Degustazione del Dogliani 2016 per emoticon

Legenda

Partecipai in un tempo ancora imprecisato e probabilmente onirico, naturalmente in incognito, alla degustazione alla cieca di alcuni Dogliani 2016 presso l’omonima bottega. Mentre stavo osservando con puntuale attenzione il materiale messo a disposizione dall’allegra brigata di sommelier, un giovane e sbraitante oratore introdusse la finalità della degustazione comparativa: raffrontare alcuni dolcetto, sessantasei per la precisione, della stessa annata e provenienti da zone viticole diverse. Sotto quell’improbabile paltò sudavo sette e più camicie e l’impetuosa relazione si stava protraendo più del dovuto. Finalmente ci vennero versati i vini: pane per i miei denti, o meglio, tannini per le mie papille. I profumi di ciliegia, di mora, di mirtillo, di violetta, di ribes nero e ciclamino  si allargavano in tutta la sala attaccandosi alle pietrose volte a botte. Vista, e di nuovo olfatto e poi vista ancora, roteazione, balletti, labbra, lingua, papille e di nuovo daccapo in ordine confuso, ripetuto, sparso, di sghimbescio, appena scostato, ricordi di un tempo andato: perché non ho più vent’anni? O, perché ho avuto vent’anni? Meglio: perché, ho avuto vent’anni? Valutazione. Ripensamenti. Certo che erano tutti buoni. Mica ci diedero delle sozzerie: in fondo giungevamo da fuori: anonimi, ma da fuori. Al massimo tipicità differita o differenziata che si voglia. Presi appunti. E dagli appunti nomi e cognomi. Nulla più di ciò che mi piacque di più: “Autin Lungh” di Eraldo Revelli; Valdibà di San Fereolo; “Dogliani” Poderi Luigi Einaudi; “Sorì dij But” di Anna Maria Abbona; “la Cavalla” di LeViti; “Dogliani” di Cascina Corte.

Per questo narrazione così moderna e giovanile ho usato: www.iwebdesigner.it/icone/emoticons-free-download-3234.html; wikipedia common e le foto dai siti aziendali delle rispettive cantine

Il colore e la forma dell’olfatto.

Di I, Toony, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2236083

Vista, udito e odorato sono degli strumenti di esplorazione conoscitiva e, secondo la sensibilità dell’età barocca, debbono servire a guidare gli altri due vilissimi, e perciò stesso animaleschi, sensi: il tatto, che serve per riprodursi ed il gusto, che serve per cibarsi. Nella letteratura medica l’idea che i sensi siano esattamente cinque viene formalizzata solo in epoca imperiale da Galeno nello scritto Contro Lico, cap. 4 (XVIII A, 222 K.): le αἴσθησεiς” sono in tutto cinque (πἄσαι πεντε); tuttavia è ben noto che già Aristotele aveva codificato il numero dei sensi: sono cinque e non di più, come si legge ad es. nello scritto “Sull’anima” all’inizio del terzo libro (424b, 22-24): non ci sono altri sensi oltre i consueti cinque [1].

«L’huomo è un Tricerbero [2] di tre avidissime gole, ragione, opinione, e senso esterno ed a ciascuna di queste diede la providenza gli suoi proporzionati alimenti; conditi (com’ella suole in ogni suo dono) di maravigliosi piaceri, intelligibili, ò sensibili, ò mezzani. L’intelletto, come ragionevole, è insaziabile di sapere. L’opinione è insaziabile di tesori, e di honori. Il senso esterno è insaziabile di corporali piaceri. I Piaceri dell’intelleto son comuni con gl’Angeli; e perciò angelici. Quegli della opinione sono proprj dell’huomo; e perciò humani. Quegli del senso esterno son comuni con gl’animali e perciò animaleschi, e quanto più necessarj, tanto più vili. Dunque la temperanza non modera i piaceri dell’intelletto il cui eccesso si chiama curiosità, moderata dalla prudenza. Ne meno modera i piaceri della opinione; perché son moderati dalla liberalità, e dalla modestia. Modera ella dunque i piaceri del senso esteriore, infimo di tutte le facultà humane; il cui eccesso è l’intemperanza, e contra quelli piaceri hà giurata eterna guerra. Anzi, perché de sensi esterni, l’occhio, l’orecchio, e l’odorato sono alquanto più spirituali e perciò più nobili servendo alle ragionevoli operazioni; l’occhio all’Astròlogia; l’orecchio alla musica; l’odorato alla fisica nel conoscimento de’ semplici; la temperanza modera solamente i piaceri di quegli due infimi sensi che fervono alle più vili e totalmente animalesche operazioni; al gusto ed al tatto. Providenza non è tanto improvida, che per conservar la specie delle lue opre voglia perdere gl’individui, né per conservar gl’individui voglia perder la specie. Havendo ella dunque agl’huomini soli data la ragione per le sublimi operazioni, diede in comune agl’huomini ed agl’ animali quei due vilissimi sensi il gusto e il tatto Quello, per conservar la vita dell’individuo col cibo; questo perché l’individuo conservi la sua specie con la prole. Hora perché gl’animali non hanno altro fine chela vita, e la prole fù la providenza verso loro prodiga di voluttuoso piacere circa questi due sensi, negando loro il diletto degl’altri tre sentimenti più nobili; se non sé per accidente, inquanto servono di esploratori a quelli due. Non godono gl’animali la proportion de colori né l’harmonia delle voci né la fraganza degl’odori. Anzi alcuni mujono all’odor delle Rose, molti urlano al suono de musici stromenti niuno riceve piacere della pittura come pittura. (…)[3]» Al pari della linguistica e della semiotica moderne, Emanuele Tesauro[4], forte della dottrina aristotelica sull’oratoria, ritiene che la metafora, da semplice figura retorica, sia lo strumento tecnico dell’intelletto con il quale è possibile «sentir le cose insensibili e veder le invisibili».Vi sono degli ambiti di senso, che appartengono alle esperienze emotive, estetiche e sensoriali difficilmente esprimibili, che combattono il principio dell’onniformatività, secondo cui una lingua è una semiotica entro cui ogni altra struttura semiotica concepibile è traducibile. L’avventura olfattiva è proprio una di queste esperienze difficilmente traducibili, povera di termini propri, che deve ricorrere costantemente alle fonti fisiche e cromatiche di un odore, di un aroma, di un profumo: limone, gelsomino, terra bagnata, tabacco, spezie, lacca…. «Il lavoro di un ‘naso linguistico’ implica l’attività di numerose funzioni cognitive: la comparazione della sensazione immediata con i modelli archiviati nella memoria, quindi l’attenzione percettiva, la riflessione, il riconoscimento e il giudizio (…).[5]» L’analisi olfattiva, ma lo stesso potrebbe dirsi per le altre, è un atto cognitivo, linguistico, culturalmente e storicamente situato. L’acutezza olfattiva, sagacitas, a Roma è un’intelligenza ‘indiziaria’: il metodo di indagine conoscitiva del sagax è quello di una vera e propria ‘caccia’ a uomini e cose. Gli uomini sagaci sono dei veri e propri investigatori, procedono a lume di naso. Chi, ad esempio, vorrà intuire e scovare le tracce di un delitto o di un atto scellerato come l’incesto dovrà annusarle come un cane, dovrà essere sagax scrutator di ogni attimo, giorno e notte, scrive Quintiliano; la sua azione investigativa è modellata su quella del cane slanciato all’inseguimento di una preda: «scruta le tracce (scrutatur vestigia) e le insegue (persequitur) […] captando l’odore e protendendo il muso verso il nascondiglio della preda» (Plin. N.H. 8. 147) [6].

