L’identità vischiosa del vino italiano. A proposito di un appello uscito qualche anno fa.

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Immagine tratta da http://www.connessioniprecarie.org/

Qualche anno fa uscì un appello, scritto da Marco Arturi e Sandro Sangiorgi, persone che ho avuto modo di conoscere e che stimo da diversi punti di vista, in difesa dell’identità del vino italiano: http://enoidentita.wordpress.com/2008/05/30/in-difesa-dellidentita-del-vino-italiano-2/. Il testo venne poi firmato e sottoscritto da diverse individualità e collettività del mondo vinicolo e non solo. Dopo di che, il silenzio. Recentemente mi sono di nuovo imbattuto nel testo che mi ha confermato tutte le perplessità e le contrarietà che avevo quando lo vidi per la prima volta, anche se comprendo lo spirito con cui è stato scritto. Il primo dubbio parte dal titolo: esiste un’identità del vino (al singolare) italiano? E soprattutto che cosa è un’identità? L’attacco dell’appello parte, dopo la menzione del caso ‘Brunellopoli’, contro “i teorici dell’omologazione, del liberismo selvaggio applicato al settore vitivinicolo, di quella malintesa modernità che vorrebbe qualsiasi prodotto enologico conforme ai canoni della richiesta di mercato.” Il capitalismo, tramite questi personaggi, lavorerebbe per appiattire ed omologare un mondo la cui identità sarebbe stata difesa dai disciplinari di produzione. La logica dell’establishment sarebbe quella di perseguire solamente le logiche di mercato più abbiette, attraverso l’introduzione dei vitigni migliorativi, alloctoni, senza alcuna capacità di proiezione nel futuro. L’appello termina poi con queste parole: “Per questo noi, che produciamo, raccontiamo, commerciamo, studiamo, amiamo il vino italiano, ribadiamo la nostra contrarietà a qualsiasi ipotesi di snaturamento delle denominazioni, sia attraverso l’impiego di vitigni alloctoni sia attraverso pratiche che abbiano la finalità di fare del nostro vino qualcosa di differente da sé. La forza del vino italiano risiede nella complessità e nella varietà che rappresentano risorse da valorizzare, anziché sacrificarle in nome delle presunte esigenze del gusto globalizzato.”

1) Vorrei partire da un dato: il mercato capitalistico, a cui mi oppongo dal tempo della ragione, si comporta in termini di profitto e non di altro, per cui persegue delle pratiche, comprese quelle vinicole, che possono portare tanto all’appiattimento produttivo che alla diversificazione soltanto in base al criterio della rimuneratività. Valga lo stesso se si parla del biologico o del biodinamico: il capitalismo valorizza il guadagno maggiormente competitivo a prescindere dal valore etico o morale ‘intrinseco’. Anche qualora ammanti la sua pratica come etica o pulita l’obiettivo è identico (massimizzazione del profitto), ragion  per cui esso potrebbe in breve tempo rovesciarsi nel suo contrario con altre motivazioni ‘altrettanto’ etiche o morali.

2) Sembra, da questo appello, che i disciplinari di produzione abbiano semplicemente fotografato una situazione viticola storicamente data, tanto immobile quanto luminosa, quasi se avessero registrato quello che è avvenuto prima di loro. Nulla di meno vero: la storia e soprattutto la storia contemporanea (otto-novecentesca) è piena sia di intromissioni chimiche assai pesanti che di trasformazioni umane: questo avvenne anche in quelle situazioni apparentemente naturali come nel caso delle malattie crittogamiche (fillossera in testa). Per non parlare poi gli espatri dei vitigni portati appresso durante le emigrazioni umane[1]. Ma su questo tornerò in seguito. Vediamo ora, in maniera più specifica, che cosa scrisse la legge istitutiva delle denominazioni di origine, la 930 del 1963: “Decreta:

Articolo 1

Per denominazioni di origine dei vini s’intendono i nomi geografici e le qualificazioni geografiche delle corrispondenti zone di produzione – accompagnati o non con nomi di vitigni o altre indicazioni – usati per designare i vini che ne sono originari e le cui caratteristiche dipendono essenzialmente dai vitigni e dalle condizioni naturali di ambiente. La zona di produzione di cui al precedente comma può comprendere, oltre il territorio indicato nella rispettiva denominazione di origine, anche i territori vicini, quando in essi esistono analoghe condizioni naturali e, alla data di entrata in vigore del presente decreto, si producono, da almeno dieci anni, vini immessi sul mercato con la medesima denominazione, purchè abbiano analoghe caratteristiche chimico fisiche ed organolettiche e siano prodotti con uve provenienti dai vitigni tradizionali della zona, vinificate con i metodi di uso generalizzato della zona stessa.

Articolo 2

Le denominazioni di origine dei vini sono distinte in:

a) denominazioni di origine <<semplice>>;

b) denominazioni di origine <<controllata>>;

c) denominazioni di origine <<controllata e garantita>>.

Articolo 3

La denominazione di origine semplice designa i vini ottenuti da uve provenienti dai vitigni tradizionali delle corrispondenti zone di produzione, vinificate secondo gli usi locali, leali e costanti delle zone stesse.

