Il ricordo del cannonau

Chiesa di Santa Reparata (2007) By Concettod – Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15498457

Entrammo nella Fiat 131 color aragosta – almeno presumo che si trattasse di quella autovettura e di quel colore (spesso la memoria si abbarbica in una penosa quanto inutile risalita a ritroso) – per tornare a casa di Rosa e di zia Pietrina tutta vestita di nero. La zia era in lutto da tanti anni e non usciva mai di casa, così diceva lei in una sorta di vanto. Insieme a loro abitava il figlio e fratello di Rosa, Peppe Antonio o Peppantonio, come immaginavo il suo nome, in una crasi sonora, da piccolo: pastore con una pancia grandissima e tonda quasi fosse un cocomero ingurgitato per intero che mi curavo di accarezzare dolcemente con le mani. Peppantonio mangiava tantissimo fin dal mattino presto: malloreddus, quasi una conca, pecorino, che produceva lui, salsiccia, pane carasau, vino rosso, può darsi cannonau. Una volta chiesi di andare a trovarlo al mattino presto nel suo casotto in cima ad una collina, che poteva essere una pianura, o una zona pianeggiante sopra un altipiano dove trovano rifugio il leccio, la sughera, la quercia, i corbezzoli e l’erica. Un po’ più in là dell’altipiano, ad est, si innalzano le estremità dei monti di Sa Pianedda, di Punta Ololviga e di Chentu Porcos dove nasce il maggior fiume della Sardegna, il Tirso che viene rinvigorito dalle sorgenti di Orunita, Musculajos ed Isteddì.

La punta di Ololviga domina l’altipiano di Buddusò fino alla località di sa Pianedda Di Concettod – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15498884

Arrivammo in ora tarda, alle sei di mattino circa, dentro una nebbia che avvolgeva sassi, arbusti, sugheri, muretti, pecore e, solo parzialmente, la pancia di Peppantonio. La mungitura delle pecore avviene solitamente in primavera e fino a giugno si prepara molto formaggio, poco a luglio e ad agosto a causa del gran caldo e della conseguente scarsezza del pascolo, molto invece e di migliore qualità in autunno, dopo le piogge abbondanti che, per inciso, ora non ci sono più tanto. Terminata la mungitura, il latte è versato in una caldaia solitamente di rame. Messa sul fuoco la caldaia, si scioglie nel latte una quantità abbastanza grande di caglio. Il presame, tenuto ad una certa temperatura, è rimestato colle mani o con un mestolo di legno dal manico lungo. Mentre procede la coagulazione, dopo un’ora o due, si tira fuori il latte rappreso con le mani o con un cucchiaio di legno e lo si getta nella forma, che è una scodella rotonda di legno duro di pero, perforata per far sgocciolare il siero. La forma di legno si poggia su un sostegno fatto di due stanghe di legno con due traverse, che sta sopra la caldaia, in modo che il siero possa sgocciolare. Per accelerare questo processo, si pone sulla forma una tavola di legno rotonda e grossa e si preme con essa il formaggio. Quando il formaggio ha raggiunto la compattezza necessaria, si lascia in riposo per 10-12 ore, poi si toglie dalla forma di legno e si mette in un mastello di legno che contiene la salamoia. Qui il formaggio rimane finché non si ritenga salato abbastanza. Poi le forme di formaggio si fanno seccare sui graticci di legno o di canna1.

Peppantonio parlava poco, solo lo stretto necessario: altrimenti cosa avrebbe fatto a fare il pastore se non per stare zitto. Rosa, al contrario, chiacchierava molto, quasi a colpi di glottide e di occlusive laringali, in un italiano rapido e con una marcata intonazione sarda nell’accento: una seconda lingua conosciuta alla perfezione, coniugazioni, sintassi e stilemi compresi, dove l’inflessione della lingua locale rimandava all’impossibilità di conciliarsi pienamente con le antiche occupazioni aragonesi o sabaude che fossero. Quando Peppenatonio morì ero ancora piccolo e lui credo abbastanza giovane. Mi dispiacque molto anche se abitavo a Torino e Peppantonio a Buddusò: la sua immagine non nitida mi viene in mente di tanto in tanto, così come la sua pancia e la coppola indossata persino a tavola e riposta poi sulla sedia per rispetto. Già Buddusò e poi perché Buddusò? Erano gli amici sardi di Torino di mio padre, che pure lui ed io (mia sorella, mio fratello e i miei figli) portiamo un cognome sardo dato che suo padre, ovvero mio nonno (io mi chiamo come lui, Pietro Stara), nacque e visse per un po’ di anni ad Ozieri prima di frequentare la scuola enologica di Alba e, dopo la prima guerra mondiale, la facoltà di Agraria a Bologna.

Si era fatto tardi e dunque salimmo in auto per tornare a casa di zia Pietrina, di Rosa e di Peppantonio. Riecheggiavano i suoni, i calici e le grida della Festa di Santa Reparata, o di qualche altra santa di minor entità, quando si avvicinò Natale (in Sardegna era, un tempo, nome assai comune di persona): chiese un passaggio a mio padre che glielo concesse più che volentieri. Natale aveva bevuto un bel po’ e credo che anche in quel caso si trattasse di cannonau. Ci salutò, entrò barcollante nel veicolo e, dopo pochi metri dalla partenza, si sdraiò dolcemente sulle mie gambe e su quelle di mio fratello.

1Max Leopold Wagner, La vita rustica della Sardegna rispecchiata nella sua lingua, Ilisso Edizioni, Nuoro 1996, pp. 267 – 270.

Titolo originale: Das ländliche Leben Sardiniens im Spiegel der Sprache. Kulturhistorisch-sprachliche Untersuchungen, Wörter und Sachen. Kulturhistorische Zeitschrift für Sprach-und Sachforschung, Beiheft 4, Carl Winter’s Universitätsbuchhandlung, Heidelberg 1921,

I libri che hanno fatto la storia del vino in Italia. Dagli albori del XIV al XVII secolo

Calendario di agricoltura di Pietro de’ Crescenzi, da un manoscritto del XV secolo
Di Master of the Geneva Boccaccio – http://ecole.orange.fr/college.saintebarbe/moyenage/travaux.htm#Saison, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1949466

L’importanza della letteratura enologica, agronomica e viticola in terra italica, a partire dal secolo XIV e soprattutto in quelli successivi, è davvero rilevante. Naturalmente non è pensabile parlare dei libri che si occupano di vino senza fare riferimento ad alcuni elementi tra loro strettamente collegati: lo sviluppo delle tecniche agrarie, del pensiero e delle competenze scientifiche (e del nuovo veicolo comunicativo rappresentato dai caratteri a stampa grazie all’adattamento di un torchio da vino), da cui il maggior potere entro le corti, non senza conflitti col potere temporale papale e laico, degli scienziati; i cambiamenti nell’organizzazione sociale e l’emergere di nuovi ceti produttivi; il potere medico (diversi dei trattatisti di enologia sono ancora medici secondo l’antica tradizione e ciò a significare non solo l’uso del vino nella farmacopea, come già evidenziato nel capitolo precedente, ma anche lo stretto connubio tra piacere e cura di cui l’arte medica e il potere derivante sono ancora pienamente titolari); la concezione del bello e del buono, soggetta a nuovi canoni interpretativi, che si fa strada tra le arti e nella gastronomica.

Occorre cominciare la narrazione dal Ruralium commodorum libri XII di Pier de’ Crescenzi1, scritto nel 1305 circa, che viene dedicato a Carlo II d’Angiò, re di Sicilia (detto lo Zoppo, 1254-1309): diffuso come manoscritto in 109 copie, ha la prima edizione a stampa soltanto nel 1471. Poi alcune altre edizioni ravvicinate a fine Quattrocento: In commodum ruralium cum figuris libri duodecim, Speier, Peter Drach, c. 1490-1495; De Agricultura, Venezia, Matheo Capcasal, 1495. E di altre ancora nel Cinquecento: P. Crescenzi, De’ Opera di agricoltura. Ne la qual si contiene a che modi si debbe coltiuar la terra, seminare inserire li alberi, gouernar gli giardini e gli horti, la proprieta de tutti i frutti, in Venegia, per Bernardino de Viano de Lexona vercellese, 1536; Id., Opera d’agricoltura, in Venegia, per Bernardino de Viano de Lexona, 1528; Id., Opera d’agricoltura, in Venegia, per Bernardino de Viano, 1538; Id., De omnibus agriculturae partibus, & Plantarum animaliumq; natura & utilitate lib. XII…, Basileae, per Henrichum Petri, 1548.

Le diverse ristampe di un testo divenuto classico indicano l’interesse crescente verso la formazione agronomica e la possibilità della sua diffusione oltre un mero ambito specialistico o di rappresentanza politica. Ed è proprio attraverso de’ Crescenzi che vengono ristampate le opere latine di riferimento dell’autore: Catone, Varrone, Columella e Plinio il Vecchio.

Con un piccolo balzo in avanti non si può non menzionare lo scritto di Agostino Gallo, il più importante agronomo del tempo il quale pubblica, nel 1564, a Brescia, le Dieci giornate dell’agricoltura e de’ piaceri della villa: «a questa seguirono tre edizioni veneziane tra il 1565 e il 1566. Nel 1566 dall’officina del veneziano Nicolò Bevilacqua uscì una versione notevolmente ampliata, dal titolo Le tredici giornate; nel 1569 uscì dapprima, sempre a Venezia ma questa volta dalla tipografia di Grazioso Percaccino, un’appendice autonoma intitolata Le sette giornate dell’agricoltura, destinata a confluire, in quel medesimo anno, nell’unico volume de Le vinti giornate dell’agricoltura. Questa fu l’edizione definitiva e servì da base per tutte quelle successive, che finirono per dare vita ad una vicenda editoriale di assoluto rilievo nel panorama italiano di quell’epoca: dodici edizioni nel corso del XVI secolo (nove a Venezia, due a Torino ed una a Brescia); sei del XVII secolo (tutte a Venezia); quattro del XVIII secolo (a Bergamo, Brescia, Cortona e Roma). L’opera ebbe grande successo oltre che a Brescia e Venezia, anche sul territorio milanese e quello veneto: si ha infatti notizia di contratti di vendita sottoscritti dal figlio di Agostino, Mario Gallo, con librai di Milano, Pavia, Bergamo, Bologna, Piacenza, Verona e Vicenza2». Nelle Giornate dell’agricoltura si trovano citazioni e riferimenti a tutti gli autori “canonici” della classicità greco-latina, assieme a quelli della tradizione medievale e della prima età moderna (Pier de’ Crescenzi su tutti, ma anche Arnaldo da Villanova, Dante, Petrarca e Boccaccio). In secondo luogo, l’opera del Gallo è l’unica ad essere tradotta, ancora nel Cinquecento, in una lingua diversa da quella d’origine (francese) e ad essere divulgata nella stessa Francia attraverso più edizioni consecutive.

Quanto la viticoltura andasse annoverata fra le attività principali dell’agricoltura è testimoniato dall’ampio spazio che le viene dedicato all’interno dell’opera del Gallo. Ben due “giornate”, infatti, la Seconda e la Terza, sono dedicate rispettivamente alla coltura delle viti e alla produzione e alla conservazione dei vini. All’interno della descrizione molto accurata della situazione bresciana, il Gallo introduce una novità di assoluto rilievo e cioè il tema della produzione e del consumo dei vini frizzanti, trattazione che verrà ripresa più avanti da Girolamo Conforti e da Giovan Battista Croce3: «A far perfetti questi vini che noi chiamiamo vini cifoli, o sforzati, per essere di uve nere, bisogna primamente, come son condotte, pestarle coi piedi nelle benaccie fin che sono bene pestate e po’ immastellarle più nette che si può (benché si possano torchiare anche quelle uve, ma meglio è pestarle, conciosia che viene fuori il vino migliore); facendo poi da bollir con l’acqua nella tina quel tino che resta nella benaccia, il quale resterà buono per la famiglia… vero è che a tramutarli di una, o di due volte mentre che bollono, e levar la feccia che si trova sul fondo, restano più amabili, che a star fin San Martino, e peggio (come la maggior parte fanno) fino al Marzo. Et questi vini restano piccanti per più mesi, e alquanto dolci quando le uve non siano mal mature, oltra che durano lungo tempo (come vi ho detto), e restano ben bianchi, essendo posti in vaselli netti4».

Nella Terza Giornata Agostino Gallo dà consigli sulle uve da piantare e del modo di farlo: «Lodo primamente che si piantino quelle che producono le uve cropelle, nere, morbide, per rendere più delle gentili, le quali stanno bene accompagnate con tutte le altre uve nere, e bianche. […] Poi sono mediocremente buone le vernacce nere, percioché non fallano a produr frutto assai. Ma il proprio loro è accompagnarle con le trebbiane bianche, o con le cropelle nere, perché altrimenti non farebbono vin saporito, né potente, e sarebbe anche carico di colore. Ancora sono buone per piantar le schiave nere grosse di grano, che fanno vino assai, benché sia debole e fumoso; ma migliora accompagnandolo con il cropello. Le quali si conservano molti mesi spiccandole per Luna vecchia, di mezzo giorno ardendo il sole, e piccandole non molto mature. Appresso lodo le uve marzemine, che fanno i graspi lunghi, e i grani grossi, per abondar di vino gentile, che tien dell’amabile, ma carico di colore… Parimenti è cosa utile a piantar delle voltoline, percioché oltra che producono in copia vino lodato da tutti per la bontà, e il bel colore, si può bever anco semplice, e accompagnato. Et queste viti sono chiamate voltoline, poiché il vino si volta più fiate all’anno parendo guasto, ma avvenga che in un dì, o dui, ritorni, e duri più a lungo di ogni altro5».

