La questione dei toast, della loro porzionatura e dei prezzi relativi

Di Justin Bell – Trasferito da en.wikipedia su Commons., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=30081138

Il Comitato Ligure per i prezzi e la porzionatura dei toast, dopo attenta disamina della situazione in corso, ha stabilito quanto segue:

Premesse di principio matematico ligustico.

Due pancarrè o pane in cassetta, dir si voglia, sono congruenti se i punti dell’uno corrispondono a quelli dell’altro tramite un’isometria, ovvero una corrispondenza che preserva le distanze. 

Diciamo che due figure X ed Y sono equiscomponibili, se è possibile partizionare X ed Y nello stesso numero finito di pezzi in modo che ciascun pezzo di X sia congruente al corrispondente pezzo di Y. 

Secondo il noto teorema di Banach-Tarski si stabilisce che dati due solidi qualsiasi con parte interna non vuota (nessun furbetto deve scavare il pancarrè dal centro, maniman!), sono sempre equiscomponibili, ovvero è  possibile partizionare il primo in un numero finito di pezzi che possono essere ricomposti in modo da formare il secondo.

Si fa inoltre riferimento alle innovative scoperte del grandissimo topologo e geometra tedesco Max Dehn, il quale si era occupato del problema della quadratura del rettangolo in un articolo pubblicato sui Mathematische Annalen del settembre 1903. Dehn dimostrò che: 

– Un rettangolo può essere suddiviso in quadrati se e solo se i suoi lati sono commensurabili. 

– Se un rettangolo può essere suddiviso in quadrati, allora esistono infiniti modi perfetti (con quadrati di dimensioni tutte diverse). 

Il termine commensurabile significa in proporzione razionale, con entrambi i numeri interi che hanno un sottomultiplo comune.

E si conclude affermando con ottima certezza, secondo il diagramma di Smith, che non esistono pancarrè perfetti fino all’ottavo ordine, e solo due del nono: esistono pani in cassetta con lati uguali che danno origine a due diverse scomposizioni, che possono essere ridotte a una applicando opportune simmetrie. Soltanto ora sappiamo, grazie al proditorio lavoro degli scienziati di Cambridge, che si riesce ad ottenere la quadratura di un quadrato di pancarrè, prima di sessantanovesimo, poi di trentanovesimo e infine di ventiseiesimo ordine, come risultato della fusione di due rettangoli perfetti:

– Ogni rettangolo quadrato possiede lati ed elementi commensurabili; 

– Ogni rettangolo con lati commensurabili è perfettibile in infiniti modi diversi; 

– Non esistono rettangoli perfetti di ordine inferiore a 9; 

– Scoperta del quadrato perfetto semplice di ordine 39 e del quadrato perfetto composto di ordine 26; 

– Generalizzazioni del problema: rettangoli rettangolati, cilindri e tori quadrati, triangoli equitriangolati e la prova che non è possibile cubare i cubi (come alcuni prezzolati di Alassio hanno tentato di fare).

La questione della porzionatura dei toast e il loro prezzo.

La quadratura dei pancarrè e la loro relativa porzionatura in pezzi più piccoli non possono essere presi a prestito per moltiplicare indebitamente il prezzo del suddetto alimento.

Il Comitato Ligure per i prezzi e la porzionatura dei toast stabilisce quanto segue:

Il costo finale di un toast porzionato deve contenere alcune variabili misurabili:

  1. I piatti in cui verrà suddiviso
  2. Il coltello usato per la porzionatura
  3. Il tempo di lavoro per la porzionatura
  4. La fatica del porzionatore
  5. Le relative imprecazioni del porzionatore
  6. L’affollamento del locale
  7. L’ora della porzionatura
  8. La capacità cubica del vassoio di servizio
  9. Gli eventuali zig-zag tra le sedie
  10. La richiesta di scontrini separati

Il tutto verrà calcolato secondo la Media Mobile pesata e condita a dovere con prosciutto cotto di media qualità e sottiletta appena accettabile:

WMA(n) = [n*P(i)+(n-1)*P(i-1)+….+1*P(i-n+1)]/[n+(n-1)+….+1]

Per qualsivoglia chiarimento scrivere, solo a Ferragosto, a:

comitatoligureperiprezzielaporzionaturadeiotast@belininverso.com

Un mondo al contrario. Di Luca Rostagno

Barbera al 6° anno ( dovrebbe essere il periodo di maggior vigore) con vegetazione quasi assente.
Settembre 2022. Foto di Luca Rostagno

Luca Rostagno è l’enotecnico dell’azienda agricola e vinicola “Matteo Correggia” http://www.matteocorreggia.com/homepage/, che non ha bisogno di grandi presentazioni e viticoltore in Diano d’Alba. Luca è bravissimo nel suo lavoro e ha la capacità di allargare lo sguardo a ciò che accade dentro e attorno le vigne. Meteorologia compresa, che cura dalla sua pagina instagram https://www.instagram.com/vino_meteo_natura/

Negli ultimi 2 secoli, in questo territorio (Langhe e Roero), il mondo del vino ha vissuto una grande rivoluzione e, oltre ad essere enormemente cresciute le conoscenze e le tecnologie, il miglioramento delle condizioni climatiche ha favorito il raggiungimento di un livello qualitativo altissimo.

Se prendiamo a riferimento i decenni ‘50 – ‘60 – ‘70 ogni 10anni c’era un’annata eccezionale o molto buona, un paio di buone, 2-3 sufficienti e le altre disastrose; nel decennio ‘80 almeno 5 sono state molto buone (82, 85 e 89 eccezionali). Poi, dopo la pausa 91-94, ci sono state 7 annate consecutive molto buone o eccezionali; ma dopo il piovoso 2002 solo il 2014 ha interrotto la serie di 20 annate molto buone/eccezionali.

In ogni decennio, accanto a tecniche agronomiche sempre migliori, diminuivano i giorni di pioggia e aumentavano le temperature medie così da avere uve mature in maniera più completa e precoce. Ma, dopo aver raggiunto un ottimo equilibrio a partire dal 2015, la situazione climatica ha iniziato ad essere “eccessivamente migliore” e abbiamo dovuto iniziare a trovare una soluzione ai troppi pochi giorni di pioggia, a temperature medie troppo alte e a maturazioni divenute ormai troppo precoci.

Con vegetazione molto stentata. Agosto 2022 Foto di Luca Rostagno

Sì! Si è ribaltata la situazione e nelle ultime 3 annate abbiamo vissuto una condizione completamente opposta a quella che si presentava non nel 1800 ma solo 25 anni fa:

– una delle caratteristiche fondamentali per definire “cru”, un appezzamento di terreno, è stata la sua esposizione: la più ricercata è sempre stata quella verso sud per aumentare il più possibile il soleggiamento e nei decenni è stata una ”gara” a comprare i terreni meglio esposti che ora sono quelli che più risentono del caldo eccessivo e della mancanza di pioggia;

– la vendemmia iniziava con i vitigni bianchi a metà settembre e si chiudeva a fine ottobre con i nebbioli: adesso inizia a metà/fine agosto e raramente arriva ad inizio ottobre;

– durante il periodo di raccolta c’era l’incubo che piovesse: negli ultimi anni più volte è capitato di fermare la vendemmia sperando in piogge riequilibratrici;

– il tenore zuccherino è sempre stato l’indice più utilizzato per valutare la maturità delle uve e più era alto e più alta era la soddisfazione del viticoltore e degli enologi. Raramente si arrivava alla fatidica soglia dei 14° alcolici….( vivo è ancora il ricordo di mio nonno che orgoglioso mi faceva vedere le analisi del suo Dolcetto&Barbera esclamando “ fa un bel 11°”)

Cercare di raccogliere l’acqua dei temporali in un vigneto nuovo e con forte pendenza.
Diano d’alba luglio 2022. Foto di Luca Rostagno

Ormai si anticipa sempre più la data di raccolta per limitarlo e si è “contenti” quando sulle varietà rosse si resta sotto i 15°!

– nella gestione del vigneto frequentemente si sfogliava la fascia grappolo in maniera energica per prevenire marciumi e accelerare la maturazione, e prassi consolidata era, per gli stessi motivi, il diradamento per diminuire la quantità di uva ben al di sotto di quella ammessa dai disciplinari: ora sfogliare vorrebbe dire esporre i grappoli a probabili ustioni e renderli ancora più soggetti a disidratazione e perdita di aromi.

Se sul fronte temperature ci stiamo abituando-adattando: attualmente la situazione più critica è quella legata alla siccità e la causa è da ricercare negli ultimi 3 anni in cui le piogge sono diventate sempre più scarse e mal distribuite.

In un territorio in cui la media pluviometrica annuale è di circa 750mm, lo scorso anno ne sono caduti appena 422 e partendo dal 30 aprile 2023 bisogna risalire fino a metà giugno 2021 (più di 22 mesi) per accumulare i 750m “medi”.

Negli ultimi 40 mesi (1/01/20-30/04/23) sono scesi 1627 mm : poco più di quello che sarebbe dovuto piovere in 2 anni!

Sud in stress idrico e vegetazione stentata. Agosto 2022. Foto di Luca Rostagno

La causa meteorologica di questa situazione è la presenza di un’alta pressione quasi costantemente allungata da sud-ovest verso nord-est a coprire penisola iberica, il centro-sud Francia e il nord-ovest italiano: con questa disposizione barica le perturbazioni atlantiche trovano la strada sbarrata e sono costrette a passare più a nord o a scaricare le loro precipitazioni sul versante nord delle Alpi e noi siamo ulteriormente prosciugati dai venti di Föhn.