Alla delimitazione di tali zone si provvede con decreto del Ministro per l’agricoltura e le foreste di concerto con il Ministro per l’industria e commercio. In mancanza del provvedimento ministeriale di delimitazione la zona di produzione si intenderà costituita dall’intera circoscrizione dei Comuni ricadenti nel territorio cui si riferisce il nome o qualificazione geografica assunto come denominazione di origine del vino. Non potendo fare diversamente la legislazione parla genericamente di uve provenienti da vitigni tradizionali anche per quei territori in cui si produca lo stesso vino da almeno dieci anni. La legislazione insomma, per quanto seria, e quella della presente legge sicuramente lo è, demanda ad una successiva deliberazione, in sede consortile, la definizione della storicità o meno di un determinato vitigno. Avendo la fortuna di vivere in un paese carico di storia e di documentazione, in alcuni territori è stato piuttosto semplice definire i vitigni storici presenti da lungo tempo, per altri lo è stato sicuramente meno, per altri ancora sono prevalse situazioni di compromesso ‘politico’. Questo significa forse che non si possono definire i vitigni storici? Certamente che no!: questi sono definibili a patto che si sappia che la loro storia, così come quella umana non è così semplice, ma è un frutto costante continuativo di ibridazioni, di commistioni, di prove in nome di obiettivi a volte diversi quando non ancora contrastanti e conflittuali. Se poi pensiamo che per lunghissimo tempo il vino era elemento nutrizionale prima ancora che di piacere possiamo capire quanti tentativi siano stati fatti in passato per favorire quelli maggiormente produttivi. E poi l’omogeneità e l’omologazione: già per tutto l’Ottocento, in un’ottica prettamente positivistica e scientista, ci furono dibattiti a volte roventi per discutere di come si potesse uniformare il vino, per zone di produzione, in modo tale che fosse organoletticamente omogeneo, per cui riconoscibile nella sua tipicità e quindi esportabile. L’industrializzazione, ma non solo vinicola, sembrò allora l’unico processo di tipizzazione del vino quanto della sua omologazione forzosa. Ci portiamo appresso un paradosso che non è dell’oggi, né di ieri ma di un po’ di tempo fa e anche il concetto di tipicità non ha avuto sempre lo stesso significato. Il problema di allora era uniformare; oggi diversificare.

3) Alloctono e autoctono rimanda ad un problema non solo nominale: già scrissi a questo riguardo, ma è bene ricordare come spesso diventi complicato, in natura, definire una cesura temporale: “Per stabilire l’autoctonia o alloctonia di una pianta i botanici hanno ipotizzato diversi sistemi, alcuni basati sul periodo di introduzione, altri sul grado di naturalizzazione, o anche misti (per una rassegna si rimanda a Viegi et al. 1973). Essi danno luogo anche a sistemi di classificazione che distinguono nel contingente esotico le classiche, le archeofite, le neofite, le avventizie, coltivate, naturalizzate, eccetera.

a. Il criterio temporale. E’ comune considerare indigene le piante presenti da così tanto tempo da non poter stabilire quando e come si siano insediate. Ad esempio, negli elenchi floristici delle specie esotiche presenti in Italia capita che non vengano incluse le cosiddette esotiche classiche, specie giunte in epoca romana (così Viegi et al. (1973), mentre Maniero (2001), per questioni di documentazione, fa iniziare la sua Fitocronologia d’Italia dal 1260). Un’altra soglia fondamentale è il 1492, ossia la scoperta delle Americhe: mentre in Europa questa data divide le specie archeofite, ossia provenienti dal Vecchio Mondo, dalle specie neofite, in America essa è usata come soglia temporale per distinguere le specie introdotte (anche se alcuni considerano autoctone anche quelle registrate nei primi erbari, risalenti al XVIII sec).

E’ chiaro che qualsiasi soglia temporale è discutibile: la scelta è più che altro basata su fatti salienti della storia umana (ovviamente quelli che hanno ripercussioni sulla storia naturale, ma forti di una loro carica simbolica), e soprattutto è difficile da documentare. Oggi la paleobotanica permette di datare i ritrovamenti di semi e tracce di specie anche assai antichi, ma non elimina i problemi di interpretazione e utilizzo dei dati raccolti. Il criterio temporale è assai arbitrario, tuttavia resta quello più intuitivo ed utilizzato ‘a buon senso’, ad esempio dalle associazioni per la difesa della natura che tendono a difendere ‘quel che c’era un tempo’: ad esempio  Flora Locale, un’organizzazione per la difesa dell’integrità floristica della Gran Bretagna, usa come limite 2000 anni fa (probabilmente individuando nella conquista romana il primo grave sconvolgimento), mentre l’italiana Associazione Vivai Pro Natura include nel suo catalogo di specie autoctone lombarde anche specie giunte assai recentemente. (…)

Più di un autore ha notato che anche nel mondo scientifico esistono pregiudizi e diffidenza sulle entità esotiche, così come nel senso comune. Il più frequente riguarda l’invasività delle specie esotiche: ad esempio, su un migliaio di  saggi esaminati, Pyšek ha riscontrato che il temine alien è spesso utilizzato come sinonimo di pianta invadente. Gli studi sulle invasioni sono quasi esclusivamente concentrati sulle specie alloctone, e addirittura per le piante infestanti indigene egli stesso ha proposto di usare, anziché il termine  invader, il termine meno negativo expanding – specie in espansione, evidentemente nei loro diritti… E’ bene chiarire, poiché questo è uno degli argomenti più usati contro le specie esotiche, che anche le specie native possono essere infestanti e che non tutte le specie esotiche sono necessariamente invadenti; sono soprattutto le specie ‘naturalizzate’ (proprio quelle assimilate alle native anche negli elenchi floristici …) a trovarsi così bene da tendere talvolta ad espandersi in modo preoccupante. La potenzialità invasiva dipende da specie a specie e dal luogo in cui essa si trova, perciò non esistono regole che permettano di distinguere preventivamente le specie pericolose[2].”