Tanto stimate quanto accurate sono poi le recensioni del bottigliere di papa Paolo III Farnese (1534-1559), Sante Lancerio: in venticinque anni egli ha modo di apprezzare numerosi vini che, secondo le stagioni, le ore del giorno e i numerosi impegni ufficiali e non, allietano la tavola del pontefice. I gusti del papa Farnese, che vive fino all’età di 82 anni, sono giunti a noi grazie al suo bottigliere, che ci ha lasciato gli appunti in cui descrive i “53 vini giudicati da Papa Paolo III e dal suo bottigliere Sante Lancerio6”. Come bottigliere di corte Sante Lancerio segue il papa in tutti i suoi viaggi, selezionando i vini da servire in tavola dopo averne accertato la qualità e si preoccupa di controllare tutte le bottiglie che nobili e potenti regalano al pontefice. I giudizi di Sante Lancerio sono netti, severi e rigorosi a partire da una prima suddivisione che rimarca la scala sociale di valore: da una parte i vini per “signori” e dall’altra quelli per “famigli”. Tutte le esperienze valutative confluiscono poi in una lettera, indirizzata al cardinale Guido Ascanio Sforza, della quale abbiamo testimonianza. Nella terminologia di Sante Lancerio, ricca e precisa, riconosciamo molti termini del gergo dei sommelier e degli enologi contemporanei. Per definire il gusto egli impiega parole come “tondo, grasso, asciutto, fumoso, possente, forte, maturo”. Per il colore utilizza “incerato, carico, verdeggiante, dorato” e così via. È sempre Sante Lancerio a testimoniarci che nel Rinascimento si comincia a manifestare, seppur sommariamente, la ricerca dei possibili abbinamenti tra vini e cibi. Nei menù si va a designare una progressione che va dai vini bianchi leggeri per gli inizi del pasto, ai vini forti o inebrianti per i dessert, passando attraverso i rossi degli arrosti.

Un altro testo fondamentale nella trattatistica enologica è quello scritto da Andrea Bacci, medico e naturalista, nipote di un ingegnere della Basilica di Loreto e discendente da parte di madre dei Paleologi, ultimi imperatori di Bisanzio: De naturali vinorum historia7. Pubblicato nel 1596, è suddiviso in sette libri scritti «in latino per sottolineare l’importanza del lavoro, nei quali passa in rassegna con rigoroso metodo scientifico, tutto lo scibile inerente alla vite e al vino a cominciare, nei 32 capitoli del primo libro, dalle conoscenze degli antichi che puntualmente, e con le opportune chiose, cita riportando autori, opere, titoli e paragrafi. Mette a confronto le loro esperienze con quelle del suo tempo sottolineando affinità o divergenze e aggiungendo personali considerazioni e commenti a proposito dei diversi argomenti che spaziano dalle varietà dei vini, ai tempi e modi di vendemmiare, dalle tecniche di vinificare e conservare i vini, ai vini “cotti” e crudi, alle “sostanze” dei vini e loro guastarsi, dall’aceto al recente uso delle bottiglie in vetro.

Nel secondo descrive i caratteri del vino disquisendo di quelli “caldi”, “freddi”, generosi o deboli, dolci e no, della loro “intima” sostanza, delle diversità di colore, sapore e odori, del significato di questi caratteri e della loro origine per spiegare la quale non trascura il ruolo del terreno e dell’ambiente in genere, l’influsso degli astri, della luna e dei fenomeni naturali o l’influenza di certe pratiche enologiche, come l’aggiunta di acqua e l’uso delle resine, dando un quadro articolato sia delle credenze che di quanto conosciuto circa il vino, nel ’500. Nel terzo libro, ricordandosi d’esser anche medico, tratta dei rapporti di questa bevanda con la salute. […] Di grande interesse è anche il quarto libro, De convivis antiquorum, in cui sulla base dei testi classici, analizza il modo di stare a tavola degli antichi e le regole per l’assegnazione dei posti, gli addobbi e le stoviglie, le qualifiche e le mansioni degli addetti al servizio di tavola, la successione delle vivande e quali di queste ancora si apprestavano al suo tempo diffondendosi in talvolta curiosi ma sempre di grande interesse. […] Ma è nel quinto e nel sesto libro che sfoggia le sue conoscenze enoiche quando con l’acribia di una guida, passa in rassegna, contrada per contrada, tutta l’Italia dei vini descrivendo le varietà di viti, il modo di allevarle, le tecniche di vinificazione e di conservazione dei vini, i prodotti che si ottengono e le loro caratteristiche. […] Al Bacci va dunque ascritto il merito di essere, pur se inascoltato, antesignano delle Denominazioni di Origine, “scoperte” dalla legislazione italiana alla fine degli anni ’60, con le quali prenderà a farsi strada il concetto che qualunque prodotto è figlio di un “suo” ambiente inteso, non solo in senso fisico ma, nell’insieme delle sue componenti compresa quella antropica fatta di uomini, di storia, di tradizioni e di cultura dal quale riceve quell’imprinting che lo rende unico e irripetibile8». Il settimo capitolo, infine, è dedicato ai vini di Germania, Francia e Spagna e alle bevande derivate dai cereali (birra e altri).

Poche sono le notizie biografiche accreditate per Francesco Scacchi, autore del De salubri Potu Dissertatio, (edizione originale Roma 1622 per Alexandrum Zannettum). Sembra essere certo comunque che egli nacque a Fabriano nel 1577, uno dei tredici figli di Durante Scacchi (1540-1620), noto chirurgo della scuola medica Preciana (Preci, PG) ma naturalizzato fabrianese nel 1568. Igienista piuttosto che medico, Francesco Scacchi scrisse il suo libro dedicandolo al Cardinale Ottavio Bandini (1558-1629)9.

Il libro nasce dall’esperienza e da una metodica indagine delle fonti e «ogni osservazione viene esaminata nella dottrina e nella casistica, e impone, per tradursi in precetto, una messa a fuoco. Vengono formulate le quaestiones che si trasformeranno in paragrafi e capitoli: se il vino sia nutriente o no; se le bevande in estate debbano assumersi tiepide, fredde o gelate; quale fra acqua e vino sia il liquido più salubre. Siccome per rispondervi bisogna compulsare le autorità, Ipocrate e Galeno, oltre ai letterati e ai filosofi latini, l’indagine si sposta nel passato, formulata in una nuova domanda: gli antichi preferivano bere freddo o caldo? Di problema in problema, la materia è sviscerata nelle sue articolazioni, tenendo conto che freddo e caldo non sono stati termici della materia, ma umori costitutivi della stessa, e quindi del corpo. […] Se la dottrina appare rigida, la materia dello studio e dell’osservazione è infinitamente varia, per diversità dei corpi e ancor più delle vigne, e delle Albane e dei Falerni che da essi derivano. La dissertazione sulla bevanda salutare è la somma delle osservazioni empiriche e dottrinali formulate come quesiti la cui risposta rientra in un prontuario per regolare regimi, complessioni e consuetudini10».

Un altro medico esperto di vitivinicoltura, operante a Carmagnola alla fine del Cinquecento, il quale commenta, a sua volta un medico, è il piemontese Francesco Gallina, che scrive alcune osservazioni e consigli pratici al Trattato della natura de cibi et del bere del sig. Baldassare Pisanelli, medico bolognese11: egli si sofferma sui caratteri organolettici dei vini piemontesi nuovi e vecchi, sui vini rossi e neri, sull’aroma dei vini, sul taglio del vino con l’acqua, sull’uso smodato del vino ed infine sull’agresto e sull’aceto12.

Così come è bolognese Vincenzo Tanara, autore di L’economia del cittadino in villa13 (1644): suddivisa in vari libri, l’opera viene concepita prendendo ispirazione dal suo soggiorno rurale e dalla conduzione pratica della sua tenuta. L’economia è un testo importante, perché ci racconta una nuova visione dell’agricoltura non più votata alla sussistenza, ma alle esigenze di mercato e ai calcoli di profitto. Particolarmente interessanti si rilevano anche gli incisi e i commenti sulle ricette: espliciti e diretti, dettati dalle personali predilezioni gastronomiche del marchese e dalle sue funzioni di buon padre di famiglia. Fra le citazioni riportate, dal Testamento “porcelli” alla preparazione di pasticci e salse, vogliamo segnalare una nota di “cronaca rosa” sul ruolo ricoperto dalle dame in certi banchetti dell’epoca. Il Tanara stabilisce, al pari dei suoi predecessori, sulla scia di quanto scrive Pier de’ Crescenzi, a sua volta debitore dei classici latini, una netta distinzione tra il vigneto di collina, dove il vino è di migliore qualità, e il vigneto di pianura, dove prevale la quantità: «“Bacco ama i colli” ribadisce Tanara a metà del Seicento, mentre Croce inseriva il legame tra sito e qualità dei vini nel titolo stesso del suo manuale di vinificazione postulando l’eccellenza dei vini “che nella Montagna di Torino si fanno”. […] Sulla strategia di scelta dei tipi d’uva, i testi seicenteschi di Croce e di Tanara divergono notevolmente. Il bolognese Tanara, dal canto suo, dà un elenco dei buoni vini che ricorda solamente in parte quello del Crescenzi: l’albana, ad esempio, rimane il “re” dell’uva bianca e fornisce “un vino delicato”. Ma nella Bologna del Seicento, stando all’Economia del cittadino in villa, la ricerca della quantità era lo scopo principale. Si otteneva più vino aggiungendo acqua al mosto14».

Di diverso parere sull’aggiunta dell’acqua al mosto, anche se il suo testo è scritto più di quaranta anni prima e sicuramente non era conosciuto dal Tanara, e piuttosto originale nella trattazione enologica, è il toscano Giovan Vettorio Soderini, che ospita nel suo scritto15 un testo del Davanzati, edito nel 1600 e ristampato nel 1610: «La pigiatura “in logge aperte al primo piano delle case della villa […] avendo sotto questo luogo accomodato la cantina” in modo che il mosto pigiato scenda nei tini sottostanti attraverso un “cannone di legno” o una “calza di cuoio”; l’uso frequente di uno “instrumento in foggia di una vanghetta leggiera e sottile, che rada bene”, per tagliuzzare gli acini e i raspi durante la pigiatura; l’aggiunta di acqua nel tino prima della pigiatura e non al mosto o al torchiato; la nuova invenzione venuta da Città di Castello mettere “l’uva spicciolata granello a granello”, cioè soltanto gli acini in una botte “puntellata” e chiusa ermeticamente per una bollitura di quaranta giorni; l’addolcimento delle uve raccolte quindici giorni sulla paglia al sole o “sopra i tegoli al sole, sicché scotti” oppure in cesti di vimini, da cui raccogliere il mosto ottenuto con la rottura degli acini con “bacchette”; il ricorso alla non bollitura del mosto messo in una botte calata nell’acqua del pozzo per qualche mese; lo schiarimento del vino torbido con la posa di trucioli di legno di nocciolo per quaranta giorni; la ricetta del mosto fresco bollito con la farina e spezie come cibo prelibato, la maturazione del grappolo d’uva “in un fiasco spogliato della veste”; l’acconciatura del vino con pece greca, o con allume, calcina e zolfo16».

Un ultimo accenno sulla produzione letteraria seicentesca del mondo vinicolo deve essere dedicato a un libro, assai raro e ristampato di recente17, scritto da Giovanni Flavio Bruno, autore di cui si sa pochissimo, che viene pubblicato a Napoli nel 1567 e conta circa 183 edizioni sino al 1593. L’unica edizione disponibile è quella curata nel 1591 da Giuseppe Cacchi a Napoli. Il libro è una piccola trattatistica sul vino e sull’aceto: novanta capitoli per 93 pagine coprono il tema del vino, mentre venti capitoli per 23 pagine si occupano dell’aceto. Il trattato di Giovanni Flavio Bruno si colloca, come altri testi della sua epoca, a metà tra consigli medici ed enologici, non discostandosi sia dalla consolidata tradizione medica ippocratico-galenica, sia dalla tradizione enologica latina sino a quel tempo tramandata. Quasi tutti i capitoli dedicati al vino contengono consigli sulla sua trasformazione, manutenzione e salvaguardia, non sempre in termini corretti: “per fare un vino vendereccio” (cap. 8); “per fare un vino di famiglia” (cap.9); “per far vino a forza” (cap.10); “per fare una sorte di vino nelle case, che serve per otto mesi, è bonissimo, e di gran sparagno…” (cap. 11); “per fare che un vino nuovo diventi come fusse vecchio” (cap. 17); “a far di vino negro bianco, & di bianco rosso” (cap. 18); “a dar odor di moscatello al vino…” (cap. 19); “a fare chiaro il mosto in 24 hore” (cap. 23), e via dicendo. Sembra che il libello di Bruno sia costruito in modo tale da poter rispondere sia ad un uso prettamente casalingo del vino, sia ad un uso commerciale, spiegandone e spingendolo a diverse sorti di contraffazione. Di qui, probabilmente, le ripetute ristampe del testo e il successo in chiave locale.

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1J.-L. Gaulin, Trattati di agronomia e innovazione agricola, in Ph. Braunstein, L. Molà (a cura di), Il Rinascimento italiano e l’Europa, vol. 3, Produzione e tecniche, Fondazione Cassamarca-A. Colla, Treviso-Costabissara 2007, p. 149; Su Columella, fonte di Della Cornia, cfr. J.-L. Gaulin, Viticulture et vinification dans l’agronomie italienne (XIIe-XVe siècle), in R. Leron, La viticulture et la vinification en Europe occidentale, au Moyen Âge et à l’Epoque moderne, Actes des onzièmes journées Internationales d’Histoire de Flaran, septembre 1989, Auch 1991, pp. 93- 118, nota 35. Capitolo terzo 179

2 E. Ferraglio, Il vino nella tradizione agronomica rinascimentale, in La civiltà del vino.. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento (Atti del convegno, Monticelli Brusati – Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001)
Archetti, Gabriele [Publ.]. – Brescia (2003)., p. 718

3 Ivi, p. 719

4 A. Gallo, Le venti giornate dell’Agricoltura e dei piaceri della villa, a cura di L. Crosato Larcher, Canova, Treviso 2003.

