“Mare & Mosto” in un maggio che non riconosco

Foto che ho preso dalla terrazza dell’ex convento dell’Annunziata – Baia del silenzio – Sestri Levante

Tutte le cose hanno un significato; tutte le cose hanno un senso soggettivamente inteso, ovvero intenzionato dall’agente o dagli agenti; alcune di esse trovano il senso nel concretizzarsi della reciprocità delle azioni e rinviano all’interazione umana. Le cose a noi più comprensibili, anche se non necessariamente condivisibili, abbracciano ognuno di questi approcci.

Tutte le fiere del vino hanno un senso, ma alcune di queste lo hanno più delle altre. Non perché siano più giuste, più etiche, più naturali, più ricche, più toste o più tostate. Semplicemente perché sono più intelligibili (nel senso soggettivamente e oggettivamente inteso). Ma, se ci pensate bene, succede così un po’ dappertutto: in politica, in uno schema di difesa a zona, in un pranzo, nelle relazioni amorose e così via. In Liguria, da un po’ di anni a questa parte, c’è una rassegna organizzata dall’A.I.S. Liguria, “Mare & Mosto: le vigne sospese”, che si è tenuta domenica 19 e lunedì 20 maggio, la quale si caratterizza per esporre esclusivamente dei vini liguri: lontana da uno sciovinismo localistico di piccolo rango è diventata un punto di riferimento sia per quanti vivono in terra ligure e sia per quanti da questa terra transitano. La sua importanza è cresciuta di anno in anno proprio perché offre notevoli spunti e importanti suggestioni a tutti coloro che di vini liguri ne sanno poco: e tra questi, manco a dirlo, sono tanti pure gli indigeni. Dire che la fanno in un posto molto bello non rende sufficiente splendore a coloro che dalle parti di Sestri Levante e alla Baia del Silenzio, in particolare, non sono mai andati.

Fianco a fianco raccontano di strettissime fasce di terra, di terrazze che si affacciano sul mare e di colli compresi tra boschi, a nord, e spiagge riflettenti, a sud, produttori e vini tanto simili nella parlata quanto diversi nello stile e nella visione d’insieme: essi abitano luoghi tanto irsuti che l’individualità, oltre che una pratica, figura come un dogma.

A zonzo tra i tavoli.

Qualcuno di cui non ho mai parlato prima perché di altri ne ho già scritto e mi piacciono anche molto, ma non vorrei ripetermi (Terre Bianche, Maccario Dringenberg, De Battè…)

Celsus 2018 – la Colombiera

A Fosdinovo in località Celso questo vermentino fa una breve sosta sulle bucce, di quattro cinque ore, e nulla più. Si accoglie con gran facilità, senza spigolature. La frutta è appena colta, fresca; macchia mediterranea e un bel finale sapido e amarognolo.

Giardino dei Vescovi 2017 – Giacomelli

Un vermentino che fa legno grande per un anno in botti di rovere francese da 10 ettolitri. Bello come un’estate tanto attesa: tropici e cedro, salvia; avvolgente, pieno, di grande e carezzevole soavità, batte nel cavo orale al pari di un’onda lunga sulla battigia. E si porta dietro il sale.

Il Maggiore 2018 – Ottaviano Lambruschi

Un altro vermentino dei Colli di Luni di rispettabile compiuta eleganza: dritto, ma non per questo stretto e corto, estremamente fresco ed energico, riprende fiori gialli di ginestra, gelsomino, agrumi e quel tono salmastro che non può in alcun modo mancare per vocazione e per territorio.

Perciò Cinqueterre  2018 – Cheo

Scusate, ma non ho resistito: se c’è un perché è questo “perciò”. Potrei finirla qui, ma vi dico solo che in questo vino c’è anche un piccolo pezzo di storia: oltre alle uve bosco e vermentino contribuisce a farlo grande una parte dell’antichissimo piccabon che non fu, come erroneamente scrisse il Gallesio, un sinonimo di vermentino, ma dei vini vernaciae.

Granaccia 2018 – Bio Vio

Dall’altra parte, a Ponente, in Regione Vallette di Bastia d’Albenga. In questo caso si sta parlando di Liguria nel Mediterraneo. I confini si allargano, abbracciano altre terre, altri mari, altre genti: profuma di spezie, di rosa e di viola; poi si fa intenso di frutti scuri, con leggeri riflessi di porpora giovanile, resine e ancora sole e sale.

