Nelle Marche del 1800. Radici e vincoli, storie di territori e vitigni. Di Giulio Masato

Premessa

Qualche tempo fa Giulio Masato mi spedisce via mail la sua tesi di laurea: Evoluzione della piattaforma ampelografia marchigiana, dall’Unità d’Italia ad oggi. Una bella tesi, con molti riferimenti storici interessanti e sconosciuti ai più. Parla di una regione, le Marche, a cui sono molto legato (nonni, padre, zii, cugini…). Gli ho chiesto un articolo, estratto dalla sua tesi, che pubblico molto volentieri. E’ un testo lungo, sedetevi comodi.

Giulio Masato ha 22 anni, laurea triennale in Scienze e Tecnologie Viticole ed Enologiche, attualmente iscritto alla laurea magistrale in Scienze e Tecnologie Agrarie. Per le ultime due vendemmie è stato nelle Marche, a Cupramontana. Nel 2012 a fare un tirocinio a La Distesa e nel 2013 a lavorare nell’azienda DiGiulia.

 

 

“Da dove potremmo meglio cominciare se non dalla vite”

Gaio Plinio Secondo

“Storia Naturale”, XIV, 8, Primo Secolo d.C.

 

Vitigno ed ambiente. Mi piace, ma lo ritengo anche necessario, iniziare a parlare di storia viticola ed ampelografica marchigiana partendo da questi due concetti. Il legame tra vitigno ed ambiente, nelle Marche come nelle altre regioni a vocazione viticola, è andato costruendosi nel corso della storia, plasmandosi in seguito a numerosi avvenimenti di carattere storico-culturale. Se è vero che l’importanza dell’ambiente, come fattore determinante nella qualità della produzione vitivinicola, risale all’epoca della Magna Grecia e dell’Impero Romano, quando i vini prendevano il nome della regione in cui affondavano le proprie radici. Il valore del vitigno si è invece affermato solo in tempi più recenti, nonostante numerosi lavori di carattere “ampelografico” fossero stati realizzati già a partire da Democrito e Columella. In particolare, tra il 1700 ed il 1800, a fronte di un contesto in grave declino che caratterizzava il Vino italiano, iniziarono a diffondersi numerosi lavori volti ad un rilancio del settore vitivinicolo. Il fulcro centrale attorno al quale si concentravano questi studi era rappresentato proprio dal vitigno, e dall’imprescindibile relazione con il suo ambiente di coltivazione. Prima di concentrarsi sul fattore Vitigno, nel considerare la storia vitivinicola e l’evoluzione della piattaforma ampelografica marchigiana, è dunque fondamentale riconoscere, anzitutto, la vocazione viticola di questo Territorio.  

Baccus amat colles […] or questi ameni colli non sdegnano di certo questo amore bacchico, che anzi lo condividono e lo sollecitano con le loro particolari condizioni cosmotelluriche. Qui infatti calore e luce in tal copia da facilmente maturare e dorare i preziosi grappoli viniferi, qui terre pronte ad apprestargli le più squisite sostanze alimentari, qui abitanti disposti a fargli il miglior vino possibile, qui tutto insomma concorre a rendergli accetto e gradito il soggiorno” 1 

“Interposta di fatti questa Regione tra i monti e l’Adriatico, presenta delle alte creste di quelli alle onde marine, serie parallele di contrafforti appennini e di colli subappennini, distinte da strette valli tagliate normalmente solo da quelle non spaziosissime di pochi fiumi. [Non vi è dunque] vastità di piani, ma amenità di alture; [non vi è] ricchezza di acque irrigatorie, ma magnifiche esposizioni di poggi. […] le campagne […] fin dagli antichi scrittori vennero lodate per feracità in viti, e ne derivarono vini, i quali costituivano in secoli da noi non lontani, un articolo interessante di esportazione” 2 

Calandosi nella lettura di questi scritti compaiono regolarmente riferimenti di carattere climatico, pedologico ed ambientale, anteposti come primo, e necessario, sostegno allo studio dei diversi vitigni presenti nel territorio marchigiano. Dalla consapevolezza di questo patrimonio sorgevano infatti le principali riflessioni sul “fare vino” di allora. La critica mossa e ribadita da chiunque fosse, all’epoca, impegnato a valorizzare la ricchezza vitivinicola delle Marche, si scontrava inevitabilmente con l’importanza del vitigno. La scelta varietale.  