5 Ivi, Terza giornata. Sulla vite, pp. 88-89

6 Sante Lancerio, I vini d’Italia. Giudicati da papa Paolo III (Farnese) e dal suo bottigliere Sante Lancerio, La Conchiglia, Capri 2004 (ed. orig. metà 1500)..

7 A. Bacci, De naturali vinorum historia de vinis Italiae et de conuiuijs antiquorum libri septem Andreae Baccii Elpidiani medici atque philosophi ciuis Romani accessit de factitiis, ac ceruisiis, deque Rheni, Galliæ, Hispaniæ et de totius Europæ vinis et de omni vinorum usu compendiaria tractatio, ex officina Nicholai Mutij, Roma 1596. Edizione consultata: A. Bacci, De naturali vinorum historia, trad. di M. Corino, Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini di Alba, Grinzane Cavour (Cn) 1992

8 E. Franca, Andrea Bacci all’origine dell’enologia, in Andrea Bacci. La figura e l’opera, atti della giornata di studi, Sant’Elpidio a Mare, 25 novembre 2000, A. Livi, Fermo 2001, pp. 87-90.

9 A. Manni, F. Sbaffi, La storia dello spumante per la città, in «L’azione», Fabriano, 11 novembre 2000, ora in http://www.verdicchiodimatelicadoc.it/scacchi.htm.

10 A. Capatti, Dolce Piccante, Introduzione a F. Scacchi, De salubri potu dissertatio, in Id., Del bere sano, Fondazione Cassa di risparmio di Fabriano e Cupramontana-Zazzera, Lodi 2000

11 B. Pisanelli, Trattato della natura de cibi et del bere [ecc.], G.B. Porta, Venezia 1584. Il testo originale è in http://books.google.it. Per un’edizione recente: Id., Trattato de’ cibi et del bere [ecc.], Arktos, Carmagnola (To) 2000.

12 Cfr. A.N. Patrone, L’enologia nelle considerazioni di un medico piemontese del Cinquecento: Francesco Gallina, in Vigne e vini nel Piemonte moderno, cit., pp. 91-108

13 V. Tanara, L’economia del cittadino in villa, G. Monti, Bologna 1644, ora in http:// archive.org/details/leconomiadelcit00curtgoog.

14 J.-L. Gaulin, Tipologia e qualità dei vini in alcuni trattati di agronomia italiana (sec XIV – XVII), in Dalla vite al vino, cit., pp. 65-67

16 Trattato della coltiuazione delle viti, e del frutto che se ne può cavare, del s. Gioan Vettorio Soderini gentil’huomo fiorentino, E la Coltiuazione toscana delle viti, e d’alcuni arbori, del s. Bernardo Davanzati Bostichi gentil’huomo fiorentino, Aggiuntavi la Difesa del popone dell’eccellentiss. dottore sig. Lionardo Giachini, in Firenze, per Filippo Giunti, 1600
S. Pronti, Storia e cultura del vino. Fonti inedite e casi esemplari sul vino piacentino dall’antichità ad oggi, Tip.le.co., Piacenza 2008, p. 211.

17 Giovanni Flavio Bruno, Trattato del vino e aceto et delli loro effetti et virtù. Opera non meno utile che necessaria à qual si voglia persona, raccolto da diversi Scrittori così antichi come moderni dal S. Gio.Flavio Bruno, professor dell’arti, e scienze, con licenza de’ Superiori, in Napoli, Apresso Giuseppe Cacchj, 1591, rist. anastatica, Edizioni scientifiche italiane, Napoli-Roma 1999

L’elettorato dal punto di vista degli “stati della materia”

Un elettore allo stato solido ha un’idea politica e una forma propria. L’elettore allo stato solido costituisce, al contrario degli anni ’70, una esigua minoranza. Un elettore allo stato solido può essere cristallino o amorfo. Nel primo caso l’elettore non evidenza alcun dubbio. Nel secondo caso, sulla base delle mazzate e delle delusioni intercorse durante gli anni, l’elettore risulta molto provato anche se fermo sulle proprie posizioni/convinzioni.


Un elettore allo stato liquido ha un volume proprio, ma acquisisce la forma del partito che lo contiene e a cui ha dato l’adesione. Un elettore allo stato liquido è fedele al contenitore sin tanto che questo non cambia. È infervorato, con relativa adesione ideologica completa e certificata, per tutto il tempo in cui decide di essere incorporato nel recipiente politico di riferimento.


Un elettore allo stato gassoso (o aeriforme) non ha né volume né forma propria, ma si espande fino a occupare tutto lo spazio politico disponibile. Un elettore allo stato gassoso può votare, se il sistema elettorale lo consente, sia Il Partito comunista dei lavoratori che Fratelli d’Italia, adducendo motivazioni diametralmente convergenti e significativamente dissonanti. Un elettore allo stato gassoso è riconoscibile anche quando parla di calcio: tifa contemporaneamente tutte squadre del campionato pur criticandole, allo stesso tempo, in maniera molto feroce.


Un elettore allo stato plasmatico può somigliare ad un elettore gassoso ma, non avendo forma propria, può espandersi come un aeriforme dal quale si distingue per la sua ionizzazione: una frazione significativamente grande delle sue idee è stata strappata dai rispettivi familiari e amici più stretti. Un elettore allo stato plasmatico si riconosce integralmente al seggio elettorale perché solito fare affermazioni del tipo: “come mai non c’era lo sciacquone nella cabina!?!”


Un elettore Bose-Einstein è compreso all’interno di un particolare stato della materia: le sue idee politiche si sono raffreddate a una frazione di grado superiore allo zero assoluto per cui inizia a comportarsi come un’eccezione delirante. Un elettore allo stato di Bose-Einstein cerca , nella scheda elettorale, i partiti della prima repubblica. Talvolta anche quelli dei primi del Novecento.


Un elettore allo stato superfluido è caratterizzato dalla completa assenza di viscosità, dall’assenza di entropia e dall’avere conducibilità termica infinita. L’elettore allo stato superfluido ha assorbito le idee politiche per un arco di tempo che va dall’Impero Assiro fino alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2023, conosciuta anche come COP28. Non solo ha le opinioni di tutti i suoi contemporanei dislocati in ogni parte del globo terrestre, ma anche di tutti coloro che lo hanno preceduto e lo seguiranno. Un elettore allo stato superfluido vota sapendo già chi vincerà le elezioni dei prossimi duecento anni.


Un elettore si dice essere in uno stato supercritico quando si trova in condizioni di temperatura superiore alla temperatura critica e ad una pressione superiore alla pressione critica. In questo caso parliamo di un ex elettore passato all’astensionismo militante.

La questione dei toast, della loro porzionatura e dei prezzi relativi

Di Justin Bell – Trasferito da en.wikipedia su Commons., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=30081138

Il Comitato Ligure per i prezzi e la porzionatura dei toast, dopo attenta disamina della situazione in corso, ha stabilito quanto segue:

Premesse di principio matematico ligustico.

Due pancarrè o pane in cassetta, dir si voglia, sono congruenti se i punti dell’uno corrispondono a quelli dell’altro tramite un’isometria, ovvero una corrispondenza che preserva le distanze. 

Diciamo che due figure X ed Y sono equiscomponibili, se è possibile partizionare X ed Y nello stesso numero finito di pezzi in modo che ciascun pezzo di X sia congruente al corrispondente pezzo di Y. 

Secondo il noto teorema di Banach-Tarski si stabilisce che dati due solidi qualsiasi con parte interna non vuota (nessun furbetto deve scavare il pancarrè dal centro, maniman!), sono sempre equiscomponibili, ovvero è  possibile partizionare il primo in un numero finito di pezzi che possono essere ricomposti in modo da formare il secondo.

Si fa inoltre riferimento alle innovative scoperte del grandissimo topologo e geometra tedesco Max Dehn, il quale si era occupato del problema della quadratura del rettangolo in un articolo pubblicato sui Mathematische Annalen del settembre 1903. Dehn dimostrò che: 

– Un rettangolo può essere suddiviso in quadrati se e solo se i suoi lati sono commensurabili. 

– Se un rettangolo può essere suddiviso in quadrati, allora esistono infiniti modi perfetti (con quadrati di dimensioni tutte diverse). 

Il termine commensurabile significa in proporzione razionale, con entrambi i numeri interi che hanno un sottomultiplo comune.

E si conclude affermando con ottima certezza, secondo il diagramma di Smith, che non esistono pancarrè perfetti fino all’ottavo ordine, e solo due del nono: esistono pani in cassetta con lati uguali che danno origine a due diverse scomposizioni, che possono essere ridotte a una applicando opportune simmetrie. Soltanto ora sappiamo, grazie al proditorio lavoro degli scienziati di Cambridge, che si riesce ad ottenere la quadratura di un quadrato di pancarrè, prima di sessantanovesimo, poi di trentanovesimo e infine di ventiseiesimo ordine, come risultato della fusione di due rettangoli perfetti:

– Ogni rettangolo quadrato possiede lati ed elementi commensurabili; 

– Ogni rettangolo con lati commensurabili è perfettibile in infiniti modi diversi; 

– Non esistono rettangoli perfetti di ordine inferiore a 9; 

– Scoperta del quadrato perfetto semplice di ordine 39 e del quadrato perfetto composto di ordine 26; 

– Generalizzazioni del problema: rettangoli rettangolati, cilindri e tori quadrati, triangoli equitriangolati e la prova che non è possibile cubare i cubi (come alcuni prezzolati di Alassio hanno tentato di fare).

La questione della porzionatura dei toast e il loro prezzo.

La quadratura dei pancarrè e la loro relativa porzionatura in pezzi più piccoli non possono essere presi a prestito per moltiplicare indebitamente il prezzo del suddetto alimento.

Il Comitato Ligure per i prezzi e la porzionatura dei toast stabilisce quanto segue:

Il costo finale di un toast porzionato deve contenere alcune variabili misurabili:

  1. I piatti in cui verrà suddiviso
  2. Il coltello usato per la porzionatura
  3. Il tempo di lavoro per la porzionatura
  4. La fatica del porzionatore
  5. Le relative imprecazioni del porzionatore
  6. L’affollamento del locale
  7. L’ora della porzionatura
  8. La capacità cubica del vassoio di servizio
  9. Gli eventuali zig-zag tra le sedie
  10. La richiesta di scontrini separati

Il tutto verrà calcolato secondo la Media Mobile pesata e condita a dovere con prosciutto cotto di media qualità e sottiletta appena accettabile:

WMA(n) = [n*P(i)+(n-1)*P(i-1)+….+1*P(i-n+1)]/[n+(n-1)+….+1]

Per qualsivoglia chiarimento scrivere, solo a Ferragosto, a:

comitatoligureperiprezzielaporzionaturadeiotast@belininverso.com

Il vino atmosferico

Una mia foto dei racconti di terra mare

L’atmosfera crepuscolare reca un’intonazione d’animo della sera o del chiaro di luna, che la piena luminosità della luce diurna dissolve dapprima nell’intollerabile vividezza dell’aurora e, a seguire, nella limpidezza sfolgorante del giorno; diversamente il vento di scirocco, in cui bisogna essere “assai impenitenti per avere il coraggio di scrivere qualche cosa che persone ragionevoli debbano leggere”; e altrimenti la nebbia, che “colma d’abisso che la circonda”. Dunque la notte, dove le forme regrediscono ad una figurazione primordiale e i contorni delle immagini si sfrangiano nell’oscurità.

L’atmosfera avvolge lo spazio e il tempo proprio come l’aura si configura come singolare intreccio tra i due: mentre la prima “non si confonde con il pensiero, eppure serve da mezzo al pensiero. Non si confonde con la sensazione, eppure la propaga, aumenta o diminuisce, comanda ogni sensazione”. (Daudet, Melancholia, 1928) La seconda, l’aura, si forgia come apparizione unica di una lontananza seppur vicina. “Seguire placidamente, in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sull’osservatore, fino a quando l’attimo, o l’ora, partecipino della loro apparizione – tutto ciò significa respirare l’aura di quei monti, di quel ramo”. (Walter Benjamin, Aura e choc in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica; prima stesura 1935- 1936)

Il vino, dal suo canto, partecipa alle strade, ai crocicchi, agli angoli bui e alle cose illuminate, ai bicchieri sfavillanti, al tintinnio della pioggia, agli sguardi sommessi, al cielo che si fa ombra, all’animo pesante oppure a quello leggero, ai banchi bianchi, al vociare intenso, alle risa, alla brezza, alla salsedine, in un attimo che si adagia sulla soglia del tempo.

FONTI STORICHE PER LO STUDIO DELLA MALVASIA DI CANDIA AROMATICA NEL TERRITORIO PIACENTINO

Η Μονεμβασιά σε γκραβούρα του 1688
Vincenzo Coronelli – Repubblica di Venezia p. IV. Citta, Fortezze, ed altri Luoghi principali dell’ Albania, Epiro e Livadia, e particolarmente i posseduti da Veneti descritti e delineati dal p. Coronelli, Venice, 1688

QUALI DOMANDE ALLA STORIA? MALVASIA O MALVASIE?

In un bellissimo saggio sul mestiere di storico Carlo Ginzburg riprende le riflessioni metodologiche, postume, di un altro grande studioso, Marc Bloch: «gli uomini» – egli osservò – «con gran disperazione degli storici, non hanno l’abitudine di cambiare, ogni volta che mutano le abitudini, il vocabolario[1]». E così Bloch continuava: «Il vocabolario, la storia lo riceve dunque, per la maggior parte, dalla materia stessa del suo studio. Essa lo accetta, già modellato e deformato da un uso prolungato; ambiguo, peraltro, spesso fin dalla nascita, come ogni sistema di espressione che non sia emerso dallo sforzo severamente concentrato dei tecnici[2]».