Rimane possibile, a mio parere e ribadendo quanto scritto sopra, definire una storicità di un vitigno sulla base di documenti e comparazioni, il che non rende né improbabile che in alcune zone vi fossero altri vitigni più antichi ma poi dispersi o estirpati perché meno produttivi, né impossibile che il vitigno storico riconosciuto potesse essere sensibilmente diverso da quello che ci è dato avere oggi.

4) Potrebbe essere utile continuare sulla fertile strada intrapresa da Furio Jesi quando sostiene la ‘metamorfosi disciplinare[3]‘ del mito, e quello nazionale lo è sicuramente, e la sua funzione normativa: “Tutto questo è per me oggi il significato della parola mito. Una macchina che serve a molte cose, o almeno il presunto motore immobile e invisibile di una macchina che serve a molte cose, nel bene e nel male. È memoria, rapporto con il passato, ritratto del passato in cui qualche minimo scarto di linea basta a dare un’impressione ineliminabile di falso; e archeologia, e pensieri che stridono sulla lavagna della scuola, e che poi, talvolta, inducono a farsi maestri per provocare anche in altri il senso di quello stridore. Ed è violenza, mito del potere; e quindi è anche sospetto mai cancellabile dinanzi alle evocazioni di miti incaricate di una precisa funzione: quella, innanzitutto, di consacrare le forme di un presente che vuol essere coincidenza con un eterno ‘presente’[4].” Il mito ‘tecnicizzato’ si sostanzia in azione e diviene per Jesi interpretazione mistica e fraudolenta della storia: “lo scopo della moderna scienza del mito o della mitologia, lo scopo dei mitologi moderni è questo: avere sulla tavola qualcosa di molto appetitoso, che senza esitare si direbbe vivo, ma che è morto e che, quando era vivo, non possedeva un colore così gradevole. Il colore della vita non è una prerogativa molto frequente di ciò che è vivo[5].”

E l’identificazione nazionale, l’identità vinicola italiana, ridefinisce i rapporti tra generale e particolare, inducendo una trasformazione della legittimità culturale: “(…) Ma allora quando è che si è imposto alle nostre società il concetto di nazione? Quando abbiamo cominciato a pensare che le nazioni fossero i soggetti della storia? Tanto che oggi le organizzazioni mondiali si chiamano Società delle Nazioni o Nazioni Unite. [Non a caso l’idea di nazione si forgia in contemporanea con il nascere dello storicismo e con l’affermarsi della teoria dei soggetti contro la teoria delle cause: il mondo è prodotto dallazione di un soggetto, non generato come effetto da una causa.] Già la domanda sul ‘quando’ suona blasfema a un patriota. Per lui la nazione è qualcosa di originario, un retaggio primordiale che forse era stato dimenticato, sepolto nella memoria e solo di recente è riaffiorato, identità ritrovata. Siamo di fronte a una duplicità: la nazione è stata pensata, creata di recente, ma essa pensa se stessa come antichissima. I nazionalismi sono nati tra la fine del ’700 e l’inizio dell’800, ma per quell’epoca parliamo di risveglio dei nazionalismi, come se fossero emersi da un lungo sonno. Ci sembra che le nazioni siano sempre esistite. Ma così pensando cadiamo nella trappola che la nazione stessa ci tende: ‘Il nazionalismo non è il risveglio delle nazioni all’autocoscienza: esso inventa nazioni là dove esse non esistono’, afferma Ernest Gellner. Non ci accorgiamo che un modo tipico con cui la modernità produce il domani è quello di costituirsi uno ieri. Plasmare il nuovo inventando una tradizione. Si crea una comunità inedita immaginando di appartenere a una remota e dimenticata. Un po’ come i musulmani neri costruiscono la propria identità elaborando un’originaria nazione perduta e ritrovata dell’Islam, e come i mormoni pensano di essere discendenti di una perduta e ritrovata tribù d’Israele. Una linea di pensiero che indaga in questa direzione è rintracciabile, se pur in forma frammentaria, nei Quaderni dal carcere dove, parlando de La storia come ‘biografia’ nazionale, Antonio Gramsci osserva: ‘Si presuppone che ciò che si desidera sia sempre esistito e non possa affermarsi e manifestarsi apertamente per l’intervento di forze esterne o perché le virtù intime erano ‘addormentate’[6].”