“Posti nel centro della zona vitifera, e quindi in clima, ove la vite prospera quanto mai possa desiderarsi, e offre sicurezza e regolarità di prodotti; in un suolo tutto conformato a colline; […] ricchi di terreni d’ogni natura attissimi a produrre svariate specie di vini; ricchi di estesissime piantagioni di viti, che ogni dì vengono aumentandosi, sicuri per esperienza di poter fabbricare vini squisiti e attissimi al trasporto a prezzi discretissimi; […] a nostra grande vergogna dobbiamo però confessare che non sappiamo cavarne profitto![…]Essa è conseguenza di un trascurato sistema di coltura che ci ha empito le campagne di uve volgari, mirando solo alla quantità del prodotto, e non curando la qualità, al punto di piantare le più svariate specie di uve alla rinfusa, senza riguardo a precoce o tardiva maturazione, a diversità di colore, di ricchezza zuccherina, ecc. Ogni uva è buona purché dia sugo, dice il nostro mezzadro e […] la maggior parte dei proprietari”17.

“Questo popolo ha trovato le sue terre adatte alla viticoltura, ha veduto che quasi ogni varietà di uve poteva pervenirvi a maturazione; e qui ha traviato, perché senza prevedere le conseguenze le ha rimescolate nei vivai, non le ha distinte nei filari, e nemmeno attorno ad uno stesso acero” 3 

“Agglomerare in una vigna le più disparate varietà di viti. Da questa secolare noncuranza per la loro distinzione, è derivato il difetto di applicare alle medesime nomi locali, senza curarne i riscontri non solo nelle altre Provincie, ma anche negli altri territori della Provincia stessa. Da ciò la difficoltà maggiore per la […] distinzione delle varietà, trovando denominazioni multiple e spesse le più svariate per i medesimi vitigni”  4 

Continuava inesorabile, in ogni dove, la diffusione di vitigni considerati di basso pregio, e ci si ritrovava dentro un’enorme babele di varietà mescolate nello stesso appezzamento, lungo il medesimo filare ed attorno ad un unico sostegno. In poco tempo si era giunti ad un profondo scadimento dei vini marchigiani. Lo stesso accadeva, contemporaneamente, in altre (non ancora) regioni della penisola. Alla base di ciò si poteva infatti notare una conoscenza pressoché nulla sopra i vitigni diffusi in questi territori.

Ovviamente, alla scarsa attenzione nella scelta varietale seguivano, e si sommavano, diversi altri aspetti legati alle pratiche viticole ed enologiche. Tutto ciò contribuiva a rendere i vini marchigiani di allora, ad esclusione di rari casi, di basso pregio e di fatto molto poco apprezzati.  

All’inizio del 1800 una forte scossa al mondo agricolo marchigiano venne data dall’Inchiesta agraria di Filippo Re. Tra 1808 e 1813, aveva raccolto importanti dati che avrebbero presto rappresentato un forte segnale sia dal punto di vista conoscitivo che innovativo per il mondo agricolo. Un altro impulso venne invece da un volume pubblicato nel 1808 con il titolo “Il Dottore della Villa su tutti i principali oggetti dell’Agricoltura“, scritto da un sacerdote della diocesi di Jesi, Don Angelo Antonio Rastelli. In questo trattato di agronomia l’autore intendeva diffondere le conoscenze utili per un progresso dell’agricoltura locale, che rappresentassero anche un faro per la creazione di una sicura fonte di guadagno. In supplemento a questo volume era stato inserito un “Dialogo sul necessario miglioramento de’ vini Anconitani, e del Piceno, per formarne un ramo d’interessante commercio“.  

Dottor di Villa. Ben tornato, Signor Fattore, cos’avete portato di bello d’Ancona?

Fattor di Campagna. Una cosa assai bella, e ai tre nostri Dipartimenti assai vantaggiosa.

Dott. E sarebbe?

Fatt. Abbia VS. la bontà di legger questo Manifesto.

Dott. (legge)

Il Prefetto del Dipartimento del Metauro.

AVVISO

I Vini Anconitani già celebri, che formavano oggetto di rilevante Commercio colli Paesi finitimi, ed esteri, sono da molto tempo decaduti di prezzo, e sonosi resi infimi di grado, che il forastiere giunge a crederne alcuni insalubri. Analizzate le Terre, ove germogliano le Viti, e fatto confronto da littorale a littorale marittimo, e dell’attiguo suolo denominato entro terra, sonosi dedotte due cause dell’attual qualità de’ Vini Anconitani: la mancanza d’un regolamento, che fissi l’epoca delle Vendemmie, e il Metodo, che si pratica generalmente nella fabbricazione e nella custodia de’ Vini.  

