Estetica senza (s)oggetti. Linee di fuga creatrici

La foto è mia e il caffè me lo sono bevuto. Questo non è un caffè

Ho avuto, per lungo tempo, l’erronea impressione che Nicola Perullo scrivesse di filosofia e, ancora meglio, di estetica. Non che non sia un filosofo, sebbene io non sappia di sicuro cosa sia un filosofo almeno dai tempi di Eraclito, né che non si occupi di estetica, ovvero di quella branca oscura della voluttà più o meno conscia e più o meno veicolata.

Ma nulla di tutto questo. Sappiamo da svariati secoli che se c’è qualcosa che inganna queste sono proprio le parole: subdole, infingarde, tentatrici, incomplete, esse rimestano nel torbido almeno tanto quanto le nostre coscienze (sempre che sia dimostrabile che ne abbiamo una o più d’una o almeno qualcuna in prestito): “La coscienza si manifesta, però, viene e percepita, ‘saputa’, solo in quanto – nella e con – specifica esperienza: è un percepire consapevolmente con, un sentire/sentirsi pensare/pensarsi indissolubile, del tutto irriducibile alla cognizione. La coscienza si conosce solo in quanto la si esperisce, vivendola, attraverso quella inaggirabile singolarità percettiva” (pag. 46).

D’altra parte Perullo non cita tanto per fare Wittgenstein quando afferma che i termini ‘buono’ o ‘bello’ non sono affatto caratteristici, al pari del costrutto sintattico ‘Questo è buono/bello’, ma ciò che conta è l’occasione in cui vengono detti, ovvero il contesto espressivo e relazionale: “le parole fanno parte di un’annodatura processuale che si manifesta, in ogni occasione, come evento differente” (pag. 189).

Nicola Perullo ci porta per mano all’interno di una casa degli specchi dove le parole, prese singolarmente, sono semplicemente identiche a se stesse e non hanno alcuna capacità, né tantomeno volontà, di esprimere un senso compiuto poiché prive di un tessuto relazionale. Allo stesso modo le proposizioni, i cosiddetti ‘concetti’, non hanno alcuna funzione esplicativa, raziocinante, definitiva. E neppure l’Eco sociale, da sé, è in grado di svincolare il tessuto molteplice delle parole perché esse, ripetute infinitamente di fronte al proprio Narciso riflesso (soggetto e oggetto sono una cosa sola), sono illusorie.

Quasi immediatamente, per processo associativo, mi sono venute in mente le teorie sociologiche sul ‘frame’ e sui ‘framework’ di Ervin Goffman[1] e, ancor meglio e diversamente, quelle estese dall’antropologo scozzese Victor Turner al teatro, alla performance e all’idea di ‘margine’ o di ‘limen’. Ma ascoltiamo direttamente Turner: “Le regole ‘incorniciano’ il processo teatrale, ma quest’ultimo trascende la sua cornice. Un fiume ha bisogno di argini per evitare le sue pericolose inondazioni, ma gli argini senza un fiume sono l’immagine stessa dell’aridità. Il termine ‘performance’ deriva dal francese parfournir, che significa letteralmente ‘fornire completamente o esaurientemente’. To perform significa quindi produrre qualcosa, portare a compimento qualcosa o eseguire un dramma. Ma secondo me, nel corso della ‘esecuzione’ si può generare qualcosa di nuovo. La performance trasforma se stessa. Le regole possono incorniciare la rappresentazione, ma il lusso dell’azione e dell’interazione entro questa cornice può portare a intuizioni senza precedenti. È possibile che in questo caso le cornici teatrali tradizionali vadano sostituite: nuove bottiglie per il vino nuovo[2]”.

Da qui il termine ‘flusso’ che “denota la sensazione olistica presente quando agiamo in uno stato di coinvolgimento totale ed è una condizione in cui un’azione segue all’altra secondo una logica interna che sembra procedere senza bisogno di interventi consapevoli da parte nostra (…). Ciò che esperiamo è un flusso unitario da un momento a quello successivo, in cui ci sentiamo padroni delle nostre azioni, e in cui si attenua la distinzione tra il soggetto e il suo ambiente, fra stimolo e risposta, o fra presente, passato e futuro[3]”.