5) L’identità, appunto, fa parte di quei discorsi vischiosi, dove si cerca per stabilire una garanzia di coerenza attraverso la riduzione della molteplicità: “Le arti del separare in ambito tecnologico, i processi di purificazione in ambito organico, le tecniche di analisi in ambito intellettuale indicano modi di comportamento che , sul piano sociale, danno luogo alla gamma piuttosto ristretta di possibilità in cui si annida e fiorisce il ‘germe della pulizia’ (comunque poi questa venga intesa e praticata[7].” Siccome l’appello è lontano, avendo avuto modo di conoscere gli autori, da qualsiasi opera di purificazione astratta e di cesura ‘etnica’, sarebbe stato più accorto ragionare sugli strumenti argomentativi e linguistici che si adoperano per combattere il proprio avversario, proprio perché o le parole che usiamo hanno una valenza politicamente universalistica e con la stessa capacità esplicativa oppure no e quindi sono passibili di interpretazioni e letture che ne darebbero un senso inequivocabilmente opposto da quello utilizzato dagli estensori (le firme di variegate tendenze politiche dimostrano l’’equivoco’ di fondo). E quindi ancora non sono tanto le parole in sé ad essere discutibili quanto i concetti semplificatori sottostanti: “L’intera funzione del pensiero è produrre abiti d’azione. […] Per sviluppare il significato di qualsiasi cosa, dobbiamo semplicemente determinare quali abiti produce, perché ciò che una cosa significa è semplicemente l’abito che comporta. […] non c’è distinzione di significato così fine da non consistere in una possibile differenza pratica. […] La nostra idea di qualcosa è l’idea dei suoi effetti sensibili; e se immaginiamo di averne un’altra inganniamo noi stessi, e confondiamo una mera sensazione che accompagna il pensiero con una parte del pensiero stesso. […] Consideriamo quali effetti, che potrebbero concepibilmente avere conseguenze pratiche, noi pensiamo che gli oggetti della nostra concezione abbiano. Allora, la nostra concezione di questi effetti è l’intera nostra concezione dell’oggetto[8].” Noi sappiamo, così come la sapevano gli antichi che le usanze sono mutevoli e forse più che attenersi ad esse perché storicamente incarnate simbolicamente crostificate sarebbe forse più opportuno scegliere le migliori, e su quali queste possano essere non si può che dare il conflitto tra pratiche, modalità, saperi e posizioni politiche differenti: “Segue poi nel testo della legge, che dei culti patrii si osservino i migliori; in merito a questo gli Ateniesi consultarono Apollo Pizio, per sapere quali culti cioè si dovessero assolutamente mantenere, e l’oracolo rispose: “Quelli che già fossero nell’usanza degli antenati “. E dopo essersi recati una seconda volta, dicendo che le usanze dei padri erano spesso mutate, essi chiesero quale usanza fra le tante così varie dovessero seguire in particolare, l’oracolo rispose: ” La migliore”. E senza dubbio è così, che debba esser considerato più antico e più vicino al dio ciò che è il meglio. (…)[9].” Un’identità che si fissa immobile nel tempo non ha passato né futuro perché è un essere che nulla ha mai cessato di essere, per parafrasare Plotino: combattiamo quindi per ciò che del passato e del presente ci interessa difendere, il meglio per noi (e qui concordo con gli autori), nelle incessanti e mutevoli identità del vino.

[1] Cfr. Simone Cinotto, Terra soffice uva nera: vitivinicoltori piemontesi in California prima e dopo il proibizionismo, Otto, Torino 2007

[2] Claudia Cassatella, Vegetazione autoctona e vegetazione alloctona, Quaderni della Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio; Dottorato di ricerca in Progettazione paesistica – Università di Firenze, numero 1 – volume 2 – maggio-agosto 2004, Firenze University Press.

[3] Cfr. David Bidussa, La macchina mitologica e la grana della storia. Su Furio Jesi, pp. 93 -128 in Furio Jesi, L’accusa del sangue. Mitologie dell’antisemitismo. Morcelliana, Brescia 1993

[4] Ibidem, pag. 101

[5] Furio Jesi, Gastronomia mitologica. Come adoperare in cucina l’animale di un Bestiario, in Furio Jesi, Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea, Einaudi, Torino 2001 pag 176

[6] Benedict Anderson, Comunità immaginate. Origine e diffusione dei nazionalismi, prefazione di Marco d’Eramo, Manifesto Libri, Roma 1996 (Imagined Communities Reflections on the Origins of Nationalism; Verso, London, 1983).

[7] Francesco Remotti, Contro l’identità, Editori Laterza, Bari – Roma 1996, pag. 29

[8] Peirce, 1878, How to Make Our Ideas Clear, in The Popular Science Monthly, vol. 12, pp. 286-302, in CP 5.400, trad. it. in Opere, p. 383 e Scritti scelti, p. 215

[9] Marco Tullio Cicerone, De legibus, Libro II, 40 composto nel 52 a.C.

Percorso evolutivo dei vini bianchi. Di Nico Speranza “Vittorini”.

 

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Storia di una molecola odorosa, capace di banalizzare il corredo aromatico?

Nico Speranza Vittorini, http://www.vittorini.it/, ci presenta il Sotolone.