Il 5 novembre 1808 il prefetto del dipartimento del Metauro, tale Giuseppe Casati, aveva infatti emanato un comunicato con lo scopo di lanciare un concorso, per la redazione di una studio volto a migliorare la qualità dei vini anconitani. Meno di un anno dopo, oltre al suddetto scritto dell’abate Rastelli, veniva stampato ed inviato al sig. Casati un altro testo in risposta al medesimo concorso. “Istruzione sul miglioramento de’ vini nel dipartimento del Metauro“, scritto dal professor Giovanni Brignoli, conteneva numerosi insegnamenti per ottenere un vino buono, divisi in una serie di punti: la scelta delle viti, l’altezza alla quale tenere le viti, l’ingrasso, la vendemmia, la fermentazione, lo svinamento e l’imbottigliamento, la conservazione, ed infine una parte relativa alle falsificazioni.  

Fatt. Ma mi dica, le due cause assegnate nel Manifesto sono le sole a concorrere nell’attuale deterioramento de’ nostri Vini?

Dott. Ha inteso d’assegnar solamente le cause principali, per cui da molto tempo i nostri Vini son decaduti di pregio: per altro sonovene anche altre, alle quali presso di noi molto non si bada, perché cercasi più d’aver molto vino, che d’averlo buono: errore massiccio.

Fatt. E sarebbero?  

Di questo passo i lavori e gli studi volti ad un progresso del settore vitivinicolo marchigiano proseguivano nel corso di tutto il secolo. Ad opera del cav. Vincenzo Bianchi, presidente del Comizio Agrario di Ancona, più avanti venne pubblicato un piccolo volume volto a divulgare le conoscenze più moderne sulla produzione di “vini da pasto comuni, e fini rossi e bianchi, spumanti, liquorosi, aromatici”. Questo libro, stampato con il titolo “Brevi istruzioni sui migliori metodi di fare il vino tratte dalla pratica dei più reputati vigneti, ad uso dei proprietari ed agenti di campagna“, nasceva proprio per essere un manuale pratico, accessibile ed usufruibile da chiunque lo desiderasse. Nonostante l’attività sperimentale e divulgativa in questo periodo risultasse molto operosa, la seconda metà dell’Ottocento rappresentò un periodo molto difficile per il settore agricolo, che visse la profonda crisi fotografata nell’Inchiesta Jacini.  

Dott. La cattiva qualità del terreno, ove si piantano le viti, la poco felice esposizione, in cui si mettono, il cattivo metodo di piantarle, e di coltivarle, le diverse specie di uve anche cattive, e la mancanza d’una necessaria diligenza per tirarle a una perfetta maturazione prima di vendemmiarle sono altrettante cause, che pregiudicano alla buona qualità del vino.

Fatt. Oh quante cose! ma la terra non è la stessa quella d’adesso, che di cinquecento, mille, e due mill’anni fa? perché allora facevano il vino buono, e conservabile, e adesso nò?

Dott. Non è colpa della terra, è colpa dell’Agricoltore, che non sa adattare la buona qualità delle viti alla buona qualità del terreno.

Fatt. E la terra contribuisce alla diversa qualità dei vini?  

Alle porte dell’Unità d’Italia anche nelle Marche si viveva un periodo di grande cambiamento, che nell’ambito agricolo aveva comportato una serie di difficoltà non trascurabili. Trovandosi nel centro Italia le condizioni dei contadini risultavano ancora peggiori, e si stava verificando una diffusione sempre più crescente della pellagra. Ci sono giunte alcune testimonianze dell’epoca che ricordano come i mezzadri, che lavoravano piccoli terreni, all’epoca soffrissero la fame e gli unici alimenti accessibili fossero rappresentati da “pane di granturco, […] minestre di legumi con condimento di grasso di maiale, […] erbe o minestra di farina” e nelle domeniche invernali “il vino […] ma innacquato5. Altre testimonianze riportano in aggiunta come nessuna casa di campagna fosse provvista del bagno, in quanto si usufruiva del letamaio. I ragazzi iniziavano a lavorare in età molto giovane e, secondo alcuni scritti, già ad otto anni iniziavano a svolgere le prime mansioni di cura del bestiame.  Tutti questi disagi non solo sociali, ma anche sanitari, comportavano difatti un crescente dilagare delle malattie. Basti pensare che “nel 1881 Marche ed Umbria avevano poco più di mille pellagrosi, nel 1899 erano saliti a 6593 e nel 1900 erano ancora 63426. La consapevolezza di questa situazione, procedendo verso la fine del secolo si stava però traducendo in una volontà di ripresa, per progredire in ambito agricolo, rilanciare la produzione e tornare a poter competere con le altre potenze estere nell’esportazione.   