Ma non solo: l’analisi olfattiva viene spesso trascinata e condizionata da quella visiva. Voglio ricordare qui brevemente l’esperimento che si tenne agli inizi del decennio scorso[7] sulla colorazione in rosso di un vino bianco, all’insaputa dei degustatori, esperti enologi di marca francese, e sugli esiti della successiva analisi olfattiva: « BORDEAUX – Prima il bianco e poi il rosso. Del bianco hanno sentenziato che era miele, pompelmo, burro, e persino idrocarburo. Nel rosso hanno invece notato la violetta, il cacao, il tabacco, e addirittura un sentore di animale. I 54 degustatori, scelti tra i migliori studenti della facoltà di Enologia, non sapevano che bianco e rosso erano uguali, non sospettavano che i loro professori avevano usato un colorante e dunque quel colore rosso era falso. Insomma il bianco era stato tinto di rosso e nei due bicchieri c’ era lo stesso identico vino, un bianco del 1966, vitigni Sémillon e Sauvignon. Ovviamente, trattandosi di esperimenti universitari e scientifici, il colorante usato per tingere di rosso quel bianco era totalmente inodore e insapore (E163, due grammi per litro). Ed è inutile aggiungere che i professori Gil Morrot, dell’Istituto Nazionale di Ricerca sugli Aromi (Inra) di Montpellier, e Frédéric Brochet, dell’università di Bordeaux, non sono due monelli e neppure due inguaribili astemi. È anzi da gentiluomini che si comportano evitando ogni malizia sulla scienza del vino. Si limitano a registrare freddamente che la degustazione è un’illusione doppiamente orale, poiché è al tempo stesso boccale e verbale. Il vino, si sa, lavora la lingua; e sempre il vino e la parola si sono fatti complici. Eppure chissà quanti miti, simbolismi, evocazioni e saggezze i due professori potrebbero adesso demolire sbeffeggiando l’homo bibens e la sua idea che ‘in vino veritas’[8]».

[1] Cfr. Daniela Fausti, L’inganno dei sensi in http://www.qro.unisi.it/frontend/sites/default/files/Presentazione_inganno.pdf

[2] Il contributo parte da un passo interpolato delle ‘Mythologiae’ di Fulgenzio (I 20, 9-18 Helm), presente nel solo codice Marciano, in cui è riconoscibile la stratificazione di versioni diverse del mito di Cerbero, indicato con l’inconsueta denominazione di “Tricerbero”. Si indaga la fortuna del mito suddetto nel mondo tardo antico. Risulta da un lato la tendenza alla razionalizzazione del mito, prevalente nell’oriente bizantino, a partire da Palefato, che interpreta le tre teste di Cerbero come la corruzione di un antico aggettivo “Tricareno” (“abitante di Tricaria”); dall’altro, la tendenza alla sua interpretazione in senso figurato nell’Occidente, con l’identificazione delle tre teste con le tre età dell’uomo. La complicata intersezione delle varianti del mito esclude la possibilità di ricostruire un “modello” letterario, e suggerisce piuttosto una rete aperta di codifiche e ricodifiche testuali.

Massimo Manca, Testi aperti e contaminazioni inestricabili. Il (Tri)cerbero tardoantico fra simbolo e ragione, in Lucio Cristante e Simona Ravalico (a cura di): Il calamo della memoria. Riuso di testi e mestiere letterario nella tarda antichità. IV, Trieste, EUT Edizioni Università di Trieste, 2011, pp. 65-76.

