LE FALSE NOTIZIE E LA RETE: QUAL È STATA LA PRIMA D.O.C. ITALIANA?

By Martin Fisch from Wiesbaden, Germany. – black face ( #cc )., CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=46027239

È di fatto curioso, anche se politicamente leggibile entro quella cornice che ondeggia fra primato ed identità, quando, nel mio peregrinare sul web, mi sono imbattuto in diversi siti, forum e blog che rivendicano la primogenitura della denominazione di origine. Il fatto diviene ancora più singolare se si tiene conto che il cadenzare cronologico delle attribuzioni delle d.o.c. e delle d.o.c.g. può avvenire soltanto per decreto presidenziale ed è quindi scandito storicamente da normative che segnano in maniera inconfondibile il processo e gli avvenimenti, ma non, evidentemente, il racconto che si fa degli stessi. Ma questo non riguarda soltanto il vino.

In Sicilia, ad esempio, il «ANTICHIVINAI 1877, CONSORZIO ETNA DOC» afferma il primato della doc etnea: «L’Etna è stata la prima denominazione di origine controllata ad ottenere il riconoscimento della denominazione di origine, la DOC Etna, infatti, è stata riconosciuta con DPR dell’11.08.1968 pubblicato sulla GU del 25.09.1968. Il disciplinare, inoltre, è rimasto intatto dall’anno della sua redazione, mantenendo inalterata la previsione dei vitigni autoctoni del vulcano, per la produzione dell’Etna doc nelle sue tipologie Rosso, Rosato, Bianco e Bianco superiore. I principali vitigni coltivati sono il nerello mascalese e il nerello cappuccio per quanto riguarda quelli a bacca rossa, mentre a bacca bianca vengono annoverati il carricante, il catarratto e la minnella [1]».

La rete è zeppa di informazioni non corrette, o addirittura false, che si propagano con moto rettilineo e uniformemente accelerato. Altra cosa, poi, sono le notizie tronche, che non si avvalgono necessariamente di informazioni menzognere, ma che, portando alla luce soltanto una piccola parte della realtà, inficiano e distorcono la comprensione degli accadimenti: «Il primo vino italiano ad avere il riconoscimento della DOC, è stato il vino Marsala con il decreto legge del 12 luglio 1963, n. 930, ma vi fu anche uno specifico decreto legge risalente al 15 ottobre 1931, relativo alla delimitazione del territorio di produzione». La ragione è politica e rimanda alla verità come discorso pronunciato da chi ha diritto e secondo il rituale richiesto; al discorso che dice la giustizia e attribuisce a ognuno la sua parte; al discorso che, profetizzando il futuro, non solo divina quel che sta per accadere, ma contribuisce alla sua realizzazione, comporta l’adesione degli uomini e trama così col destino dell’origine (Michel Foucault, L’ordine del discorso). «La legge 930 del 12 luglio 1963, contiene, soltanto nelle disposizioni finali, Capo VI, la seguente annotazione: «Le norme del presente decreto si applicano ai vini ‘Moscato Passito di Pantelleria’ e ‘Marsala’ ove non contrastino con quelle contenute nella legge 4 novembre 1950, n. 1068, nella legge 4 novembre 1950, n. 1069 e relativo regolamento di esecuzione, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 20 ottobre 1961, n. 1644 [2]»

Così, il 1° novembre 1966 entrano in vigore i disciplinari delle prime quattro doc italiane, riconosciute da un Decreto del Presidente della Repubblica del 3 marzo 1966: la Vernaccia di San Gimignano, con disciplinare pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale numero 110 del 6 maggio del 1966, l’Est! Est! Est! Di Montefiascone, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale numero 111 del 7 maggio 1966, l’Ischia bianco, l’Ischia rosso e l’Ischia superiore pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale numero 112 del 9 maggio 1966 e il Frascati, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale numero 119 del 16 maggio 1966.

