Dal “deserto di Accona” ad oggi. Viticoltura e clima, dove andiamo? Di Stefano Cinelli Colombini

Oggi si fa un grande parlare di cambiamenti climatici, ma in realtà chi si occupa di agricoltura sa che la situazione ha iniziato a virare verso il caldo e la siccità già dagli anni ’80. Io me ne accorsi nel 1981. La mia famiglia ha terre anche nelle Crete Senesi, il posto più esposto ai mutamenti climatici della Provincia di Siena perché è il più caldo e arido. Non a caso da quelle parti c’è il “deserto di Accona”, l’unico pezzo di Toscana chiamato così. Nel 1981 mi trovai ad affrontare qualcosa di mai visto: il suolo era durissimo, ed arando emergevano delle enormi “fette” di terra che a novembre non si erano ancora sbriciolate. Il caldo e la siccità le avevano cotte, dopo un mese avremmo dovuto seminarle ma non c’era modo. Quasi tutti i vicini rinunciarono, io comprai due frese a martelli e piano piano resi seminabili tutti i 180 ettari di campi dell’azienda. Costò una fortuna tra attrezzi, gasolio e tempo, ma in tutta Italia pochi avevano seminato e così il prezzo del grano duro esplose dalle normali trentamila Lire a quasi ottantamila per quintale, e alla fine ci guadagnai parecchio. Successe ancora nel 1988 e nel 1989, e poi la situazione parve normalizzarsi fino ai terribilmente secchi 2000, 2001 e (soprattutto) 2003. A quel punto iniziai a dire che era necessario affrontare il problema, attrezzarsi per l’irrigazione e creare bacini, ma poi smisi perché vidi che quest’idea non era per niente condivisa. Non mi va di passare per visionario o, peggio, per menagramo.

Crete Senesi Biancane Veduta del versante de Le Fiorentine, di fronte a Leonina nel settembre 2008 Di Gunther Tschuch – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4903601

A questo punto vorrei che perdeste un attimo su un fatto oggettivo, che però nessuno nota: il modo “storico” di fare agricoltura nel Senese è adatto solo ad un clima caldo e secco. È analoga a quella del sud del Mediterraneo, Siria o Tunisia. Solo cereali da arido, grano duro e orzo, molto olivo, vite piantata a filari larghi con i cereali coltivati nel mezzo o molto fitta in piccole parcelle in zone molto vocate. Come unici animali da allevamento la pecora, a cui bastano pascoli poveri, e il maiale che ricicla ogni avanzo. I bovini erano solo animali da lavoro, mai da carne o da latte. Niente cavalli, solo i pochi dei signori, al limite qualche asino. Mancava l’acqua, per cui si erano realizzati decine di migliaia di fontoni (piccoli bacini per la raccolta delle acque piovane), e grandi “colmate” (bacini di sbarramento degli avvallamenti) dove possibile. Le uve erano quasi solo Sangiovese per i rossi e Trebbiano per i bianchi, varietà che marciscono subito se piove ma reggono bene a lunghi periodi di caldo e siccità, anche estrema: quando non ce la fanno più vanno in blocco, chiudono gli stomi e appena piove un minimo o raffresca ripartono e vanno a maturazione. Anche i poderi sono fatti per il caldo: sono nei punti più ventilati, hanno larghi muri “a sacco”, poche finestre piccole, tetti a docci e tegole non isolati che oggi chiameremmo “ventilati”, con poca pendenza e del tutto inadatti alla neve, al freddo o a forti piogge. Ma perfetti per il caldo. Nel Senese tutto questo è troppo diffuso per essere casuale, è evidente che le siccità erano così frequenti da costringere gli agricoltori a questa agricoltura misera, da clima arido. Lo dico anche senza consultare le serie storiche sul clima, che fino ad anni recenti sono poco affidabili. Lo si nota anche nei quadri toscani, dove i terreni sono spogli, secchi e non c’è mai neve o cieli nuvolosi: con il rinascimento compare un po’ di verde, ma non esiste un equivalente senese della Tempesta del Giorgione.