 

Il Salone del Libro allo specchio dei tempi

Sono torinese di nascita e non di adozione, ho frequentato numerosissimi “Salone del Libro” di Torino perché mi piacciono i libri e perché mi è sempre venuto comodo andarci, mantengo ancor una buona memoria e detesto i fascismi e in genere tutte le forme dittatoriali o autoritarie e tante altre cose che sarebbe troppo lungo dilungarmi qui. Ricordo bene, dunque, da lontano frequentatore di quel salone con la S maiuscola, di aver sempre impattato, ahimè!, in case editrici di estrema destra, fasciste o, persino, amichevolmente naziste: piccole case editrici, di piccole città, animate e sostenute da piccoli (e miserrimi) accoliti. Questa case editrici facevano parte di quel variegato mondo inclassificabile che andava sotto il nome di editoria indipendente e che, al pari della musica non omologata, si annoverava in quel novero di produzioni sottratte alla grande produzione e distribuzione del capitale librario. C’erano, dunque, già da prima e nessuno se ne curava. Molti semplicemente non le riconoscevano, taluni ci giravano al largo e i più non le scorgevano neppure. Non credo che gli organizzatori le invitassero o le accogliessero in nome di chissà quale religione liberale o di un fantasmagorico pluralismo dottrinale o di gradimento della parola fastidiosa: a mio parere, e tale rimane, era semplicemente una prassi consolidata che tendeva più ad includere che ad escludere e non per ragioni estetiche o di condivisione: per una pura e semplice noncuranza del merito e per il fatto che ogni stand fosse (come è oggi) a pagamento. Può sembrare cinico, ma mi hanno spiegato, sin da piccolo, che anche nel magico mondo dell’etereo, del futile e del dilettevole (ma noi sappiamo tutti che così non è), che sguazza in una società di mercato quello che conta è il denaro. Conta anche altro, ma il denaro vale e pure parecchio. Pochi giorni fa è scoppiato il caso dell’editrice “Altaforte” la cui espressione libraria, nonché politica è, almeno per me, inequivocabile. Ma, attenzione bene, il fatto che abbia una connotazione e dei riferimenti politici ben precisi non significa in alcun modo che abbia costruito il suo catalogo in maniera univoca: le pubblicazioni raccolgono, tanto per capirci, una galassia di sensibilità politiche che, partendo dalla storia fascista, passano attraverso sovranismi monetari e nazionali e approdano a quelle “resistenze” antimperialiste tanto care sia ad una certa sinistra di impronta prettamente staliniana che ad una certa destra identitaria e nazionalista (quelli dello stato proletario e del socialismo in una sola nazione). Come scrivevo più sopra sono lontanissimo da tutto questo e penso che il vero punto a contendere non sia il fascismo, ma la Lega, il governo di questo paese, il governo di molti paesi, la materialità delle cose e, infine, molti dei nostri e degli altrui connazionali. La correlazione, perché di questo si tratta, è tra la casa editrice Altaforte e il libro intervista a Salvini: molti si sono accorti di Altaforte editrice non per Altaforte editrice. E non se ne sarebbero accorti in alcun modo senza Salvini. Il cortocircuito vero di quell’intervista è che parla, ancora prima che nei contenuti, del rapporto stabile, di complicità ancora meglio, tra fascismi e forze politiche, governative e non, di questo paese. E dei silenzi compromissori di molte altre. La forma supera e sostiene il contenuto: essa stessa divenne la fonte di quella legittimità che permise a Casa Pound di partecipare ai cortei della Lega; oppure che diede la foto di un pranzo (cena?) tra selfie, sorrisi e mazzieri; che consentì lo sfoggio dei giubbotti di qualche marca ben precisa e compiaciutamente esibita; che protese il corpo dai balconi e dai balconcini; che proferì le parole di un gergo tipicamente fascista (“le zecche”, ad esempio); che consentì le liste e le cariche elettive condivise tra camice nere e camice verdi. Quel libro parla dell’Italia (dell’Europa e del Mondo) molto di più di quanto non facciano altre parole o immagini. Non si può stare in silenzio senza prendere le dovute distanze o le chiarificatrici assenze. A patto, però, di sapere che le contraddizioni sono ben più vaste, articolate e profonde di qualche intromissione o estromissione o delle denunce per per apologia.

Ancora una volta il fascismo è parte dell’autobiografia di questa nazione.