In queste condizioni la performance si afferma come una pratica totale dove si realizza la perdita dell’io (intesa come privazione dell’ego) in una piena fusione tra atto e coscienza dove conta il momento, il qui e ora, nel quale il processo accade. L’agire intrapreso non è contraddittorio e il flusso non ha bisogno di finalità o ricompense esterne (è autotelico). Ugualmente Perullo afferma che “l’estetico accade quando una relazione richiama consapevolmente la singolarità di un evento qui e ora, come relazione, cioè come sua apertura simultanea all’ovunque e sempre dell’intessitura complessiva dell’accadere/mondo”. (pag.98)

Il limite, dunque, non è solo l’ostacolo o la forma di contenimento, ma è quel luogo in cui si perdono i riferimenti precedenti: la liminalità è la condizione in cui avviene la “scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o ‘ludica’ dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra[4]”.

Il parlare, le mute eloquenze[5], l’agire all’interno delle relazioni fra campi che costituiscono la continua formazione dell’opera di cui il giudizio estetico ne è l’espressione abbreviata e tagliata non riguardano incontri già accaduti, si direbbe ‘passati’, ma invece quelli pienamente ‘presenti’ in quanto corrispondenti e attualmente recepiti (pag.128).

Dicevo, al principio di questa breve disamina, che di un testo puntuto e felicemente indisponente come “Estetica senza (s)oggetti” avevo erroneamente pensato fosse un trattato filosofico al pari degli altri scritti di Perullo. Si potrebbe discutere a lungo su che cosa sia il filosofare, ma è indubbio, almeno per me, che questo libro occupa uno spazio pienamente politico (rinvio all’altro scritto di Perullo, Epistenologia, e al riferimento all’estetica anarchica). Anche questa volta si potrebbe polemizzare a lungo che cosa sia il politicare: quello che so di certo è che ha poco da spartire con quella che è considerata la professione della politica strettamente intesa e con tutti i politicismi a cascata: “Se si parte dal (s)oggetto, sarà inevitabile cedere alle leggi del(la) Capitale, che si infiltreranno ovunque: denaro (capitale finanziario), cultura (capitale culturale), viventi (capitale umano) e menti filosofiche. Il ‘capitale culturale’ è il business del pensiero e coincide col modello capitalistico-finanziario della banca. (…) Il percepire estetico e aptico non cerca di comprendere, di aggredire e di attanagliare qualcosa per sentirlo; non cerca di “fare esperienza” come movimento attivo intenzionalmente indirizzato verso qualcosa; non cerca neppure il godimento. Non cerca letteralmente nulla (…) Educarsi percependo è un processo di apprendimento, non a contenuti ma all’ad-tendere: attenzione e attesa. E non l’attesa di qualcosa, ovviamente: attesa come inclinazione, volgersi, considerare (cum sidera). Imparare ad attendere è anche pazienza: supportare/sopportare, patire. È quindi anche disimparare, disallineandosi dal dominio percettivo prevalente dell’accumulazione e della linearità. Senza obiettivi predefiniti né scopi, questo educarsi esprime il senso della continua fioritura umana nel contesto più ampio della corrente del vivere” (pp. 176, 177).

Come nel romanzo kafkiano la metamorfosi produce una deterritorializzazione dell’uomo e crea una “linea di fuga creatrice che non vuol dire null’altro che se stessa”: “Uno scrittore non è un uomo-scrittore, è un uomo politico, è un uomo-macchina, è un uomo sperimentale – che cessa così di essere uomo per diventare scimmia, o coleottero, cane, topo, divenire-animale, divenire-inumano (…)”. La scrittura diviene, dunque, “un’enunciazione che fa tutt’uno col desiderio, al di sopra delle leggi, degli stati, dei regimi. Enunciazione sempre storica, politica e sociale. Una micro-politica, una politica del desiderio, che metta in causa tutte le istanze[6]”.


[1] Cfr. Ervin Goffman, Frame analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Armando Editore, Roma 2001

[2] Turner V., Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986, pag. 145

[3] Csikszentmihalyi M., cit in Turner V., Dal Rito al Teatro, p 105

[4] V. Turner, Antropologia della performance, Bologna, Il Mulino 1983, pag. 187

[5] “Parlano le mani tutto ciò che la lingua sa dire, e l’arte sa fare; tutte le dita sono alfabeti; tutto il corpo è una pagina sempre apparecchiata a ricever nuovi caratteri, e cancellarli”. Emanuele Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, o sia Idea dell’Arguta et Ingeniosa Elocutione che serve à tutta l’Arte Oratoria, Lapidaria, et Simbolica esaminata co’ Principij del divino Aristotil, per Giovanni Sinibaldo, stampatore regio,Torino 1654 in Ottavia Niccoli, Muta eloquenza. Gesti nel Rinascimento e dintorni, Vilella, Roma 2021

[6] Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 2010 (edizione originale 1975); G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione? Cronopio, Napoli 2010; J. Derrida, Sulla parola. Istantanee filosofiche, nottetempo, Roma, 2004

Il vino di un’orecchia!