Dott. E qual dubbio? La terra secondo le sue diverse qualità comparte alle viti i diversi acidi, i nitri, i sali, il solfo, i minerali secondo che più, o meno ne abbonda, i quali disciolti dall’acqua, o dall’umido sotterraneo, e posti in azione dall’aria, dal calorico, e dalla luce penetrano in sostanza per mezzo delle radiche, e delle barbe nei vasi più delicati della pianta, e circolando nel corpo legnoso, come sangue nelle vene, s’insinuano nei sughi e nelle uve, a cui comunicano la loro specifica sostanza, la materia zuccherosa, i sali essenziali, gli olj fissi aromatici, lo spirito rettore, e modificati dal carbonio, dall’ossigeno, dall’idrogeno compartono al sugo delle uve sapore, colore, forza, e spirito, onde poi ne viene un vino, che non solo gustasi con piacere, ma ancora si mantien sano per lungo tempo. Laddove poi non concorrono questi vantaggiosi principj, e primarie sostanze, il vino non può essere mai buono, nè mantenersi.

Fatt. E qual è la specie dei terreni, che somministrano al vino i detti essenziali principj, e in conseguenza sono più a proposito per la piantagione delle viti?  

Concentrandosi sul settore vitivinicolo, nelle Marche iniziavano a sorgere le prime scuole e cattedre ambulanti per l’insegnamento specifico di viticoltura ed enologia. La prima venne istituita nel 1863 ad Ascoli Piceno, e fu una delle prime in Italia, mentre tra 1878 e 1879 nascevano anche nelle provincie di Ancona, Macerata e Pesaro. A Loreto, dove almeno dal 1849 viene ricordata una buona attività spumantistica, nel 1870 venne fondata la Società Enologica delle Marche, alla quale nel 1876 aderì anche Ruggero Rosi, uno dei più importanti studiosi in ambito vitivinicolo della regione, nonché figlio di Ubaldo Rosi, precursore nelle produzioni spumantistiche della regione. A Cupramontana (Ancona) nel 1883 venne proposta la creazione di una Scuola Enologica, che però non fu possibile realizzare. Nel 1893 venne invece istituita anche qui una Cattedra Ambulante di Viticoltura ed Enologia, presieduta dal prof. Riccardo Callegari di Conegliano.  

Dott. Sono le terre un po’ magre, asciutte, sciolte, calcinellose, leggiere, mischiate anche di ghiaia, di piccoli ciottoli, di pietre focaje. Queste sono le terre più acconcie per le viti, e per avervi degli ottimi vini, comecchè contengono più di carbonio, e di solfo, e rendono un temperato calore atto a formare, a concentrare, ad esaltare il succo delle uve; e munite essendo de’ necessari essenziali principi, mercé l’aria, e il calorico, che penetra facilmente siffatti terreni sciolti, e meglio sviluppa i principi più fini della vegetazione, danno al vino spirito, e fuoco, efficacia, vigore, e sottigliezza per conservare la sua bontà per parecchi anni. […]

Fatt. Anche la scelta delle viti da piantarsi è necessaria per averne dei migliori vini?

Dott. E’ comune il proverbio: “il buon Vitino fa buon Vino”. La terra contribuisce per conto suo i materiali più acconci, e più vantaggiosi; ma bisogna, che sia secondata, e coadiuvata dall’arte. Questa consiste nel scegliere le migliori qualità di viti per fornire la pianta. Non si può a meno tra le differenti specie di non ravvisare anche l’influenza delle naturali disposizioni del corpo legnoso delle viti dal diverso sapore, colore, odore, forza, e spirito del mosto, e del vino a seconda dei principi, e dei materiali, onde il corpo legnoso dei vegetabili è composto, sicché, quanto sono essi di maggior perfezione, tanto più è dolce, gentile, odoroso, e spiritoso il vino. Voi non mettete a confronto la Labrusca col Moscatello, né il Vesprino, il Montanaro, il Gonfiabotte, il Maceratese col Verdicchio, col Trebbiano, colla Malvasia, coll’uva d’oro, e con altre, che in diversi paesi diversi nomi, ma che si fanno però distinguere al gusto col sapore delle loro uve dolce, e soave, e che danno poi un vino gentile, di buon sapore, colore, odore, e anche di corpo, e di spirito. Dite lo stesso delle altre uve negre, come sono l’Aleatico, la Balsamina, il Moscatello, la Vernaccia, il Sangiovese, la Corbina, che danno vini sempre migliori delle uve bianche, e le viti di queste dovrebbero esser sempre preferite.

Fatt. E queste viti com’ella crederebbe di metterle ne’ filari della piantata alla rinfusa, o spartitamente?  