Il dubbio che ci attanaglia è: stiamo vivendo una parentesi sfortunata e “breve” o è l’inizio di un nuovo trend?

I più anziani dicono “è sempre piovuto, pioverà anche quest’anno”: è possibile ed è la speranza di tutti ma per far sì che la situazione migliori e torni verso la normalità non abbiamo bisogno di temporali sporadici, ma la continuità di mesi molto piovosi come sono stati maggio 2018, giugno 2011 e luglio 2014.

3 mesi che ai tempi abbiamo “maledetto” ma che adesso rimpiangiamo a confermare che, sulle nostre colline, l’eccesso di pioggia è in qualche modo gestibile mentre l’assenza la possiamo quasi solo subire.

Nel quasi ci sono tecniche agronomiche che aiutano la pianta a rafforzarsi soprattutto nell’apparato radicale, ad aumentare la % di sostanza organica nel terreno per incrementare la trattenuta idrica; la gestione dell’inerbimento che limita l’erosione ma può andare in competizione con le viti; lavorazioni del terreno a ridosso di potenziali passaggi temporaleschi estivi per far entrare più acqua possibile che invece su terreni compatti ruscellerebbe via; abbassare l’altezza della parete fogliare per diminuire l’evapo-traspirazione.

I fossi sono serviti e hanno fermato l’acqua che altrimenti sarebbe ruscellata verso il basso andando persa e causando erosione. Diano d’Alba luglio 2022 Foto di Luca Rostagno

Non ho citato l’irrigazione per la mancanza di invasi per poterla alimentare: calcolate che in un periodo di stress idrico, per riequilibrare un vigneto, servono circa 7 litri di acqua a pianta ogni settimana: in ogni ettaro ci sono circa 5000 viti…vuol dire 35000 litri/ettaro/settimana!

Nonostante il grande stress, nel 2022 le viti hanno prodotto poca uva, ma la qualità dei vini è ottima anche grazie a tutte le accortezze che abbiamo avuto e soprattutto quella sulla scelta del momento della vendemmia.

Maggio 2023 è iniziato con una meravigliosa pioggia: speriamo non resti un episodio ma l’inizio del periodo piovoso che attendiamo da oltre 2 anni!

Nb: i dati citati sono forniti dalla stazione meteo installata a dicembre 2010 dall’azienda Matteo Correggia a Canale nel Roero.

L’immediato e l’emotivo: il culto del gastro-brand nella società come spettacolo. Di Nicola Perullo

La foto è di Nicola Perullo

Nel film The Menu (2022, regia di Mark Mylod) si mette in scena in modo piuttosto feroce una certa immagine contemporanea della cucina d’autore, altrimenti detta di “ricerca” o “avanguardia” o genericamente “creativa” (questi aggettivi sono spesso ma erroneamente usati nel linguaggio fagocitante dell’informazione come sinonimi). E sono rappresentate con notevole enfasi le reazioni e i comportamenti suscitati da questa cucina. Naturalmente, questo film ha prodotto immediati giudizi polarizzati. Non intendo qui esprimere alcun giudizio sul film, né entrerò in una sua analisi complessiva. Piuttosto, l’opera mi fornisce lo spunto per elaborare alcune riflessioni generali. The Menu, intanto, mi è interessato perché non è un film sulla cucina. È una metacritica di un certo modo di intendere la critica. In altri termini, decostruisce una determinata modalità di approccio alla creazione artistica e alla fruizione estetica in generale; ma questa modalità oggi si presenta socialmente con evidenza nell’ambito del gastronomico. In questo senso, il film risuona con molti punti che ho discusso nel mio libro Del giudicar veloce e vacuo. Metacritica della critica gastronomica (2020).

Qual è il punto? Si tratta di evidenziare lo stretto rapporto tra autorialità e immediatezza, tanto nel produrre che nel recepire. Si tratta di evidenziare, altrimenti detto, come la categoria del “nuovo” sia oggi il valore necessario per suscitare immediate reazioni emotive positive; il culto sociale che si alimenta di se stesso e che, per questo, si fagocita continuamente. Pensiamo alla politica, produttrice continua di novità tanto dirompenti quanto effimere; si pensi ai “cambiamenti epocali”, alle notizie da prima, seconda, terza e quarta pagina, completamente dimenticate dopo poco. Si pensi dunque agli chef “nuovi” e ai loro ristoranti. L’immediatezza nel creare corrisponde all’immediatezza nel recepire, nell’accettare: il culto dell’autore è diventato il culto dell’emozione. Ma le emozioni così repentinamente emerse svaniscono altrettanto facilmente.

Che cosa significa oggi “ricerca”, nello specifico campo della cucina ma, più in generale, nel campo dell’opera d’arte se è vero che la cucina può legittimamente essere considerata arte (cfr. Perullo 2013)? E cosa significano oggi le nozioni di “creatività” e di “avanguardia”? E soprattutto: fino a che punto, oggi, la presunzione di una “assoluta” libertà creativa del gesto artistico può essere sbattuta in faccia al fruitore, che sia il cliente di un ristorante o lo spettatore di un film? Ho sottolineato la dimensione della contemporaneità in tali domande perché il tema generale è invero molto antico: la problematicità del rapporto tra produzione e fruizione risale all’origine della creazione di opere per un pubblico, e si specifica poi con l’età moderna in rapporto a un nuovo tipo di società, periodo nel quale nasce anche l’estetica (cfr. Agamben 2022). Le considerazioni filosofiche generali devono riflettere, in modo concreto e specifico, ciò che oggi accade. Innanzitutto, dunque, il film The Menu descrive la figura dello chef-icona, dello chef come brand, rappresentando le diverse reazioni alla creatività assoluta dell’icona e del brand in quanto tale: dalla critica gastronomica di una nota rivista fino all’amatore entusiasta, dagli arricchiti fino ai borghesi, tutti (con la sola eccezione dell’intrusa, la “troll” della situazione e personaggio chiave del film, che però qui non prenderemo in conto) accetteranno, seppure con sfumature diverse, i gesti creativi, cioè autoriali-autoritativi e brandizzati, del cuoco, almeno fino a quando non prenderanno una piega che esula decisamente dal dominio gastronomico, giustificandoli innanzitutto in quanto pura espressione di un brand. Di fronte alla vecchia questione filosofica: “Dio vuole una cosa perché è buona, o una cosa è buona perché Dio la vuole?” la risposta offerta dalla società secolarizzata dell’immediato emotivo è sicuramente la seconda.

La foto è di Nicola Perullo

Questa situazione mette a sua volta in evidenza un altro punto: l’idea della libertà creativa connessa a una “genialità” che diviene marchio, brand, dunque firma riconoscibile, è oggi totalmente funzionale all’industria culturale capitalistica e alle sue logiche di commercio e mercato. In altri termini, ciò che accade è che il sistema non ha più alcun bisogno di “controllare” l’opera (come è invece accaduto nei sistemi della prima modernità, con le censure religiose e poi con le ideologie politiche totalitarie) affinché essa risulti consona, tanto accettabile all’autorità quanto poi gradita al pubblico, dunque vendibile. Ora la vendibilità è l’immagine stessa dell’opera, senza contenuto, perché l’opera, totalmente identificata con la sua firma, viene accettata in quanto brand. Lavorano su questo meccanismo coloro che creano l’opera (non solo il maker, lo chef in questo caso, ma tutto l’indotto: uffici stampa, creatori digitali, comunicatori di varia declinazione) affinché vi sia la fruibilità di un pubblico accettante. Un’accettazione che, in linea ben più che solo teorica, prescinde dunque da ogni considerazione sui contenuti dell’opera. O meglio: la valutazione, come vediamo in The Menu, avviene ex post, a partire dall’accettazione a prescindere: diviene un “giustificazionismo” generalizzato. In altri termini: dato che il brand è autoritativamente imposto, dato che l’informazione lo diffonde e lo rende “vero”, segue che vi sia del merito. Dunque, spetterà al fruitore trovarlo per convalidare la comprensione dell’opera. Credo che questo modello sia stato esemplarmente riassunto dall’idea che oggi circola, cioè che la vera creatività si trovi più spesso nella pubblicità e nel marketing di prodotti che non nel prodotto stesso. Del resto, alcuni anni fa, Jeff Koons, rese quella celebre dichiarazione secondo la quale l’arte non consiste nel fare un’opera ma nel venderla. Analogamente, nel cinema molti critici oggi sono impegnati a giustificare il merito artistico del brand che riempie le sale (pensiamo alla Marvel) proprio in quanto le riempie. Un’altra riflessione si presenta, dunque, quando l’informazione ci propone enfaticamente i risultati della ricerca creativa di molti chef e dei loro ristoranti: dove si investono oggi le maggiori e migliori energie, nel caso specifico in un lavoro sulla cucina o sulla sua comunicazione e promozione?