Di Henry Vandyke Carter – Henry Gray (1918) Anatomy of the Human Body (See “Libro” section below)Bartleby.com: Gray’s Anatomy, Plate 904, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=566846

Sto leggendo, in maniera compulsiva, le fantastiche “Note azzurre” di Carlo Dossi, quando mi imbatto nella 4245 che fa in questo modo: «…Vino de una oreja – ossia buon vino, perché chi scuote la testa mostrando così le sue orecchie dà segno che il vino che beve non gli piace, al contrario di chi soddisfatto di quanto beve, china la testa verso il bicchiere e così mostra una orecchia sola. E poi si dice che le immagini ardite non hanno popolarità! Altra frase ardita e pittorica è quella che si usa in Borgogna per indicare taluno che mangia male per vestire bene “ha budellla di velluto e di seta”».

Il riferimento è al proverbio spagnolo “Vino de una oreja, prendado me deja; vino de dos, maldígalo Dios” (Il vino di una orecchia mi lascia incantato; il vino di due, Dio lo maledica).

Allora vado a curiosare in giro e trovo che Fleury de Bellingen, nel 1656, scrive una cosa simile: «Jamáis vin á deux oreilles ne nous fit diré des merveílles” (Nessun vino a due orecchie ci ha mai fatto dire meraviglie).

E così continua nei suoi Les Ilustres Proverbes[1]: SÍ aprés avoir bu, j’avais branlé les deux oreilles et tourné et remué la tete à droite et à gauche, j’aurais montré par ce signe dédaigneux que le vin ne m’agréait pas» (Se, dopo aver bevuto, avessi mosso entrambe le orecchie e avessi girato e scosso la testa a destra e a sinistra, avrei mostrato con questo segno di disprezzo di vino che non mi piaceva).

Meraviglia! Introdurrei un’orecchia, e una sola, dopo chiocciole, grappoli, numeri, bicchieri, pallini… come simbolo di riconoscimento della bontà assoluta di un vino. Ma, per la prima volta, una sarebbe il massimo e soltanto due il minimo. Vie di mezzo non ci sarebbero.


[1] Fleury de Bellingen, L’Etymologie ou Explication des Proverbes François, divisée en Trois Livres par Chapitres en forme de Dialogue. Avec une Table de tous les Proverbes contenu en ce Traicté, Chez Adrian Vlacq, 1656

Ghiottonerie e policentrismi

Una libagione simposiaca in una pittura vascolare attica a figure rosse da Vulci (480 a.C.). Museo del Louvre Di Macrone, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=401363

Nella Francia del XVI secolo prorompe un’inusuale metonimia che va sotto l’espressione simbolica del “gusto di terroir” (goût de terroir): si passa così dalla descrizione delle attitudini e delle potenzialità di un territorio agricolo in senso lato a quelle più specifiche consacrate alla vigna. Si giunge infine al vino e, per metafora e per estensione, sul finire del XVII secolo, al terroir come rappresentazione dei pregi e dei difetti degli abitanti di un determinato territorio. Se ne accorge persino un’antica popolazione precolombiana sudamericana dedita al cannibalismo, i Caribi che, stando alle descrizioni di un monaco francese del Seicento, possiede un’idea assai precisa delle qualità e delle carenze dei suoi nemici: «Come è facile da aspettarsi i francesi erano deliziosi, di gran lunga i migliori. Ciò non sorprende, anche tenendo conto di un pregiudizio nazionalistico. Al secondo posto, sono lieto di poterlo affermare, venivano gli inglesi. Gli olandesi erano duri e indigesti e gli spagnoli talmente filacciosi da essere quasi immangiabili, persino bolliti. Tutto questo, tristemente, sembra esprimere pura e semplice ghiottoneria». (Patrick Leigh Fermor, Gluttony)