In questo quadro i vini marchigiani iniziavano pian piano a farsi conoscere sia in Italia, rispetto a quelli di altre regioni, sia all’estero. Alcuni esempi si possono ritrovare nei vini presentati all’Esposizione Internazionale di Vienna, tenutasi nel 1873. All’interno di questa manifestazione vennero particolarmente apprezzati gli spumanti di Francesco Spalazzi di Loreto. Nell’Esposizione Internazionale del 1876 a Philadelphia (USA) vennero invece presentati i “vini da pasto eccellentissimi per profumo, corpo e forza7 della Società Enologica di Servigliano (Ascoli Piceno). Ancora, nel 1878 all’Esposizione Internazionale di Parigi vennero riconosciuti un Sangiovese del 1876 di Senigallia, prodotto da Campagnoli e Wallisch, ed una “lagrima” di Fabriano, prodotta dal cav. Benigno Bigonzetti. Esiste a proposito un documento, contenuto all’interno del volume “La Esposizione Ampelografica Marchigiana-Abruzzese tenuta in Ancona il settembre 1872 e Studi sulla vite e sul vino della Provincia di Ancona” pubblicato nel 1783, intitolato “I vini Anconitani giudicati alle Esposizioni Provinciali del 1869 e del 1872“. Nell’Esposizione del 1869 il segretario della Commissione di valutazione dei vini era il Sig. Ernesto di Grandmount, console francese ad Ancona, ed esperto di enologia. Costui prima di esprimere le proprie valutazioni sui vini presentati, dedicava alcune righe per fare un commento, che appare molto significativo, sulla viticoltura e sull’enologia della provincia di Ancona.  

“I viticultori devono attendere seriamente a piantare nella stessa vigna una sola e medesima varietà di vite, sia per la non benefica influenza che possono esercitare l’una sull’altra le varietà differenti tenute vicine, sia perché la loro maturazione non avvenendo contemporaneamente, le uve giungono allo strettoio con disposizioni diverse alla fermentazione. Nella Provincia di Ancona già da parecchi anni alcuni proprietari di vigna, a fronte della scoraggiante ed ostinata malattia della vite e dei seri disinganni toccati finora, decisero di spazzar via tutte le vecchie piantagioni, scegliendo dei vitigni in gran parte indigeni e d’origine antica, ben conosciuti nel luogo, allo scopo di ottenere una produzione migliore. Ed ebbero splendidi risultati degni di distinzione” 8.   

Ma ciò non bastava a ricavare degli ottimi vini, infatti la critica si rivolgeva anche alla “poca cura che mettono a vigilare la prima e seconda fermentazione del mosto, sicché non è da stupirsi se ci offrono vini snervati, con corpuscoli natanti, e perciò di poca o niuna importanza commerciale, perché inetti a viaggiare“9.Di seguito il segretario della Commissione valutatrice si interrogava sulla posizione dei vini italiani nel mercato mondiale ed individuava due punti che dovevano servire a far si che l’Italia non perdesse la sua supremazia. Chiedeva dunque che l’anno venturo i vini si presentassero all’Esposizione con l’indicazione del prezzo di vendita e della produzione annua. Passando alla valutazione dei vini, lodava i tre produttori che maggiormente si erano distinti, ovvero F. Spalazzi di Loreto, T. Campagnoli e Wallisch di Senigallia e B. Bigonzetti di Fabriano. Il signor Spalazzi veniva elogiato per il suo Vino Santo 1863, per la Lacrima e per lo Spumante Marchigiano, che veniva addirittura paragonato agli Champagne per leggerezza, effervescenza e limpidezza. Veniva inoltre sottolineato come quest’ultimo venisse venduto a sole 3 Lire a bottiglia, nonostante la sua elevata qualità. Venivano invece lodati il Sangiovese rosso di Montecarotto 1867, l’Aleatico e la Verdea di Montecarotto 1866-68 prodotti dai signori Campagnoli e Wallisch. I loro vini si distinguevano per limpidezza, colore ed aroma. Infine anche il signor Bigonzetti veniva lodato ed incoraggiato a continuare nel suo ottimo lavoro, poiché produceva vini molto apprezzati a costi decisamente contenuti, da 1,25 a 2 Lire a bottiglia. Nonostante le critiche esposte inizialmente, il sig. Ernesto di Grandmount si congratulava con i produttori marchigiani, che all’Esposizione si erano presentati in 80, perché stavano iniziando a costruire un’ottima base al settore vitivinicolo regionale.  