Questa è l’evidenza storica: tutte le doc vengono istituite il 3 marzo del 1966 da un Decreto del Presidente della Repubblica: differiscono soltanto di alcuni giorni le une dalle altre nella pubblicazione sulle Gazzette Ufficiali. I disciplinari entrano in vigore per tutti e quattro i vini il 1° di novembre dello stesso anno.

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[1]    http://www.antichivinai.it/etna-vigneti-territorio/

[2]    Legge sul marsala doc – Decreti e atti normativi

Il primo atto normativo della storia del Marsala risale al 15 ottobre 1931 quando un decreto ministeriale firmato da Acerbo, ministro per l’agricoltura e le foreste, e da Bottai, ministro per le corporazioni, accoglieva le richieste di 31 produttori locali che pochi mesi prima si erano riuniti in un Consorzio per la tutela del vino Marsala.

Il decreto sulla ‘Delimitazione del territorio di produzione del vino tipico Marsala’ stabiliva quali dovevano essere le zone di produzione del Marsala limitandole alla provincia di Trapani, escluse le isole, alla parte occidentale della provincia di Palermo e alla parte a nord-ovest della provincia di Agrigento.

Nel 1949 l ‘Assemblea Regionale Siciliana propose al Parlamento un disegno di legge che focalizzava la sua attenzione sulle ‘Norme relative al territorio di produzione e alle caratteristiche dei vini tipici denominati Marsala’.

La proposta venne approvata e la legge n.1069 del 4 novembre 1950, mentre lasciava inalterati i limiti territoriali, stabiliva che i livelli minimi di gradazione non dovessero essere inferiori al 17% di alcool per distillazione e il contenuto zuccherino non inferiore al 5%.

Poteva essere indicato come Marsala solo quel vino che rispondeva a specifiche caratteristiche di colore, sapore e invecchiamento e che fosse ottenuto mediante l’uso di uve bianche pregiate prodotte nella zona (Catarratto, Grillo, Inzolia) con l’aggiunta di mosto cotto, sifone o alcool.

In più, si autorizzava la produzione dei Marsala speciali: Marsala uovo, Marsala crema, Marsala mandorla, Marsala nocciola.

Il 20 ottobre 1961 venne approvato il decreto n.1644 di approvazione del regolamento per l’esecuzione della legge del 1950.

Il 2 aprile 1969 veniva emanato il decreto contenente il ‘Riconoscimento della denominazione di origine controllata del vino Marsala’ insieme al relativo Disciplinare di produzione.

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Classificare e classifiche non sono la stessa cosa

Uva Canaiola (Vitis vinifera etrusca ; Black Canaiolo) da «Pomona Italiana»: Trattato degli alberi fruttiferi contenente la Descrizione delle megliori varietá dei Frutte coltivati in Italia, accompagnato da Figure disegnate, e colorite sul vero – Giorgio Gallesio.
Data (1817-1839)

Classificare e classifiche non sono la stessa cosa, anche se hanno una radice comune, almeno da noi. Ovvero dell’impossibilità di dare un ordine omogeneo e specifico alle classifiche dei vini, dei ristoranti, dei musei, delle frittate e di ogni qualsivoglia genere che non abbia a che fare con una sana ed onesta competizione in uno spazio – tempo limitato dalla quale risulti una modificazione dei rapporti numerici e, in alcuni casi, degli spazî vitali.