Torniamo al mito della presunta libertà assoluta di creazione. Se guardiamo attentamente alle politiche messe in atto dalle grandi piattaforme come Netflix, Amazon Prime o consimili, ma più in generale all’industria culturale (a cui anche la cucina appartiene pienamente) vediamo una situazione interessante: il prodotto “creativo”, libero, “avanguardistico” di autori iconici/brand trova sempre più spazio anche sul piano della stessa produzione (pensiamo a film come Roma di Cuarón, The Irishman di Scorsese, Bardo di Iñárritu, ma la lista è enorme e in espansione). L’industria culturale non sta affatto annullando quanto fagocitando l’arthouse, lasciandolo libero come pura firma, come pura forma: ciò vale per il cinema e per l’editoria, la musica e ovviamente i ristoranti. Attenzione, però: il “prodotto artistico” non è però considerato opportuno e accettato soltanto perché consente di continuare a lavorare sui prodotti di massa, i Blockbuster progettati a tavolino. Non è cioè solo questione del fatto – innegabile – che lo stesso proprietario del ristorante stile The Menu possa anche marchiare, brandizzare, pizzerie e paninoteche. È qualcosa di ancora più sottile e insidioso: in quanto è apprezzato come brand, l’arthouse stesso è totalmente parte del medesimo meccanismo della produzionecommerciale propria dei Blockbuster e delle pizzerie. Si tratta di creare icone spettacolari: tanto basta. Il brand è lo spettacolo, l’esperienza nuova che si nutre di sé, indipendentemente da ciò che rappresenta e, nel caso del cibo, da ciò che propone. In The Menu, la figura del “food enthusiast”, il gastrofilo è colui che risparmia denaro per permettersi queste esperienze. Il fan – che non è né il critico né l’arricchito, seppure anche queste figure reagiscano in modi simili – incarna al meglio questo processo di immediatezza emotiva che diviene giustificazione cognitiva: ogni creazione dello chef-brand viene accettata e motivata in quanto proviene da lui. La “libertà creativa” è il dogma, il sacro secolarizzato del sociale spettacolarizzato.

Si scioglie così questo apparente paradosso: nella società dello spettacolo c’è uno spazio preciso, sempre più ampio, riservato alla libertà creativa “assoluta” del gesto artistico: uno spazio curato, organizzato e capitalizzato dallo stesso mainstream contro il quale apparentemente si indirizzerebbe questa presunta “pura” ricerca che si definisce ancora, spudoratamente, avanguardia. La definizione è spudorata perché qui non si sta in alcun avamposto: si è ben saldi e ben piantati (al di là delle vicende individuali anche drammatiche, come ancora una volta mostra bene The Menu) nella bulimia del sistema produttivo. Quello che voglio sottolineare qui è come a tale bulimia produttiva debba corrispondere una bulimia fruitiva; all’iperproduzione corrisponde un’iperstimolazione, più precisamente una volontà continua di “emozionare” (tutti vogliono regalare emozioni; sentiamo continuamente gli chef sostenere che il loro ruolo è “dare emozioni”). Ora, il meccanismo della libertà creativa assoluta come brand e questo bombardamento emotivo, superficiale e alla fine – in modo apparentemente paradossale – anestetizzante, vanno insieme: la prima serve proprio per suscitare apprezzamento emotivo immediato, uno shock funzionale alla mancanza di stratificazione e memoria. Immediatezza e impazienza, produzione di un prêt-à-porter creativo/autoriale. Si pensi a ulteriori tre casi: un film come Babylon di Damien Chazelle, il ristorante Ultraviolet di Paul Pairet o la moda del vino naturale come fenomeno “hipster” sono movimenti che nascono dentro tale meccanismo. Anarchia della creazione produttiva = immediatezza fruitiva emotiva. Di fronte a esse, la narrazione come brand sopravviene: dato che la risposta da dare è immediata, o si rifiuta o si accetta subito. Dato che, nel primo caso, si rischia di non far parte dello spirito del tempo, dell’interesse, allora si opterà per l’accettazione: vedere tutto, ingoiare tutto, una narrazione che sopravviene all’esperienza metabolica della digestione lenta e appassionata. Se Peynaud ne Il gusto del vino teorizzava che il gusto deve adattarsi e adeguarsi alle regole dell’enologia tecnologica, ora il gusto si deve adattare alla pura libertà delle visioni del maker, indipendentemente dal comprenderle o no: il gusto è un equalizzatore di brand. Il feticcio del brand, il brand che diviene l’esperienza stessa. Il feticcio della ricerca assoluta e dell’esperienza assoluta.

Non sto qui suggerendo che un film come Babylon o un ristorante come quello rappresentato in The Menu non possano offrire un’esperienza sensibile appagante, coinvolgente, emozionante, stupefacente o anche solo divertente. Il punto che qui sollevo è diverso: queste opere sono realizzate e prodotte secondo un modello che, basandosi sul criterio dell’accettazione iconica, autoriale-autoritativa prima descritta, le sottrae del tutto alla metabolizzazione, cioè al tempo. Il tempo inteso non come istantaneità della reazione emotiva, ma come durata, passione, memoria e sedimento (cf. Perullo 2013): ciò in cui dovrebbe radicarsi un’opera per corrispondere al farsi di una sensibilità che accomuna. Far attecchire l’opera nell’ecologia, significa realizzare una corrispondenza tra opera e gusto. Questo tipo di lavoro, non la brandizzazione volatile dell’autore dell’opera proprio del marketing del consumismo capitalistico, è stato quello proprio anche delle avanguardie. Ma questo lavoro è un compito senza fine: si sviluppa come densità e processo, sempre in risonanza. Ho provato a suggerire l’ipotesi per questo tipo di lavoro in alcuni miei libri precedenti (cfr. in particolare Perullo 2021) attraverso l’idea di gusto come compito. Percepire è un compito che non si dà mai una volta per tutte, ma si realizza nel processo – perciò chiede attenzione, attenzione e ancora attenzione, non istantanea accettazione né rifiuto, ma tempo. Allo stesso modo, la creazione è compito: giammai libertà assoluta, sciolta da vincoli, ma recupero, relazione, comunanza. La creazione e la ricezione sono libertà dipendenti, cioè vincolate.

La foto è di Nicola Perullo

L’analisi sopra proposta potrebbe anche intendersi anche come critica alla libertà del gusto dei vini naturali, una posizione che si potrebbe apparentemente ascrivere al progetto presentato in Epistenologia? No, ma certo ne costituisce una necessaria precisazione. Da un lato, infatti, non si è mai sostenuto che l’artefatto “naturale” sia di per sé gustativamente apprezzabile in quanto tale: altrimenti, si ricadrebbe nell’obiezione sopra esposta, cioè quella della sacralizzazione del brand come tale, della narrazione che riduce a sé ogni esperienza. Si percepisce sempre dentro una rete ecologica, cioè di relazioni vincolanti, di sedimenti movibili; invece, il mito della presunta libertà creativa, il prêt-à-porter autoriale, allena percezioni istantanee e impazienti, tanto di giudicare quanto di venire stimolate. Dall’altro lato, però, essere consapevoli dei vincoli relazionali non significa lavorare su regole predeterminate e “oggettive”. Epistenologia ha di mira quest’ultimo feticcio, che vale anche per l’arthouse brandizzata e sapientemente “comunicata” nel cinema, nella musica, nella ristorazione, nell’industria culturale in generale. Quindi: né libertà assoluta né regole oggettive, ma compito in quanto continua attenzione. Il gusto è relazione e resistenza: negoziazione, dialogo, costruzione di uno spazio comune. Si tratta di non accettare passivamente: né le regole del mercato mainstream né il brand apparentemente fuori mercato del mercato più sofisticato, quello che mette precisamente in scena il fan gastrofilo nel film The Menu. Si tratta di coltivare meno emozioni e più passioni; educare il percepire per radicare l’opera nell’ecologia di un gusto che al contempo si sedimenta e si ricrea, costantemente.

Come ci ha indicato bene Guy Debord, viviamo nella società dello spettacolo, cioè nella società come spettacolo. Lo spettacolo è il conformismo. Ha scritto Maurizio Iacono:

Nel secolo scorso il conformismo era contrassegnato dall’uso delle camicie tutte dello stesso colore. Oggi avviene il contrario. Il conformismo si presenta con le camicie multicolori, i tatuaggi, l’esibizione sotto le false spoglie della trasgressione. Si era conformisti come il Marcello Clerici del romanzo di Alberto Moravia e del film di Bernardo Bertolucci. Si è conformisti così come ce lo hanno descritto Sandro Luporini e Giorgio Gaber. Questo serve allo spettacolo delle merci e questo si fa in un contesto in cui, immersi come siamo in un presente-eterno e in assenza di qualunque desiderio di un futuro che non sia la falsa speranza individualistica di soddisfare i propri bisogni, la stessa contrapposizione tra destra e sinistra è diventata ormai solo parte della stessa rappresentazione. Questo significa arrendersi? No! Significa soltanto togliersi i prosciutti dagli occhi. Ciò fatto, il resto verrà.1

La società come spettacolo. Ma – come ha da parte sua mostrato bene Calasso (cfr. Calasso 2017) la società è oggi l’unica religione. Quindi lo spettacolo è l’unica religione. Si comprende così il nesso tra immediatezza della produzione, mito della libertà assoluta, generazione continua di brand come “novità”, culto dell’emozione. Inventarsi sempre qualcosa di nuovo per girare a vuoto, ideologizzare l“immersività” come esistesse uno stato di emersione. L’immersività ideologizzata è figlia del culto dell’immediatezza emotiva e produce l’opposto di quanto millanta: essa distrae. Ma per radicare l’opera nell’ecologia di un gusto che si realizza c’è bisogno di continua, infinita, attenzione. Un’attenzione totale.