[3] LA FILOSOFIA MORALE Derivata dall’alto Fonte Del Grande ARISTOTELE STAGIRITA Dal Conte e Cavalier gran Croce D. EMANUELE TESAURO Patritio Torinese, IN VENEZIA M DCCXII (Edizione originale del 1670) Presso Nicolò Pezzana Con Licenza De’ Superiori,Capitolo terzo Quai siano gli oggetti della Temperanza, pp. 122 – 124

[4] Emanuele Tesauro nasce a Torino nel 1592 da nobile famiglia che fa seguire la sua educazione dai gesuiti nel cui ordine entro nel 1611. Seguiti gli studi superiori di filosofia insegnò a Cremona e Milano diventando maestro di retorica. Nel 1635 si stacca dalla compagnia di Gesù in polemica e si mette sotto la protezione del principe di Carignano scrivendo panegirici per trasferirsi definitivamente a Torino come precettore sempre della famiglia Carignano. Ricordiamo le sue opere storiche: i Campeggiamenti di Fiandre (1646), e l’epitome Del regno d’Italia sotto i Barbari (1654). Nel 1654 elaborò il Cannocchiale Aristotelico, il più importante trattato di retorica barocca ristampato in varie edizioni con notevole successo. Il cannocchiale aristotelico, o sia idea dell’arguta e ingegnosa elocuzione che serve a tutta l’arte oratoria, lapidaria e simbolica esaminata co’ principi del divino Aristotele dal conte e cavaliere di gran croce Emanuele Tesauro patrizio torinese.

Stefano Torselli, Il trattato nel XVII secolo, Emanuele Tesauro, in http://www.baroque.it/barocco-cultura/cultura-barocca-letteratura.php?link=22

[5] Rosaria Cavalieri, Il naso intelligente. Che cosa ci dicono gli odori, Editori Laterza, Bari – Roma 2009, pp. 186, 187

[6] Cfr. Isabella Tondo, A lume di naso. Per una storia antica dell’olfatto in http://www.qro.unisi.it/frontend/sites/default/files/A_lume_di_naso.pdf

[7] Per chi volesse leggere (in lingua inglese) l’esperimento può trovarlo al seguente indirizzo: http://www.stanford.edu/class/linguist62n/morrot01colorofodors.pdf

[8] Francesco Merlo, Bordeaux, 54 degustatori beffati da un rosso falso, in ‘Il Corriere della Sera’, 17 febbraio 2002

Frammenti di un discorso amoroso e governativo: le fasi della crisi.

Sansone e Dalila, dipinto di José Echenagusia (1887), Museo di Belle Arti di Bilbao

Prima fase: “Voglio capire”

Primo Ministro: «Cosa penso dell’amore? – In fondo non penso niente. Certo vorrei sapere che cos’è, ma, vivendolo dal di dentro, lo vedo in quanto esistenza, non in quanto essenza».

Viceministro 1: «Uscendo dal cinema, solo, rimuginando sul mio problema amoroso che il film non ha potuto farmi dimenticare, curiosamente non esclamo: tutto questo deve finire! Ma: voglio capire (cosa mi sta capitando)!»

Viceministro 2: «Voglio cambiare sistema: non più smascherare, non più interpretare, ma della coscienza stessa fare una droga e, attraverso essa, accedere alla visione netta del reale, al grande sogno nitido, all’amore profetico».

Seconda fase: “Colpe”

Primo Ministro: «Ogni incrinatura nella Devozione è una colpa: questa è la regola della Cortezia. Questa colpa prende corpo quando io abbozzo un semplice gesto d’indipendenza nei confronti dell’oggetto amato; ogni volta che, per spezzare l’asservimento, cerco di ‘sganciarmi’ (è consiglio unanime del mondo), io mi sento colpevole».

Viceministro 1: «Ogni dolore, ogni infelicità, nota Nietzsche, sono stati falsati da un’idea di torto, di colpa: “Il dolore è stato privato della sua innocenza”. L’amore-passione (il discorso amoroso) soccombe senza posa di fronte a questa falsificazione».

Viceministro 2: «Ciò che mi fa paura è di essere forte e ciò che mi rende colpevole è la padronanza (o il suo semplice gesto). Io ho paura dell’altro “più che di mio padre”». (Citazione colta di Fedro nel Simposio di Platone)

Terza fase: “Che fare?”

Primo Ministro: «L’altro mi ha dato questo nuovo numero di telefono: che significato può avere questo segno? Voleva essere un invito ad approfittarne subito, per diporto, o soltanto in caso di bisogno, per necessità? La mia stessa risposta diventerà un segno che l’altro interpreterà fatalmente, scatenando, fra me e lui, un tumultuoso intrecciarsi di immagini. Tutto ha un significato: con questa affermazione, io mi freno, divento preda del calcolo: m’impedisco di godere».

Viceministro 1: «Talvolta, a furia di deliberare su “niente” (questo è quanto direbbero gli altri), finisco con lo sfiancarmi; a questo punto, con un ultimo guizzo, come uno che sta per annegare e cerca con un colpo di tallone di risalire in superficie, tento di prendere una decisione spontanea (la spontaneità: grande sogno: paradiso, forza, delizia): telefonagli, visto che ne hai voglia! Ma invano: il tempo amoroso non consente di metter sulla stessa linea l’impulso e l’atto, di farli coincidere: io non sono l’uomo dei piccoli acting out (letteralmente “passaggio all’atto”, indica l’insieme di azioni aggressive e impulsive utilizzate per esprimere vissuti inesprimibili): la mia follia è misurata non si vede; è subito che io ho paura delle conseguenze, di ogni conseguenza: ciò che è spontaneo è la mia paura – la mia indecisione».