È invalso l’uso, soprattutto in ambito pubblicitario contemporaneo, della relazione semantica che accompagna le parole ‘sapere’ e ‘sapore’: apparentemente comprensibile, se non altro per la radice comune.  Ma vi è un tempo in cui la correlazione tra i due termini arriva ad essere pienamente assimilata e definitivamente compiuta. Per Agostino la sensazione gustativa non è altro che il risultato del movimento dell’anima che, muovendo l’umido nel sensorio del gusto, permette di accogliere, riconoscere e distinguere i sapori: «il gusto sarà allora – per riprendere una metafora cara a molti pensatori medievali e impiegata dalla stesso Agostino – la porta attraverso cui la mente conoscerà, nel senso pieno del termine, ciò che in natura è buono, cioè confacente alla natura corporea dell’uomo, e ciò che, invece, è contrario a tale natura e perciò nocivo». (Ilaria Prosperi, Gnoseologia e fisiologia del gusto nella tradizione neoplatonica – agostiniana e in quella aristotelica – tomista) Solamente il gusto, confermerà la Summa de saporibus (XIII secolo) è destinato, in maniera propria e precipua, ad indagare la natura delle cose: perché il gusto ne assorbe le proprietà e vi si mescola totalmente (ei totaliter admiscetur). Il sapore rivela il senso, ovvero l’essenza, e quindi il sapere, insito nelle cose. Il senso del gusto, unione del corpo e dell’anima (aisthesis), diventerà, per Giovanni Scoto Eriugena, aistheria: custode del senso.

Ai piedi delle grandi trasformazioni sociali dell’Ottocento, compaiono, nelle ultime righe del “Dizionario dei sinonimi” (1830, in Piero Camporesi, La terra e la luna), alla voce “zuppa”, le seguenti parole: «Tutte le nazioni incivilite posseggono trattati de re culinaria. Se in Italia si dovesse scrivere un libro non barbaro intorno a questo delicato argomento, mancherebbero le parole ad esprimere con sapore italiano i segreti della grand’arte, a cui deve il modo tante buone cattive digestioni, vale a dire tante ore di piaceri e di noie, tanti atti d’impazienza e di durezza, tanti di generosità e di speranza. La digestione è una tra le più importanti e meno considerate cose della umana vita, e un trattato della buona digestione, sarebbe opera enciclopedica, perché tutta piena di questioni di fisica, di chimica, di meccanica, d’agricoltura, di storia, di filologia, di patologia, d’estetica, di morale, di economia pubblica, di religione eziandio.  Considerata l’arte culinaria in questo aspetto, diventa una scienza nuova: e chi sa che il suo Vico sia vicino?» Noi sappiamo, così come la sapevano i nostri avi, che le usanze, le pratiche e le identità sono mutevoli e, forse, più che attenersi ad esse perché storicamente incarnate e  simbolicamente “cosificate”, sarebbe più opportuno scegliere, tra esse, le migliori: «Segue poi nel testo della legge, che dei culti patrii si osservino i migliori; in merito a questo gli Ateniesi consultarono Apollo Pizio, per sapere quali culti cioè si dovessero assolutamente mantenere, e l’oracolo rispose: “Quelli che già fossero nell’usanza degli antenati “. E dopo essersi recati una seconda volta, dicendo che le usanze dei padri erano spesso mutate, essi chiesero quale usanza fra le tante così varie dovessero seguire in particolare, l’oracolo rispose: “La migliore”. E senza dubbio è così, che debba esser considerato più antico e più vicino al dio ciò che è il meglio». (Marco Tullio Cicerone, De legibus, Libro II, 40). Un’identità che si fissa immobile nel tempo non ha passato né futuro perché è un essere che nulla ha mai cessato di essere. Ed è forse soltanto questo il paradosso apparente dei saperi culinari ed enoici che hanno attraversato in lungo e in largo le storie del Mediterraneo e dell’Italia in particolare: costruiti su policentrismi e identità in continua trasformazione hanno saputo essere, in ogni caso, un punto di riferimento storicamente costante della cultura gastronomica mondiale.

Nell’antica Roma si ereditava solo il vino o anche le anfore in cui era contenuto?