Il film The Menu ci fa riflettere su questioni essenziali, perché un ristorante come quello rappresentato può nascere solo dentro il sistema dell’informazione e dell’immediato emotivo, nell’età dell’“innominabile attuale” che stiamo attraversando. Inventarsi sempre “nuovi” format di ristoranti perché lo scopo è “dare emozioni”. Però, anticipare quotidianamente il futuro significa diventare professionisti di “novità”; cioè, significa trovarsi da subito già nel trapassato senza essersene consapevoli. Vivendo un tempo accelerato e immediato, ne veniamo ipso facto fagocitati, subendolo passivamente. E The Menu gioca esplicitamente anche su questo fatto perché – come sa bene chi conosce l’argomento specifico di questo tipo di cucina – tutte le novità sono refrain già consunti (il creare un piatto come se fosse un paesaggio, il pane come essenza, il cheeseburger come retorica del non-nuovo, della tradizione per eccellenza, ma anche il piatto che il fan, sfidato dallo chef, realizza, venendone dileggiato. I suoi abbinamenti sono “davvero rivoluzionari”, gli dice sarcastico lo chef). Abbiamo ancora davvero bisogno di spettacolo, di cinema, ristoranti, di “evasione” (ma da cosa dovremmo evadere?). Abbiamo davvero ancora bisogno di “fare nuove esperienze” per alimentare il loro stesso bisogno? Non sarà forse che l’unica, vera novità consisterebbe nel fermarsi, cioè nel non volere programmarsi ad esperire?

Bibliografia

Agamben, Giorgio, L’uomo senza contenuto [1974], Quodlibet, Macerata, 2022

Calasso, Roberto, L’innominabile attuale, Adelphi, Milano, 2017

Debord, Guy La società dello spettacolo [1967], Massari, Bolsena, 2002.

Iacono, Alfonso Maurizio, “Lo spettacolo e il conformismo”, BAC BAC Associazione culturale, https://www.bacbac.eu/2023/02/17/lo-spettacolo-e-il-conformismo, 2023.

Perullo, Nicola, La cucina è arte? Filosofia della passione culinaria, Carocci, Roma, 2013.

Perullo, Nicola, Del giudicar veloce e vacuo. Metacritica della critica gastronomica, Edizioni Estemporanee, Roma, 2020.

Perullo Nicola, Epistenologia. Il vino come filosofia, Mimesis, Milano, 2021.

1 https://www.bacbac.eu/2023/02/17/lo-spettacolo-e-il-conformismo/?fbclid=IwAR3TrWNv13QWpbdFYDAKVMA7GfJkxaiI_f4Bgygt_vrpAWRLr0FOji9q_9c

L’identità di un territorio. Per non farla facile

Il caos primigenio da cui ebbe origine il mondo. Tableaux du temple des muses – tirez du cabinet de feu mr. Favereau…gravez en tailles-douces par les meilleurs maistres de son temps, pour representer les vertus and les vices, sur les plus (14561047708).jpg Creato: 1 gennaio 1676
Di Internet Archive Book Images – No restrictions, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=43779382

Origine, identità e qualità. Tutti termini che rimandano inequivocabilmente ad archetipi primordiali e ipotesi indiscusse di natura divina. La formula peggiore, dunque, sarebbe quella di fornire un prontuario di ricette “apri e gusta” dove inserire qualche vecchia foto di paese o di colline, due canzoni popolari, tre balli, qualche parola in dialetto, un bagnet vèrd per il bollito, il tutto sapientemente diluito con un buon bicchiere di grignolino (vino che amo molto). Perché un’identità territoriale costruita a tavolino, come se fosse una sommatoria e combinatoria di elementi presi qua e là da un baule del passato a cui si aggiungono coriandoli di modernità tecnologizzata, sa di parrucchino posticcio: basta un colpo di vento o uno starnuto ben dato e vola via. E poi sta male. Il mondo ne è pieno: ogni territorio, ogni luogo ne produce qualcuna: vuoi per una pubblicità muraria o per via giornalistica, vuoi per qualche redazionale, vuoi per qualche video più o meno commerciale, vuoi per qualche sito internet o blog in attesa di commenti che non verranno mai.

Ed è da qui che vorrei partire: un’identità, qualunque essa sia, è un fenomeno storico e negoziale. Implacabilmente plurale. Il primo ancoraggio ideale ancorché semantico del concetto “identità” si usa farlo con un’altra parola anch’essa utilizzata sino allo stordimento, per non dire alla nausea: “tradizione”. Nel suo significato etimologico della parola “tradizione” il vocabolario dice:

tradizióne s. f. [dal lat. traditio -onis, propr. «consegna, trasmissione», der. di tradĕre «consegnare»; nel lat. tardo anche «tradimento», dapprima con riferimento alla consegna dei libri sacri (v. traditore, in etim.), poi con uso assol.: di qui il raro sign.

Sorpresa: tradizione e tradimento, che nel nostro immaginario sono due parole molto distanti fra loro, derivano entrambe dal verbo latino “tradĕre”, letteralmente “consegnare”.

Nel primo caso, dunque, la consegna riguarda tutto ciò che passa dalle mani di una generazione a quelle di un’altra, per salvaguardarlo dallo scorrere del tempo; nel secondo caso, invece, la consegna riguarda qualcosa che dovrebbe essere protetto. Il verbo tradire (il latino tradĕre), porta con sé il significato di “consegnare” un ordine precostituito, un sistema preesistente, “in nome di una nuova consegna, di un nuovo ordine, di un nuovo sistema. Esso sancisce dunque il dramma del passaggio dal vecchio al nuovo e quindi in sostanza l’eterno dramma del processo evolutivo. Il tradimento ha dunque sempre a che fare con l’abbandono da parte di un sistema di precedenti regole o configurazioni a favore della novità”.

Non esistono quindi delle identità identiche a sé che si ergono immutabili a discapito di quanto muta incessantemente. Sono genovese di adozione e torinese di nascita. Mio nonno veniva da un paese ai piedi della Langa e dopo l’androne del bollito: Farigliano. L’androne del bollito è Carrù. Se qualcuno mi chiedesse di definire l’identità di quei luoghi, me ne starei zitto per un po’. Dovrei pensarci, insomma. Non sono più i luoghi che lungo i suoi novant’anni di vita conobbe mio nonno, ma non sono più neppure i luoghi di quando ero ragazzo. Troppe, tante cose sono cambiate: le piazze e le strade vuote, i bar, gli sguardi miei e quelli della gente, le parole al vento, i dialetti e le lingue parlate (quante se ne parlano nelle vostre campagne e nelle vostre vigne?), i lavori, i vestiti e i cappelli della domenica, le feste, gli smartphone e potrei continuare. Forse la morfologia del territorio è cambiata meno: qualche casa e qualche parcheggio in più, due villette a schiera qua e là, il Tanaro che si è ripreso le sue rive. Ma io so che non è più quello che avevo vissuto sino a poco tempo fa: non so se sia diventato una grande periferia di un centro urbano di chissà dove, o soltanto una delle tante sedi suburbane all’interno della grande rete delle connessioni informatiche.

Così “origine”, non da meno di “identità”, e forse negli stessi termini, è un concetto che crea qualche problema. Riprendo qui un brano di Foucault: «Perché Nietzsche genealogista rifiuta, almeno in certe occasioni, la ricerca dell’origine (Ursprung)? Innanzitutto perché in essa ci si sforza di raccogliere l’essenza esatta della cosa, la sua possibilità più pura, la sua identità accuratamente ripiegata su se stessa, la sua forma immobile ed anteriore a tutto ciò che è esterno, accidentale e successivo. Ricercare una tale origine, è tentare di ritrovare “quel che era già”, lo “stesso” d’un immagine esattamente adeguata a sé; è considerare avventizie tutte le peripezie che hanno potuto aver luogo, tutte le astuzie e tutte le simulazioni; è cominciare a togliere tutte le maschere, per svelare infine un’identità originaria. Ora, se il genealogista prende cura d’ascoltare la storia piuttosto che prestare fede alla metafisica, cosa apprende? Che dietro le cose c’è “tutt’altra cosa”: non il loro segreto essenziale e senza data, ma il segreto che sono senza essenza, o che la loro essenza fu costruita pezzo per pezzo a partire da figure che le erano estranee. La ragione? Ma è nata in modo del tutto “ragionevole” – dal caso. L’attaccamento alla verità e il rigore dei metodi scientifici? Dalla passione dei dotti, dal loro odio reciproco, dalle loro discussioni fanatiche e sempre riprese, dal bisogno di prevalere, – armi lentamente forgiate nel corso di lotte personali. E la libertà, sarebbe forse, alla radice dell’uomo, quello che lo lega all’essere e alla verità? Nei fatti, non è che “un’invenzione delle classi dirigenti”. Là dove le cose iniziano la loro storia, quel che si trova non è l’identità ancora preservata della loro origine, – ma la discordia delle altre cose, il disparato». M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977 (ed. orig. Hommage à J. Hyppolite, Paris 1971), ora in Id., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, pp. 45-46.

Dunque nulla da fare? Se sono veri i presupposti e i fondamenti dai quali sono partito, allora sarà necessario che la comunicazione su ciò che l’identità di un territorio significa, o le sue plurali identità, venga descritta ed analizzata per quello che è, sia nelle modalità in cui si dispiega concretamente e sia nelle modalità in cui essa viene rappresentata: servono, dunque, interviste, mappe mentali  che coinvolgano gli abitanti così da evitare una forma di etnicizzazione politica della costruzione identitaria (ad essa contribuiscono le vecchie famiglie, i nuovi nati e i nuovi venuti). La memoria storica, prodotto della ricerca storiografica, che utilizza fonti scritte, orali, materiali e materie di ogni genere e forma si deve intersecare con la memoria individuale e collettiva, con la continua interpretazione e reinterpretazione narrativa di coloro che in quei luoghi dimorano. E poi, dall’altra parte, mappe, carte storiche e tematiche, elaborazioni GIS (Geographic Information System), dati statistici, iconografici e visuali: insomma tutti materiali di indagine quantitativa così come vengono definiti in sociologia.