Viceministro 2: «Il Karma è il concatenamento (disastroso) delle azioni (delle loro cause e dei loro effetti). Il buddista vuole allontanarsi dal karma; vuole sospendere il gioco della causalità; vuole assentare i segni, ignorare la domanda pratica: che fare? Questa domanda, io non smetto di farmela e desidero ardentemente quella sospensione del karma che è il nirvana. Io soffro, ma almeno non devo decidere niente; la macchina amoroso (immaginaria) va avanti da sola, non ha bisogno di me; come un operaio dell’età elettronica, o come l’ultimo della classe, io devo soltanto essere presente: il karma (la macchina, la classe) ronza lì davanti a me, ma senza di me».

Quarta fase: “La catastrofe”

Primo Ministro: «Vi sono due tipi di disperazione: la disperazione pacata, la rassegnazione attiva (“Io vi amo come bisogna amare: nella disperazione”), e la disperazione violenta: un bel giorno, in seguito a un incidente qualsiasi, mi chiudo nella mia stanza e scoppio in lacrime: sono in balia di una forza che mi soverchia, asfissiato dal dolore; il mio corpo s’irrigidisce e si contrae: come in un lampo, freddo e tagliente, io vedo la distruzione a cui sono condannato. Tutto ciò non ha niente di paragonabile alla prostrazione insidiosa, ma in fondo civile, degli amori difficili; non c’è alcun rapporto con l’annichilimento in cui si viene a trovare il soggetto abbandonato: qui, sono come folgorato, ma lucido. La sensazione che provo è quella di una vera e propria catastrofe: “Ecco, sono veramente fottuto!”».

Viceministro 1: «La causa? Non è mai solenne – per esempio, una dichiarazione di rottura; la cosa avviene senza preavviso, o per effetto di un’immagine che riesce insopportabile, o per un’improvvisa ripugnanza fisica: dalla sfera infantile – il vedersi abbandonato dalla Madre – si passa brutalmente alla fase genitale».

Viceministro 2: «La catastrofe amorosa s’avvicina forse a ciò che, nel campo psicotico, è stata definita una situazione estrema, la quale è “una situazione che il soggetto vive conscio del fatto che essa finirà col distruggerlo irrimediabilmente” ».

Tutte le frasi sono una riproduzione del testo di Roland Barthes, “Frammenti di un discorso amoroso”, Giulio Einaudi Editore, Torino 1979; edizione originale Éditions du Seuil, Paris 1977

ULTIMA FERMATA Racconto breve, ma non brevissimo, a proposito della Stazione ferroviaria interstellare Salyut 19-1971 e del banchetto nuziale tra Bona Sforza di Bari e Sigismondo I di Polonia (6 dicembre 1517)

Di Johannes Hevelius (1611–1687) – http://dziedzictwo.polska.pl/katalogskarb,Selenographia_Jana_Heweliusza_(Selenographia_sive_lunae_descriptio)_,gid,262839,cid,1688.htm?body=desc (monochrome version of the image in 1647 year edition of Selenographia), Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6839285

Salyut 19-1971

Era finito lì qualche decennio prima, quando doveva scontare una pena per attività sovversiva: gli avevano affibbiato 30 anni di carcere duro. Cella tre metri per tre, senza finestre, solo un bocchettone per l’aria condizionata. Una tv a circuito chiuso trasmetteva, tutti i giorni feriali, dalle 20.00 alle 21.00, un notiziario del Ministero dell’Informazione, dell’Educazione e del Rispetto dell’Ordine Costituito. Nessuna immagine. Soltanto un mezzo busto allampanato che leggeva gli ultimi Decreti attuativi in materia di Sicurezza, Ordine Pubblico, Disciplina Sociale, Vagabondaggio, Antisocialità, Attività Sovversive. Vincent non poteva spegnere la TV, né togliere il volume, per cui, ogni tanto, provava ad ascoltare quella sequenza infinita di norme prescrittive che avevano raggiunto il culmine con la obbligatorietà della catalogazione dei peli del pube. Le relazioni tra i detenuti erano gestite da Cooperative di socialità condivisa, i cui membri provenivano dallo stesso carcere, all’interno del quale avevano scalato la gerarchia grazie ad un sistema premiale a punti che si basava interamente sull’interiorizzazione non coercitiva dei canoni ideologici del Buon Comportamento del Cittadino Degno, che rappresentava l’evoluzione premiale del Buon Comportamento del Cittadino Lavoratore e l’alter ego del Buon Comportamento del Cittadino Studente. Il sistema premiale non era né esplicito né visibile. Non vi era alcuna giuria, alcuna tabella, non si era convocati: ad un certo punto, in maniera del tutto inaspettata, poteva comparire un messaggio televisivo personalizzato, in cui veniva comunicato che, sulla base di un’Osservazione Oggettiva Comportamentale documentata dall’analisi sensoriale del bulbo oculare, della gestualità, della postura, nonché delle variazioni di feedback negativo sui  barocettori carotidei attraverso stimoli esterni indotti, il soggetto posto a Restrizione di Attività Sociale Condivisa aveva interiorizzato I Modelli Mentali di Riferimento. A Vincent andò diversamente: venne avvertito, come gli altri 2.000.000 di detenuti, che un prigioniero avrebbe potuto riacquistare la libertà controllata se avesse accettato di partecipare al programma JAXA 231. La cosa era molto semplice: quello che, tra i volontari, fosse stato selezionato, avrebbe potuto trascorre il resto della sua vita carceraria, in piena libertà, sulla Stazione Ferroviaria Interstellare, posizionata nell’orbita di Marte, la prestigiosa Salyut 19-1971. Vincent ce la fece. Non seppe come, ma ce la fece. Anzi forse lo sapeva; sapeva cioè che un sovversivo come lui era meglio tenerlo molto lontano: anche in carcere avrebbe potuto fare danni. Bastava un suo sguardo a far crollare in ogni detenuto un sano ravvedimento: e i suoi coinquilini erano tutti schedati come lui. I “comuni”, tenuti in un’altra ala del carcere esteso quasi quanto la vecchia Europa, venivano messi in contatto con in sovversivi soltanto per dare sfogo ai precursori sintomatici repressi della rabbia incontrollata. La battaglia a mani nude durava circa un mese e coinvolgeva cinquemila combattenti per parte: ai sopravvissuti veniva concessa una semi-grazia con l’obbligo della prestazione lavorativa in qualità di addetti alla Sicurezza Bagnanti e del Decoro delle Spiagge nella Riviera Romagnola.