Nel secondo dopoguerra la situazione cambia. C’è un periodo freddo e umido, e arrivano sia la meccanizzazione diffusa che l’agricoltura chimica. Altrove c’erano da tempo, ma non nel Senese. Gli agricoltori pensano di potere (e dovere) cambiare tutto, anche perché il crollo dei prezzi agricoli aveva portato a una terribile miseria e alla fuga dalle campagne: per sopravvivere era necessario reagire, così si agì senza badare troppo alle conseguenze di lungo periodo. La vigna non si pianta più dove c’è un terreno e un clima ideale, ma in ogni suolo delle DOCG e DOC di maggior successo. La disponibilità di mezzi movimento terra a basso costo permette titanici rimodellamenti dei suoli, che spesso ignorano ogni logica idro-geologica e quasi sempre usano lo strato fertile per riempire avvallamenti. Si abbandona l’alternanza tra cereali e prati perché la forza motrice ora è fornita dalle macchine, e non c’è più necessità di produrre erba per alimentare gli animali. E poi la concimazione chimica costa meno, è semplice da usare e rende molto più di quella organica. Di conseguenza c’è una proliferazione enorme delle malerbe, che vengono combattute con uso sempre più massiccio dei diserbi. Lo stesso avviene nelle vigne, dove così si favorisce la proliferazione di piante resistenti al diserbo. I campi vengono estesi sempre di più, togliendo gli alberi giganteschi che erano indispensabili per dare riposo e frescura alle bestie da lavoro (e a chi le usava) durante l’aratura estiva: ora, con i trattori, erano inutili. Le siepi confinarie fanno la stessa fine. Si introducono colture irrigue come il mais, che hanno bisogno di tanta acqua e di terreni resi quasi sterili dai diserbi. Si produce di più, molto di più. Tutto questo provoca il decadimento e poi la fine dell’attività biologica di molti suoli e, a caduta, un aumento esponenziale dell’erosione: negli anni ’80 e ’90 non è raro vedere vigne nei pendii con palchi alti un metro e venti in cima e quaranta o cinquanta centimetri in basso, perché il suolo è stato portato a valle dalle piogge. Ad ogni acquazzone le fossette si riempiono, e aumentano le frane. Nei seminativi estensivi compare la cicuta, pianta che prospera solo nei suoli privi di attività biologica. L’agricoltura del Senese a fine anni ’90 è così, certo c’erano eccezioni come la mia Fattoria dei Barbi ma il quadro generale è questo: forse sostenibile in periodi freddi e piovosi, ma non in tempi di siccità.

