
Nella Francia del XVI secolo prorompe un’inusuale metonimia che va sotto l’espressione simbolica del “gusto di terroir” (goût de terroir): si passa così dalla descrizione delle attitudini e delle potenzialità di un territorio agricolo in senso lato a quelle più specifiche consacrate alla vigna. Si giunge infine al vino e, per metafora e per estensione, sul finire del XVII secolo, al terroir come rappresentazione dei pregi e dei difetti degli abitanti di un determinato territorio. Se ne accorge persino un’antica popolazione precolombiana sudamericana dedita al cannibalismo, i Caribi che, stando alle descrizioni di un monaco francese del Seicento, possiede un’idea assai precisa delle qualità e delle carenze dei suoi nemici: «Come è facile da aspettarsi i francesi erano deliziosi, di gran lunga i migliori. Ciò non sorprende, anche tenendo conto di un pregiudizio nazionalistico. Al secondo posto, sono lieto di poterlo affermare, venivano gli inglesi. Gli olandesi erano duri e indigesti e gli spagnoli talmente filacciosi da essere quasi immangiabili, persino bolliti. Tutto questo, tristemente, sembra esprimere pura e semplice ghiottoneria». (Patrick Leigh Fermor, Gluttony)
È invalso l’uso, soprattutto in ambito pubblicitario contemporaneo, della relazione semantica che accompagna le parole ‘sapere’ e ‘sapore’: apparentemente comprensibile, se non altro per la radice comune. Ma vi è un tempo in cui la correlazione tra i due termini arriva ad essere pienamente assimilata e definitivamente compiuta. Per Agostino la sensazione gustativa non è altro che il risultato del movimento dell’anima che, muovendo l’umido nel sensorio del gusto, permette di accogliere, riconoscere e distinguere i sapori: «il gusto sarà allora – per riprendere una metafora cara a molti pensatori medievali e impiegata dalla stesso Agostino – la porta attraverso cui la mente conoscerà, nel senso pieno del termine, ciò che in natura è buono, cioè confacente alla natura corporea dell’uomo, e ciò che, invece, è contrario a tale natura e perciò nocivo». (Ilaria Prosperi, Gnoseologia e fisiologia del gusto nella tradizione neoplatonica – agostiniana e in quella aristotelica – tomista) Solamente il gusto, confermerà la Summa de saporibus (XIII secolo) è destinato, in maniera propria e precipua, ad indagare la natura delle cose: perché il gusto ne assorbe le proprietà e vi si mescola totalmente (ei totaliter admiscetur). Il sapore rivela il senso, ovvero l’essenza, e quindi il sapere, insito nelle cose. Il senso del gusto, unione del corpo e dell’anima (aisthesis), diventerà, per Giovanni Scoto Eriugena, aistheria: custode del senso.
Ai piedi delle grandi trasformazioni sociali dell’Ottocento, compaiono, nelle ultime righe del “Dizionario dei sinonimi” (1830, in Piero Camporesi, La terra e la luna), alla voce “zuppa”, le seguenti parole: «Tutte le nazioni incivilite posseggono trattati de re culinaria. Se in Italia si dovesse scrivere un libro non barbaro intorno a questo delicato argomento, mancherebbero le parole ad esprimere con sapore italiano i segreti della grand’arte, a cui deve il modo tante buone cattive digestioni, vale a dire tante ore di piaceri e di noie, tanti atti d’impazienza e di durezza, tanti di generosità e di speranza. La digestione è una tra le più importanti e meno considerate cose della umana vita, e un trattato della buona digestione, sarebbe opera enciclopedica, perché tutta piena di questioni di fisica, di chimica, di meccanica, d’agricoltura, di storia, di filologia, di patologia, d’estetica, di morale, di economia pubblica, di religione eziandio. Considerata l’arte culinaria in questo aspetto, diventa una scienza nuova: e chi sa che il suo Vico sia vicino?» Noi sappiamo, così come la sapevano i nostri avi, che le usanze, le pratiche e le identità sono mutevoli e, forse, più che attenersi ad esse perché storicamente incarnate e simbolicamente “cosificate”, sarebbe più opportuno scegliere, tra esse, le migliori: «Segue poi nel testo della legge, che dei culti patrii si osservino i migliori; in merito a questo gli Ateniesi consultarono Apollo Pizio, per sapere quali culti cioè si dovessero assolutamente mantenere, e l’oracolo rispose: “Quelli che già fossero nell’usanza degli antenati “. E dopo essersi recati una seconda volta, dicendo che le usanze dei padri erano spesso mutate, essi chiesero quale usanza fra le tante così varie dovessero seguire in particolare, l’oracolo rispose: “La migliore”. E senza dubbio è così, che debba esser considerato più antico e più vicino al dio ciò che è il meglio». (Marco Tullio Cicerone, De legibus, Libro II, 40). Un’identità che si fissa immobile nel tempo non ha passato né futuro perché è un essere che nulla ha mai cessato di essere. Ed è forse soltanto questo il paradosso apparente dei saperi culinari ed enoici che hanno attraversato in lungo e in largo le storie del Mediterraneo e dell’Italia in particolare: costruiti su policentrismi e identità in continua trasformazione hanno saputo essere, in ogni caso, un punto di riferimento storicamente costante della cultura gastronomica mondiale.