Era una giornata fredda del Brumaio 2515 quando Vincet, unico passeggero, prese il Treno a Propulsione Nucleare “Soyut AS-20” per la Stazione Ferroviaria Interstellare Salyut 19-1971. La Stazione “Salyut” orbitava intorno alla luna di Marte, Phobos, a circa 9000 km dal pianeta principale e suo compito specifico era quello di gestire il traffico dei Treni Merci che, dalla Luna, facevano rifornimento d’acqua su Marte. Circa cinquecento anni prima, la sonda Odyssey, attraverso uno spettrometro a raggi gamma (GRS) che scandaglia il sottosuolo per definire la distribuzione dei diversi elementi chimici, calcolando nel contempo il contenuto di idrogeno, confermò, ben oltre ogni immaginazione, quello che da sempre si sospettava: Marte era pieno d’acqua. La sonda Odyssey, nel 2008, terminò il suo lavoro scoprendo anche la calotta artica nell’emisfero nord di Marte. La corsa all’accaparramento delle risorse di Marte partì ufficialmente nel 2120 e durò per oltre un secolo. Naturalmente partì nella maniera più classica, ovvero con una guerra. Furono dapprima le Delegazioni Orientale e Occidentale del Pianeta Terra ad aprire lo scontro, per poi trasferirlo alle loro Colonie Lunari, che erano state, ai loro primordi, luogo di villeggiatura per i nuovi ricchi e successivamente veri e propri insediamenti abitativi (colonie) che servivano per smaltire la popolazione eccedente. Per eccedente si intendeva sia la popolazione composta da “criminali generici” che quella non in grado di garantirsi la sopravvivenza Alimentare e la Qualità della Vita secondo i Parametri Intergovernativi.

Poco serve a raccontare che i primi trasferimenti furono vere e proprie deportazioni che costarono la vita ad alcune decine di milioni di persone, ma che poi, grazie al lavoro dei Probi Pionieri Terrestri, le Colonie divennero veri e propri Feudi a gestione politico mafiosa direttamente controllati dalla Madre Terra. Il punto dolente della Colonie Lunari era costituito oltre che dalle escursioni termiche lunari, da – 233 oC a +123 oC, sopratutto dalla mancanza d’acqua. Le guerre finirono, come tutte d’altronde, con una spartizione iniqua delle risorse e Vincent si sarebbe dovuto occupare degli approvvigionamenti d’acqua che i Treni Merci Interstellari provvedevano per le Colonie Occidentali della Luna, le quali erano sottoposte direttamente al governatorato dell’Emisfero Nord del Pianeta Terra. 

Vincent, grazie ad un propagatore orbitale, doveva calcolare la posizione di un corpo nello spazio, nel suo caso di un Treno Merci Interstellare intorno a Marte, considerando tutte le perturbazioni agenti su di esso come, ad esempio, gli effetti gravitazionali corrispondenti alla dimensione quasi sferica del Pianeta Rosso. Una volta conosciute le forze agenti, Vincent integrava le equazioni fino a venire a sapere, in un certo istante di tempo, la posizione di un Treno Merci esprimibile in Altitudine, ovvero il computo della quota del treno dal livello dell’acqua; in Longitudine, ossia il calcolo dell’angolo riferito al centro di Marte, misurato a partire dal Meridiano X e positivo verso EST e, infine, in Latitudine, cioè la dimensione dell’angolo riferito al centro di Marte calcolato a partire dal Paralleo Y e positivo verso NORD. Una volta date le direttive necessarie al macchinista ed agli operatori addetti al carico, Vincent si sarebbe dovuto occupare di segnalare la rotta di ritorno, facendo dovuta attenzione agli sciami di meteoroidi. Nel percorrere le loro orbite vicino al Sole le comete perdono per sublimazione lo strato superficiale di ghiacci di cui è composto il nucleo lungo la loro traiettoria. Mescolate ai ghiacci si trovano anche piccoli granelli di polvere che una volta espulsi si troveranno a seguire un’orbita attorno al Sole simile a quella della cometa che li ha generati. Questi granelli di polvere, le meteore, in caso di urti ripetuti contro i convogli merci potevano far naufragare interamente una missione di rifornimento creando costi di approvvigionamento talmente elevati da renderli pressoché inutili. Il compito a cui era stato adibito Vincent era di tale gravità ed importanza da farne un caso in tutto lo spazio conosciuto. La pena per un minimo errore era la soppressione immediata. Chi accompagnava Vincent nelle lunghe giornate, che su Marte durano 24 ore e 37 minuti, era il famigerato robot Banryu, un quadrupede che pesava circa 40 chilogrammi, lungo un metro, largo 80 centimetri e alto 70. Un mostriciattolo dalle fattezze di drago che aveva inserito nei suoi codici di funzione quattro compiti: spionaggio, sorveglianza, intervento rapido ed intrattenimento. Lo spionaggio e la sorveglianza erano la parte costante del lavoro di Banryu: riferiva ininterrottamente su dei monitor collegati alla sede centrale della Polizia Ferroviaria Interstellare le analisi dei dati e dei movimenti di Vincent ed era in grado di intervenire sulle potenziali Azioni non congrue del sorvegliato speciale. Banryu aveva, da ultimo, compiti di aiuto casalingo e ludici: memorabile fu, ad esempio, la riproduzione fedele del banchetto nuziale, tenutosi nel Castel Capuano di Napoli, la sera del la sera del 6 dicembre 1517 tra Bona Sforza di Bari e Sigismondo I di Polonia.