Niente di più vero quando ci si immerge, a ritroso, nel tentativo di ricostruire una storia verosimile di un vino (o vini?) e, nel mio caso, di quello che porta con sé una nomea tale che, in tempi antichi, nel Medioevo per la precisione, precede di gran lunga il valore, la diffusione e la qualità stessa di una, diverse o moltissime uve che portavano il medesimo nome: la Malvasia. Si potrebbe pensare, di primo acchito, che la difficoltà di delimitare o quantomeno di circoscrivere il nome di un vitigno e, a cascata, del vino da esso prodotto, possa essere ascrivibile esclusivamente alle difficoltà di catalogazione scientifica presenti all’epoca, alla dispersione dei nomi, alla loro traslazione, alle consuetudini locali e via dicendo. Questa ragione spiegherebbe soltanto una parte del problema: le uve e i vini erano allora come oggi valore produttivo, sociale, culturale e di scambio economico e mercantile. Ridurre tutto alla questione nominale equivarrebbe a rendere la visuale della ricerca molto parziale e, soprattutto, incompleta. Come vedremo ben presto, la necessità di uniformare sotto lo stesso nome uve tra loro assai diverse, ma con caratteristiche organolettiche che presentavano alcune similitudini, serviva principalmente a due cose: a rendere rilevante un prodotto, il suo prezzo e, secondariamente, a circoscrivere intorno a questa fama un’origine geografica che ne facesse da suggello e da certificato di provenienza. In una sorta di paradosso che, se ci pensiamo bene dal punto di vista commerciale paradosso non è, l’origine delle uve e del vino se dapprima servì ad esaltare i territori di provenienza, in un secondo tempo, pur conservando lo stesso nome, favorì tutti vini prodotti da quelle uve indipendentemente dai luoghi di produzione. Nel notevole lavoro che va sotto il nome di l’”Ampelografia Universale”[3], Viala e Vermorel scrissero che «le nom de Malvasia, Malvasier, Malvoisie est appliqué à quantité de cépages très divers et les qualificatifs qui suivent ces noms n’ont pour la plupart aucune signification déterminative…[4]». Lo stesso G. di Rovasenda, dopo aver citato nel suo «Saggio» un gran numero di Malvasie, notò: «A mio avviso dovrebbero dirsi Malvasie solo quelle uve profumate che hanno il sapore speciale di Moscato un po’ amarognolo. Sono però troppe le uve a sapore semplice chiamate Malvasie perché si possa sperare di spogliarle del nome che portano benché indebitamente[5]».

Ma non è forse questo il sogno, tanto meno recondito, che oggi porta alcune zone produttive del mondo a cercare di accaparrarsi non tanto il nome dei vitigni, questi sì internazionali, ma dei luoghi stessi di produzione? Ebbene le Malvasie furono le progenitrici di questa lunga storia che ancora oggi non abbiamo interamente risolto: «Il successo dei vini venduti con il nome generico Malvasia, nome che era usato con poche varianti dagli inglesi (Malmsey), dagli spagnoli (Malvagia), dai tedeschi (Malvasier), dai francesi (Malvoisie), rappresenta il risultato del più grande progetto di marketing della storia di questa bevanda ed il primo esempio di interpretazione commerciale di un vino come una commodity, reso possibile solo per la grande esperienza e la potenza marinara della Repubblica di Venezia[6]».

Un’importante novità nei trasporti delle derrate alimentari e del vino contribuì ad abbassare i costi: mentre a nord delle Alpi si usava, già in epoca romana, la botte di legno, nell’Italia settentrionale la si incontra dal XII secolo ed al più tardi nell’età dei Paleologi (1261-1453) essa sostituisce definitivamente l’anfora, fino ad allora dominante, anche in ambito greco, come testimoniano soprattutto i libri di conto:

«Nel commercio sovraregionale i bizantini fungevano esclusivamente da junior-partners o da fornitori. Ciò risulta in modo particolarmente chiaro nel caso della situazione commerciale della città di Monembasia, dalla quale nel XIV secolo salpavano ogni anno, in direzione di Creta, le navi delle principali famiglie locali con a bordo il loro carico di vino. La commercializzazione a livello internazionale era poi effettuata da Venezia, che cominciò ben presto a vendere anche i propri prodotti insulari con l’etichetta di Malvasia. A rigor di termine questo è un caso lampante di falsificazione di etichetta. Cerchiamo però di vederne gli aspetti positivi. Secoli dopo il giudizio inappellabile di Liutprando di Cremona sul “graecorum vinum, ob picis, taedae, gypsi commixtionem nobis impotabile[7]”, il vino greco, oltre alla nuova image positiva formatasi a Bisanzio stessa negli ultimi secoli della sua esistenza, ha ottenuto per lungo tempo una vasta ed entusiastica clientela anche nell’Europa occidentale[8]».

È molto istruttivo quanto riportato dal viaggiatore svizzero Felix Faber (o Fabri), che aveva visitato la Grecia e l’Oriente dal 1480 al 1483, cioè durante la seconda occupazione della Monembasia da parte dei Veneziani [9]: «Sulla radice di Malea, c’è una città, chiamata Malfasia, presso la quale viene prodotto un vino eccellente, che è il vero vino malfatico, come dicono alcuni, e questo una volta pensavano nei paesi occidentali. Il vino di Creta[10] non sarebbe mai stato conosciuto dagli occidentali, ma da quando fu provato che il vino di Creta è migliore del malfatico, acquistano vino di Creta e gli attribuiscono il nome di malfatico, siccome non viene più trasportato vino malfatico in Occidente, poiché la Malfasia è oramai dei Turchi, che non piantano viti ; ma codesto che ci viene portato dall’Oriente, è vino cretese, di Creta e Candia, trasportato da Metone, e che non ha di Malfasia che il nome[11]» (In radice Maleae, est civitas, quae Malfasia dicitur, juxta quan crescit praecipuum vinum, quod vere est malfaticum, ut dicunt quidam, et hoc olim ducebatur in occidentales partes. Numquam cretense vinum esset occidentalibus cognitum, sed postquam gustatum est cretense esse melius malfatico, cretense emunt et sibi nomen malfatici tribuunt; non enim amplius dicitur malfaticum vinum in Occidentem, cum Malfasia iam sit Turcorum, qui vineas non plantant, sed hoc, quod nobis de Oriente adducitur, est vinum creticum, de Creta vel Candia et de Metona transvectum, nihil de Malfasia habens nisi nomen).

E giungiamo, infine, alla Malvasia che qui interessa la ricerca: la Malvasia di Candia aromatica e il piacentino come territorio di riferimento storico. Possiamo affermare con certezza che essa faccia parte del novero delle malvasie provenienti dall’Egeo o da altri luoghi? Come relazionare dunque la scienza di oggi con la storia di ieri, con i nomi e i loro impervi tragitti noncuranti del senno di poi?

UN PASSO INDIETRO. MONEMBASIA E LE MALVASIE NAVIGATE

Monembasia (Μονεμβασία dal grecomedievale e Μονoβασία dal greco bizantino) è una località delle Laconia nord-orientale, nel Peloponneso, situata su un promontorio nei pressi dell’antica Epidauro Limera[12]. Forse dal greco μόνη έμβασία o μόνη έμβασίσ, “unico accesso” o “accesso difficoltoso”. Malvasia è anche una forma del Veneziano che ogni tanto appare anche nell’italiano. Corrispondente a uno sviluppo dell’italiano settentrionale o del galloromanzo da -z- -> -g- (cfr. Paris -a Parigi; venez. a. artesano -› it[13].  

Μονεμβασιά
Από Ingo Mehling – Έργο αυτού που το ανεβάζει, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5388365

Monembasia fu fondata, a causa della sua posizione privilegiata, nel 588, sotto il regno dell’Imperatore Maurizio (582-602), dagli abitanti della regione, dopo l’invasione e la devastazione della Laconia da parte degli Avari. La posizione naturalmente fortificata fece sì che la fortezza e la città, molto presto, e prima del 700, diventassero un importante centro amministrativo, economico e commerciale. Ma si trattava di una roccia. La terra coltivabile è situata sulla costa opposta del dipartimento di Epidauro-Limirà, e i vigneti nelle regioni della Monembasia, dell’Asopo e delle Boié. Le differenze sul nome del luogo chiamato” Monembasia”, mostrano le peripezie storiche della città. Negli scritti bizantini il nome si porta sotto due forme: Monobasia e Monembasia.

Un’ulteriore testimonianza, su cui vi furono diverse controversie interpretative, dei toponimo di Μονεμβασία – Monemvasia proviene da una Cronaca bizantina del X secolo[14], che si riferisce ad episodi storici avvenuti intorno alla fine del VI  d.C.:

Τότε δη και οι Λάκωνες το πατρώον έδαφος καταλιπόντες οι μεν εν τη νήσω Σικελίας εξέπλευσαν, οι και εις έτι εισίν εν αυτή εν τόπω καλουμένω δέμεννα και δεμενίται αντί Λακεδαιμονιτών κατονομαζόμενοι και την ιδίαν των Λακώνων διάλεκτον διασώζοντες. Οι δε δύσβατον τόπον παρά τον της θαλάσσης αιγιαλόν ευρόντες και πόλιν οχυράν οικοδομήσαντες και Μονεμβασίαν ταύτην ονομάσαντες διατο μίαν έχειν των εν αυτώ ειςπορευομένων την είςοδον εν αυτή τη πόλει κατώκησαν μετά και του ιδίου αυτών επισκόπου.

Precisamente allora anche gli abitanti di Lacedemone abbandonarono la terra natìa, salparono, alcuni di loro verso l’isola di Sicilia, e in parte ancora vi restano, nel luogo che si chiama Demenna e, conservando il dialetto dei Lacedemoni, cambiarono il nome in quello di Demenniti. Altri di loro, invece, avendo trovato un luogo inaccessibile presso la costa marittima, vi costruirono una forte città e la nominarono Monemvasia, giacché a quelli che vi arrivavano si offriva un solo accesso. Essi si stabilirono in questa città insieme con il proprio vescovo.

Ritroviamo la forma Mono – Monembasia, per la prima volta, «nella “Cronografia” di Teofane (8° secolo). La forma Monembasia appare negli Atti del “Concilium Nicaenum” dell’anno 787 e più tardi negli scritti di Pachymeris (1240-1310), di Phrantzès e di altri. Gli stranieri dal Monobasia e Monembasia (oppure Monovasià e Monem Monovasià) hanno prodotto infine le diverse forme apparse negli scritti medievali e posteriori. Nello scritto in lingua francese dei “Cronaca di Morea” (14° secolo), la denominazione si trova cambiata in “Malevasie” e Malvesie”, dalla quale poi facilmente risultarono le forme Malvoisie, Malvasia, Malvagia, Napoli di Malvasia ecc. Dunque pare che il nome Malvasia derivi dalla variazione in francese del Monembasia. Questo fatto — cioè il quasi completo annientamento della viticoltura di Monembasia — fa porre oggi diverse domande agli studiosi, e cioè: qual è la regione nella quale venne prodotto per la prima volta il vino Malvasia: la Monembasia (o Napoli di Malvasia), l’isola di Creta o l’isola di Chio?”[15]». Verosimilmente[16] nelle vicinanze della stessa città non veniva prodotto vino di grande rilievo bensì «veniva imbarcato il vino che proveniva dalle isole egee con destinazione l’Europa occidentale. Già nel secolo X i Greci affidavano “in un numero crescente di casi, il commercio con l’Occidente viene affidato agli italiani e soprattutto ai veneziani”. Nauplia, vicinissima a Monobasia, già in quest’epoca era uno dei porti prediletti degli stessi Veneziani. Creta. allora nominata Candia, che emerge in continuazione come sinonimo del vino Malvasia, entrava in tempi assai remoti, cioè nel 1211, sotto il dominio della Serenissima. Dal 1463 fino alla fine del Cinquecento la città di Monobasia appartenne proprio ai Veneziani. Comunque già negli anni precedenti il Peloponneso apparteneva loro per contratto. Joffroi de Villehardouin nel 1209 assumeva come feudo dal doge di Venezia il Principato di Achaia cedendo contemporaneamente ai Veneziani il libero commercio. Mi pare che sia evidente che il porto di Monemvasia venisse usato dagli stessi Veneziani come emporio per una massa rilevantissima’ di vini che provenivano da Creta, da Cipro e dal vasto territorio levantino-egeo. Sta di fatto che non si prendevano i soli vini di Candia per Malvasia ma tutti i vini dell’ampio spazio della Levante come dimostrano i resoconti delle crociate e dei pellegrinaggi. Partendo da Menemvasia il vino veniva esportato attraverso Venezia verso l’Europa occidentale probabilmente a partire dall’ultimo terzo del Duecento: lat.mediev. vinum di Malvagia (1278. Ka.hane. ReallexByzant 399). fr. malvesy ‘vin liquoreux de Grèce’ (1393, GdfS). cat. a. vi de Malvesia (1403. Rubi& DELCat 5.402). Nel Tre/ Quattrocento il vitigno emerge lungo la costa della Dalmazia156 accanto ai vitigni indigeni. Le forme alto-medio tedesche sono pervenute senza dubbio attraverso Venezia nel nord poiché numerosi centri tedeschi (Norimberga, Augusta) intrattenevano rapporti intensi con la Serenisssima[17]».