Iniziazione bacchica in un affresco nella Villa dei misteri a Pompei antica. Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=156518

Il legato, nell’antica Roma, era un lascito testamentario: oggetto del legato potevano essere un diritto reale, un diritto di credito, la remissione di un debito (legatum liberatiònis), una quota di eredità (legatum partitiònis), una rendita alimentare ed altro. “Il processo di avvicinamento tra i gènera legatòrum raggiunse il culmine nel diritto giustinianeo, allorché, si stabilì che i legati avevano tutti unam naturam, cioè una sola natura, e i vari tipi di legato si fusero insieme. In caso di pluralità di legatari, si distinguevano due ipotesi:

  1. vi era coniùnctio re et verbis, se il legato spettava a più chiamati ed in caso di morte o rifiuto di uno di essi, la sua parte restava nel patrimonio ereditario;
  2. vi era coniunctio re, se l’erede aveva a suo carico tante obbligazioni con oggetto uguale, quanti erano i legatari”. (Cfr. https://www.simone.it/newdiz/newdiz.php?action=view&id=1597&dizionario=3)

Proprio nel Digesto giustinianeo (Giustiniano I), suddiviso in 50 libri che contenevano i frammenti delle opere di giuristi romani e promulgato il 16 dicembre del 533 d.C., troviamo il frammento di Domizio Ulpiano[1], contenuto nel Liber XX ad Sabinum, a proposito del legato del vino: «Si vinum legatum sit, videamus an cum vasis debeatur. Et Celsus inquit, vino legato, etiamsi non sit legatum cum vasis vasa quoque legata videri; non quia pars sunt vini vasa, quemadmodum emblemata argenti, scyphorum forte vel speculi, sed quia credibile est mentem testantis eam esse ut voluerit accessioni esse vino amphoras, et sic (inquit) loquimur habere nos amphoras mille ad mensuram vini referentes. In doliis non puto verum, ut, vino legato, et doliis debeantur, maxime si depressa in cella vinaria fuerint, aut ea sunt quae per magnitudinem difficile moventur. In cuppis autem sive cuppulis puto admittendum et ea deberi,nisi pars modo immobiles in agro veluti instrumentum agri erant. Vino legato utres non debuntur nec culeos quidem deberi dico (D. 33, 6, 3 § 1)».

Così la traduzione di Iole Fargnoli[2]: «Se è legato del vino; vediamo se sia dovuto assieme ai suoi contenitori. Celso dice che quando il vino è legato, anche se non è legato con i contenitori, essi appaiono ugualmente essere legati, non perché i contenitori sono parti del vino, come per esempio gli ornamenti all’argento (così come deve essere per le coppe o lo specchio), ma perché è verosimile che l’intenzione del testatore fosse quella di considerare le anfore come fossero un’accessione al vino; è cosi, disse, noi parliamo di avere un migliaio di anfore, riferendoci alla quantità di vino. Dove le botti sono interessate, io non penso che sia vero che quando ii vino sia legato, anche le botti siano dovute, specialmente se esse sono fissate nella cella vinaria o sono difficili da spostare a causa della loro dimensione. Tuttavia, nel caso di tini o tinozze, penso che debba ammettersi che esse sono pure dovute, a meno che esse siano allo stesso modo inamovibilmente fissate al suolo così da essere un instrumentum della terra. Quando il vino è legato, gli otri non saranno dovuti; io dico che non sono dovute neanche le sacche di pelle».

Tale regola giustinianea venne poi avvalorata nella Magna Glossa da un “commento” di Bartolo da Sassoferrato (Sassoferrato, 1314 – Perugia, 13 luglio 1357). Quello che a noi interessa è notare come la metonimia contenuta nella espressione del “testatore”, «…sed quia credibile est mentem testantis eam esse ut voluerit accessioni esse vino amphoras, et sic (inquit) loquimur habere nos amphoras mille ad mensuram vini referentes», ovvero «…ma perché è verosimile che l’intenzione del testatore fosse quella di considerare le anfore come fossero un’accessione al vino; è cosi, disse, noi parliamo di avere un migliaio di anfore, riferendoci alla quantità di vino» entri, di fatto, nella prassi consolidata dell’esecuzione dell’intenzionalità testamentaria. Al contrario, con ciò che non può essere spostato, come i tini e le tinozze, perché fissato nel terreno oppure che rappresenta un mezzo di trasporto estemporaneo, di transito veloce, come gli otri o i sacchi in pelle (recipienti fatto di pelle di capra conciata e cucita), allora il vino viene s-legato dal rapporto di complementarietà necessaria e indissolubile e la metonimia perde la forza del diritto.