Nel 1999 la mia famiglia ha diviso a metà i beni agricoli tra me e mia sorella, e io mi sono trovato per la prima volta nella condizione di poter decidere da solo per la Fattoria dei Barbi. Per dieci anni la divisione aveva bloccato ogni investimento, e il reimpianto dei vigneti non poteva più essere rinviato. Anche perché la situazione di cui ho parlato sopra e il mal dell’esca avevano accorciato drasticamente il ciclo vitale della vite in Toscana, che oggi è tra i venti e i trenta anni. Avevo seguito i lavori del Progetto Chianti 2000 e altri simili, che avevano messo in discussione tutte le certezze sull’allevamento della vite in Toscana e avevano sperimentato ogni tipo di clone, portainnesto, concimazione e sistema di allevamento in ogni terreno e in modo incrociato così da dare un’idea aggiornata di cosa fare nel clima di oggi. Sapevo che dovevo cambiare e, anche se gli altri non ci credevano, ero sicuro che il clima sarebbe peggiorato. Per questo utilizzai quegli studi, e i consigli preziosi di un mio cugino che è uno dei più grandi docenti universitari di viticoltura, il prof. Cesare Intrieri. Ma anche tanti ricordi di vecchi esperti di viticoltura che avevo colto parlando con loro. Cambiai il metodo di preparazione dei vigneti, ri-adottando quelle normali buone pratiche che noi (e tanti altri) avevamo abbandonato. Ora il mezzo metro di terreno fertile viene sempre messo da parte prima dello scasso, poi si fa un moderato rimodellamento dei suoli e si lasciano al loro posto gli alberi monumentali. In caso di pendenze si spezza in più parti il vigneto, e si fanno stradoni per fermare l’erosione. Dopo aver sistemato il terreno si rimette lo strato fertile e su quello si pianta la vigna. Ma, soprattutto, ho adottato un sistema di allevamento nato per tenere in equilibrio naturale la vite. Da secoli, e forse da millenni, ovunque nel mondo alleviamo vigne “bonsai”: con infinite potature costringiamo una pianta rampicante gigante a nanizzarsi, ma perché? Costa tantissimo, e espone a molte patologie che partono dai tagli troppo frequenti e troppo estesi. Il prof. Intrieri è soprattutto uno studioso della fisiologia della vite, e ha inventato un sistema di allevamento che (a regime) richiede solo potature minime perché da il naturale sfogo alla pianta: il Cordone Libero. Non sto a descriverlo, lo trovate su internet, qui basta dire che riduce molto la quantità di foglie che però sono tutte esposte al sole, per cui lavorano tutte sempre: questo fa calare il fabbisogno di acqua (meno foglie, meno evaporazione), ma aumenta la “potenza” del “motore” fotosintetico della vite perché tutte quelle poche foglie lavorano, mentre nei cordoni tradizionali la metà o più è coperta dalle altre e non lavora. Per cui il Cordone Libero soffre meno la siccità, e in genere matura bene l’uva anche in stagioni avverse. Meno foglie e niente affastellamento vuol dire meno esposizione alle patologie, per cui meno fitofarmaci. L’unico inconveniente è che produce poca uva, ma nel caso dei vini di pregio questo non è un limite. Cosa altro ho fatto? Ho ridotto la densità di impianto. Può sembrare un’eresia, ma in una situazione di frequente siccità la competizione per l’acqua deve diminuire. Meno piante, meno competizione. Oggi metto da 4.000 a 5.000 piante per ettaro, a seconda dei limiti imposti da Disciplinari, e lascio un interfilare di tre metri per dare libero sfogo ai tralci ed evitare che si facciano ombra tra di loro. La concimazione è quasi solo organica, e pratichiamo a filari alterni l’inerbimento; non su ogni fila, perché altrimenti il terreno potrebbe non assorbire tutta l’acqua che cade. E già è poca. Se la siccità è forte, come ora, rimuoviamo l’inerbimento con una rippatura molto superficiale per eliminare l’evaporazione capillare. Questo costringe l’umidità a tornare in basso. Se necessario lo facciamo più volte, è un metodo antico ma efficace. Non usiamo diserbo, lavoriamo quando necessario il sotto-fila. Ogni tre o quattro anni, a seconda dei terreni, passiamo a filari alterni con un aratro talpa, un erpice mono-dente che penetra per 1-1,2 metri e termina in una palla, che è trascinata velocemente e spacca le radici delle viti a centro filare costringendo la pianta a rinnovarle. Questo la “ringiovanisce”, e la forza ad approfondire l’apparato radicale alla ricerca dell’acqua. Curiamo molto la salute della chioma, non usiamo insetticidi ma da vent’anni seminiamo insetti. Stiamo sperimentando prodotti che favoriscono la resistenza naturale della vite alle malattie e la resistenza ai climi estremi, ma non abbiamo risultati definitivi. Per ora non siamo certificati bio perché non amo le complicazioni burocratiche e credo poco nel rame, ma usiamo quasi solo prodotti bio. Non credo neppure nella biodinamica, nel suo corno-letame o nel suo oroscopo, per carità, ma guardo con attenzione certe loro pratiche. Nessuna delle cose che facciamo è di per sé risolutiva, ma nel loro insieme mettono le viti in grado di affrontare meglio climi ostili, siccità o caldo eccessivo e basta andare in vigna in questi giorni di siccità per constatarlo. Credo più in queste cose che nell’irrigazione, perché quando è davvero caldo puoi irrigare quanto vuoi ma se la pianta non è resistente di suo non ce la fa. I risultati hanno richiesto anni, e la differenza si nota di più nelle annate avverse perché riusciamo sempre ad avere buone uve. Poi naturalmente l’eccellenza è figlia della natura, e si fa solo in anni speciali. La Fattoria dei Barbi non è unica, tutto Montalcino ha adottato pratiche di questo tipo e le ricadute sulla qualità sono evidenti. C’è sempre più agricoltura sostenibile in Toscana, ovunque, non si diffonde rapidamente come a Montalcino ma sta arrivando. La cosa divertente è che tutti questi accorgimenti non producono costi aggiuntivi, anzi.