Il doge Francesco Foscari: il suo dogado segnò l’apogeo della Serenissima Repubblica, decretandone al contempo l’irreversibile spostamento del baricentro dai tradizionali interessi mercantili e marittimi verso quelli nei Domini di Terraferma. Di Lazzaro Bastiani – Damals. Nr. 4, Jg. 28, 1996, ISSN 0011-5908, S. 12., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3014054

Per rispondere nel modo più preciso possibile ci può venire incontro una deliberazione del Senato Veneto del 26 aprile 1432 in cui si affermava che dal momento in cui le navi le navi erano ritenute in Creta, e gli abitanti della Monovaxia da questo fatto non erano riusciti a vendere in tempo i loro vini, si concedeva loro un prolungamento per le imposte. Le denominazioni Malvasia e Monovaxia erano dunque riferite alla città di Monembasia. Altre notizie sulla Malvasia, raccontate in modo discontinuo e non lineare, giungono dai resoconti di alcuni viaggiatori nel corso dei secoli: «Stephan Gerlach (1547) c’informa che l’isola di Chio produce Malvasia che viene acquistata in Germania. A. Thevet (1549) menziona il vino Ariusio di Chio e lo paragona alla Malvasia. Thomaso Porcachi (1572) dice che “i vini chiamati nell’antichità arvisia (cioè l’Ariusio)… sono le Malvasie che altra volta erano tra-sportate dall’isola di Chio e attualmente dall’isola di Creta”. Pierre Belon (1589) scrive che: «il vino che noi chiamiamo Malvaticum è prodotto solo nell’isola di Creta. Il vino è esportato, dopo concentrazione, soprattutto da Retimno. Nell’Isola di Creta sono prodotte due Malvasie, l’una dolce e l’altra non comunemente appellata dai Veneziani Malvasia garba. Quest’ultima non può subire i trasporti, siccome non è concentrata e non può essere conservata a lungo tempo». D. O. Daper (1688) riferisce che nei suoi tempi il più famoso e più eccellente di tutti (i vini) è quello chiamato Malvoisia. D’altra parte la migliore di questa Malvoisia è quella prodotta nelle vicinanze della città di Retimno.  “Dicono — scrive — che è stato nominato Malvoisia e Malvasia dalla città Malvasia, altrimenti Napoli di Malvasia e un tempo Epidauro, situata sulle coste del Peloponneso che nell’antichità fu famosa per i vini rinomati prodotti dalla sua terra». Infine Joseph de Tournefort (1701), si è anch’egli occupato della Malvasia di Retimno, ma fa notare che nei suoi tempi se ne produce pochissima, cosicché non è riuscito a trovarne per degustarla. La guerra Turco-Veneziana (1645-1669) per l’occupazione dell’isola, aveva arrestato il fruttuoso commercio di vini Cretesi. Ormai era sopravvenuta l’inesorabile decadenza, dovuta alla conquista Turca, e poi pian piano il quasi completo annientamento della produzione. Secondo A. Jullien (1816) nell’Italia Settentrionale sono prodotti diversi tipi di Malvasia, che un vino liquoroso. A Napoli è prodotto «il vino “greco” chiamato così siccome il vitigno, dalle uve del quale è prodotto, era stato importato dalla Grecia ed è una specie delle Malvoisies delle quali porta tutti i caratteri specifici. A Lipari producono della Malvoisie derivata da viti importate dal Peloponneso. Scrive pure della Malvasia prodotta a Creta durante l’occupazione dei Veneziani, della Malvasia della Laconia (Sparta), come pure che questo vino è prodotto in tutta la Grecia, ma il migliore proviene da Mistrà e da Monembasia. A. Palmas (1842) descrive quattro metodi di produzione di Malvasia artificiale. E. Littré (1874) definisce la località alla quale si riferisce la parola: «in italiano Malvagia; in latino comune Malvaxia; Malvazia; da Napoli di Malvasia (Monembasie) città di Moréa (Peloponneso) il vino della quale ha dato il suo nome a tutti i simili tipi di vino[18]».

NICOLA MESARITE E IL VINO DI MONEMBASIA

Se le testimonianze sul nome della città richiamano tempi molto lontani e talvolta discordanti, la più antica, in greco, sul vino di Monembasia sembra essere quella di Nicola Mesarite Νικόλαος Μεσαρίτης, vescovo ortodosso bizantino, nel (1214): εχεέ καί οινος εκ Χίου ο ηδύς καί στύφων κατά τό ύμμετρον, α εκ Λέσβης ο καί γλυκίων το ού μέλιτος, ο εξ ‘Ευβοίας ο αρωματικός τε καί ευπνους, αλλά καί ο Μονεμβάσιος εις πλησμονήν ημέν εχιρνάτο.

«Nel 1214 Nicola Mesarita ritornò in missione diplomatica a Costantinopoli. In suo onore fu offerto un ricevimento nel Tomaita, un edificio che era anticamente sede del patriarcato ed era connesso architettonicamente al complesso di Santa Sofia. Il buffet non mancava di nulla (21, rr. 8-18). He de posis hoia? Questa la domanda retorica, dopo le pietanze, sulle bevande offerte. La relazione di Mesarita elenca a questo proposito il vino di Chio, quello di Lesbo, più dolce del miele, ed uno aromatico proveniente dall’Eubea (21, rr. 18-20)[19]. A conclusione della serata viene infine portato in tavola il principe dei vini, quello di Monembasia (21, r. 21). Lo studioso incontra questo prodotto per la prima volta. Mesarita in ogni caso lo conosce e lo apprezza da tempo e non mostra di avere alcun rimorso di coscienza per essersi dato al consumo di quattro vini tanto forti. Qui si trova fra uguali, ad un ambiente fine e raffinato si addicono vini scelti. Quanto diverse le reazioni di Giovanni Eleemon (il misericordioso), patriarca di Alessandria agli inizi del VII secolo, quando il suo cantiniere gli offrì un bicchiere di vino palestinese: questo è un lusso eccessivo, in futuro sarà sufficiente anche il vinello locale della palude mareotica (il quale, sia detto in parentesi, nell’antichità godeva di ottima fama – Plinio il Vecchio Naturalis historia 14, 4 (3), 39; Virgilio Marone, Georgiche 2, 91-92;  M.A. Lucano, De bello civile 10, (162- 163)[20]».

Precedentemente, durante le Crociate, e sotto le dinastie dei Comneni e degli Angeli (1081-1204), furono installate sulle coste del Mediterraneo orientale delle colonie commerciali dei paesi Occidentali. Per il vino Malvasia, con tale denominazione, si fa cenno per la prima volta in un Decreto del Consiglio Superiore di Venezia, del 9 ottobre 1326[21]. In questo Decreto è scritto: «…excepto vino Crete panello, vino Malvasie et vino Romanie». Più tardi il Senato Veneto in suo Atto del 16 maggio 1371 fissa: «…8°) Item sicut de vino Monavaxie… 9°) It em quod sicut de vino Romanie et Crete…». Eppure in un altro Decreto del 24 set-tembre 1381, del Consiglio Superiore è scritto: «Vina de Creta, Monovasia et Romania…». D’allora, cioè, si fa una netta distinzione tra il vino di Creta, di Monembasia e della Grecia Continentale.

Però, in quell’epoca, mentre l’isola di Creta[22] era dominio Veneto, Monembasia apparteneva all’Impero Bizantino. Ma durante il 14° secolo il vino Malvasia era già diventato ben noto nei paesi consumatori dell’Europa occidentale. Per un tale commercio però, la produzione della Monembasia non era sufficiente. E perciò i Veneziani avevano cercato di sviluppare la produzione di questo vino pure a Creta. Questo non è sorprendente.

Il pericolo delle invasioni dalla terra ferma (occupazione provvisoria dei Franchi, 1251-1262) e la sua posizione geografica, la obbligarono a mettersi in contatto con il resto del mondo per la via del mare. Così, con il tempo, Monembasia diventa un potente centro marittimo e commerciale soprattutto in seguito agli importantissimi privilegi concessile da Michele VIII Paleologo (1259-1282) e ratificati nel 1284 da Andronico II (1282-1328). Allora Monembasia aveva relazioni commerciali con la Calabria e la Sicilia e in genere con l’Oriente e l’Occidente.

Con una quarta bolla d’oro di Andronico II Paleologo venivano di nuovo concessi alla città di Monembasia importanti privilegi amministrativi ed economici per rinforzarla rispetto a Metone e a Corone occupate dai Latini. A Costantinopoli, Silibria, Eraclea, Redesto, Gallipoli ed altre città erano insediati molti Monembasioti che si dedicavano al commercio del vino della loro città.

L’imperatore Giovanni VI Cantacuzéno (1347-1355) scrive poi che, all’inizio del 14° secolo, l’agricoltura della regione fu abbandonata e le città e i villaggi devastati. Più tardi — all’inizio del 15° secolo — abbiamo la prima occupazione della Monembasia dai Veneziani (1419-1431). Durante il periodo 1460-1464 Monembasia fu posta sotto la protezione di Papa Pio II, perché i Turchi avevano ormai occupato la riva opposta ed i corsari l’avevano assediata dal mare. Nel 1464 comincia la seconda occupazione di Monembasia dai Veneziani (1464-1540). In seguito a ciò i Turchi l’avevano assediata e privata dei suoi vigneti e allora i Veneziani, con ritmo ancora più intenso, si erano dedicati alla produzione della Malvasia nell’isola di Creta.

Lo stesso, e per gli stessi motivi, avevano praticato i Veneziani anche per il vitigno Corinto nero e la produzione della Passolina nera, che in parte avevano trasportato dal Peloponneso nelle isole Ionie e più precisamente a Zante e a Cefalonia[23].

Partendo da Monemvasia il vino veniva esportato attraverso Venezia verso l’Europa occidentale probabilmente a partire dall’ultimo terzo del Duecento: lat.mcdicv. vinum di Malvagia (1278. Ka.hane. ReallexByzant 399). fr. malvesy ‘vin liquoreux de Grèce’ (1393, GdfS). cat. a. vi de Malvesia (1403. Rubi& DELCat 5.402). Nel Tre/Quattrocento il vitigno emerge lungo la costa della Dalmazia accanto ai vitigni indigeni.

Si apre, così, anche una seconda ipotesi sul piano storico, ovvero che il nome di un vino non derivi dal suo luogo d’origine, ma dal nome dell’emporio oppure del centro della sua vinificazione: se vediamo p. e. i Sacheracher Weine in Germania e i vini bordolesi in Francia (cfr. Braun iiber Land und Meer, 1879. 5,875 segg. in Schiller-Lilbben. Nachtrag[24].

Michael VIII Palaiologos. Miniature from the manuscript of Pachymeres’ Historia, 14th century. Munich, Bayerische Staatsbibliothek. Di unknown Byzantine illuminator. – Bayerische Staatsbibliothek (Munich), Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5402836

MALVASIA AROMATICA DI CANDIA NEL PIACENTINO

Una progenitrice: la Malvasia odorosissima di Parma.

Un recente studio genetico (Ruffa et al., 2016[25]) descrive una relazione genitore-figlio tra la Malvasia Odorosissima di Parma e la Malvasia di Candia aromatica (Parent-offspring relationships), nonché tra a Malvasia Odorosissima di Parma e Moscato bianco. Allo stesso tempo, non è stata osservata alcuna relazione genetica tra a Malvasia di Candia aromatica e Moscato bianco (As for the “Moscato bianco” kingroup, and likely for the same reasons, IBD statistics failed to discriminate between FS[26] and second-degree kinship for the two detected dyads “Bonardina”-”Ruché” and “Ruché”-”Malvasia di Candia aromatica”).

Moscato Bianco e genitore sconosciuto → Bordò e Malvasia odorosissima di Parma. Malvasia odorosissima di Parma e genitore sconosciuto (tra gli altri Malvasia moscata, Bonardina, Poliziana), → la Malvasia di Candia aromatica.

«La ricchezza del profilo aromatico del Malvasia odorosissima di Parma è una caratteristica importante per la valorizzazione enologica di questa varietà, attualmente in via di estinzione ed erroneamente confusa con il Malvasia di Candia aromatica, anche dagli enologi. La peculiarità del profilo volatile, con un elevato contenuto di terpenoidi in forma libera, addirittura superiore a quello del MC, costituisce un prerequisito per la produzione di vini aromatici. Inoltre, il MO sembra essere meno suscettibile alle variazioni stagionali in termini di espressione quantitativa dei volatili, come invece dimostrato dal MC. (…) Alcune evidenze rendono il profilo aromatico del MO simile a quello del Moscato bianco, dando così valore alla vicinanza già dimostrata dall’analisi genetica tra le due varietà aromatiche. La bassa resa di questa cultivar, che è stata l’unica ragione della sua sostituzione nei vigneti con la MC ad alta resa, può essere superata o mitigata da strumenti agronomici volti a migliorare la scarsa allegagione dei suoi fiori femminili attraverso l’introduzione di impollinatori appropriati e la gestione della chioma nel vigneto[27]».

Ben visibile il bastione di Fodesta e il tracciato del canale (100) Di Jérôme Lalande – Disponibile nella biblioteca digitale BEIC e caricato in collaborazione con Fondazione BEIC., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=119096458

Le scoperte scientifiche recenti aiutano a definire meglio l’origine e la diffusione storica della Malvasia di Candia aromatica? Solo parzialmente. Secondo i dati qui riportati non si può escludere né che la Malvasia di Candia aromatica faccia parte del grande novero di malvasie di importazione greca, adattatesi e modificatesi geneticamente nel corso dei secoli, né che appartenga ad altre progenie di differente provenienza.  Quello che mi pare di poter escludere è che la Malvasia di Candia aromatica faccia parte di un novero di vitigni la cui origine, perduta nel tempo, sia da annoverare esclusivamente al suolo italico.