Il conatus enumerandi è vecchio almeno quanto l’essere umano: ogni forma di pensiero è già una forma di classificazione: “C’è una vertigine tassonomica. Io la provo ogni volta che i miei occhi si posano su un indice della Classificazione Decimale Universale” (Georges Perec, Pensare/Classificare, Rizzoli, Milano 1989). Gli ontologi un po’ sarcastici la butterebbero sulle “categorie fondamentali”:  “i tipi”, “le parti”, “le proprietà”, i “processi”, “lo spazio” e “il tempo”; gli epistemologi vecchio stampo direbbero, al contrario, che l’organizzazione della conoscenza dipende direttamente dalle strutture cognitive degli estensori, dai loro limiti e, non da meno, dal contesto sociale e culturale al quale appartengono e da cui sono inevitabilmente influenzati: “I fisici, innanzitutto, giustamente leggono l’intero Universo e ciascuna sua parte come materia e energia, regolati nei loro rapporti dalle leggi della Fisica. I chimici fanno lo stesso con gli elementi e le leggi della propria disciplina, così come, in modo diverso ma analogo, i biologi, i matematici, i giuristi, gli economisti, gli storici, ecc. Il medesimo oggetto [noumeno in sè inconoscibile] può essere colto dalla limitata conoscenza umana solo attraverso il filtro di una disciplina o comunque di una qualche forma di sapere organizzato [o delle loro varie commistioni, ibridazioni e volgarizzazioni, fra cui quella che viene comunemente chiamata “senso comune”], che ne organizza, incasella, classifica una specifica faccetta, rendendola un fenomeno afferrabile e quindi pensabile.” (Riccardo Ridi 2001)

Non usciamo, insomma, da Platone e da Kant quando ci invitarono, ognuno a modo suo, a proposito del filosofare e dunque del pensare e, a caduta, del classificare, a soddisfare almeno due leggi: quella della omogeneità e quella della specificazione, a patto però che nessuna delle due sia a discapito dell’altra: “La legge della omogeneità ci dice di raccogliere le specie, facendo attenzione alle somiglianze e concordanze delle cose, di unirle, allo stesso modo, in generi, e questi in partizioni più ampie, finché non arriviamo infine all’unità suprema, che tutto abbraccia. […] La legge della specificazione, invece, […] esige […] che noi distinguiamo bene i generi riuniti sotto un più ampio concetto di partizione multicomprensivo e poi, di nuovo, le specie superiori e inferiori comprese sotto di essi, ma che evitiamo di fare qualche salto e soprattutto di sussumere le specie inferiori o addirittura gli individui sotto il concetto di partizione più ampio”. (Arthur Schopenhauer, La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, 1813)

Classifica deriva, e ne mantiene la radice, da classificare anche se nell’uso comune rimanda alla strutturazione di una graduatoria legata ad una competizione: facendo riferimento ad un ordine numerico in cui i dati sostituiscono qualsivoglia organizzazione, semplificazione e specificazione del pensiero non ha alcun motivo di essere spiegata in sé. Non significa, in altro modo, che ogni classifica numerica non possa essere spiegata per sé, ovvero attraverso altri indici di valutazione: quella squadra vince sempre perché ha più denaro di tutte, compra i giocatori più forti, ha il miglior allenatore del mondo e via cantando. Quel libro è in cima alle classifiche di vendita perché è un buon libro, ma ha anche sponsorizzazioni molto danarose, pubblicità a piacimento, una casa editrice potente e via di questo passo. La classifica non muta a meno che non mutino condizioni esterne alla sua definizione. 

Ma quando parliamo di classifiche di vini, di ristoranti, di prosciutti a quale tipo di ibridazione mentale dell’assurdo ci stiamo riferendo? Perché, a questo punto, dovrebbe essere chiaro a tutti che si stanno usando forme di organizzazione del pensiero, come tali discutibili e controvertibili, tipiche dell’intelletto classificatorio all’interno di un modello che, in modo specularmente opposto, presuppone l’oggettivazione numerica irrefutabile: la classifica.

Il giudizio, infine, coronato o meno da valutazioni numeriche o simboliche (facce, stelle, tartarughe…) differisce dalla classifica anche se da essa trae il beneficio quantitativo: lo spostamento da uno all’altra è piuttosto facile ed immediato, ma non è semplice né scontato. Insomma, una radice comune non presuppone necessariamente un destino identico.