Questa è l’esperienza della Fattoria dei Barbi, che non ha la pretesa di essere un caso di scuola. Quello che si può trarre dalla nostra storia non sono le singole azioni, che in situazioni diverse potrebbero essere inutili o non replicabili, è l’idea che l’agricoltura non va fatta in modo statico. Casomai, credo che una analisi del nostro caso dovrebbe stimolare qualche domanda sul dove vogliamo andare. Quest’anno l’acqua manca, ed è probabile che non sarà un fenomeno isolato. In questa situazione, non è il caso di ripensare all’intera viticoltura prima che l’emergenza ci costringa a farlo? È realistico pensare che l’irrigazione di soccorso diventerà una prassi normale, ma proprio per questo sarebbe utile porsi un problema: ci possiamo ancora permettere di piantare le vigne ovunque? Non è il caso di tornare alle sole zone realmente vocate, invece di piantare in ogni parte delle DO di successo? O dove vuole il proprietario, che magari fino a ieri faceva il creativo a Milano e ora vuole re-inventare l’agricoltura? Non è il caso di inserire l’analisi pedologica nei Disciplinari, limitando la possibilità di produrre ai soli terreni biologicamente vivi? Forse, per le produzioni oltre 120 quintali per ettaro avrebbe un senso proibire ogni forma di irrigazione: se la natura porta a maturazione l’uva va bene, ma se queste rese esistono solo grazie all’uso di acqua irrigua (che manca) che senso hanno? Queste non sono provocazioni, sono i pensieri realistici di un conservatore che spera di salvare l’essenza della viticoltura adattandosi ai cambiamenti prima che ci travolgano. Capisco che molti hanno legittimi interessi a continuare a fare come è stato sempre fatto, ma sarà possibile? Temo di no.

Gian Luca Colombo alle prese con una rovente milonga

Gian Luca, oltre a produrre vino https://www.segnidilanga.it/ (e piuttosto bene), ogni tanto interviene nei pubblici dibattiti (prendendosi ortaggi figurati). Poco tempo fa si era espresso sul clima, sulla vitivinicoltura, sulle sfide che aspettano i viticoltori e così via. Ci sono tornato su con una bella intervista.