Il banchetto*

La prima portata: in primis pignolate in quattro con natte, et attonnata. Siamo dinanzi ad un antipasto dolce, composto di pinoli, farina e zucchero. Al banchetto di Castel Capuano essa venne servita «in quattro», cioè in quattro forme, ognuna delle quali era divisa in quattro solchi. Curiosa la seconda portata, che può sembrare fare a pugni con l’antipasto dolce: insalata d’herbe. Sono due voci sole che abbracciano, spesso sotto il nome di «salaceterbolco», erbe e indivie, miste ad acciughe (e a butarga o bottarga, come precisa un ricettario barese coevo, di pretta marca pugliese; era una composta di uova di cefalo fresco, salate, pigiate tra due assi e seccate al sole o al fumo o al vento; veniva poi compressa in budello. Nella terza portata compare l’immancabile jelatina. Di questo brodo grasso rappreso, condensato e raffreddato, tagliato a pezzi artistici, o imbandito in particolari «addobbi», parlano tutti i trattati di gastronomia dei secc. XV e XVI. A Bari, per approntarla si adoperava il seguente ben di Dio: «otto libbre di teste di porco, sei piedi del medesimo animale, due pullastre magre, otto turdi; prendi queste cose e mittile al foco in parte d’acqua e parte de aceto. Quando trae tutto fora, prendi zafferano e spezie e passali per setazo». Con la quarta portata, lo bollito et bianco magnare con l’ordine suo, si entra nel vivo dell’arte del cucinare. Il bollito comprendeva più specie di animali, ma escludeva l’ignobile lesso di manzo. Le preferenze erano per la vitella, e specialmente per gli «ùveri» (= poppe) di vitella, preparate a fette con ripieno d’uova affogate. Non credo, però, che al banchetto di Bona fosse stato imbandito il bollito di dindiotti; il primo cronista, il quale parla dell’uso del «dindio» in cucina, fu Gonzales Fernando di Oviedo: siamo al 1525. Il termine, sul quale si sono accaniti molti storici della gastronomia, per darne, ricettari alla mano, una spiegazione vaga e contorta, è il «bianco mangiare». Prelibata la quinta portata: li coppi di picciuni. Francesco Berni chiama «coppo» la testa, ma qui si intendono insieme tutte le parti carnose del piccione, nella cui «imbroccata» il trinciante mostrava la sua destrezza di taglio. Fin qui il banchetto è proceduto modestamente; con la sesta portata un esercito di arrosti, che, nelle varie manipolazioni di carnumi, non avrà pietà dei convitati. La settima portata segnò una lieve sosta con le pizze sfogliate, altra specialità meridionale, non quelle odierne napoletane. Si tratta di «lagane in umido di zafferano». La sosta fu rotta dalla copiosa ottava portata: lo bollito salvaggio con putaggio ungaresco et preparata. Alla quarta portata già trovammo un bollito, ma non «salvaggio». Quest’ultimo costituiva una delle portate più varie e più sode, con aggiunta di potaggi (manicaretti brodosi), che da, quello «ungaresco», con prevalenza cioè di paprica e pimento, andavano alle cucinature più diverse; i «preparata» comprendevano, come si legge nei libri del Cinquecento, le salse, aggiunte ai potaggi. Ma la corsa alle carni e ai sughi riservava la spaventosa nona portata: pasticci de carne. Sotto questa dicitura il Cinquecento non ammetteva riserve perché la nomenclatura di pasticci di carne, detti anche «pastèri» o «pastelli», indicava un enorme cumulo di preparati di carne in sugo. Nel gergo culinario «pasticci» equivaleva a «piatto di pasticci». La quantità era imposta dal desiderio dei cuochi di ben figurare nella presentazione artistica dei pasticci, composti ingegnosamente a guisa di stacci, di gerle, di. panieri, di bugnole, di frulloni, oppure a fogge di animali vari, a seconda dell’inventiva zoomorfica del capocuoco. Ci voleva pertanto per ogni invenzione quel dato genere di carne che si potesse prestare. Un contorno fine erano le olive di Puglia e di Spagna. Ed ora una portata «regale», la decima, che il cronista indica con una modesta dicitura: li pagoni con sua salza. I pavoni, chiamati nel Trecento «pagoni» o «pauni», erano un piatto speciale e immancabile sulle tavole del Cinquecento, un piatto che si ammanniva molto abilmente: ricoperto del suo smagliante piumaggio, tanto che i cronisti coevi non mancavano mai di notare che «pareva vivo». Ma non era mai uno solo il pavone imbandito; erano sempre tre o cinque, recati da quattro scalchi su un palchetto, nel cui centro troneggiava il’ pavone maggiore. Ecco perché nella sua lista il Passaro usa il plurale. L’entrata dei pavoni era annunziata dal suono delle trombe. L’undicesima portata fu costituita dalle pizze fiorentine. Era una specie di pan di Spagna, alto due dita, fatto di latte, farina e uova, con spruzzo di zucchero a velo, come quello che ancor oggi si prepara a Firenze per la vigilia della Madonna di settembre, festa delle Rificolone.: «cazzata (= stiacciata) de butiro misto a La sobrietà di questa portata venne compensata dalla dodicesima: 10 arrusto salvaggio et strangolapreiti. Si ricordi che all’ottava portata era stato presentato il «bollito salvaggio»: questa è la volta dell’«arrosto salvaggio». che comprendeva lepri, tortore, pernici, quaglie, tordi e beccafichi. Le quaglie erano arrostite allo spiedo «con sua crostata», come dicevano i cuochi: la lepre era rivestito della sua pelle e adagiato su un lungo vassoio, in posa di fuggire tra cespugli destramente composti di erbe aromatiche e. di foglie d’arancio tocche d’oro. L’arrosto era accompagnato dalla pasta alimentare, detta «strangolapreiti». Il termine potrebbe sembrare a prima vista napoletano, invece è diffuso in tutta la nostra penisola con varianti, quali «strozzapreti», «strozzamonaci» con le forme abbreviate dei precedenti, «strangugli», «strangùgghi»; inoltre, composizione e forma differiscono da regione a regione (a Milano è voce gergale, per gnocchi ; a Mantova è un impasto d’erbe battute con uova, cacio e altri ingredienti ; a Trento sono gnocchi d’erbe ; in Abruzzo bocconcini di