Durante il mio percorso evolutivo nel mondo del vino, mi trovo sempre più spesso in contrasto con quello che rappresenta una condotta di un pensiero che il più delle volte ci vede parlare di vino in modo stereotipato. Una delle tendenze in atto considera che un grande vino bianco debba essere legato sia alla capacità di un lungo invecchiamento che all’evoluzione di un corredo aromatico di tutto rispetto. La ricerca scientifica ha dimostrato che lo strumento odorifero dell’uomo (il naso) sarebbe in grado di riconoscere una molecola odorosa particolare: “il Sotolone”.

Sono qui a presentarvelo: eccolo a voi in un scenario di sensazioni emozionali tra amici o in situazioni ufficiali o addirittura in posti incantevoli! Scelta dell’etichetta giusta, blasonata, calici che ruotano tra le mani, grandi aspettative.

“Salve a tutti sono il Sotolone! Sono stato scoperto dai francesi che mi chiamano PREMOX, compaio nei vini bianchi in modo più o meno rapido durante l’affinamento in bottiglia, il mio quadro olfattivo è riconducibile ad aromi di canfora, miele, curry e cera d’api. Quando arrivo ho una soglia di percezione bassissima (0,8 μg/L l’isomero S): spazzo via e copro tutte le altre famiglie aromatiche. Addio tipicità varietale, addio terroir! Sono internazionale: parlo tutte le lingue, sono in Alsazia, nel riesling della Mosella, nel Verdicchio e nel Soave ma anche nel Fiano. Mi formo tramite un aldocondensazione tra l’acido chetobutirrico (naturalmente presente in tutti i vini) e l’aldeide acetica la quale si origina da un’ossidazione del vino. Devo quindi la mia vita all’ossigeno che gioca un ruolo a mio favore ma anche al tappo o meglio a quel suo difetto di lasciare passare ossigeno. Nella disputa non tutti sono a mio favore; se al vignaiolo gli viene in mente di lasciare in campo (nel vino) per molto tempo le fecce di fermentazione, queste ultime degradandosi (lisi del lievito) liberano antiossidanti che mi disturbano non riuscendo a farlo esprimere al meglio. Sono sempre il protagonista e alla fine, inequivocabilmente, la vittoria sulle altre famiglie aromatiche aspetta a me.

In questa diatriba ho dei tifosi che mi apprezzano, e addirittura sostengono che con me in campo il vino acquista autorevolezza, complessità, insomma per l’opinione generale anch’io ho un ruolo importante; al mio sostegno è legato il valore dei grandi vini bianchi. Ma, se un domani si invertisse la tendenza, e si degustassero solo grandi etichette di annate correnti, io non avrei più ragione di essere.”

 

L’Armonia del vino, o il prestito dall’Arte antica.

http://www.itiscannizzaro.net/arte/password/partenone/partenone.htm

Nel 1975 Wladyslaw Tatarkiewicz dà alle stampe, a completamento della precedente opera (la Storia dell’Estetica),  la ‘Storia delle sei Idee’ (Dzieje sześciu pojęć). Mentre la ‘Storia dell’Estetica’ è una storia degli autori, degli scrittori e degli artisti che hanno formulato idee sul Bello e sull’Arte, sulla Forma e sulla Creatività, la ‘Storia delle sei Idee’ si concentra sui problemi, sulle idee e sulle teorie estetiche che si sono succedute nel corso dei secoli. Dopo aver affrontato temi che spaziano dal concetto dell’Arte dall’antichità ad oggi, alla sua classificazione e suddivisione, al rapporto tra Arte e Poesia, Tatarkiewicz si concentra sulla concetto di Bello, fondato dalla Grande Teoria. Egli chiama così la concezione del bello nell’Antichità, dove per bellezza s’intende principalmente la proporzione fra le parti. Questa teoria è a suo dire fondamento duraturo, comprensivo e riconosciuto dell’intera sfera del Bello nella cultura europea: “I primi a formulare la Grande Teoria furono i Pitagorici. Secondo loro, la bellezza di un oggetto consiste nella proporzione delle parti; dunque, da qualcosa che può essere determinato con esattezza in forma numerica. I Pitagorici introdussero quindi la Grande Teoria nella sua versione ristretta. Essa nacque come generalizzazione dell’osservazione dell’armonia dei suoni: le corde di uno strumento producono suoni armonici, se il loro rapporto di lunghezza è espresso da numeri semplici(…) Una concezione analoga ben presto si estese al campo delle arti visive, all’architettura e alla scultura, come pure alla bellezza dei corpi viventi. Si rivolse alla sfera della vista come a quella dell’udito. I termini άρμονία e συμμετρìα (accordo e proporzionalità) rispondevano pienamente a questa teoria. Comunque che la teoria sia passata dalla arti visive alla musica, o anche che si sia formata in ambito figurativo in maniera autonoma e parallela, durante la Grecia classica, essa vigeva per entrambe le arti[1].”