Vigna di Roddi dove Gian Luca produce Nebbiolo e Pelaverga
  • Buongiorno Gian Luca, partiamo subito dalla domanda che è all’origine di questa intervista: in un tuo intervento in rete sul cambiamento climatico e il surriscaldamento del pianeta alcuni utenti ti hanno attaccato dicendo che la viticoltura è finita, che dovresti cambiare colture e via dicendo.
  • Buongiorno a te. Sul fatto che il riscaldamento globale ci sia e sia pienamente individuabile non vi è alcun dubbio.  Collaboro con i ragazzi di “Dati Meteo Asti” https://datimeteoasti.it/, Luca Leucci e Paolo Matteo Faggella che, pro bono, stanno facendo analisi metereologiche continue e coi quali abbiamo installato stazioni di monitoraggio nelle mie vigne per valutare le condizioni atmosferiche e poter prendere decisioni corrette in campagna: “Sulle Langhe l’inverno 2021-22 è stato quasi ovunque il 2° più mite mai registrato, dietro solo al recente 2019-20. Prendendo come riferimento la località di Somano (CN, 626 m), la stagione ha fatto registrare un’anomalia di +3,0°C sulla media 1991-2020: la temperatura media di 5,9°C è stata inferiore di appena 0,3°C rispetto al record del 2019-20 (6,2°C). Sulle Langhe febbraio è stato caratterizzato da una temperatura media di oltre 7°C, valore quasi 4°C oltre la media 1991-2020 e tipico del mese di marzo, tanto che sulle Langhe la primavera è arrivata con un mese di anticipo e non si sono fatte attendere le prime fioriture precoci, specie di mandorli ed albicocchi” (dal sito datimeteoasti). Le piante, soprattutto quelle nuove, fanno fatica a crescere nell’apparato radicale. Questo significa lavorare su portinnesti che vadano in profondità o che siano poco esigenti in acqua. Pensa che quest’anno, da gennaio, abbiamo avuto una media di piovosità di 130 mm di acqua a fronte di 800 mm che è la media storica. Per tornare alla tua domanda iniziale: il cambiamento climatico è evidente e radicale, ma di qui a dire che non abbiamo strumenti o che dobbiamo piantare banane in Langa ce ne passa e di molto! Mi sembrano posizioni puerili e populistiche!
Gian Luca Colombo
Azienda Agricola Segni di Langa
Località Ravinali 25
12060 Roddi (Cn)
tel. +393803945151
http://www.segnidilanga.it
  • Ho notato che le anomalie climatiche riguardano anche altri fenomeni, come le gelate primaverili che giungono improvvise dopo la germogliatura.
  • E’ così: a marzo 2022 abbassamenti termici importanti. Le viti hanno germogliato ma non si sono sviluppate e per ben due settimane le noctue[1] hanno mangiato che era un gran piacere. Il 6,7 aprile nuova gelata sui germogli lunghi (- 7 sottozero). Alle cinque di mattino sono andato a dare la valeriana che però permette un rialzo di soli tre gradi. Quello che dico è che tutto questo deve essere gestito: in questo momento è essenziale innanzitutto ripensare la gestione dei vigneti, adattandosi alle condizioni climatiche del momento e gestendo di conseguenza le lavorazioni. Ad esempio: sfemminellatura sì o no, e se sì come farla. Cimatura sì o no e se sì come e quanto. Potatura invernale (rischio gelate in molte zone) sì o no e quando. E così via
  •  Questo cambia in maniera significativa anche il concetto di cru
  • Anche questo sta diventando evidente: i sud pieni o sud-ovest magari non rispondono più ai criteri di qualità che potevano avere un tempo, mentre, ad esempio, un est pieno a 380 metri sì. Anche su questo bisognerebbe avere un approccio più laico e sperimentale.
Sostanza organica e biodiversità colturale
  • Che tipo di lavorazioni esegui sul terreno?