Il riferimento è, in questo caso al vigneto di Leonardo da Vinci, quasi sicuramente composto dalla Malvasia di Candia aromatica che alcuni vorrebbero fosse arrivata da Candia Lomellina (provincia di Pavia), di cui Giacometto della Tela, ossia Atellani[28], era podestà e non più da Creta, il cui antico nome come già visto, era appunto Candia. Di lì, ad immaginare, senza alcuna prova a sostegno, che si trattasse di vitigni autoctoni per i riferimenti nominali legati alle proprietà, il passo è breve. Se a questo, poi, si aggiunge che la dimora Atellani venne comprata ai Landi, conti di Piacenza, il sospetto che i vitigni provenissero da lì e non da Candia Lomellina è più che probabile. E anche qualora fossero comunque pervenuti da Candia Lomellina nulla esclude che vi fossero stati portati dal piacentino. La vivacità commerciale del porto piacentino di Fodesta[29], costruito in epoca romana ed attivo fino al la fine dell’Ottocento, racconta di transiti per via fluviale che da e per la cità giungevano sino all’Adriatico e che si spingevano all’interno in tutte le direzioni allora navigabili: «Et appresso si dechiara che tutti li huomini et donne, così a piede come a cavallo, bestie d’ogni sorte, così minute come grosse, come di robbe d’ogni sorte, tanto piacentini quanto forastieri, carri, cocchi, lettiche, carozze, barozzi, cavalli et altri animali da soma, così carichi come vuoti, robbe d’ogni sorte, et d’ogni altra cosa di sopra espressa, che passerà et traverserà il Po, da una ripa all’altra, in qualsivoglia modo, nel territorio piacentino et nelle aque piacentine, siano tenuti et debbano pagare per il nollo di detto porto, pedaggio et traverso del Po, tanto quanto pagariano, se passassero al luogo di detto porto di Piacenza sul detto porto, o sopra le barche, nel luogo dove è il passaggio, et scuode il pagamento del porto, pedaggio et traverso di Piacenza sodetto, et questo d’ogni tempo, risservato però il nollo delle barche, sopra le quali passassero et si condurranno dette robbe et bestie come di sopra; secondo sarà dechiarato dall’illustre Magistrato delle entrade ducali di S.A. Serenissima. Et questo quando non passassero il luoco del porto, et tra la bocca di Trebbia et di Fodesta, come è detto di sopra, nel qual caso dovranno pagare si come passassero sopra detto porto[30]».  

Nei vari traffici non di rado risultano movimentazioni di merci varie, tra cui della malvasia alla volta di Pavia come questa: “Dominus Andrea Tadine conduce per al Po a Pavia balle 1 sarza: (paga) L. 1, sol. 3, den. —; Petro Antonio Morande conduce per al Po a Pavia some 37 roba bona în colli 48 et some 1 savone et some 18 pionbe in colli 25 et some 40 valanie ? incolte 1 et sache 3 et brente[31] 17 malvasia in colli 17: (paga) L. 143, sol. 3, den. 9. Josefe Giavarde conduce per Po a Cremona some 2 corame la- vorate in colli 4: (paga) L. 10, sol. 2, den.”

O quest’altra: “Die 15 dete.

Herede dal Trezage conduce per Po balle 21 roba de Fiandera a Ferara, some 10,4: (paga) L. 13, sol. 13, den. 6; Avostine de Otine conduce per Po a Pavia balle 2, choltere n. 9, mataraze 1, 10 al cavezale 65, peze doie vergate, sigia 1 malvasia, chadreghe 24, viniciane reme 24, store 20, piseI charta stampata: (paga) L. 2, sol. 18, den”

E ancora: “Die 3 dete. Dominus Franciscus Dalarata per Petro Maria Renze conduce per al Po a Pavia some 6 gala; some 4 cordevane, some 1,% malvasia in colli 11: (paga) L. 8, sol. 19, den. 3. Et più colte 1, valania, some ***: L. —, sol. —, den. —; El Chodega conduce per al Po a Paviia some 10 valania in sache 13: (paga) L. 4, sol. 10, den.”

E qui: “Die 3 dete.

Dominus Franciscus Dalarata per Petro Maria Renze conduce per al Po a Pavia some 6 gala ®; some 4 cordevane, some 1,% malvasia in colli 11: (paga) L. 8, sol. 19, den. 3. Et più colte 1, valania, some ***: L. —, sol. —, den. —; El Chodega conduce per al Po a Paviia some 10 valania in sache 13: (paga) L. 4, sol. 10, den. —“.

E qui: “Die primo septembris 1558.

Domino Iovane Batista Sentino conduce per il Po a Pavia some 20 roba bona in coli 23: (paga) L. 24, sol. 12, den. —; Iovane Ieronimo di Bertone con- duce per il Po a Pavia carateli 2 malvasia, some 3 quarti 1 roba bona in coli 6, fagoto 1 zibilino 80 da preti: (paga) L. 7, sol. 16, den. 9”

E qui: “Adì 8 ditto 1558.

Domino Iovane Batista Santino conduce per il Po a Pavia quarto 1 roba bona: (paga) L. 1, sol. 10, den. 9; Herede dil Terzago conduce per il Po a Pavia bala 1 coltre: (paga) L. 1, sol. —, den. 6; Iovane Antonio Franzolo conduce per il Po a Pavia case 9 roba bona some 5, carteli 4 malvasia some 2, some 2,1/2 in coli 10 fagoti 2, pise 3 store, n. 100 cadrege, arnie n. 18: (paga) L. 18, sol. 4, den. 6”

E qui: “Adì 6 ditto.

Herede dal Terzago conduce per il Po some 9,4 roba deverse in coli 6 et fagoto 1 per Cremona some 57 in coli n. 114 e fagoto doi per Ferara: (paga) L. 53, sol. 2, den. 4; Cristoforo Canavini conduce per il Po a Pavia coleto I panno et faso 1 alzale: (paga) L. 3, sol. 7, den. —; Herede del Terzage conduce per il Po a Picigitone some 7 Ultramonte: (paga) L. 7, sol —, den. —; Io- vane Francesco di Bertone conduce per il Po a Pavia some 1 roba bona, careto I malvasia: (paga) L. 2, sol. rr, den. 6.”

E qui: “Adì 6 ditto.

Herede dal Terzago conduce per il Po some 9,4 roba deverse in coli 6 et fagoto 1 per Cremona some 57 in coli n. 114 e fagoto doi per Ferara: (paga) L. 53, sol. 2, den. 4; Cristoforo Canavini conduce per il Po a Pavia coleto I panno et faso 1 alzale: (paga) L. 3, sol. 7, den. —; Herede del Terzage conduce per il Po a Picigitone some 7 Ultramonte: (paga) L. 7, sol —, den. —; Io- vane Francesco di Bertone conduce per il Po a Pavia some 1 roba bona, careto 1 malvasia: (paga) L. 2, sol. rr, den. 6[32]

Altrettante, se non di più, sono le testimonianze sull’invio e sull’arrivo di merci, compresa la malvasia, da Venezia. Il che fa pensare al fatto che, nonostante vi fosse una produzione locale di malvasia, come vedremo dalle testimonianze scritte, vi era, allo stesso modo, una cospicua importazione e distribuzione di altre malvasie provenienti dalla Serenissima. Lo stesso si può immaginare riguardasse le talee e materiali adatti alla costruzione della vigna. Questi atti, che hanno pregnanza e validità storica, servono inoltre a ribadire quanto avevo accennato prima: se Leonardo da Vinci impiantò una vigna di Malvasia di Candia aromatica è assai probabile, anche qualora fosse arrivata dagli Atellani di Candia Lomellina (PV), che avesse origine nel Piacentino e, a ritroso, in un incerto passato che, per via fluviale avrebbe potuto rimandare a Venezia e da Venezia alle isole greche dell’Egeo, e Candia, ovvero Creta, in particolare. 

Fu soltanto a seguito della ripresa della guerra franco-spagnola nell’Italia settentrionale, che «la tradizionale vivacità commerciale di Piacenza ebbe un calo per la cessazione di merci dalla Francia e da Genova, per cui il gettito del traffico nel porto di Fodesta si ridusse di ben 3.200 lire imperiali, tanto che gli appaltatori del Dazio Grande nel 1558 chiedettero una parallela diminuzione dei canoni. I passaggi navali registrati dal gennaio al novembre 1558 sono soltanto 410, con prevalenti destinazioni ravvicinate a Pavia (235), Cremona (144), Ferrara (49) e Venezia (47); un mezzo disastro. Tra le merci in transito si riscontrano l’assenza dei cereali e la scarsità di olio d’oliva, miele e formaggi e si distingue il vino, calcolato in 12.000 brente, che da Piacenza era diretto soprattutto a Pavia, da dove proseguiva per Milano, che aveva un vasto mercato.

Il dazio sul trasporto del vino e dell’aceto, la “tratta”, era annesso al “Dazio grande della Mercanzia” e riguardava la quantità di vino transitante sul braccio di Po piacentino, che era sempre stato in gran parte piemontese (da Voghera al Monferrato) ed era diretto a Venezia; non mancava il vino piacentino esportato soprattutto in Lombardia. Il vino piacentino, soprattutto il bianco malvasia, era trasportato su piccole veggiole da due brente»[33].

LE TESTIMONIANZE STORICHE SULLA MALVASIA DI CANDIA AROMATICA NEL PIACENTINO.

Senza il percorso, tortuoso, non lineare, in cui diverse tracce si perdono nei precipizi della storia, quest’ultima parte, fatta per lo più di testimonianze scritte giunte sino a noi sembrerebbero come delle meteore vaganti per lo spazio.

Andrea Bacci (1596)

Medico e naturalista[34] nipote di un ingegnere della fabbrica della Basilica di Loreto e discendente da parte di madre dei Paleologi, ultimi imperatori di Bisanzio. Studiò a Matelica, poi fu a Siena, ed infine a Roma sotto la protezione del concittadino Modestino Cassini, Archiatra di Pio V. Laureatosi, nel 1552 divenne pubblico lettore di filosofia e favorito dal Cardinale Ascanio Colonna, entrando ben presto nella migliore società romana. Sei anni dopo diede alle stampe la sua prima opera “Sul Tevere”, ma fu con il “De Thermis” che, nel 1571 assurse a grande notorietà. Il libro venne accolto con entusiasmo perché ritenuto il più dotto trattato sulla storia e le qualità terapeutiche delle acque, ed ebbe diverse ristampe anche successive fino al ‘700.

Nel 1567 al Bacci fu assegnata la cattedra di botanica dell’Università “La Sapienza”, e nel 1586 Sisto V gli concesse la nomina di Archiatra Pontificio. Pur continuando a scrivere su varie tematiche, ormai colmo d’onori ed avanti negli anni, il Bacci si dedicò finalmente a redigere il “De naturali vinorum historia[35]“, trattato monumentale sulla storia dei vini.

Pubblicato nel 1596 è suddiviso in sette libri:

I -temi relativi alla vinificazione e conservazione dei vini;

II -consumo dei vini in rapporto alle condizioni di salute;

III -caratteristiche peculiari dei diversi vini;

IV -uso dei vini da parte degli antichi, specie nei conviti;

V -vini delle varie regioni d’Italia;

VI -vini che si importavano a Roma;

VII -vini dei paesi stranieri.

L’opera di Bacci, arricchita dei dati raccolti dalla letteratura greca e latina, propone annotazioni sul clima, sul paesaggio agrario, sulle iniziative economiche dei principi e delle popolazioni, sul carattere degli abitanti e sulle tradizioni conviviali dei vari Paesi.

«Non meno pregiati vini produceva Castel S. Giovanni e gli altri colli vicini a Piacenza: bianchi e rossi, gagliardi ed alcoolici, tanto che, dice il B., pur chiamandosi Greci, Moscatelli e Trebulani, sono di questi più potenti. Assai meno potenti invece eran quelli prodotti da Borgonuovo: bianchi e rossi c sinceri e innocenti anche pei malati «Però fra i rossi di questo paese ve n’ era uno speciale per la sua robusta dolcezza, ottenuto dalle uve pignole, comuni in tutto il Piacentino, fragranti e aromatiche. Il nome deriva dalla forma del grappolo, denso di acini neri e succosissimi, a guisa di pigna. Nel vicino Zíano si producevano invece vini bianchi nitidissimi, più robusti dei circostanti, e molto apprezzati a Milano, specialmente una qualità chiamata Gatto (!). Inoltre sugli Appennini, fin sotto Torton a e Bobbío, si producevan certi vini molto apprezzati e dolci, detti Malvatici e Cornielati[36]. Ultra praedictum Sancti Joannis castrum, eodem situ in meridiem Burgum Novum cognomento nobile oppidum extat sub Ascanij Sfortiae dominio, ac comitatus dignitate ormatum. In cuis agri, ac frugiferis collibus vina producuntur syncera, rubro, ac flava colore, nec quicquam fumosa, ut aegrotantibus etiam habentur innoxia. Sunt & in censu rubeorum validiora, quae & gratum sapiunt dulcorem, Pineola; vina cognominantur in toto etiam. Placentino communia, quoniam & sapore atque atiam odore delectant aromatico; & ex ipso etiam uva-rum genere, compactis in ipso racemulo Pinearum instar uvis subrubentibus, & nigris, succosis. Quo potissimum uvae genere sub Ancarano cognominato Vico, Thebaldorum familiae illustri colles abundant. Est praeterea in eiusdemm Burgi comitatu Vicus Ziani nomine: in cuis colliculi ad meridiem, & occasum obversis, vina producunt prae ceteris vicinis validiora, flava, ac limpida nitore, atque adeo syncera, ut Mediolani habeantur preciosa, atque eius praesertim generis, quod vinum Gattum, sicut alibi Mattum in Benaco cognominant: quoniam odore valido, ac flavo similiter colore, facile tenent caput. Nec etiam Malvaticis cedit vinis. Porro longo eo tractum collium Appennini, ad occidentem, ac Boream nec minus sub Tortona, ac Bobio civitatibus excellunt, praesertim quae pro eadem saporis, atque dulcoris gratia, quasi Malvatica, ac Cornielata volgò appellantur, sub oppido Arquati, & pro edito situ electissima habentur vina».