Fatt. Abbiamo veduto, quant’altre cose concorrono a formar la bontà e il miglioramento de’ nostri vini sig. Dottore affrettiamoci ad entrar nell’epoca delle vendemmie, giacché l’ora si fa tarda; e, per quanto capisco, rimane ancor molto da dire.

Dott. Voi sapete, che, quando tratto d’Agricoltura, non mi stanco mai di dire; basta, che voi non vi stanchiate d’ascoltarmi, giacché oramai viene il buono, e il bello.

Fatt. Io ho tutto il piacer d’ascoltarlo. Mi dica dunque: qual epoca si potrebbe fissare per le vendemmie?

Dott. Non si può costantemente fissare l’epoca della vendemmia a determinati giorni in ogni luogo, perché questa dipende dalla qualità della stagione, che or anticipa, or posticipa, non meno che dalla maturità delle uve, che è quella, che dà norma alla vendemmia. […]

Fatt. Ma quando possiamo ragionevolmente credere, che le uve siano giunte alla loro maturità per esser vendemmiate?

Dott. Il primo giudice è il gusto, poiché, assaggiata l’uva, sentesi al palato, che è dolce, e saporosa; e nulla ritiene di aspro, e piccante. Se poi volete altri segni, badate, che l’uva bianca di verde ha da esser divenuta gialla, e trasparente; l’uva rossa poi s’è fatta negra. Premete ancora un grano d’uve: se esce il liquore sciolto in vece della polpa, e questo liquore è dolce al gusto, e s’attacca alle dita, è segno, che l’uva è matura. Osservate anche il seme delle uve: se questo nelle bianche di bianco, ch’era, o verdastro, è divenuto oscuro, e quello delle negre s’è fatto rosso, e vien fuori spogliato di polpa, si può por mano alla vendemmia.

Fatt. Ma non tutti i capi, e i racemi dell’uve possono essere ugualmente maturi. Quei, che sono esposti al sole, per l’ordinario maturano prima di quelle, che restano nell’ombra, o dalla parte di tramontana.

Dott. Or qui consiste, l’arte di far buono, e durevole il vino, di far, cioè, la scelta delle uve mature sulla vendemmia, staccando colle forbici, o col coltello dalla vite solamente quei capi, e grappoli, che si trovano perfettamente maturi, lasciati i meno maturi ad altra ripresa, e per una seconda, ed anche terza vendemmia da farsi dopo vari giorni interpolati. Questa scelta, non potete mai credere, quanto contribuisca ad avere ottimi vini, e durevoli […]. I nostri vini per questo non hanno credito, e non sono atti a conservarsi, e a reggere alla navigazione, perché senza veruna scelta si colgono all’avviata, e generalmente tutte le uve d’ogni vite, buone, e cattive, fatte e non fatte, mature, e immature: si confondono quelle di colle, e di piano, di basso fondo, di mezzodì, di tramontana, e non fassi alcuna distinzione, o ricapo. Che buon mosto, che buon vino potrà da tal miscuglio sortire, voi vel potete immaginare senza ch’io vel dica.  

Alla seguente Esposizione Provinciale del 1872, commentata nelle pagine dello stesso volume, il relatore della Commissione valutatrice, Vincenzo Bianchi, iniziava anch’esso esprimendo alcune considerazioni sulla realtà vitivinicola marchigiana. Le critiche, questa volta, venivano però rivolte ancor più esplicitamente al modo di fare vino, alla mancanza di conoscenze enologiche, alla disomogenea produzione che rendeva difficile il commercio, e quindi alla diffusa scarsa qualità dei vini prodotti nella regione. Nonostante ciò anch’esso non mancava di riportare alcuni lodevoli esempi, che risultano essere gli stessi premiati nella precedente Esposizione del 1869. In particolare la ditta Campagnoli e Wallisch era stata l’unica ad inviare per ogni vino i saggi di quattro anni, dal 1867 al 1870, mentre gli altri nella maggior parte dei casi avevano inviato solo vini molto giovani. I saggi di vini presentati all’Esposizione del 1872 erano in tutto 53, dei quali: 25 vini da pasto suddivisi in 9 bianchi e 16 rossi dei quali 8 comuni ed 8 fini; 18 vini da dessert dei quali 12 rossi e 6 bianchi; infine 10 vini appartenenti alla categoria “vini di capriccio” o “vins de fantasie”.