  • Sostanzialmente lavorazioni del terreno per limitare la risalita capillare dell’acqua e per far entrare in profondità quella piovana (infatti gli eventi piovosi sono sempre più rari e violenti, grandine compresa). Quest’ anno, ad esempio, ho lavorato i terreni in uno stile che potremmo chiamare “isolano” (Sicilia e Sardegna), al fine di non perdere troppa acqua dal terreno. Ad esempio non ho usato l’inerbimento intra filare che va in competizione con le viti. E mi sono pentito di non aver fatto i nuovi impianti adottando l’alberello. La difesa del vigneto, anche in biologico, consente l’utilizzo di elementi come le alghe che limitano l’evapotraspirazione delle piante riducendo lo stress, etc.etc. Per dirla tutta, gli agronomi bravi servono e fanno la differenza (io lavoro con Roberto Abate, poi c’è Maurizio Gily etc. etc.) e forse sono ancora più importanti degli enologi (poi non sono mica tuttologo – e ride)
  • Quindi ritieni che l’approccio aziendale debba essere in qualche modo funzionale al recupero di un rapporto di interscambio con la natura circostante?
  • Un’azienda vitivinicola non ha nulla della circolarità essenziale per ridurre inquinamenti e sprechi, non aiuta la riduzione di CO2. Prende molto e poco dà alla natura. Ed è per questo che ritengo che noi tutti viticoltori dovremmo rivedere il concetto aziendale, non dico che sia essenziale il passaggio in biodinamica, credo però che la biodinamica dia una montagna di indicazioni per migliorare tutti gli aspetti dell’azienda agricola.
  • Come sei arrivato alla biodinamica?
  • Inizialmente non la consideravo proprio, anzi la disprezzavo quasi. Non capivo tutta la parte che si riferiva agli elementi spirituali. Poi ho fatto degli assaggi: i migliori e i peggiori vini che io abbia mai assaggiato sono fatti in biodinamica e ho pensato che se si poteva arrivare a certi risultati di grandezza ci doveva essere qualcosa di buono, di molto buono. Il lavoro essenziale è basato sull’incremento della sostanza organica nel terreno che svolge il ruolo di spugna nei confronti dell’acqua, ne fa assorbire molta di più al terreno, la rende più disponibile alle piante e per più tempo, limita le erosioni e i ruscellamenti che generano frane. Il terreno, come dice il mio agronomo, costituisce le fondamenta della casa viticola: se non funziona quello crolla l’intero edificio. Importante sarebbe anche il reinserimento degli animali, per le ragioni di cui sopra ma anche per il ritorno al movimento in azienda, che manca se lavori solo con le piante (i loro prodotti di scarto sono oro per l’azienda). E poi l’introduzione di boschi (in Langa non esistono quasi più): nei boschi molte specie utili trovano il loro habitat e ci aiutano a limitare le infestazioni di insetti; i boschi mitigano le temperature nelle vallate dove sono presenti. Lavorano sul microclima, assorbono tonnellate di CO2 etc. E ancora inserire alberi da frutto (storicamente erano presenti in tutti i vigneti), piante officinali etc. Per aumentare la presenza dei pronubi, insetti, uccelli etc. Per ricreare la complessità che è presente in natura e che noi abbiamo semplificato, con le conseguenze che vediamo.
  • Un’ultima domanda prima di salutarci. Credi che ci sia interesse per la biodinamica e per una gestione diversa del vigneto e della vitivinicoltura?
  • Guarda, la biodinamica dà risposte, non tutte naturalmente, molto razionali. Nelle nuove generazioni c’è sicuramente moto interesse (abbiamo tenuto un corso a Barolo dove c’è stato un overbooking e la stragrande maggioranza dei partecipanti erano viticoltori). Poi tornano a casa e i vecchi gli chiedono se sono diventati matti (e ride). Credo che al momento siamo solo in cinque, a Barolo, a condurre la vigna e la cantina con metodo biodinamico. In futuro si vedrà.