Ecco che allora, e solo in quel momento, potremmo dire che l’unità del paesaggio è data da uno “spazio dell’azione”, da un “contesto” e da uno “sfondo”. E solo allora potremmo dire che ciò che rimandiamo agli altri (immagini, prodotti o storie di vita…) non è soltanto un artefatto posticcio di un collage di luoghi comuni o una foto sbiadita di un mondo irrimediabilmente scomparso.

Affinamento, maturazione, invecchiamento? Nuove proposte per vignaioli d’assalto

La tendenza è oramai mondiale e dura da un po’ m di tempo: che si tratti di affinamento, maturazione o invecchiamento, alcune case vitivinicole più o meno rinomate hanno deciso di depositare temporaneamente (anche per qualche anno) i loro vini di punta, soprattutto quelli spumantizzati e i “metodo classico”, nei fondali marini o nelle grotte di impervie montagne.

Come ogni novità che si rispetti, con il passare del tempo, tale non si rivela più. Allora, ecco, che ulteriori vigneron italici, sempre pronti a portare novità di rilievo sia in campo enologico che del marketing d’assalto, hanno sperimentato curiosissime tecniche di maturazione dei vini, dove per “maturazione” ci sta dentro un po’ di tutto.

Grande Raccordo Anulare Roma. Qui la trovata è semplice: posizionare alcune casse di vino e incastrarle sotto i sedili dell’autobus 088F. Lasciarle per circa un anno e valutare in maniera scientifica l’incidenza del traffico, l’aria condizionata, il peso specifico dei culi come massa di contenimento e di pressione atmosferica nonché la velocità media affinché il vino possa esprimere al meglio il suo contenuto di effervescenza. Consigliabile soprattutto per i rifermentati in bottiglia.

Navigazione sul Po’. In Emilia, terra di grande tradizione spumantistica, le casse di vino, costruite con piccole griglie metalliche, vengono poste ai bordi delle barche a fondo piatto e immerse nel letto fluviale durante la navigazione. Pare che il vino acquisisca tonalità salmastre e di pesce in carpione.

Stiva delle navi che percorrono lo stretto di Drake. Lo Stretto di Drake (in onore di Francis Drake anche se il primo a navigarvi fu, nel 1616, l’esploratore olandese Willem Schouten) è quel tratto di mare che separa l’estrema punta meridionale del continente americano, Capo Horn, dalle coste della penisola Antartica: costituisce il tratto di mare che unisce l’Atlantico meridionale con il Pacifico meridionale. È uno dei mari più tempestosi al mondo. Le bottiglie di vino dovranno avere un vetro e dei tappi molto adeguati. Al netto delle bottiglie fracassate, dei tappi saltati e delle navi affondate, quelle che sopravvivranno conferiranno al vino un’effervescenza di gran lunga superiore a quella di una meravigliosa Perrier. Consigliabile per i metodi Charmat/Martinotti.

Sulle spalle di un mio amico di Genova. Ognuno di noi ha degli amici imbarazzanti ed io ne ho uno in particolare. Fa l’Iron-man e il montatore di mobili (case intere). Sul secondo aspetto nulla da dire, ma sul primo molto. Poco prima che arrivi da qualche parte in cui ci sono anche io ed altri amici disagiati come me, ci alziamo stancamente dalle nostre posizioni di bevuta condivisa e facciamo finta di essere appena tornati da una corsetta in montagna di 22 km. Il sudore è praticamente identico. Dopo aver saputo che per allenarsi, sia alla corsa che in bici, si carica di svariate bottiglie di acqua, alcuni vignaioli amici comuni, gli hanno proposto di sostituire l’acqua con il vino in bottiglia. I risultati sono stupefacenti: il vino assaggiato dopo 35 corse di 42 km è risultato molto ginnico. 

Sotto la consolle di un dj di musica “Unz!” Posizionare le casse di vino sotto la consolle di un dj avvezzo a mettere musica techno anni novanta alla velocità di 1015 bpm. Il battito per minuto assieme al sommovimento del pavimento provocato dal ballo sfrenato dovrebbe aiutare al rimescolamento continuo delle fecce nobili aiutandole, così, a portarsi in sospensione. I vini ottenuti saranno di buona struttura, sapidi e piuttosto persistenti. Un’unica controindicazione: potrebbero ripresentarsi delle rifermentazioni spontanee in fase digestiva

Dal “deserto di Accona” ad oggi. Viticoltura e clima, dove andiamo? Di Stefano Cinelli Colombini

Oggi si fa un grande parlare di cambiamenti climatici, ma in realtà chi si occupa di agricoltura sa che la situazione ha iniziato a virare verso il caldo e la siccità già dagli anni ’80. Io me ne accorsi nel 1981. La mia famiglia ha terre anche nelle Crete Senesi, il posto più esposto ai mutamenti climatici della Provincia di Siena perché è il più caldo e arido. Non a caso da quelle parti c’è il “deserto di Accona”, l’unico pezzo di Toscana chiamato così. Nel 1981 mi trovai ad affrontare qualcosa di mai visto: il suolo era durissimo, ed arando emergevano delle enormi “fette” di terra che a novembre non si erano ancora sbriciolate. Il caldo e la siccità le avevano cotte, dopo un mese avremmo dovuto seminarle ma non c’era modo. Quasi tutti i vicini rinunciarono, io comprai due frese a martelli e piano piano resi seminabili tutti i 180 ettari di campi dell’azienda. Costò una fortuna tra attrezzi, gasolio e tempo, ma in tutta Italia pochi avevano seminato e così il prezzo del grano duro esplose dalle normali trentamila Lire a quasi ottantamila per quintale, e alla fine ci guadagnai parecchio. Successe ancora nel 1988 e nel 1989, e poi la situazione parve normalizzarsi fino ai terribilmente secchi 2000, 2001 e (soprattutto) 2003. A quel punto iniziai a dire che era necessario affrontare il problema, attrezzarsi per l’irrigazione e creare bacini, ma poi smisi perché vidi che quest’idea non era per niente condivisa. Non mi va di passare per visionario o, peggio, per menagramo.

Crete Senesi Biancane Veduta del versante de Le Fiorentine, di fronte a Leonina nel settembre 2008 Di Gunther Tschuch – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4903601

A questo punto vorrei che perdeste un attimo su un fatto oggettivo, che però nessuno nota: il modo “storico” di fare agricoltura nel Senese è adatto solo ad un clima caldo e secco. È analoga a quella del sud del Mediterraneo, Siria o Tunisia. Solo cereali da arido, grano duro e orzo, molto olivo, vite piantata a filari larghi con i cereali coltivati nel mezzo o molto fitta in piccole parcelle in zone molto vocate. Come unici animali da allevamento la pecora, a cui bastano pascoli poveri, e il maiale che ricicla ogni avanzo. I bovini erano solo animali da lavoro, mai da carne o da latte. Niente cavalli, solo i pochi dei signori, al limite qualche asino. Mancava l’acqua, per cui si erano realizzati decine di migliaia di fontoni (piccoli bacini per la raccolta delle acque piovane), e grandi “colmate” (bacini di sbarramento degli avvallamenti) dove possibile. Le uve erano quasi solo Sangiovese per i rossi e Trebbiano per i bianchi, varietà che marciscono subito se piove ma reggono bene a lunghi periodi di caldo e siccità, anche estrema: quando non ce la fanno più vanno in blocco, chiudono gli stomi e appena piove un minimo o raffresca ripartono e vanno a maturazione. Anche i poderi sono fatti per il caldo: sono nei punti più ventilati, hanno larghi muri “a sacco”, poche finestre piccole, tetti a docci e tegole non isolati che oggi chiameremmo “ventilati”, con poca pendenza e del tutto inadatti alla neve, al freddo o a forti piogge. Ma perfetti per il caldo. Nel Senese tutto questo è troppo diffuso per essere casuale, è evidente che le siccità erano così frequenti da costringere gli agricoltori a questa agricoltura misera, da clima arido. Lo dico anche senza consultare le serie storiche sul clima, che fino ad anni recenti sono poco affidabili. Lo si nota anche nei quadri toscani, dove i terreni sono spogli, secchi e non c’è mai neve o cieli nuvolosi: con il rinascimento compare un po’ di verde, ma non esiste un equivalente senese della Tempesta del Giorgione.

Nel secondo dopoguerra la situazione cambia. C’è un periodo freddo e umido, e arrivano sia la meccanizzazione diffusa che l’agricoltura chimica. Altrove c’erano da tempo, ma non nel Senese. Gli agricoltori pensano di potere (e dovere) cambiare tutto, anche perché il crollo dei prezzi agricoli aveva portato a una terribile miseria e alla fuga dalle campagne: per sopravvivere era necessario reagire, così si agì senza badare troppo alle conseguenze di lungo periodo. La vigna non si pianta più dove c’è un terreno e un clima ideale, ma in ogni suolo delle DOCG e DOC di maggior successo. La disponibilità di mezzi movimento terra a basso costo permette titanici rimodellamenti dei suoli, che spesso ignorano ogni logica idro-geologica e quasi sempre usano lo strato fertile per riempire avvallamenti. Si abbandona l’alternanza tra cereali e prati perché la forza motrice ora è fornita dalle macchine, e non c’è più necessità di produrre erba per alimentare gli animali. E poi la concimazione chimica costa meno, è semplice da usare e rende molto più di quella organica. Di conseguenza c’è una proliferazione enorme delle malerbe, che vengono combattute con uso sempre più massiccio dei diserbi. Lo stesso avviene nelle vigne, dove così si favorisce la proliferazione di piante resistenti al diserbo. I campi vengono estesi sempre di più, togliendo gli alberi giganteschi che erano indispensabili per dare riposo e frescura alle bestie da lavoro (e a chi le usava) durante l’aratura estiva: ora, con i trattori, erano inutili. Le siepi confinarie fanno la stessa fine. Si introducono colture irrigue come il mais, che hanno bisogno di tanta acqua e di terreni resi quasi sterili dai diserbi. Si produce di più, molto di più. Tutto questo provoca il decadimento e poi la fine dell’attività biologica di molti suoli e, a caduta, un aumento esponenziale dell’erosione: negli anni ’80 e ’90 non è raro vedere vigne nei pendii con palchi alti un metro e venti in cima e quaranta o cinquanta centimetri in basso, perché il suolo è stato portato a valle dalle piogge. Ad ogni acquazzone le fossette si riempiono, e aumentano le frane. Nei seminativi estensivi compare la cicuta, pianta che prospera solo nei suoli privi di attività biologica. L’agricoltura del Senese a fine anni ’90 è così, certo c’erano eccezioni come la mia Fattoria dei Barbi ma il quadro generale è questo: forse sostenibile in periodi freddi e piovosi, ma non in tempi di siccità.