pane, uova, latte mandorle, uva passa, lessati e conditi con burro e formaggio ; a Napoli, pasta all’uovo incavata con tre dita e rotalata sul tagliere, o in forma di piccole spirali). Con le pastidelle de carne il concerto gastronomico è giunto alla tredicesima portata: altra edizione di sughi leggeri. Le «pastidelle» corrispondono alle nostre polpette in umido. Il contorno consisteva in cardi leggeri «con pévere et sai» (v. rb.). Una strana portata fu la quattordicesima: la zuppa nanna. Trattasi del nome di una zuppa nordica, preparata evidentemente per rendere omaggio agli ambasciatori polacchi, nella quale «entra dice il Di Giacomo pepe a carrettate». Finissima la portata quindicesima: lo arrusto de fasani. Lo si cuoceva con vino bianco e lo si imbandiva come il pavone, entro un contorno di salse di finocchi in aceto. Alla sedicesima portata ci imbattiamo in un’altra parola curiosa: almongiàvare. A prima vista il pensiero correrebbe agli «almogàvari», celebri soldati catalani di ventura, di cui la storia narra tante imprese compiute in Puglia, come nel resto del Mezzogiorno e in Toscana. Per tale accostamento storico e per ragioni analogiche si potrebbe pensare ad una vivanda che avesse tratto il nome da costoro. È invece il nome di una torta di farina è formaggio, chiamata in [spagna «almohiàvana» (nel rb. è detta «almongiare»). Si rendeva così omaggio anche ai convitati spagnuoli. Seguono tre delicatissime portate. La diciassettesima è formata da li capuni copierti destramente frollati e «coperti», cioè completati in una specie di pasticcio leggero, cosparso di fini tortelli di fagiuoli o di castagne arrostite, sminuzzate con arte. Talora la «copertura» era fatta di salsicciotti cotti nel vino e affettati. Le pizze bianche: una sosta per quello che sarebbe sopravvenuto. Per la diciannovesima il cuoco riservò altra gelatina: èt appresso jelatina in gotti. Nella terza portata vedemmo la gelatina in pezzi, qui è liquida e gelata, dentro bicchieri di cristallo, «gotti», e filata in modo da sembrare ambra colata. Si può dire che a questo punto finisca una prima parte del banchetto. Ma. ahimè, dovevano ricominciare le carni per altre tre molto generose portate. La ventesima, infatti, fu di conigli con suo sapore. Nel Cinquecento il coniglio, preparato con abilità tutta particolare, era un cibo molto pregiato. Lo si preparava in vari modi: con viscide, corniole, marene, noci, acciughe, uva acerba e olio. Li guanti è la denominazione della ventunesima. Tommaso Garzoni mette i «guanti» fra i cosiddetti «cibi di pasta»; tale forma serviva ad «inguantare» carni trite di varie qualità, debitamente adattate a ripieno. Alla ventiduesima portata si servirono le starne con lemoncelìe sane: le magnifiche starne, che la poesia popolare ricorda sempre con onore. Si imbandivano con saporetti di limoncelli naturali, dalla buccia liscia e ricchi di succo agro. L’aggettivo «sane» significa al naturale, senza aggiunta di zucchero, oltre che «intere». Si passa ora ai dolci veri e propri. La ventitreesima fa gustare pasticci de cologne, che erano o in forma di gelatina grossa di cotogne o in forma di cotognata con zibibbo damaschino senz’anima, lavato prima in acqua rosata. La ventiquattresima fu riservata a le pizze pagonazze con ingredienti e colorazioni di rosoli, che dessero appunto la differenza di tinta in confronto alle pizze bianche già esaminate. La venticinquesima fu quella de le paslidelle de zuccaro per tutte le tavole, fatte «con latte di pinoli et d’amenole et ziicharo». Le tartelle per tutte le tavole composero la ventisesima portata. Il citato Garzoni le mette fra «l’infinite specie di torte». Erano paste dolci secche, alle quali non di rado si abbinavano convolvoli di prosciutto e rifilature fantastiche di salame. Indi si apparecchiava nuovamente, sulla tovaglia inferiore, disponendovi quanto occorreva, non escluse altre salviette, alle cui pieghettature i capocuochi davano somma importanza, perché volevano che avessero la forma di torrette, di mitre, di turbanti, di colonne, di arche, di piramidi, di teste d’uccello. Chiarito ciò, passiamo alla ventisettesima portata: castagne di zuccaro con lo scacchiero. Le castagne giulebbate e caramellate, simili agli odierni «marrons glacés», furono recate in tavola con lo «scacchiero», per chi avesse avuto il desiderio di giocare a scacchi. La ventottesima portata era composta da le nevole et procassa. Le «nevole», voce dell’area barese e siciliana (nel lat. medioevale nebula), sono una composizione di fior di farina, la cui pasta quasi liquida, si schiaccia tra due forme di ferro arroventate. Al banchetto di Bona le nevole furono portate in tavola con il «procassa», voce idiotizzata dal cronista napoletano per «ippocrasso», vino in cui si ponevano a macerare e anche a bollire cannella in canna, zucchero, garofani e musco. Siamo all’ultima portata: li confietii. Si badi bene che sotto questo nome non s’intendono soltanto i tradizionali confetti nuziali, ma in genere ogni sorta di canditi e di confetture, che comprendevano «coriandoli, anexi, amandoli, avellane, cinamomi, ranciti, pignoli, moscardini, codognate de zucharo senza spetie» (rb.) e la «copeta», della quale Bona era ghiotta.  Per nostra sfortuna il cronista non nomina i vini. Avremmo conosciuto i nomi di quei polputi, robusti licori nostrani che soccorsero per poter ingurgitare lutto questo ben di Dio. È vero, però, che fu servita alla fine acqua odorosa. Come spiega lo stesso Passaro a quei tempi così si usava: «Ogni cavaliere serve la sua adorata dama; si mangiucchia, si gusta di quello e di questo, si ciarla di pettegolezzi, si parla d’amore»; e il «vino di Cipro, molte ornate dichiarazioni, molti assai teneri colloqui va riscaldando e al suono suggestivo degli stromenti, al sospiro delle viole, le illanguidite giovanette s’inebriano del delizioso profumo che una fontanella d’acqua di odore spande attorno nell’aria».