[1] Nottua della Vite (Noctua fimbriata) è diffusa in tutta Europa e in Nord Africa e attacca numerose piante: erbacee, da foglia e vite. In primavera le noctue riprendono l’attività alimentare a spese della vegetazione e delle gemme della vite.

Le foto sono di Gian Luca Colombo

“Negli esseri del mondo tutte le cose sono in relazione tra di loro”

dinamizzazione – la raia azienda agricola biodinamica – Gavi

Tra il 24 dicembre 1922 ed il 6 gennaio 1923 Rudolf Steiner tiene a Dornach una serie di conferenze sul tema della nascita e dello sviluppo storico della scienza[1]. Nell’ottava conferenza, tenuta il 3 gennaio 1923, Steiner fa riferimento alla ‘forza vitale’ di Stahl[2], medico e chimico vissuto tra Sei e Settecento, la cui opera fondamentale è ‘Theoria medica vera’. In tutte le conferenze Steiner insiste su un dato: la descrizione degli eventi esterni nell’antichità era profondamente ed intimamente legata alle esperienze interiori, per cui Talete parlò della nascita di tutte le cose dall’acqua proprio perché il suo temperamento era flemmatico, poiché si caratterizzava in prevalenza dall’umore composto da ‘acqua’, o ‘muco’ detti anche ‘flegma’; allo stesso modo Eraclito, di temperamento collerico, fa discendere tutto dal fuoco. La teoria degli umori è alla base della medicina galenica, che riprende e poi amplia le teorie di Alcmeone di Crotone, allievo di Pitagora, che nel VII-VI secolo a.C.  fu il primo ad avere l’idea che l’uomo fosse un microcosmo costituito dai quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco)  fondamentali. Secondo lui dall’equilibrio degli elementi, che chiamò isonomia o democrazia, derivava lo stato di salute, mentre lo stato di malattia derivava dalla monarchia, ovvero dal prevalere di un elemento sugli altri. Questa teoria venne poi ripresa da Ippocrate, padre della medicina, nel V Secolo e perfezionata da Galeno (Pergamo, 129 – Roma, 216), che aggiunse ai quattro elementi e alle loro qualità elementari (freddo, umido, secco e caldo), le complessioni che si compongono e si ricompongono, attraverso i quattro elementi, nel corpo umano determinando caratteristiche organiche e di temperamento di ogni persona, variabili a seconda delle età di ognuno: Aria – Sangue – Temperamento sanguigno – Adolescenza – Est – Umido e Caldo;  Fuoco – Bile gialla – Temperamento bilioso – Juventus ( 25 -40 anni) – Estate – Sud- Caldo e Secco; Terra – Bile Nera – Temperamento melanconico – Senectus  (40 – 65 anni) – Autunno – Ovest – Freddo e Secco; Acqua – Flegma – Temperamento flegmatico – Senium (oltre i 60 anni) – Inverno – Nord – Freddo e Umido[3]. Ciò che importa a Steiner e all’approccio antroposofico della filosofia medica di Galeno è di segnalare la stretta corrispondenza tra essere umano e mondo circostante, sia nella composizione materiale di entrambi sia nella percezione che nel vissuto di ciò che, per l’uomo, è esterno ed esteriore. Stahl che cosa fa secondo Steiner?: “Partì dal convincimento che i processi fisici e chimici che si svolgono nell’uomo non possono fondarsi sul quel tipo di fisica e di chimica che si veniva proprio allora applicando al mondo esterno. Siccome però non disponeva di null’altro, egli inventò quelle che chiamò la ‘forza vitale’. In tal modo lo Stahl fondò la cosiddetta scuola dinamica. Si tratta dunque di un’invenzione sostitutiva di qualcosa che era andato perduto[4]!” Stahl, riprendendo la teoria galenica sugli elementi primordiali costitutivi della terra, elabora una teoria circolare sulla migrazione degli elementi materiali nei regni della natura, dapprima attraverso il cielo, fluido, che si distingueva in etere, principio iniziale del moto di tutti i corpi naturali, ed acqua, mediatore chimico tra l’etere e  la ‘terra elementare’, ovvero il secondo elemento primordiale costitutivo della terra. La terra poteva poi essere distinta in ‘vitrescibile’, ‘calcarea’, ‘solforosa’ e flogistica’. Il flogisto era il principio di infiammabilità dei corpi ed era il costituente fondamentale di tutte le sostanze presenti nei tre regni della natura (minerale, vegetale e animale). “Tutti gli elementi materiali migravano continuamente attraverso questi regni formandovi tutti i corpi composti, e in questa loro circolazione ininterrotta gli elementi restavano sempre identici a se stessi, inalterati in tutti i differenti processi ai quali partecipavano. Il flogisto, in particolare, era abbondantemente presente nell’aria grazie alla putrefazione delle piante o alle combustioni delle sostanze infiammabili. Dall’aria, per mezzo di una parte ‘salina’, penetrava poi nelle piante reagendovi diffusamente attraverso un ulteriore processo di ‘circolazione’. In fine, grazie alla nutrizione, passava dai vegetali agli animali: e in questo modo il circolo si chiudeva e si ripeteva continuamente[5].” Stahl riprende l’idea del moto circolare e ciclico della natura, da uno dei più importanti iatrochimici di scuola paracelsiana[6] di metà del Seicento, Johann Joachim Becher: per lui la Creazione ex nihilo aveva prodotto il ‘cielo’ e la ‘terra’. Il primo era il principio universale della vita sia come luogo della creazione dei corpi sia per quanto riguarda il loro moto. La terra, invece, rappresentava il principio fisico del mondo, che al contrario del cielo, il principio formale di tutte le cose, si distingue fin dall’origine come tripartita in tre enti particolari, ovvero terra, acqua e aria. Essa era inoltre specificata nel sua tripartizione trinitaria in terra vitrescibile, in terra infiammabile e in terra mercuriale. La natura, come somma del tutto, partecipa, attraverso la ripetizione dei cicli cosmici, in una successione infinita di eventi, all’eternità[7]. Alcuni secoli più tardi, Rudolf Steiner, nel suo corso sull’agricoltura, ci riporta a questa integrazione circolare della natura quando afferma che “oggi si usa molto spesso guardare gli esseri, siano essi minerali, piante o animali ( e facendo per ora astrazione dall’uomo), che ci si presentano in natura come se fossero isolati uno dall’altro. Si è abituati a guardare oggi una pianta isolatamente, per sé, e passare poi alla specie, essa pure vista isolatamente, poi da questa a un’altra e così via. Tutte vengono elencate, classificate e incasellate secondo genere e specie, ed è tutto quel che se ne deve sapere. Ma la natura procede ben altrimenti; in natura e in genere , agiscono reciprocamente le une sulle altre. Oggi, in periodo materialistico, si usa solo seguire l’azione grossolana di una cosa sull’altra; così si osserva se una cosa viene mangiata e digerita da un animale o se il letame dell’animale arriva al campo. Si seguono soltanto queste grossolane azioni reciproche. Oltre a queste azioni grossolane, ci sono però anche scambievoli azioni, provenienti forse da sostanze più sottili: dall’elemento calore, da quello chimico-eterico continuamente operante nell’atmosfera, dall’etere di vita[8].”