Seguivano dunque delle valutazioni su ogni tipologia di vino:

– vini rossi da pasto comuni: la chiarifica lasciava molto a desiderare, il colore era generalmente bello ma spesso reso giallognolo in seguito alla cottura, il bouquet aromatico mancava quasi in tutti, il sapore era poco gradevole e costituito da sensazioni slegate e in contrasto tra loro, la maggior parte peccavano in corpo, ma non in gradazione alcolica. I consigli erano dunque volti ad una produzione di vini eliminando la cottura del mosto e partendo da uve “buone in proporzioni determinate dall’esperienza10 perché, vista la quantità prodotta, potevano rappresentare una buona tipologia da esportare;

– vini rossi da pasto fini: venivano fabbricati con uve di qualità ben nota, ed avevano dunque maggiore finezza e vivacità da poter essere paragonati a vini toscani e piemontesi. La chiarifica era ottima e dunque il colore bello e intenso, molti avevano un aroma piacevole, come lo era anche il sapore. Il corpo e l’alcolicità venivano definiti sufficienti. Il loro difetto stava nella limitata produzione;

– vini bianchi da pasto: la maggior parte, secondo una tradizione locale, erano fermentati con le vinacce e si sarebbero dunque dovuti chiamare “vini gialli”. La giuria invitava a portare avanti esperienze comparative con altre vinificazioni in bianco tradizionali, visto che il grande commercio preferiva i vini bianchi fermentati senza le vinacce. Dei saggi analizzati circa la metà venivano considerati fini, mentre gli altri comuni, soprattutto in conseguenza della scelta di vitigni più o meno fini;

– vini rossi da dessert o aromatici: trovavano i propri pregi soprattutto in delicatezza, equilibrio gustativo e finezza olfattiva. La limpidezza non era quasi mai perfetta, il colore era intenso, l’aroma gradevole e pronunciato anche se non sempre trovava riscontro nel sapore. Nonostante i loro pregi nessuno dei saggi presentati poteva considerarsi veramente un vino liquoroso, e ciò li rendeva non idonei alla commercializzazione;

– vini bianchi da dessert: tra questi uno era spumante, uno liquoroso ed uno aromatico, mentre gli altri erano tendenti al liquoroso ma non ben definiti come tali, ed inoltre troppo giovani. Il vino liquoroso era stato chiamato Vino Santo 1871, lo spumante prodotto a Loreto dalla Società Enologica Marchigiana prendeva il nome di Marca Spumante, mentre il vino da dessert aromatico era un moscato bianco. Tutti questi ultimi tre vini presentavano ottime caratteristiche sensoriali;

– vini speciali rossi: nessuno dei saggi presentava qualità degne di nota, infatti venivano denotati come vini “indecisi” e la giuria non poteva fare altro se non consigliare un maggiore approfondimento delle tecniche di vinificazione usate per produrre questi vini;

– vini bianchi speciali: tra questi erano stati presentati un “vino cotto stravecchio”, un vino proveniente da uve verdicchio, un vino detto “granatina” e pochi altri, alcuni dei quali vennero anche apprezzati per le loro particolari caratteristiche.  

“E’ un massimo errore il preferire la quantità alla qualità del vino […] Conviene adattare la qualità delle uve alla natura e alla situazione del terreno. […] Non si suole comunemente distinguere in questo paese la varia qualità delle viti nel formare le piantagioni e si piantano indistintamente senza porgere senza riflesso a quelle che maturano prima o dopo le altre. […] Non si mescolino in un tino più qualità di uve a meno che ciò non facciasi con quelle che l’esperienza insegnò riuscir bene combinate assieme. – E se ciò non fosse possibile per – la piccolezza della tenuta […] si procuri almeno di separare le uve mature dalle immature cogliendole a varie riprese. Non si colga in un giorno più quantità di uva, di quella che si può pigiare nella giornata medesima”11 