«Nel libro sesto passa alla descrizione dei vini italiani partendo dal Lazio, per cui prima arriva a Modena (in Mutinensi et Parmensi vina), che dice celebre per i vini bianchi, di gusto piacevolmente piccante e di soave odore, e conosciuta anche per i vini rossi, dall’uva succosa dolce chiamata Spongiola, non diversamente da quelli di Carpi, Reggio e Parma. A Borgo San Donnino, dopo averne raccontato la storia, segnala diversi bianchi (f lava plurima), in particolare di Moscatella, di Schiava Trebiana, che si chiama Vernaccia; nella pianura presso il Po si creano vini mediocri, acquosi, propri per uso dei malati. Quando arriva a Castel San Giovanni, oltre alla ricchezza dell’agricoltura nella pianura del Po, dimostra l’eccellenza dei vini, tratti da vitigni trasferiti da ogni parte d’Italia, sceltissimi per ampia notorietà, bianchi, rossi forti, che, splendidi per il fulgore dorato, che osano chiamare Greci, o Moscatelli o Trebbiani, e sono talmente validi che danno facilmente alla testa. E poi cita il territorio di Borgo Novo, signoria di Ascanio Sforza, sui cui fruttiferi colli si producono vini sinceri, di colore rosso e biondo, non torbidi. I rossi sono nella considerazione più validi (Pignoli) perché hanno un gradevole gusto dolce e dilettano per il sapore e l’odore aromatico, provenienti da uve dal grappolo compatto e rossiccio o nero, ma succoso. Soprattutto di questo genere di uva hanno grande abbondanza i colli sotto il villaggio di Ancarano e nella stessa zona c’è il villaggio di Ziano, sulle cui colline si producono vini più validi degli altri, dorati e limpidi e tanto sinceri e buoni, che a Milano sono ritenuti pregiati, soprattutto quello che chiamano vino Gatto, come sul Garda il Matto, perché per l’odore forte e il colore biondo facilmente dà alla testa; e non rimane indietro nemmeno alle Malvasie. Nel tratto appenninico verso ovest tra Tortona e Bobbio eccellono soprattutto quei vini che vengono chiamati Corneliati, per quel sapore e per quella dolcezza, quasi di malvasia; nella cittadina di Arquato per gli stessi terreni si ottengono vini “elettissimi”. Insomma le due lunghe descrizioni occupano uno spazio almeno quadruplo rispetto a quello dedicato alle altre aree emiliane, segno che i vini piacentini erano davvero tenuti in grande considerazione[37]».

Giuseppe Falcone (1597)

La Villa del Falcone godette di un’indubbia fama, che produsse, tra il 1597 ed il 1691, ben otto edizioni: una a Pavia (1597), due a Brescia (1599 e 1602), una a Treviso (1602), quattro a Venezia (1603, 1612, 1619, 1628), ed una a Piacenza (1691). A quest’opera se ne affianca una seconda, minore, che riguarda l’allevamento del bestiame ed intitolata Rimedii dove s’insegna molti et varii secreti per medicar bue, vacche, cani, cavalli et ogni altra sorte di animali, pure con varie edizioni tra Cinque e Seicento anche se nessuna delle quali uscita a Brescia.

Il caso di Giuseppe Falcone è molto interessante, perché apre uno spiraglio del tutto inaspettato nella storia dell’editoria tardo-cinquecentesca. Come è stato sottolineato recentemente, la fortuna editoriale della Villa può essere dipesa in parte dall’afflato religioso e morale che pervade tutta l’opera, rendendola quindi bene accetta ai lettori dell’età post-tridentina. Si tratta naturalmente di un’ipotesi che andrebbe verificata attraverso uno studio approfondito; certo non va trascurato il fatto che le caratteristiche dell’opera si combinino con il dato ‘geografico’, e cioè che le prime edizioni siano uscite in zone – l’area milanese e quella bresciana che avevano raccolto l’eredità di s. Carlo Borromeo e di Domenico Bollani – nelle quali gli effetti del concilio di Trento si erano tramutati anche in una forte spinta per la produzione editoriale.

Ma l’agronomo bresciano non si formava esclusivamente attraverso lo studio dei testi di Gallo, Tarello, Falcone ed altri a lui contemporanei. Il primo passo era rappresentato dall’acquisizione dell’eredità lasciata dagli autori classici, latini e greci, relativamente all’agricoltura[38].  

«La rassegna dei classici moderni non si può concludere senza aver commentato almeno brevemente l’opera del piacentino Giuseppe Falcone, che compilò un’opera di notevole peso se rapportata ai trattati coevi, alla quale sarebbe giusto riservare un’attenzione particolare, che però si rimanda ad altra sede.

Con Falcone ha termine quella precettistica sull’agricoltura come attività produttiva e distensiva, che si contrappone alle tribolazioni della città e che assume ancora una disincantata visione rinascimentale della natura e della vita in villa. Questa concezione unitaria di alto retaggio classicistico, proveniente dai latini da Catone a Virgilio, dove il padrone è un pater familias che vede e provvede e che fa fruttare la campagna in modo ricco con la serenità d’animo, si spezza perché il signore vive e deve vivere nel suo palazzo di città e a corte per condividere il meraviglioso splendore del principe, per ossequiare il potere monocratico, che dispensa favori e privilegi solo ai fedeli sudditi di nobili schiatte.

Sul vino santo afferma che “questo si usa nel Piacentino, però se ne fabbrica anche nel Parmigiano, con l’uva Moscatella o Malvesia {sic)” raccolte mature e poi lasciate “nelle Camere a tasello ben pulite e riparate dall’umidità dell’aria, verso Natale poi e si follano e poi si mette a bulire per un mese circa, indi si cava, e si passa nei sacchetti fatti a tal uso, e poi si mette nelle pícciole botti munite di buoni cerchi e ben turate si lascia così per tre anni continui passati i quali si comincia a farne uso[39]».

Giovan Vettorio Soderini (1600)

Il Trattato apparve per la prima volta accompagnato da un altro trattato sul medesimo soggetto, di Bernardo Davanzati, e dall’Apologia del popone, di Leonardo Giacchini. L’opera di Soderini fu in seguito ristampata separatamente da Manni, Firenze, 1734, in-4°, con qualche aggiunta sulla vita dell’autore.

«Ancora “molto profittevole nel render vino” è il Greco, tanto ella sua terra nativa (che il S. pensava fosse nell’arcipelago greco…) quanto in Terra di Lavoro; “ma ama assai l’andare in alto, come anche il Trebbiano e l’istesso Pergolese di Tivoli”. Però aggiunge che “tutte le sorti di viti per lor natura desiderano d’andar in alto” cita in proposito – alcuni esempi di pergole a grande espansione …; “e poche se ne trovano che desiderino andar basse, o star terra terra, come le viti che fanno l’uva nera passerina di Coranto (evidentemente: Corinto) e le Passerine bianche”: e queste son da seccare.

Poi, senza nemmeno… far punto, continua con questa singolare affermazione: “e tanto fanno le viti che fan la Malvagia, delli quali vini un boccal solo condisce una botte di sei barili di vin bianco di quei paesi e lo fa esser tutto malvagia[40]”, e da sola “fa un vino potentissimo, e questa vite ne fa poco nel suo paese dí Candia e Cipri, e meno assai produce trasportata negli altrui, e si diletta d’andar terragnola”.

Già abbiamo avvertito quanto sia ingarbugliata l’ampelografía delle Malvasie; ma ciò che ne dice il Soderini ci fa escludere che si tratti dell’attuale Malvasia toscana, sembrando piuttosto trattarsi d’una Malvasia aromatica, di provenienza orientale: quella stessa che produceva í famosi vini greci, importati in gran quantità e tanto decantati durante i secoli XIV-XVII. Notiamo che l’Acerbi[41] cita appunto una Malvasia Moscado, della quale si dice che sia fatto il vino dí Madera … ed il Moscado dí Candia, e di varie isole dell’arcipelago, che ci viene da Venezia, e perciò da noi conosciuto sotto nome di Moscado di Venezia». Aggiunge che potrebbe essere la Malvoisie musquée) dei Francesi. E noi aggiungiamo che una Malvasia moscata si coltiva sull’ Appennino’ piacentino (e un po’ qua e là anche in Piemonte) sotto il nome di Malvasia di Candia[42]».

Filippo Re

Nei primi anni dell’Ottocento fu segretario della Società agraria di Bologna e titolare della cattedra di agricoltura all’Università felsinea, di cui venne nominato rettore dal 1805 al 1806. Autore di studi e pubblicazioni sulle malattie delle piante, la concimazione dei terreni e l’erba medica, fu promotore di un’inchiesta sull’agricoltura dalla quale nacquero gli Annali dell’agricoltura del Regno d’Italia (1809-1814), ove dette risalto e valore alle varietà e alle differenze dell’agricoltura italiana.

Dell’ Agricoltura del circondario di Piacenza[43] dipartimento del Taro impero francese Memoria di un anonimo in risposta ai quesiti proposti dal compilatore degli Annali dell’Agricoltura del regno d’Italia a molti agronomi e specialmente a quelli esposti nel tomo III di detti Annali. Continuazione e fine

«Le uve di questo circondario per la più parte sono nere. Tra le molte varietà io qui annovererò quelle che sono le più pregiate per far vino coi nomi del paese Son queste l’uva fruttana l’oriniona la pignola la crova la berzemina la bessegana. Le più famigerate fra le bianche sono la malvasia la moscatella la greca la tribbiana

che fa vin duro e la lugliatica solo dilettevole a mangiare.

Il vino fra di noi più stimalo il di cui nome solo ne fa l’elogio, e nel tempo stesso il più serbatojo, è il vino santo Per farlo scelgono due terzi tra malvasia e moscatello e un terzo d’altra uva bianca e di poco tribbiano, e di queste qualità d’uve scelgono le più dicotte. Le lasciano distese sopra graticci sino al Natale.

In questa stagione le calcano solto il torcolare lasciano il mosto in vasi aperti venti o trenta giorni indi lo mettono ben chiuso in piccoli dogli sopra terra Questo vino è reso ottimamente abile al bersi dopo tre anni e quanto più invecchia tanto più migliora».

La Malvasia rosa

L’attività di genetica viticola della Cattedra di Viticoltura di Piacenza si è anche dedicata al miglioramento delle varietà tradizionali del Piacentino mediante la selezione clonale, durata decenni, che ha portato all’omologazione dei seguenti doni: Malvasia di Candia aromatica n° 3 doni, Sauvignon B. n° 3 doni, Ortrugo n° 2 doni, Barbera n° 2 doni, Bonarda n° 2 doni. La propagazione dei suddetti doni è stata affidata all’ESAVE, confluita poi nell’Ente Regionale dell’Emilia Romagna denominata CRPV. Sotto il profilo giuridico lo scrivente[44] rimane il responsabile dei doni in quanto costitutore genetico.

Come è noto i cloni derivano da mutazioni genetiche ma rimangono all’interno della varietà madre. Una mutazione gemmaria che invece è uscita dalla varietà genitrice è la Malvasia rosa, selezionata dallo scrivente nel 1967, a seguito di una segnalazione del compianto Dr. Giuseppe Comolli, grande tecnico del Consorzio Agrario di Piacenza. In realtà nel 1967 fu il mezzadro dell’azienda Uccellaia in Val Nure (presso Albarola) a non rendersi ragione della presenza di un grappolo rosa su una pianta di Malvasia di Candia aromatica, i cui grappoli sono notoriamente bianchi. Lo scrivente prese in adozione il ceppo e selezionò le gemme per utilizzarle nell’innesto, al fine di ottenere figlie di Malvasia rosa.

CONCLUSIONI

La storia delle malvasie, necessariamente al plurale, conduce verso rivi e percorsi tanto accidentati quanto carsici: portano fino ad un certo punto per poi far scomparire le loro tracce. In tutto questo i nostri antenati, come abbiamo potuto notare, hanno messo del loro e la ragione è presto detta: quella commerciale. E le malvasie hanno rappresentato, dal punto di vista storico, un precedente di tutto rilievo: identità territoriali, produzioni, commercio e prezzi hanno giocato ruoli finalizzati ad un’unica parte e al medesimo risultato. A guardar bene, poi, nei lontanissimi XIII e XIV secoli, un seppur minima suddivisione tra vini proveniente da Creta (Candia), Cipro e da Malvasia (Monembasia) vi era. Se a questo aggiungiamo che comunque, già all’epoca, vi era chi riteneva che Monembasia era soltanto un porto d’imbarco delle merci (e il raffronto va con altre regioni europee), altri interrogativi si accavallano a quelli posti all’origine. Nonostante i dubbi di provenienza e di origine siano ancora pienamente legittimi, quello che si sa con buona certezza riguarda il ruolo che ebbe Venezia in tutto questo. Essa non fu solamente la reggente dei traffici delle malvasie, del possesso, alterno, delle terre che ne videro la probabile origine ma anche e soprattutto, il canale di diffusione dei vini e la promotrice della espansione viticola di un marchio. E in questo caso giocò un ruolo essenziale un altro importantissimo canale d’acqua: il fiume Po.

E Piacenza e il piacentino non solo facevano parte di quell’enorme corso d’acqua e di distribuzione, ma ne erano parte integrante sia per il porto cittadino che per le campagne che la attorniavano. Ed ecco allora che si sa, con altrettanta buona certezza, che in quelle terre si coltivava malvasia e la si esportava sia in forma di vino che di vitigno. Ma di quale malvasia si trattava? Di un frutto che i relatori dell’epoca definivano come profumato. Oggi sappiamo il grado di discendenza con un’altra malvasia, ovvero quella odorosissima di Parma tanto a rafforzare sia la comune origine territoriale che quella aromatica. Agli inizi dell’Ottocento, infine, l’inchiesta agraria di Filippo Re rimanda ancora ad un vin santo composto per i 2/3 di malvasia aromatica, racconto che rimanda a quello seicentesco di Giuseppe Falcone. Da bersi dopo tre anni: un vino fatto con uve appassite, certamente aromatico e profumatissimo e, naturalmente, secco.   

APPENDICE

La Malvasia nelle opere letterarie[45].

Malvasìa’ (ant. malvagia, malvascìa, malvaxìa), sf. Enol. Vino bianco pregiato, di gradazione compresa tra gli // e i /7 gradi alcoolici, di sapore aromatico, dolce oppure secco, originario del Peloponneso; hanno lo stesso nome anche altri vini con caratteristiche in parte diverse, derivati da varietà di vitigni coltivati in 1talia, Spagna, ecc.