[1] Ulpiano, Domizio. – Giurista romano (m. 228). Praefectus praetorio assieme a Paolo, è uno dei cinque giuristi indicati dalla cosiddetta legge delle citazioni (426) di Teodosio II e Valentiniano III, come coloro alle cui dottrine dovevano attenersi i giudici nella decisione delle controversie. Le sue opere maggiori sono i due commentari ad edictum in 81 libri e ad Sabinum in 51 libri. (da Treccani,.it)

[2] Iole Fargnoli, Cibo e diritto in età romana, Giappichelli Editore, Torino 2015, pag. 64

Ai rigori! Notazioni sul gioco del calcio e le sue magagne

Di William Ralston (1848-1911) – Scanned from the book Historia del Fútbol, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=43148046

Dopo che il capitalismo si è imposto come sistema globale, questi ha scatenato un po’ ovunque il suo figliolo prediletto, quello che aveva tenuto in serbo per la sua vittoria più matura e consapevole, piena e ragguardevole: il liberismo. Il figliol prodigo non agisce ovunque allo stesso modo: forte di una libertà d’azione mai avuta in precedenza si accorda con usi e costumi dei luoghi, con le mentalità più arcane delle genti, con le loro brame più sottili, con le voglie più durature, con i poteri più scaltri, con i tempi sempre più veloci e, proporzionalmente, sempre più corti. Il gioco del calcio professionistico è compreso in una partita ben più grande dove, come diceva un tempo la saggezza popolare, l’appetito vien mangiando. Forte di un rimando religioso, il gioco del calcio unisce, e per la stessa ragione divide, processi economici all’avanguardia, plusvalenze comprese, e un medioevo simbolico fatto di bandiere, sciarpe, schieramenti di truppe in campo e fuori, fairplay e non occasionali grandi evasori fiscali, ma prima di tutto beniamini, pulsioni orgasamtiche che vanno in gol e devozioni al cielo e alla terra (segni della croce e balletti), sontuose cattedrali nei più disparati deserti collocati sulla sabbia o su desolati manti urbani e, nei casi peggiori, antiche schiavitù fatte di sfruttamento e di morte.

Il figlioletto sbarazzino e cattivello del capitalismo più rapace si diverte come può: compra, vende, disfa, si aggrega per fondi sovrani e sovrumani, aggira, agghiotta, complotta, petroldollarizza, internazionalizza, affonda, recupera, scuote e si dimena. 

Sempre, però, con estremo rispetto per le consuetudini predatorie di coloro che si prostrano ai suoi piedi. 

Qui da noi il liberismo più burlone e divertito, costruttore di bolle di sapone tanto grandi quanto veloci ad esplodere, si è adattato ad un gioco ricco di pacche sulle spalle e di odi misurati, di compra-vendite con super-Pos per sovrafatturazioni volte a remunerazioni massimamente immeritate, di accordi crepuscolari al lume di un candelabro, di lettere mai spedite, di telefonate a casaccio, di frasi dette a bocca stretta, di folgietti sparsi, di sospetti a cascata e di cascate di sospetti. Scopriamo, dunque, che qualcuno forse ruba, fotte, si appropria, falsifica, agghiotta non senza aggottare e che qualcuno lo fa più e diversamente e meglio, finchè dura, di altri. Quando le pacchie finiscono sono sempre pacchie di altri e tornano ad esibirsi cappi come nella lontana Tangentopoli, ma solo per l’attimo che serve per una dichiarazione d’intenti; quella che conferma l’appartenenza ad un consorteria diversa e che poi rientra un attimo dopo aver sibilato  “che così fan tutti”, casomai. Siamo un popolo profondamente religioso e sappiamo altrettanto bene che le indulgenze hanno un prezzo come qualsiasi merce ben disposta in un mercato rionale. Quello che mal sopportiamo sono essenzialmente due cose: non essere al posto di un qualcun altro quando costui detiene un potere, meglio se predatorio; due, che questo costui si faccia beccare mentre depreda. Il fatto in sé ha valore in senso positivo o negativo nella misura in cui si portrae: il tempo è la misura della capacità e del valore del governante (non solo in senso politico). 

Il figlioletto agitato del capitalismo iconico e selvaggio qualora cada ha tutte le capacità per riprendersi: si specializza e affina le tecniche per i futuri saccheggi. Per fare questo ha bisogno di nuove classi dirigenti che sostituiscano quelle più logore e meno aggiornate del passato. Le pensiona con le buone o con le cattive, indipendentemente dal raggiungimento della vecchiaia agognata.

E così si potrà tornare a ballare intorno al cappio per un nuovo giro di danza. In fondo quel cappio è solo la corda che tiene uniti per non perdersi.