Le Marche si affacciavano dunque alle porte dell’Unità d’Italia in una situazione che calzava molto bene nel contesto della penisola, ma non per questo rassicurante. Le condizioni della popolazione rurale, le pratiche di coltivazione, le scarse conoscenze di carattere ampelografico, le tecniche di vinificazione. Tutto contribuiva nel determinare il livello molto basso della produzione enologica regionale. Impulsi positivi iniziavano però a spezzare la monotonia del quadro vitivinicolo marchigiano sette-ottocentesco. Basti pensare che, oltre a tutti gli avvenimenti, lavori, studi e pubblicazioni già dette, nel 1872 nasceva il Comitato Centrale Ampelografico italiano. Assieme ad esso numerose Commissioni locali iniziavano a studiare la piattaforma ampelografica, le tecniche di coltivazione, le pratiche enologiche ed ogni altro aspetto legato alla produzione vitivinicola in tutti i Mandamenti del territorio regionale. Ritenere il 1800 come IL momento di grande svolta è però azzardato, vista la storia precedente su cui poggiava il vino marchigiano, viste le numerose difficoltà che dovette affrontare la viticoltura marchigiana nel secolo successivo, e considerate le attuali nuove sfide con cui si scontra il settore. Un avvenimento di fondamentale importanza può però essere legato a questo periodo storico. L’importanza del vitigno come unità di valore nel suo legame con l’ambiente, ha infatti trovato ampio spazio nel 1800. Nonostante il lungo viaggio dei Vitigni alla ricerca di ambienti conformi alla loro espressione fosse iniziato millenni prima, fino ad allora l’uomo non si era soffermato più di tanto ad apprezzare le diverse qualità varietali. Era l’ambiente che determinava la grande qualità dei vini provenienti dai diversi territori. Tutti gli avvenimenti, le considerazioni sulle tecniche di coltivazione e sulla qualità dei vini di allora, acquisiscono dunque un significato ancor più forte nel momento in cui hanno contribuito a radicare nel territorio marchigiano determinati vincoli tra varietà diverse e diversi micro-ambienti. Come in ogni legame però l’equilibrio tra le parti va ricercato costantemente. Nell’istante in cui si sfiora il filo della stabilità, non tardano a soffiare nuove sfide, si perde il baricentro, e l’equilibrio va perseguito altrove. Chi credeva di essere finalmente arrivato, precipita. Chi persegue nuovi punti di stabilità forse deve fare qualche passo indietro e chissà, riscoprire nel vino non solo il sapore di quell’uva, ma anche di quella terra.  

1)  Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio – Direzione dell’Agricoltura, 1876. “Bullettino Ampelografico – Fascicolo VI, anno 1876”. Roma: Tipografia Eredi Botta. pp. 429, 430 

2) “Primi studi sulle viti della provincia di Ancona” eseguiti nel 1871 dalla Commissione Ampelografica. Ancona: Tipografia del Commercio, 1871. pp. 9,10  

3) De Bosis F. 1873. “La Esposizione Ampelografica Marchigiana-Abruzzese tenuta in Ancona il settembre 1872 e Studi sulla vite e sul vino della Provincia di Ancona”. Ancona: Tipografia del Commercio. pag. 106 

4) “Primi studi sulle viti della provincia di Ancona” eseguiti nel 1871 dalla Commissione Ampelografica. Ancona: Tipografia del Commercio, 1871. p. 12 

5) Mancinelli R. e Villani V. 1996. “Dalla Cassa Rurale al Credito Cooperativo. Ostra Vetere 1921-1996”. Ostra Vetere 1996. pp.12-13. (Citato in: Ceccarelli R. 2007. “Vitigni e vini della Marca di Ancona”. Provincia di Ancona, Assessorato all’Agricoltura – quinta edizione riveduta. p. 19)  

6) Tombesi U. 1904. “Le condizioni economiche delle Marche”. Pesaro. pag.7. (Citato in: Ceccarelli R. 2007. “Vitigni e vini della Marca di Ancona”. Provincia di Ancona, Assessorato all’Agricoltura – quinta edizione riveduta. p. 19)  

7) Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, 1875-76-77. “Annali di Agricoltura, Parte I. Agricoltura, Volume 90. Secondo semestre 1875 Anni 1875-77”. Roma: Tipografia Eredi Botta, 1877. p.227. (Citato in: Ceccarelli R. 2007. “Vitigni e vini della Marca di Ancona”. Provincia di Ancona, Assessorato all’Agricoltura – quinta edizione riveduta. p. 17) 

8) De Bosis F. 1873. “La Esposizione Ampelografica Marchigiana-Abruzzese tenuta in Ancona il settembre 1872 e Studi sulla vite e sul vino della Provincia di Ancona”. Ancona: Tipografia del Commercio. pp. 132-133  

9) De Bosis F. 1873. “La Esposizione Ampelografica Marchigiana-Abruzzese tenuta in Ancona il settembre 1872 e Studi sulla vite e sul vino della Provincia di Ancona“. Ancona: Tipografia del Commercio. pp. 132-133  

10) De Bosis F. 1873. “La Esposizione Ampelografica Marchigiana-Abruzzese tenuta in Ancona il settembre 1872 e Studi sulla vite e sul vino della Provincia di Ancona“. Ancona: Tipografia del Commercio. pp. 138  

11) Anselmi, S. 1996. “Contadini marchigiani del primo Ottocento. Una inchiesta del Regno Italico”. Senigallia: Ed. Sapere Nuovo. pp. 366,368. (Citato in: Ceccarelli R. 2007. “Vitigni e vini della Marca di Ancona”. Provincia di Ancona, Assessorato all’Agricoltura – quinta edizione riveduta. p.25)