La Grande Teoria si consolida in epoca medievale attraverso la lettura che Sant’Agostino fa di Boezio il quale sostiene nel suo ‘De institutione musica[2]’, che l’armonia musicale mundana (cosmica), derivante dagli astri[3] e non percepibile dall’uomo, si fonda sull’equilibrio dei quattro elementi presenti in natura – acqua, aria, terra e fuoco; così come la musica humana rappresenta l’armonia dell’uomo con sé stesso e di sé con il mondo. E per finire la musica instrumentis constituta, derivante dalle altre due, si costituisce attraverso il rapporto armonico dei suoni come imitazione della musica vocale: “Agli occhi del dotto medievale la musica rappresentava un incontro tra filosofia, teologia e pratica liturgica, l’una riflesso dell’altra su piani differenti. Seguendo la lezione del ‘Timeo’ platonico, la teoria musicale veniva vista come applicazione dell’ordine numerico su cui l’intero cosmo era fondato. Il canto era invece eco dei cori angelici in sempiterna lode del Creatore. In questa prospettiva, il concetto di harmonia veniva letto in chiave esemplaristica, ossia come processo di manifestazione dell’ordine archetipico nella gerarchia dell’Essere universale. La musica strumentale era qui imitazione della musica vocale. Questa era a sua volta  l’immagine nel tempo e nello spazio del canto angelico, superiore alla dimensione temporale e udibile solo attraverso l’’orecchio del cuore’ (simbolicamente, la conoscenza interioritatis hominis). I cori angelici (‘Trisagio’, ‘Alleluia’) costituivano infine lode e manifestazione nel suono metafisico della Perfezione divina, assimilata apofaticamente al silenzio. La teoria aritmetica delle proporzioni numeriche, in cui si descrivono vuoi le relazioni tra note musicali vuoi i ritmi, era a sua volta concepita esemplaristicamente come copia dell’ordine noumenico insito nella ‘mente di Dio[4]’.”

Sarà l’Illuminismo, soprattutto di matrice anglosassone, nel 1700, a mettere in forte discussione, su basi soggettivistico – espressive la Grande Teoria, che per rivoli diversi e riapparizioni carsiche è presente ancora oggi come descrittore del Bello e, se mi si permette, anche del Buono e del buon Gusto.

Ancora oggi i degustatori fanno dell’armonia il punto non superabile della valutazione di un vino:

“Oggi, molti vini sono equilibrati, solo quelli di qualità ottima o eccellente sono armonici e confermano in ogni espressione un grande livello qualitativo. Se l’equilibrio traduce sensazioni razionali e solide, l’armonia è qualcosa di più indefinito e aleatorio. Molti vini equilibrati non sono e non saranno mai armonici, pur esprimendo una buona piacevolezza. Un vino armonico è qualcosa di più. È un vino che si presenta con un’attraente veste cromatica messa in risalto da smagliante limpidezza e consistenza, che libera profumi intensi e intriganti, che esprime un sapore composto e fedele alla sua tipologia. È un vino che convince con eleganza ed equilibrio, con discrezione o esuberanza secondo le corde del suo carattere, che dà risposte esaurienti a ogni domanda, che racconta la sua storia con coerenza e misura. A volte, un vino che non si può dimenticare[5].”

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L’armonica nascita del mondo, rappresentata da un organo cosmico, in Musurgia Universalis di Athanasius Kircher, 1650.


[1] Wladyslaw Tatarkiewicz, Storia di sei Idee, Aesthetica Edizioni, Palermo 2011, pag. 135;

[2] Del 500 d. C. circa

[3] L’universo, secondo Platone, è strutturato sul modello degli accordi musicali.

[4] Ernesto Mainoldi, La filosofia della musica nel Medioevo, in http://lgxserver.uniba.it/lei/filmusica/fmclmed1.htm

[5] Rossella Romani, Equilibrio e armonia nel vino, Tratto da Viniplus di Lombardia N°1 – Settembre 2011, AisLombardia, 09 novembre 2011 in http://www.aislombardia.it/degustando/1288-equilibrio-e-armonia-nel-vino.php

Le centottantacinque qualità diverse di vino: Naturalis Historiae di Plinio il Vecchio.

Di Pliny the Elder – 2d copy, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=70241492

«Due sono i liquidi maggiormente graditi al corpo umano: per l’uso interno il vino, per quello esterno l’olio, entrambi prodotti importantissimi degli alberi; ma l’olio è necessario, né l’uomo ha lesinato per lui l’impegno. Quanto tuttavia egli sia stato più ingegnoso per il bere, si evincerà dal fatto che ha creato centottantacinque qualità diverse di vino, che diventano quasi il doppio, tenendo conto delle varietà, mentre in numero molto più basso sono le qualità dell’olio, di cui parleremo nel libro seguente[1].»

Così si conclude il XIV Libro, dedicato alla Vite ed al Vino, con una comparazione con l’olio, argomento trattato nel libro successivo, ma che inizialmente viene pensato come libro unico, poiché molte delle fonti utilizzate per i due testi sono coincidenti.

Il Libro XIV, dopo un attacco polemico contro la trascuratezza dei moderni, inizia a menzionare i vitigni esteri non senza prima aver fatto riferimento alla supremazia italiana nella produzione: «Da dove potremmo meglio cominciare se non dalla vite, rispetto alla quale l’Italia ha una supremazia così incontestata, da dar l’impressione di aver superato, con questa sola risorsa, le ricchezze di ogni altro paese, persino di quelli che producono profumo? Del resto, non c’è al mondo delizia maggiore del profumo della vite in fiore[2].»