Nel 1999 la mia famiglia ha diviso a metà i beni agricoli tra me e mia sorella, e io mi sono trovato per la prima volta nella condizione di poter decidere da solo per la Fattoria dei Barbi. Per dieci anni la divisione aveva bloccato ogni investimento, e il reimpianto dei vigneti non poteva più essere rinviato. Anche perché la situazione di cui ho parlato sopra e il mal dell’esca avevano accorciato drasticamente il ciclo vitale della vite in Toscana, che oggi è tra i venti e i trenta anni. Avevo seguito i lavori del Progetto Chianti 2000 e altri simili, che avevano messo in discussione tutte le certezze sull’allevamento della vite in Toscana e avevano sperimentato ogni tipo di clone, portainnesto, concimazione e sistema di allevamento in ogni terreno e in modo incrociato così da dare un’idea aggiornata di cosa fare nel clima di oggi. Sapevo che dovevo cambiare e, anche se gli altri non ci credevano, ero sicuro che il clima sarebbe peggiorato. Per questo utilizzai quegli studi, e i consigli preziosi di un mio cugino che è uno dei più grandi docenti universitari di viticoltura, il prof. Cesare Intrieri. Ma anche tanti ricordi di vecchi esperti di viticoltura che avevo colto parlando con loro. Cambiai il metodo di preparazione dei vigneti, ri-adottando quelle normali buone pratiche che noi (e tanti altri) avevamo abbandonato. Ora il mezzo metro di terreno fertile viene sempre messo da parte prima dello scasso, poi si fa un moderato rimodellamento dei suoli e si lasciano al loro posto gli alberi monumentali. In caso di pendenze si spezza in più parti il vigneto, e si fanno stradoni per fermare l’erosione. Dopo aver sistemato il terreno si rimette lo strato fertile e su quello si pianta la vigna. Ma, soprattutto, ho adottato un sistema di allevamento nato per tenere in equilibrio naturale la vite. Da secoli, e forse da millenni, ovunque nel mondo alleviamo vigne “bonsai”: con infinite potature costringiamo una pianta rampicante gigante a nanizzarsi, ma perché? Costa tantissimo, e espone a molte patologie che partono dai tagli troppo frequenti e troppo estesi. Il prof. Intrieri è soprattutto uno studioso della fisiologia della vite, e ha inventato un sistema di allevamento che (a regime) richiede solo potature minime perché da il naturale sfogo alla pianta: il Cordone Libero. Non sto a descriverlo, lo trovate su internet, qui basta dire che riduce molto la quantità di foglie che però sono tutte esposte al sole, per cui lavorano tutte sempre: questo fa calare il fabbisogno di acqua (meno foglie, meno evaporazione), ma aumenta la “potenza” del “motore” fotosintetico della vite perché tutte quelle poche foglie lavorano, mentre nei cordoni tradizionali la metà o più è coperta dalle altre e non lavora. Per cui il Cordone Libero soffre meno la siccità, e in genere matura bene l’uva anche in stagioni avverse. Meno foglie e niente affastellamento vuol dire meno esposizione alle patologie, per cui meno fitofarmaci. L’unico inconveniente è che produce poca uva, ma nel caso dei vini di pregio questo non è un limite. Cosa altro ho fatto? Ho ridotto la densità di impianto. Può sembrare un’eresia, ma in una situazione di frequente siccità la competizione per l’acqua deve diminuire. Meno piante, meno competizione. Oggi metto da 4.000 a 5.000 piante per ettaro, a seconda dei limiti imposti da Disciplinari, e lascio un interfilare di tre metri per dare libero sfogo ai tralci ed evitare che si facciano ombra tra di loro. La concimazione è quasi solo organica, e pratichiamo a filari alterni l’inerbimento; non su ogni fila, perché altrimenti il terreno potrebbe non assorbire tutta l’acqua che cade. E già è poca. Se la siccità è forte, come ora, rimuoviamo l’inerbimento con una rippatura molto superficiale per eliminare l’evaporazione capillare. Questo costringe l’umidità a tornare in basso. Se necessario lo facciamo più volte, è un metodo antico ma efficace. Non usiamo diserbo, lavoriamo quando necessario il sotto-fila. Ogni tre o quattro anni, a seconda dei terreni, passiamo a filari alterni con un aratro talpa, un erpice mono-dente che penetra per 1-1,2 metri e termina in una palla, che è trascinata velocemente e spacca le radici delle viti a centro filare costringendo la pianta a rinnovarle. Questo la “ringiovanisce”, e la forza ad approfondire l’apparato radicale alla ricerca dell’acqua. Curiamo molto la salute della chioma, non usiamo insetticidi ma da vent’anni seminiamo insetti. Stiamo sperimentando prodotti che favoriscono la resistenza naturale della vite alle malattie e la resistenza ai climi estremi, ma non abbiamo risultati definitivi. Per ora non siamo certificati bio perché non amo le complicazioni burocratiche e credo poco nel rame, ma usiamo quasi solo prodotti bio. Non credo neppure nella biodinamica, nel suo corno-letame o nel suo oroscopo, per carità, ma guardo con attenzione certe loro pratiche. Nessuna delle cose che facciamo è di per sé risolutiva, ma nel loro insieme mettono le viti in grado di affrontare meglio climi ostili, siccità o caldo eccessivo e basta andare in vigna in questi giorni di siccità per constatarlo. Credo più in queste cose che nell’irrigazione, perché quando è davvero caldo puoi irrigare quanto vuoi ma se la pianta non è resistente di suo non ce la fa. I risultati hanno richiesto anni, e la differenza si nota di più nelle annate avverse perché riusciamo sempre ad avere buone uve. Poi naturalmente l’eccellenza è figlia della natura, e si fa solo in anni speciali. La Fattoria dei Barbi non è unica, tutto Montalcino ha adottato pratiche di questo tipo e le ricadute sulla qualità sono evidenti. C’è sempre più agricoltura sostenibile in Toscana, ovunque, non si diffonde rapidamente come a Montalcino ma sta arrivando. La cosa divertente è che tutti questi accorgimenti non producono costi aggiuntivi, anzi.

Questa è l’esperienza della Fattoria dei Barbi, che non ha la pretesa di essere un caso di scuola. Quello che si può trarre dalla nostra storia non sono le singole azioni, che in situazioni diverse potrebbero essere inutili o non replicabili, è l’idea che l’agricoltura non va fatta in modo statico. Casomai, credo che una analisi del nostro caso dovrebbe stimolare qualche domanda sul dove vogliamo andare. Quest’anno l’acqua manca, ed è probabile che non sarà un fenomeno isolato. In questa situazione, non è il caso di ripensare all’intera viticoltura prima che l’emergenza ci costringa a farlo? È realistico pensare che l’irrigazione di soccorso diventerà una prassi normale, ma proprio per questo sarebbe utile porsi un problema: ci possiamo ancora permettere di piantare le vigne ovunque? Non è il caso di tornare alle sole zone realmente vocate, invece di piantare in ogni parte delle DO di successo? O dove vuole il proprietario, che magari fino a ieri faceva il creativo a Milano e ora vuole re-inventare l’agricoltura? Non è il caso di inserire l’analisi pedologica nei Disciplinari, limitando la possibilità di produrre ai soli terreni biologicamente vivi? Forse, per le produzioni oltre 120 quintali per ettaro avrebbe un senso proibire ogni forma di irrigazione: se la natura porta a maturazione l’uva va bene, ma se queste rese esistono solo grazie all’uso di acqua irrigua (che manca) che senso hanno? Queste non sono provocazioni, sono i pensieri realistici di un conservatore che spera di salvare l’essenza della viticoltura adattandosi ai cambiamenti prima che ci travolgano. Capisco che molti hanno legittimi interessi a continuare a fare come è stato sempre fatto, ma sarà possibile? Temo di no.

Forse i millenial non sanno che farci con il vino. Alcuni spunti a partire dagli articoli di Jacopo Cossater e Angelo Peretti

Il nastro di Möbius è una superficie non orientabile: ha infatti una “faccia” sola. Questo è un oggetto studiato in topologia. Di David Benbennick – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=50359

Sia Jacopo che Cossater che Angelo Peretti sottolineano, nei rispettivi e preziosi articoli, il fatto che le nuove generazioni (millennial all’incirca) abbiano valori significativamente diversi dai loro genitori e come, coerentemente con questo, anche il loro approccio al vino sia mutato rapidamente nel corso degli ultimi decenni: “sono più attenti alla salute e all’ambiente, cercano quindi vini con meno alcol, meno calorie e capaci di trasmettere una maggiore idea di trasparenza a proposito del loro procedimento produttivo” – scrive Jacopo Cossater[1]. E così Agnelo Peretti: “L’assunto è che i nati nel nuovo millennio abbiano un approccio con il vino – e io aggiungo anche con il lavoro, con lo studio e con la socialità – lontano da quello dei genitori, perché sono portatori di valori diversi da quelli dei genitori, e potrei perfino dire che, per loro, è diverso soprattutto il valore del tempo, del denaro, dell’equilibrio della vita su un pianeta che si affaccia al dramma ambientale[2]”.   

