione Italiana Sommelier, prima di limitarsi alla freddezza descrittiva propria del linguaggio degli enotecnici, considerava Veronelli il vero punto di riferimento, almeno fino a quando su ‘Il Vino’, mensile dell’associazione, non scrisse la parola ‘sperma’ per commentare il gusto di uno Champagne Vintage Krug 1976. Ricordo la rivolta degli enotecnici, ai quali non piaceva l’idea che il vino ‘non fosse solo vino’, come invece avevo sempre pensato. Veronelli fu culturalmente emarginato dall’AIS perché la sua libertà di linguaggio impediva di poter impostare e diffondere un sistema descrittivo stabile e rassicurante, fatto di ‘abbastanza’ e ‘poco’ per definire le sfumature; un sistema che non permetteva in una scheda la coincidenza di ‘fresco’ e ‘caldo’. Tale sterile pragmatismo, che impedisce, ancora oggi, di riconoscere la differenza tra due vini leggendone le schede, si basava su una falsa distinzione, quella tra una valutazione ‘tecnica’ e una di ‘puro piacere’, come se il vino potesse vivere così, diviso. Non a caso proprio tra gli anni ottanta e novanta si diffusero una pletora di vini tecnicamente impeccabili ma incapaci di fornire la minima emozione. Un’ulteriore prova che il linguaggio della degustazione influenza l’identità e la fisionomia della produzione, come del resto confermò il periodo successivo.
Oltre la gabbia del codice unico.
Molti di noi provarono a percorrere altre strade, la miniera veronelliana aspettava di essere scavata per aprire altre vene, in modo da superare il limite, la gabbia, di un codice unico e trasformarlo finalmente in un linguaggio di respiro universale. C’erano tutte le possibilità per attuare questo ambizioso progetto, quando la critica enologica mondiale fu colta dalla mania del voto, attraverso numeri e/o simboli, generando la conseguente catastrofe del premio. La consuetudine britannica di associare un voto alla scheda aveva il merito di tenere in equilibrio, anche graficamente, i due punti di vista; la tensione globale verso una comunicazione sempre più elementare spostò l’attenzione verso il punteggio, svuotando di contenuti la descrizione. Americani, tedeschi, anche i francesi e gli stessi inglesi non si sottrassero a questa modalità, perseguendo un altro obiettivo deleterio, quello di fornire alla persona consumatore, e così anche al produttore, un protocollo espressivo di riferimento, trasformato ben presto in modello qualitativo assoluto. Gli italiani non furono da meno: incapaci, ancora una volta, di sviluppare una visione propria, restarono succubi di modelli altrui, ossequiati con la scusa dell’universalità, ma in realtà con il fine di cavalcare l’onda buona e di non perdere il business immediato. La seconda parte degli anni novanta e questo scorcio d’inizio secolo sono stati desolanti dal punto di vista del nostro linguaggio del vino[7].» Altri autori, non meno importanti, hanno ereditato parti della codificazione linguistica di Veronelli, altri la hanno estesa e variata, altri infine la hanno abbandonata nel corso del tempo. Ma a tutto ciò si aggiunge un’altra domanda, la cui risposta è insita nel quesito stesso: è mai possibile scindere il linguaggio di Veronelli dalla sua filosofia (filosofie) e pratiche politiche? Ovviamente credo di no, perché l’intendere un vino o le culture enogastronomiche in un certo modo significa anche rappresentarle sul piano ideale e politico e, in questo, difficilmente si potrà pensare che non esistano eredità veronelliane, ma se molteplici esse sono, lo sono sicuramente anche ben collocate.
[1] Alessandro Morichetti, Per la costruzione di una memoria condivisa di Luigi Veronelli, Intravino, http://www.intravino.com, giovedì 3 febbraio 2011
[2] Franco T. Marchi, Edoardo Raspelli, Tuttovino. dizionario enciclopedico del sommelier. le 2.000 parole che servono per parlare di vino, Edizioni AEB, Brescia 1980.
[3] Luigi Veronelli, Prefazione, ivi
[4] Avanguardia e sperimentalismo, in “Il Verri” n.8, aprile 1963, poi in Avanguardia e sperimentalismo, Feltrinelli 1964, in Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Gruppo 63, L’Antologia Introduzione, in http://www.nannibalestrini.it/gruppo63/prefazione.htm
[5] Franco T. Marchi, Edoardo Raspelli, Tuttovino, cit. pag.143
[6] Luigi Veronelli, Prefazione, Dizionario Veronelli dei termini del vino, Veronelli Editore, Bergamo 2001.
[7] Sandro Sangiorgi, Il vino e la civiltà delle parole, in Porthos, 15 luglio 2008; rimando naturalmente anche al suo libro L’invenzione della gioia
la foto è tratta da A- Rivista anarchica online