Ma quanti tipi di uve esistono per Plinio? «Innumerevoli ed infinite…Né si potranno citare tutte, ma solo le più celebri, perché ne esistono quasi tante, quanti sono i terreni: per questo motivo basterà aver segnalato le qualità delle viti più note o quelle che, per qualche particolarità sono fuori dell’ordinario[3].»

Interessante notare come l’attribuzione della varietà del vitigno rispetto al terreno, conferisca a quest’ultimo, come in tutte le moderne teorie del terroir, la capacità di dare forma e sostanza alla vite che cresce su di esso ed al vino che da esse è generato.

Al primo posto dell’elenco delle viti eccellenti ci sono, come già per Catone, Varrone, Columella ed Isidoro, le viti Aminee «per la robustezza del loro vino, che prende corpo sempre di più con l’invecchiamento[4].»

A differenza degli autori classici riportati precedentemente, i curatori del libro di Plinio, fanno risalire il nome Aminea ad una città campana, per cui attribuiscono, così come fa Plinio successivamente, ai vitigni menzionati come migliori un’origine prettamente italica: «Le viti Aminee, qui ricordate in apertura dell’elenco per la qualità del loro vino, sono le più famose dell’antichità e prendono il nome da Aminea, una località campana di incerta identificazione, che produceva questo famoso vino[5].»

Alle uve Aminee, per importanza, seguono le Nomentane e poi le viti Apiane, già viste in precedenza con Columella. Come sostengono i curatori del testo di Plinio, molte delle informazioni contenute in Naturalis Historiae sono debitrici di Catone, Columella e Dioscoride: «Il primo, più volte espressamente citato, è l’auctoritas antica, il modello di saggia conduzione agricola che incarna gli ideali delle nostalgie passatiste dell’autore. Non è quindi una semplice fonte, ma, soprattutto, un orientamento ideologico e un esempio insuperabile da cui si ricavano precetti ‘vicini all’origine delle cose’[6]. Anche Columella è un punto di riferimento importante: rispetto a questa fonte Plinio non rivela grosse divergenze – come invece da taluni si ritiene – distanziandosene solo per alcune varianti grafiche e per un ordine non sempre coincidente delle qualità d’uva citate. Con Dioscoride, poi, sono preponderanti le convergenze, piuttosto solide per tutta la sezione comprendente i paragrafi 98 – 112; un solo caso clamoroso di divergenza è costituito dalle notizie sul myrtidanum[7]. Oltre a queste, Plinio tiene ovviamente presenti altre opere specialistiche sia greche (Il Teofrasto dell’Historia e del Causis plantarum) che romane (Varrone, le Georgiche virgiliane, Celso, le monografie di Attico e Grecino, la traduzione di Magone fatta da Decimo Silano)[8].»

Il Libro XIV prosegue  con l’enumerazione di vini italici, gallici, spagnoli (53 – 61), di quelli greci, asiatici ed egiziani (73-76), di quelli trattati con acqua marina, quelli dolci, i vini passiti e i deuteria[9] sino a giungere ad un epilogo contro l’ubriachezza e le sue conseguenze (137- 149).

Ma è nel libro XVII che Plinio affronta alcuni temi legati al rapporto tra vite, tipologia del terreno, esposizione solare, clima: informazioni preziose che riguardano pratiche viticole e nozioni consolidate e che rimandano alla formazione completa dei discorsi intorno all’origine dei vini e come ricordato in precedenza a proposito delle uve retiche, dalla loro irriconoscibilità se piantate altrove.

Anche in questo caso i riferimenti di Plinio sono rivolti a quegli autori della tradizione come Virgilio, anche se messo in discussione, e Columella: «Virgilio disapprova l’esposizione ad occidente, altri invece la preferiscono a quella a oriente; mi accorgo che i più approvano l’esposizione a mezzogiorno[10], ma non credo che si possa indicare al riguardo una regola fissa. Bisogna considerare con scrupolosa attenzione la natura del terreno, i tratti distintivi del luogo, le caratteristiche di ciascun clima (…) Quando Virgilio condanna l’esposizione ad occidente, sembra non lasciare spazio a dubbi nemmeno riguardo il settentrione: eppure, nell’Italia cisalpina, le vigne sono esposte in gran parte così, ed è accertato che non ne esistono di più fertili. È molto importante tenere conto anche dei venti. Nella provincia Narbonese, in Liguria e in una parte dell’Etruria, è considerato un atto di imperizia piantare le viti contro il circio (vento di nord-ovest), di saggezza, invece, fare in modo che ricevano questo vento obliquamente (…) Certi subordinano il cielo alla terra, esponendo a oriente e settentrione le piantagioni situate in terreni secchi, a mezzogiorno quelle dei terreni umidi. Ricavano, inoltre, i criteri della scelta delle viti stesse, piantando quelle precoci nei luoghi freddi, in modo che la loro maturazione preceda il gelo, gli alberi da frutto e le viti che odiano la rugiada verso levante, perché subito la dissolva il sole, le piante che l’amano anche verso occidente o anche verso settentrione, perché ne godano più a lungo[11].»