I valori fanno riferimento a dei contenuti espliciti ed impliciti (politici, ecologici, religiosi…), a dei fini perseguibili (strumentali o meno), alla loro pervasività e influenza sociale (comunità, classi, nazioni…) e alla loro organizzazione dimensionale con altri valori all’interno di un contesto collettivo. In altre parole i valori sono esplicitamente connessi a dei modelli culturali di attinenza. Se quanto detto ha una sua plausibilità esplicativa, sarebbe opportuno cercare di circoscrivere il concetto di cultura, per quanti limiti ogni formula definitoria porti con sé. Ogni azione e pratica umana che abbia un carattere trasmissibile, non geneticamente s’intende, e nello stesso tempo simbolico (sociale e psicologico) rientra nella sfera culturale: per capirci mangiare con una forchetta è una pratica culturale allo stesso modo in cui lo è andare a teatro. In tutte le culture esiste una parte di conoscenza data per scontata e non tematizzata, alla quale nella teoria sociale sono stati dati di volta in volta nomi diversi quali “senso comune” (Schütz), “egemonia” (Gramsci), o “doxa” (Bourdieu). Questo significa anche che non tutte le culture sono necessariamente interpretate dai soggetti agenti: per dirla con Bourdieu l’«universo del discorso» coesiste sempre con un «universo dell’indiscusso» almeno altrettanto esteso. “In altri termini, l’intenzionalità, la razionalità, l’interesse e il calcolo non sono al principio di tutta l’azione umana: nella realtà esiste una pluralità di logiche di azione che si differenziano proprio per il grado di riflessività del rapporto che il soggetto intrattiene con il proprio agire e che possono essere collocate su un continuum che va dal polo dell’azione totalmente cosciente a quello dell’azione totalmente irriflessiva[3]”. 

Per tornare al tema in questione i punti aperti rimangono davvero molti. Soltanto per restare sul piano della trasmissione temporale o generazionale, il vino, non meno di altre pratiche culturali, fa parte di una catena interrotta o parzialmente interrotta: quello che era comune per altre generazioni, pasteggiare sempre con il vino ad esempio, non lo è più da tempo. E le ragioni sono diverse e sedimentate negli anni (salute e salutismo, controllo repressivo, scomparse generazionali e mutazioni del senso comune, nuove pratiche comunicative, prezzi al consumo…)

Lo stesso potrebbe dirsi per un altro fenomeno che ha assunto un’enorme rilevanza nel corso degli ultimi decenni: il consumo del vino è uscito quasi completamente dal polo dell’azione culturale irriflessiva. Per lunghissimi decenni, a parte strettissime cerchie di critici e accoliti del vino pensato e ragionato, il consumo del vino apparteneva ad un campo culturale, mi si passino i termini, endogeno, ovvio, oserei dire ordinario: lo si beveva, insomma, perché così era la prassi familiare, amicale, comunitaria, di classe, sociale e così via. Dopo di che il vino, non meno della politica e di altre belle arti, ha rivendicato a sé, gradatamente, uno statuto di separatezza e di specializzazione cognitiva. Specializzazione che si è riversata sempre più in cerchie di professionisti. Chi ha contribuito a tutto questo? Diversi soggetti: associazioni di sommellerie, stampa specializzata, produttori, associazioni di consumatori, blogger come noi, corsi universitari, investitori… e via dicendo. Nulla di male o di bene in sé: è semplicemente una constatazione. Mai come oggi il vino, prima di essere bevuto (e sottolineo il prima cosciente), deve essere pensato, ragionato e valutato. Il balzo trentennale più evidente mi pare che sia stato proprio questo: il cambiamento di paradigma culturale. Ora, la domanda che pongo è questa (domanda che ne tiene molte altre assieme): è forse plausibile che le nuove generazioni si rivolgano a quelle bevande alcoliche che non abbiano necessariamente un contenuto culturale riflessivo ad alta gradazione come il vino? Non rappresentano, forse, i cocktail, per tornare a citare Jacopo, degli artefatti componibili a piacimento più rispondenti a delle partiche culturali mixo-logiche come la musica, la moda, le fotografie e i social in genere? E aggiungo, per finire, un’altra domanda: è sufficiente cambiare modelli comunicativi per modificare il senso percepito e praticato del vino?


[1] JACOPO COSSATER, Il mondo del vino non sa che fare con i Millennial, in https://www.editorialedomani.it/fatti/vino-divano-jacopo-cossater-millennial-ht4ew6ef

[2] Angelo Peretti, Il vino, i mercanti e gli uomini saccenti, in http://internetgourmet.it/vino-mercanti-gli-uomini-saccenti/

[3] Pier Paolo Giglioli, Paola Ravaioli, Bisogna davvero dimenticare il concetto di cultura? Replica ai colleghi antropologi in Rassegna Italiana di Sociologia (ISSN 0486-0349) Fascicolo 2, aprile-giugno 2004

Sputare il vino e la sputacchiera: un’analisi fisico-matematica

Par Handlan Company — 1893 Handlan Company catalogue via [Handlan Company], Domaine public, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=8636689

L’Ente Benefico per lo Studio del Movimento dei Corpi, delle Sostanze e di Qualsivoglia cosa si muova per volontà di qualcuno o per i fatti suoi (EBSMCSQ), ha realizzato uno studio approfondito sulla cinematica dello sputo da degustazione del vino, calcolando in maniera molto precisa il rapporto tra il bevitore, la sputacchiera e lo sputo di vino (pendenza, forza, quantità, rimbalzo).

Il lavoro è stato condotto per via retrospettiva grazie all’analisi fotogrammi delle riprese delle telecamere presenti in alcuni contesti di assaggio.

La valutazione fisico-matematica ha dovuto tenere conto non solo delle variabili misurabili tra i tre elementi sopradescritti, ma anche delle relazioni ambientali, quali gli urti o gli spostamenti di altri convenuti, le sottrazioni di sputacchiere in fase di fuoriuscita del liquido dalla bocca, il sollevamento della sputacchiera vuota/semivuota, piena e troppo piena, con i relativi aggiustamenti posturali di equilibrio e di sforzo dell’avambraccio.  

In alcuni casi l’evento sputo ha incontrato la variante della simultaneità del vino versato da calice nel medesimo recipiente: in questo caso ci si è avvalsi del calcolo del vettore di velocità istantanea:

Dove Vt1 è lo sputante, mentre Vt2 è il versante del vino da calice nella sputacchiera. Come si nota dal grafico l’atteggiamento di Vt2 è quantomeno scostante, detto altrimenti antipatico.

Il successivo grafico rappresenta la traiettoria dello sputo di vino da A a B (sottrattore di sputacchiera) e il malcapitato C passato da lì per caso:

Al grafico va aggiunto il calcolo del pugno sferrato da C a B calcolato nella misura da 8.5 m/s per non professionisti a 11 m/s per professionisti.

Ai fini di un calcolo preciso della gittata di uno sputo di vino nella sputacchiera sono state adottate le tecniche note dei calcoli balistici secondo cui essa è “equivalente alla differenza tra punto di arrivo e punto di partenza, dove il punto di arrivo coincide con il punto di contatto con il suolo e il punto di partenza coincide col punto in cui avviene il lancio. L’intervallo temporale in cui il corpo è in aria è detto tempo di volo”.

Sebbene l’equazione da risolvere sia piuttosto semplice,

a patto di imporre y=0 cioè stabilendo il teorico punto di atterraggio dello sputo lanciato, più complesse si sono rilevati i calcoli legati alla consistenza del vino. Sappiamo, per certo, che la consistenza di un vino a basso estratto secco netto (14 g/l), secondo la nota formula di Tabarié, D e= 1 + Dv – Dd, ha una maggior gittata rispetto al vino con maggiore estratto secco netto (18 g/L).

Non sapendo poi se il bevitore era anche a stomaco vuoto, abbiamo deciso di eseguire un calcolo a partire da massima altezza dello sputo, ben consci che il moto parabolico è simmetrico rispetto all’asse passante per il vertice e parallelo all’asse y e che l’ascissa del punto di atterraggio è due volte l’ascissa del vertice della parabola.

Dunque

Non paghi del lavoro di ricerca sin qui svolto, l’EBSMCSQ è stato felicemente ammesso ai nuovi finanziamenti del poderoso PNRRAV Piano Nazionale di Ripresa, Resilienza e Amenità Varie per approfondire alcuni temi appena accennati: il rimbalzo dello sputo del vino sulla sputacchiera in presenza di altri convenuti; le reazioni dei presenti sia in termini psichici che fisici; lo sporco impossibile.  

Altri lavori verteranno sull’equilibrio da sollevamento con mano sola di sputacchiera piena dotata di presa (pomello) sguisciante e i rischi di sversamento totale del liquido.

Non vedo l’ora di darvene conto

Che vino abbinare alla Terza Guerra Mondiale?