Considerazioni a margine della degustazione e del racconto di un vino qualsiasi

Basil Rathbone – Sherlock Holmes Di sconosciuto – http://digitalgallery.nypl.org/nypldigital/id?TH-45658, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=9956878

Uno dei più importanti storici italiani, Carlo Ginzburg, una volta scrisse così a proposito del suo mestiere: “Qualcuno ha detto che l’innamoramento è la sopravvalutazione delle differenze marginali che esistono tra una donna e l’altra (o tra un uomo e l’altro). Nessuno impara il mestiere del conoscitore o del diagnostico limitandosi a mettere in pratica regole preesistenti. In questo tipo di conoscenza entrano in gioco (si dice di solito) elementi imponderabili: fiuto, colpo d’occhio, intuizione”. Non ci si limita, ma le si usa. Così ci adoperiamo nell’atto della degustazione e del suo disvelamento successivo: disseppelliamo l’ascia dei voluminosi paradigmi che ci hanno informato e formato, le storie personali e sociali che ci tiriamo appresso, una volatile presenza di modelli percettivi bastai sulla memoria esperienziale e un’ipotetica illuminazione successiva. Quest’ultima non si configura, però, come puro espediente animalesco, selvaggio, congenito, composto da palati, nasi e sensibilità individuali volte ad avvertire quanto per altri palati, nasi e sensibilità individuali rimane in un ambito liminare, ai margini, nel solco dell’indecifrabilità. La luce dell’istinto s’irradia nella ricerca del già vissuto, l’accidentalità nel non casuale, l’improvvisazione nella reminiscenza. Benché un vino ci appaia nella sua totalità, siamo in grado di percepirne solo alcuni indizi che consentono di leggerlo: “Ma può un paradigma indiziario essere rigoroso? L’indirizzo quantitativo e anti-antropocentrico delle scienze della natura da Galileo in poi ha posto le scienze umane in uno spiacevole dilemma: o assumere uno statuto scientifico debole per arrivare a risultati rilevanti, o assumere uno statuto scientifico forte per arrivare a risultati di scarso rilievo. […] Viene però il dubbio che questo tipo di rigore sia non solo irraggiungibile, ma anche indesiderabile per le forme di sapere più legate all’esperienza quotidiana – o, più precisamente, a tutte le situazioni in cui l’unicità e insostituibilità dei dati è, agli occhi delle persone implicate, decisiva”. Siamo così obbligati a configurare una narrazione del vino che somiglia a quello che Paul Ricoeur, sempre a proposito del discorso storico, definì come una mise en intrigue, una “costruzione dell’intreccio”, la cui caratteristica fondamentale sarà quella di essere una “sintesi dell’eterogeneo” o “concordanza discordante”:  “La configurazione è sintesi, in tre modi. Dapprima è sintesi tra molteplici eventi, o episodi, è una storia unica, completa, avente un inizio, un mezzo e una conclusione. […] Ogni evento, in quanto inserito nella totalità unitaria della storia, abbandona lo statuto del ‘qualche cosa succede’, della neutrale singolarità, per diventare parte attiva di un’organizzazione razionale. Ma la mise en intrigue è sintesi anche in senso concettuale dove il racconto fa funzionare quel che Ricoeur chiama la rete concettuale dell’azione. A quello compositivo e concettuale s’aggiunge infine un terzo modo della sintesi dell’eterogeneo, un modo temporale”.  Se agli ‘eventi’ ed ‘episodi’ sostituissimo le fasi di una degustazione, non ci troveremmo forse nello stesso campo della costruzione narrativa? E non è forse questa la maggiore e più scomoda eredità ottocentesca? “Il gusto è appunto quel senso che conosce e pratica approcci multipli e successivi: entrate, ritorni, accavallamenti, tutto un contrappunto della sensazione”. In questo modo la sensazione gustativa viene assoggettata al tempo e su di lei si può sviluppare un racconto come nel campo letterario. Soltanto questa subordinazione del gusto allo scandirsi del tempo permette di acquisire sorprese e sottigliezze: “si tratta dei profumi che, per così dire, si pongono già in partenza come ricordi: nulla avrebbe impedito a Brillat-Savarin di analizzare la madeleine di Proust”.

Dunque alla fine, nonostante le irriducibilità individuali alla realtà e di questa ad ogni individuo, non ci rimane che ricorrere ad un altro accorgimento metodologico proprio dello storico: la nozione di prova, al limite tra retorica e logica, ovvero tra la funzione persuasiva e la funzione di verità. La replicabilità dell’assaggio, nelle sue varianti insostituibili di tempo, luogo, socialità, stati d’animo e predisposizioni individuali, rimanda alla necessità di una conoscenza unitaria e condivisa. Ma, come per le conoscenze storico-sociali, le valutazioni di un vino non si possono porre sul piano della validità dei valori di giudizio. Possono dirci molto, invece, sulla loro genesi.

Nota bibliografica

Carlo Ginzburg, Miti emblemi spie. Morfologia e storia. Einaudi, Torino 2000;

Paulo Francisco Butti De Lima, L’inchiesta e la prova. Immagine storiografica, pratica giuridica e retorica nella Grecia classica, Einaudi, Torino 1996, p. 68;

Brillat-Savarin letto da Roland Barthes, Sellerio Editore, Palermo 1978 (Edizione originale: Physiologie du goût avec una Lecture de Roland Barthes, Hermann, Paris 1975).

Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano 2003