Poi Plinio dedica lunghe pagine alla terra[12] ed ai terreni[13] adatti alla coltivazione delle piante tra cui la vite. Anche qui il criterio adottato da Plinio, che ripercorre ampiamente i suoi predecessori, è quello di marcare la variabilità delle situazioni, sottolineando la necessità di studiare e di conoscere la migliore condizione delle viti i rapporto alle altre variabili, che agiscono tra loro come interdipendenti: «Per lo più, infatti, la medesima terra non è adatta agli alberi e ai cereali, e la terra nera del tipo che si trova in Campania non è dovunque la migliore per le viti, come non lo è quella che sprigiona leggere nebbioline, né quella rossa, decantata da molti. Per la vite antepongo la creta del territorio di Alba Pompea (l’attuale Alba in Piemonte) e l’argilla a tutti gli altri tipi di terra adatti a tale coltura, sebbene siano molto grasse. È un’eccezione che si fa per tale tipo di pianta. Viceversa la sabbia bianca del territorio del Ticino, quella nera che si trova da molte parti, come pure quella rossa, anche mescolate  a una terra grassa sono infeconde. (…) Ogni cosa cela nel profondo i suoi segreti, e sta a ciascuno indagarli con la propria intelligenza[14].»

 

 

[1]       Gaio Plinio Secondo, conosciuto come Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C), Naturalis Histroriae, Libro XIV (i  primi 10 libri vengono pubblicati nel 77 d. C.), si compone di 37 libri, Einaudi, Torino 1984, III., pag. 271

[2]       Plinio, cit.,  XIV 2, pp. 184,185

[3]       Ivi, XIV 4

[4]       Plinio, cit. XIV 4, pag. 191

[5]       Ivi, nota 21

[6]       «Più antichi precetti in lingua latina sull’argomento non esistono: tanto vicini noi siamo, con essi, all’origine delle cose.» Plinio, cit. XIV 5, pag. 209

[7]       Per Plinio è il vino ottenuto dal mirto selvatico, facendo cuocere nel mosto salato dei rami giovani con le loro foglie.(XIV 19, pag. 245) Per Dioscoride è solo un’escrescenza del ramo di mirto in De materia medica, cit. I 112

[8]       Andrea Aragosti (traduzione a cura di), in Plinio, cit. pag. 179

[9]       Secondari

[10]     «Il meglio per me è insegnare che nei luoghi freddi i vigneti vanno esposti a mezzogiorno, in quelli tiepidi a oriente, purché non siano danneggiati dai venti sud-orientali, come sulla spiaggia marittima della Betica (attuale Andalusia). Se poi le regioni saranno esposte ai suddetti venti, sarà meglio affidare le vigne al soffio dell’aquilone (vento di tramontana proveniente da nord, o nord-est, solitamente impetuoso e freddo) o del favonio (detto anche Föhn, vento caldo e secco). Certo nelle zone a clima molto caldo, come l’Egitto e la Numidia, l’unica esposizione possibile è a settentrione.» Columella, cit. Libro III 12, pag. 225

[11]     Plinio, cit. XVII 2, pag. 531

[12]     Terra dal significato pedologico come varietà dei suoli. Terra: terre rosse (argillose); terre brune (da suoli neutri a moderatamente acidi), terre fini (sabbia, limo, argilla e humus). In agronomia il materiale costitutivo del terreno in quanto contiene degli elementi adatti alla nutrizione delle piante: terra di piano o di pianura, pugno di terra ecc. Vocabolario Treccani

[13]     Composizione di determinati suoli, si riferisce anche alla loro estensione, alla conformazione ed alle caratteristiche geografiche (pianeggiante, ondulato, collinoso, montuoso…) e agronomiche (boschivo, prativo, ortivo, coltivato, incolto…)

[14]     Plinio, cit. XVII 3, pp. 531 – 535

Autocritica.

Napoleon4

In prestito da una filastrocca di Gianni Rodari, musicata e cantata da Sergio Endrigo.

C’era una volta un blogger,
si chiamava Vinoestoria.
E quando non aveva torto,
di sicuro aveva ragione…
Vinoestoria

Vinoestoria era fatto così
Se diceva di no, non diceva di sì
Quando andava di là, non veniva di qua
Se saliva lassù, non scendeva quaggiù
Se correva in landò, non faceva il caffè
Se mangiava un bigné, non contava per tre
Se diceva di no, non diceva di sì

Vinoestoria andava a cavallo
e la gente lo stava a vedere
E quando non andava a piedi,
era proprio un cavaliere…
Vinoestoria!

Vinoestoria era fatto così:
Se diceva di no, non diceva di sì
Quando andava di là, non veniva di qua
Se cascava di lì, non cascava di qui
Se faceva popò, non diceva però
Quando apriva l’oblò, non chiudeva il comò
Se diceva di sì, non diceva di no

Di tutti i blogger della terra,
Vinoestoria era il più potente.
E quando aveva la bocca chiusa,
non diceva proprio niente…
Vinoestoria!

Vinoestoria era fatto così:
Se diceva di no, non diceva di sì
Quando andava di là, non veniva di qua
Se saliva lassù, non scendeva quaggiù
Se correva in landò, non faceva il caffè
Se beveva un Sake, non contava per tre
Se faceva pipì, non faceva popò
Anche lui come te, anche lui come me:
Se diceva di no, non diceva di sì