9 agosto 1945: il fungo atomico, causato da Fat Man su Nagasaki, raggiunse un’altezza di 18 km.
Di Charles Levy – U.S. National Archives and Records Administration, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=56719

Odio i potenti e i loro lacchè

L’ultimo pasto richiederà un atteggiamento sereno e composto finalizzato a creare un clima familiare e amicale caldo e intenso. Rimetteremo molti peccati e altrettanti saranno rimessi a noi: ci guarderemo intensamente negli occhi dispiaciuti per tutte le volte che i granelli di sabbia si sono trasformati in travi.

La Terza Guerra Mondiale avrà sicuramente una serie di controindicazioni ed un unico vantaggio di grande rilievo: nessuno sentirà i postumi di ciò che ha mangiato o bevuto. Sarà importante, quindi, ragionare in maniera accorta sia sui cibi che sui vini. Non occorrerà, a mio avviso, concentrarsi sui vini più costosi, ma soltanto su quelli che sono stati prediletti in passato o bramati e mai gustati.   

Sarà apprezzabile, quindi, che la lista dei cibi e dei vini o delle bevande in generale venga compilata tenendo conto delle inclinazioni di ognuno. Allo stesso tempo non sarà necessario ragionare sulle consonanze tra gli uni e gli altri, poiché potrebbero esserci delle importanti discordanze tra piatti, vini e alcune preferenze individuali. Per una volta concediamoci di mangiare e di bere soltanto quello che più piace.

Gli acquisti andranno fatti a tempo debito: meglio se a cavallo tra l’uso delle armi tattiche nucleari e il decollo su aerei privati dei presidenti delle maggiori potenze mondiali.

Si dovranno cercare quei vini di pregio prodotti in determinate annate, supponendo che siano arrivati al massimo della loro espressività e pienezza sensoriale: sarà il caso, per evitare plausibili sbagli, di prenderne alcune concomitanti. Ancora una volta potremo renderci conto che alcuni vini di annate recenti sono più pronti alla beva di altri lontani nel tempo e che le concezioni relative alla maturità fenolica andrebbero intensamente dibattute. Non parliamo poi degli annosi alterchi sui vini naturali.  E non vi è alcun dubbio che molti punteggi andrebbero rivisti e forse la nozione stessa di classifica. Ma nessuno potrà scriverci sopra o comunicare le recenti scoperte a chicchessia.

Ma non prendiamocela a male: in questo modo saranno evitate tediosissime discussioni sui social.

Il “vinese” e altre cose di questo tipo: le semplificazioni che banalizzano

Di Giotto – Giotto di Bondone, Stoltezza Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1170281

Il potere, secondo Foucault, è “la molteplicità dei rapporti, di forze immanenti al campo in cui si esercitano e costitutivi della loro organizzazione; il gioco che attraverso lotte e scontri incessanti, li trasforma, li rafforza, li inverte; gli appoggi che questi rapporti di forza trovano gli uni negli altri, in modo da formare una catena o un sistema, o, al contrario, le contraddizioni che li isolano gli uni dagli altri; le strategie, infine, in cui si realizzano i loro effetti, e il cui disegno generale o la cui cristallizzazione istituzionale prendono corpo negli apparati statali, nella formulazione della legge, nelle egemonie sociali1”.

Il linguaggio, e non soltanto la lingua intesa come struttura delle regole grammaticali, sintattiche ed espressive, è senza dubbio una pratica sociale che inerisce a tali rapporti di forza e, nel contempo, contribuisce a crearli. Così come ogni pratica sociale il linguaggio non è mai stabile, definito, cristallizzabile: assorbe, mutua, esclude, si allea, forma, distorce, semplifica, chiarifica, complica, inaridisce, fluttua, configge. Si potrebbe parlare a lungo delle parole introdotte da altre lingue (inglesismi, francesismi prima, germanismi…), di nuovi lemmi, di parole troncate per uso telematico, di discorsi che si specificano e di quelli che si ancorano non tanto per non perdersi, ma per conservare poteri economici, giudiziari e di tanto altro ancora.

Ogni tanto si legge, qua e là, qualche appello alla “democratizzazione” della lingua, contro gli “–ese” portatori di una insopportabile specificazione e complicazione della stessa: contro il “politichese”, il “sindacalese”, il “giornalese”, il “burocratese”, il “gastronomese”, il “vinese” e domani chissà. Ogni categoria sociale ed economica trova i suoi “–ese” contro cui discordare e contro cui rivendicare il diritto alla comprensibilità. Ma, in realtà, non è di costei che si parla.

Quando scorgo questi appelli, ad una sensazione di immediato fastidio, segue un’orticaria diffusa. Mi irritano molto e spiego il perché: prima di tutto il pulpito. Sarà perché ho maturato una sorta di diffidenza personale alle prediche che lastricano cattive strade, allo stesso modo quello che vedo è un potere costituito o costituente che rivendica a sé il diritto al miglioramento della vita altrui e della cognizione altrui: similmente al discorso del “buon senso”, perpetrato da una fetta ragguardevole delle compagini politiche tutt’ora dominanti, si cambiano gli addendi senza che di una nuova somma benefici alcuno. La semplificazione non è volta, in altro modo, ad agevolare la chiarezza, ma serve a fissare delle posizioni dominanti. Lontano da qualsiasi intento di democratizzazione di una lingua, l’appianamento dall’alto non è altro che l’anticamera dell’inaridimento e della banalizzazione dei concetti ad uso di nuovi e vecchi potentati. Dove la lingua accentua, al contrario, il suo valore di distinzione sociale, una lingua a cui non viene chiesta alcuna ammenda, è in tutti quei campi in cui piccole o grandi corporazioni non hanno alcune benché minima intenzione di cedere il passo. E a cui le controparti si genuflettono in doveroso ossequio.

Leggere, dunque, il linguaggio e i suoi discorsi all’interno delle pratiche sociali diffuse e intimamente politiche aiuta ad evirare alcuni equivoci di fondo: ogni campo di saperi, mai neutro o neutrale, costruisce nel tempo, non senza rotture, continuità, contaminazioni, conflitti… un proprio vocabolario, delle locuzioni specifiche, dei modi di dire, delle convenzioni, delle sintassi e via discorrendo. Tanto che si parli di medicina, di farmacologia, di fisica, di elettronica, di falegnameria, di arte, di vitivinicoltura, di gastronomia o di calcio. Quando un discorso è ampiamente strutturato e condiviso significa che esso è egemonico e che egemonico è il potere politico da cui dipende, da cui si struttura e che contribuisce a formare e organizzare. Quando si affacciano nuove parole, nuove sintassi, che sia il “rap” o il termine “naturale”, che ci possano piacere o meno, significa che dei gruppi sociali, produttivi o altro stanno cercando di affermare se stessi e che facendo questo cominciano ad infrangere dei codici comunicativi esistenti su cui altre compagini sociali hanno definito il loro ruolo di comando all’interno della società. Noi parliamo, pensiamo e agiamo, ci ridefiniamo, anche qui ci piaccia di più o di meno, attraverso queste strutture sociali: per dirla alla Roland Barthes “dire che esiste una cultura borghese è falso, perché tutta la nostra cultura è borghese (…) Dove risiede allora il lavoro della cultura su se stessa, dove le sue contraddizioni, dove la sua disgrazia? Per rispondere, dobbiamo, nonostante il paradosso epistemologico posto dall’oggetto, tentare una definizione, la più vaga possibile, beninteso: la cultura è un campo di dispersione. Di che cosa? Dei linguaggi. Nella nostra cultura, nella pace culturale, la Pax culturalis cui siamo soggetti, si svolge una implacabile guerra dei linguaggi: i nostri linguaggi si escludono reciprocamente; in una società divisa (dalle classi sociali, dal denaro, dall’estrazione scolastica), anche il linguaggio divide2”.

Il linguaggio divide perché la società, nel suo complesso, è divisa: per competenze, non necessariamente in modo verticale, e verticalmente per appartenenza sociale.

I linguaggi del vino e della degustazione, come ogni altro linguaggio, si formano all’interno di quei gruppi che, egemonicamente, mantengono i poteri regolativi, economici e comunicativi: la sommellerie, tanto per capirci. Ma non solo: una serie di nuovi linguaggi hanno fatto la loro irruzione attraverso nuove forme di comunicazione, come alcuni siti e blog collettivi o individuali. E poi, diversamente, la filosofia, la sociologia, la politica, l’ecologia, l’antropologia, l’economia finanziaria, l’economia produttiva, il costume. La partita si gioca lì dentro e non al di fuori: il consumatore finale disinteressato all’argomento è oggetto ad altre occupazioni, a cui rivolgerà adeguate e minimali attenzioni. La semplificazione del linguaggio volta a cogliere una sua più pronta attitudine all’apprezzamento del vino è assolutamente pretestuosa: il vero coinvolgimento porterà il novizio ad assumere uno o più linguaggi del vino, a discuterli, a confrontarli e, eventualmente, a respingerli, a modificarli, ad innovarli. E così il linguaggio, con la sua ricchezza, varietà, contraddittorietà, incompletezza torna ad essere prepotentemente una pratica sociale e politica.

Per concludere: storicamente ogni processo di emancipazione e di liberazione comincia dalla necessità di comprendere e di acquisire la più grande parte di ciò che la cultura, al momento dominante, detiene. Imparare a leggere e a fare di conto è parte non eludibile dei requisiti necessari per potersi confrontare. Ed è così ogni volta che entriamo in un novo mondo: impariamo a leggere e fare di conto.

1 M. Foucault, La volontà di sapere, Milano 1978, p. 82

2 Roland Barthes, La pace culturale, pubblicato sul “Times, Litterary Supplement” del 1971, in Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988, pp. 99, 100