* tratto da LUIGI SADA, L’arte culinaria barese al celebre banchetto nuziale di Bona Sforza nel 1517 in La Regina Bona Sforza tra Puglia E Polonia, Atti Del Convegno Promosso Dall’associazione Culturale «Regina Bona Sforza “. Bari, Castello Svevo, 21 aprile 1980).

Epilogo.

Trenta anni prima, nel suo ufficio postale abbarbicato a Latte sul confine della contea di Francia, Vincent aveva ricevuto un robot simile che lo aiutava nel disbrigo dei compiti più ripetitivi e noiosi, ma di cui non aveva inteso la funzione di spionaggio: il robot aveva registrato tutte le sue operazioni di sabotaggio telematico alle produzioni di armi, aveva memorizzato tutti i suoi movimenti, aveva stampato le sue lettere, codificato le telefonate e, insomma, aveva fatto di tutto e l’impensabile per arrivare alla goccia che lo avrebbe inchiodato a vita: Vincent era stato beccato in flagrante a scrivere, durante l’orario di Riposo Obbligatorio e non Procrastinabile, un racconto breve, sulle Stazioni, i Treni, la gente che lì si incontra: altri cinque anni e il carcere duro. E poi tutto il resto. Ma Vincent sapeva che Banryu aveva dei punti deboli e sapeva anche che il Sistema aveva dei punti deboli. Era una questione di tempo o forse no, ma il solo fatto di poterlo ancora pensare lo rendeva un po’ più libero. 

I heard it through the grapevine (Mi è giunta la voce). Di Federica Benazizi

la foto è di Simone Raeli

2300 d.C.

Il genere umano si è estinto.

Un’astronave aliena approda sul nostro pianeta in cerca di forme di vita.
Immaginate la terra ricoperta di vegetazione, il pianeta verde, e non un’anima viva da secoli.

Se foste il visitatore sconosciuto, oltre al verde lussureggiante, notando le tracce di una civiltà estinta, probabilmente vi spingereste oltre nella ricerca di informazioni.
Dove andreste a cercare testimonianze della specie scomparsa?
A chi chiedere?

Io chiederei alla vite.
In Slovenia alcuni viti sono risultate avere più di 400 anni
Certo, ci sono alberi molto più vecchi e, tra le piante più longeve al mondo, ci sono un pino, un tasso e un cipresso. Ma considerate il grado di interrelazione con l’uomo: i cipressi sono esseri solitari.

La vitis vinifera, invece, può vantare circa 8000 anni di addomesticamento.

Se foste quel visitatore ne prendereste qualche barbatella portandola sulla vostra astronave per finire di interrogarla a casa. Non prima, però, di averle fatto questa domanda:

– Che cos’è l’uomo?

– L’Uomo è un fantasma.

– Che cos’è un fantasma?

– Un evento terribile condannato a ripetersi all’infinito, forse solo un istante di dolore. Qualcosa di morto che sembra ancora vivo. Un sentimento sospeso nel tempo come una fotografia sfocata. Come un insetto intrappolato nell’ambra. (The Devil’s Backbone, 2001)

HTTGP
Heard it through the Grapevine.