[1] Cfr. Rudolf Steiner, Nascita e sviluppo storico della scienza, Editrice Antroposofica,  Milano 1982

[3] Cfr. Yann Grappe, Sulle tracce del gusto. Storia e cultura del vino nel Medioevo, Editori Laterza, Bari – Roma 2006, in particolare il capitolo primo ‘Il vino e la dietetica’.

[4] Rudolf Steiner, cit., pp. 128, 129

[5] Antonio Di Meo, Circulus Aeterni Motus. Tempo ciclico e tempo lineare nella filosofia chimica della natura, Einaudi, Torino 1996, pp. 23, 24

[6] “Col termine Iatrochimia Paracelso intese l’opera di manipolazione, da parte del medico, dei componenti messi a disposizione dalla Natura, al fine di ottenere un medicamento, mentre con il termine Spagiria volle ripescare l’assioma alchemico ‘solve et coagula’  fondendo i due vocaboli della lingua greca: spao ‘separo’ ed agheiro ‘riunisco’. Il credo spagirico di Paracelso si basava sul principio che, poiché l’uomo conteneva nel proprio microcosmo, tutte le leggi del macrocosmo ed il contrario, ecco che conoscendo le informazioni simboliche, alchemiche d’ogni elemento, separandolo e riunendolo in modi diversi, sarebbe stato possibile interagire sulle componenti spirituali e somatiche di ogni individuo. Le proprietà di ogni sostanza, secondo Paracelso, dovevano essere apprese con la “ratio et experimenta”, per cui la dottrina della scuola di iatrochimica di Paracelso pose le basi, della moderna farmacologia cioè lo studio metodologico di sostanze ad uso terapeutico. La sua dottrina divenne in breve tempo il segnale della scissione tra l’alchimia dei filosofi e le esperienze dei chimici che si dedicarono a preparare sostanze inorganiche come il cloruro d’oro, il nitrato d’argento, i sali di ferro, di rame e piombo, il nitrato di stagno, bismuto, nichel e cobalto, i composti di zolfo e arsenico, gli acidi minerali e l’acqua regia, e sostanze organiche come l’alcool etilico, gli eteri, le aldeidi e i gli estratti alcoolici di piante e di sostanze animali. Secondo Paracelso, i medicamenti dovevano essere prodotti separando le sostanze inutili ed inerti dal principio essenziale la cui purezza sarebbe stata sostanziale per le cure degli infermi. Nel 1526, il medico spagirico fu nominato professore all’Università di Basilea ove tenne il primo corso di chimica pura in lingua tedesca scandalizzando i propri colleghi universitari. Nella prima lezione egli si scagliò contro i vecchi autori come Avicenna e Mesue accusandoli, con sarcasmo, d’essere dei ciarlatani e di avere scritto opere inutili per la salute degli uomini. Uomo di laboratorio fu il primo a segnalare: l’esistenza dello zinco, a trattare la tossicità dell’arsenico e l’efficacia del precipitato rosso di mercurio nel trattamento della gonorrea. Così Paracelso introdusse la chimica nell’arte medica scombussolando con violenza le abitudini degli spezieri.” In Marcello Fumagalli, Iatrochimica e Spagiria. L’arte dei preparati chimici, www.marcellofumagalli.it/scritti/saggi/txtmngr/read.php?id=6 del 08/02/2006

[7] Cfr: Antonio di Meo, cit. in particolare capitoli primo e secondo.

[8] Rudolf Steiner, Impulsi scientifico-spirituali per il progresso dell’agricoltura. Corso sull’agricoltura. Otto conferenze e un’allocuzione tenute a Koberwitz presso Breslavia da 17 al 16 giugno 1924, Editrice antroposofica, Milano 1979, Settima conferenza, 15 giugno 1924,  pp. 179, 180