Boccaccio, Dee., 73 (/63): Lasciamo stare d’aver le lor celle piene d’alberelli di lattovari e d’unguenti colmi, …di bottacci di malvagia e di greco e d’altri vini preziosissimi traboccanti, …essi non si vergognano che altri sappia loro esser gottosi.

Sacchetti, 3/7: Denar quaranta per la malvagia.

Prudenzani, LXV1-/-//4: Romeca de mattina e malvascia, / a tavola gaglioppa e cortonese, / cima de giglio e vin di Romania.

S. Bernardino da Siena, 1V-/2: Alle taverne, empiuti i corpi di malvagia e di pinocchiati, i vostri giovanzelli che ne segue?

M. Savonarola, 59: Valle molto a fare la dieta aqua [ardente] malvaxia, vino de Tiro, trebiano, ribolla, vino greco, vernacia, romania, universalemente con le proprietade e condizione che de sopra diete sono. Sanguinacci, XXX1X/-298: Ricanati ancor qui non dispresio / che sono signori di buon trebiani, / …di Candia la malvasìa novella.

Bandello, 2-37 (1-/055): Riccardo re fece annegar il duca di Clocestre, suo zio, essendo a Cales, in un vaso di malvagia.

Lancerio, LXV1-/-3/7: La malvagia buona viene a Roma di Candia. Di Schiavonia ne viene la dolce, tonda e garba. Se si vuole conoscere la meglio bisogna che non sia fumosa né matrosa, ma che sia di colore dorato.

Tassoni, //-22: Fattosi recare un fiasco pieno / di vecchia e dilicata malvagia, / gli ne fece assaggiar tre gran bicchieri.

Siri, 1-/55: 1n quel disnare, andandosi per gradi dalli vini communi fin’all’acqua di vite, senza fermarsi né alli moscati di Candia né alle più vigorose malvaggie, eccitando la sete con salami, caricò e aggravò in maniera S. A. lo stomaco che ‘l calore naturale non potendo digerire un tale e sì grande me- scuglio, fu assalito dalla febre.

Redi, /6-1-8: Han giudizio e non son gonzi / quei Toscani bevitori / che tracannano gli umori / della vaga e della bionda, / che di gioia i cuori innonda, / malvagia di Montegonzi.

Baruffaldi, 1-271: Eri avvezzo a starti giorno e notte, / e più allor che il lion nel ciel ruggia, / chiuso e sepolto nelle fresche grotte / per riscaldarti colla malvaggia.

Fantoni, 11-60: 1o depongo questa fiasca piena / di malvagia.

Ghislanzoni, 239: Non mi farebbe male l’adagiarmi per qualche ora su quel divano, pensava il visconte, dopo aver sorseggiato un mezzo bicchiere di malvasia.

Thovez, /-97: Aveva inviato in dono una botte di malvasia o di vernaccia che fosse.

Dessi, 9-/2/: La fama di anarchico, di eversore di governi, di mangiapreti, e anche di sottaniere, era giustificata da certe improvvise sfuriate che la buona gente metteva in relazione con i bicchierini di ~ filu ferru ‘ o di malvasia che si scolava.

P. Petrocchi [s. v.]: 1l malvasia è giallo chiaro, dolce,

spiritoso, di corpo. Malvasia stravecchio. Malvasia mo- scado.

  • L’uva che, vinificata, dà origine al vino omonimo; la più diffusa è quella con frutto bianco di sapore semplice, ma esistono altre varietà con frutto nero e rosso, e anche con sapore aromatico simile a quello del moscato.

Trinci, /-63: L’uva malvasia, o sia grechetto, è di qualità bianca; comincia a maturare circa alla metà d’agosto e, giunta alla sua perfezione, partecipa quasi del giallo; ne fa ragionevolmente di pigne piccole, raccolte, serrate e di granella piccole, un poco bislunghe e di guscio più tosto duro.

Paoletti, /-2-49: La malvagia, la volpola o cimiciattola, il navarrino, ecc. son tutte uve atte a formare un vino saporito, spiritoso, durevole.

Lastri, 11-/74: Un’uva bianca, di colore alquanto carico e che produce un vino potente e squisitissimo, è quella che si chiama ~ moscadellata ‘ e può chiamarsi ancora ~ malvagia di Piemonte ‘, essendo originaria di quel paese.

P. Petrocchi [s. v.]: Malvasia’: specie d’uva delicata. ~ Senti com’è buona questa malvasia. La malvasia è quasi gialla’. Soldati, 5-//6: 1 vini della Riviera del Garda e quelli detti della Franciacorta… sono prodotti nelle colline a sud del Lago d’1seo, con uve 80% un misto di barbera, berzamino o barzamino nostrano, sangiovese; e 20% un misto di malvasia e vernaccia bianca.

  • Locuz. Dar malvasia per dolce vino: rendere la pariglia.

Berni, 59-56 (V-88): Così fu rapportato anche al danese, / che combatteva, e non era di sotto; / anzi ben stava al par con Serpentino, / dando a lui malvagia per dolce vino.

Essere più dolce che la malvasia: essere amabile e desiderabile in sommo grado.

Lorenzo de’ Medici, 11-276: Più chiara se’ che acqua di fontana / e se’ più dolce che la malvagia; / quando ti sguardo da sera o mattina, / più bianca se’ che il fior della farina.

Fare le prove intorno alla malvasia: competere a chi ne beve di più.

Aretino, 20-/59: Se le prove del letto si assimigliassero a quelle che fanno intorno ai fasciani e a la malvagia, ne incacarebbero Orlando.

Innaffiare il corpo di malvasia: berne in gran quantità.

Nievo, 1-581: Non è vero puranco che il lampadaio ha cura soltanto d’innaffiare il suo corpo di malvasia e rimpinzarlo di polli e di salati?

– Non esser né malvasia né marsala: vivere in una modesta mediocrità.

Carrieri, 4-93:Non sei, mai sarai / malvasia né vino marsala. / L’oscuro tanto t’addolcisce, / il chiuso goloso ti ripara.

– Nuotare nella malvasia: berne a volontà, rimpinzarsene oltre ogni limite.

Mariconda, 1-2-2: S’io fussi padrone, …vorrei… che

i miei servi notassero sempre nelle guamaccie e nelle malvagie.

– Trasudare la malvasia dai pori a qualcuno: presentarsi con l’aspetto congestionato che è conseguenza di abituali eccessive libagioni.

Di Brente, 78: Un certo rotondo abate, cui trasudava la malvasia dai pori.

= Dal nome della cittadina greca di Monembasia o Napoli di Malvasìa dei Veneziani.

Malvàtica, sf. Ant. Malvasia.

Cammelli, 167-13: L’un dice che a mangiarli [i fichi] l’acqua vòle, / chi li vói soli e chi li vói col pane. / Io mi fo beffe delle lor parole: / la malvatica queste [frutte] fa più sane, / ché l’acqua putrefar sempre le sóle.

= Etimo incerto, probabil. da malvasia1.

Malvàtico1, agg. (plur. m. -ci). Ant. Vino malvatico: malvasia.

M. Savonarola, 1-188: Ancuora è laudato l’aqua di gramegna, l’olio dato cum vino malvatico. Brasca, 61: Poi scopersemo insula de Candia, …la quale insula è abundante de perfetissimi vini malvatici.

Dalla Croce, II-31: Sempre gli gocciava nel fondo quattro o sei goccie di quello mirabile liquore, secreto di mio padre; Recipe onc. 20 di vino malvatico schietto; onc. 4 di betonica e onc. 2 di succo di calamento, mirra olibano, alce, sangue di drago, mastici, centaurea minore, granella d’ipericone, an. dramm. 1.

Cinquanta, XXXIV-679: Tu mi allonghi la vita, se in la cane va / conservi il vin malvatico, / ch’ormai più non si trova nel commercio.

BIBLIOGRAFIA

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[1] Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, in Carlo Ginzburg, Le nostre parole, e le loro. Una riflessione sul mestiere di storico, oggi; in La lettera uccide, Adelphi, Milano 2021, pag. 69

[2] Ivi, pag. 70

[3] Ampelografia universale storica illustrata: i vitigni del mondo: compendio del/compendium of Ampélographie di/by Pierre Viala e Victor Vermorel, L’Artistica Editrice, Savigliano 2012

[4] VIALA – VERMOREL, Traité général de viticulture, dite aussi Ampélographie Viala et Vermorel, vol. VII, p. 212. In https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k6532418x/f13.image

[5] Giuseppe di Rovasenda, Saggio di una Ampelografia Universale, Ermanno Loescher, Torino 1877, p. 105.

[6] Roberto Miuravalle, Attilio Scienza, Storia delle malvasie, in “L’Enologo”, Mensile dell’Associazione Enologi Enotecnici Italiani, n°10 ottobre 2017

[7] Arrosto di capretto del X secolo – Un Longobardo alla corte dell’imperatore bizantino in https://historicalitaliancooking.home.blog/italiano/ricette/arrosto-di-capretto-del-x-secolo-un-longobardo-alla-corte-dellimperatore-bizantino/

[8] Ewald Kislinger, Dall’ubriacone al krasopateras. Il consumo del vino a Bisanzio, in La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento, Centro Culturale Artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, luglio 2003, pp. 162, 164

[9] Zakithinos D., Note Storiche. Annali Società Scienze Bizantine, vol. IX, Atene, 1932. FRATIS FELICIS FABRI, Evagatorium in Terrae Sanctae etc., Ed. C. Hassler, vol. IlI, p. 314, Stuttgard, 1849 in Basilio Logothetis, Considerazioni storiche sulle Malvasie, in Rivista di Storia dell’Agricoltura – a. IV, n. 1, marzo 1964, pp. 12-25

[10] Il vino di Creta, nel Medioevo, vevina distinto dalla Malvasia: «Scendendo a scrittori minori, ricorderemo come il migliore novelliere trecentesco. dopo il &v:caccio. Francesco Sacchetti, ín una sua novella (la 177a) citi alcune specie di uve del suo tempo: l’Angiota (forse l’attuale uva da tavola bolognese), la Verdolina, la Sancolombana (forse la Verdea, tutt’ora coltivata a Peccioli sotto il nome di Colomtsanaì. la Cimiciattola, ecc. Ed è sua la notizia già da noi ricordata, dell’introduzione da Portovenere della Vernaccia di Corniglia, ricordata dal Boccaccio. In varie sue novelle nomina poi diversi tipi di vino: oltre alla Vernaccia, il Trebbiano, la Malvagia o Malvasia, il Víno dí Creta» in A. Marescalchi, G. Dalmasso, Storia della vite e del vino in Italia, III Volume, Enrico Gualdoni, Milano. 1933, pag. 427.

[11] Ivi Basilio Logothetis: “Senza dubbio quando scrive «la Malfasia è oramai dei Turchi» intende la terraferma di Peloponneso e non la roccia con la fortezza e la città”.

[12] Wolfgang Schweickard, Deonomasticon Italicum. Dizionario storico dei derivati da nomi geografici e da nomi di persona. Volume III. Derivati da nomi geografici: M–Q, ‎ De Gruyter, Berlino 2009, pag. 100

[13] Thomas Hohnerlein-Buchinger, Per un sublessico vitivinicolo. La storia materiale e linguistica di alcuni nomi di viti e vini italiani, De Gruyter, Berlino 2009, pag. 86

[14] Ivan Dujčev, Cronaca di Monembasia. Introduzione, testo critico, traduzione e note, 1976, Pubblicazioni dell’Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neoellenici in Palermo, pp. 33 – 35

[15] Basilio Logothetis, Considerazioni storiche, cit.

[16] “Il fenomeno che il nome di un vino non derivi dal suo luogo d’origine ma dal nome dell’emporio oppure del centro della sua vinificazione si verifica abbastanza frequentemente, se vediamo p. e. i Sacheracher Weine in Germania e i vini bordolesi in Francia (cfr. Braun iiber Land und Meer, 1879. 5,875 segg. in Schiller-Lilbben. Nachtrag 206). Cfr. anche Johnson 153.”, in Sublessico nota 155

[17] Thomas Hohnerlein-Buchinger, Per un sublessico vitivinicolo. La storia materiale e linguistica di alcuni nomi di viti e vini italiani, cit. pp.85,86

[18] Basilio Logothetis, Considerazioni storiche, cit.

[19] Le zone coltivabili a vite dell’Egeo orientale (fra cui anche Samo, Rodi e Cos) sono noti e apprezzati fin dall’antichità. In particolare su Chio ; su Lesbo v. ATENEO, Deipnosophiston 1, 28 e-f, edd. A.M. Desrousseaux, C. Astruc, Paris 1956 (Collection des Universités de Françe [CUF]), pp. 67-68; Q. ORAZIO FLACCO, Carmina 1, 17, 21-22, in Le opere, a cura di F. della Corte, P. Venini L. Canali, I/1, Roma 1991 (Antiquitas Perennis), p. 143; e TEODORETO DI CIRO, Epistula 13, ed. Y. Azéma, Correspondance, II, Paris 1964 (Sources chrétiennes, 98), p. 44. Nota di Ewald Kislinger

[20] Ewald Kislinger, cit.

[21]  «In una lettera, a mio avviso databile fra il 1324 e il 1330, Giovanni Cumno descrive una sorta di carnevale bizantino. Dalla mattina fino a tarda notte si faceva onore a Dioniso, si brindava con grandi bicchieri colmi di vino di Monembasia e Trigleia e ci si sentiva forti come tori, benché ci si potesse a malapena tenere dritti. Il vino di Monembasia, così la nostra fonte, ha perso la sua esclusività. Ora è apprezzato da molti per la sua corposità insieme ad un nuovo tipo, il vino di Trigleia (oggi Zeytinbagi). Questa località è situata sulla costa meridionale del Mar di Marmara, 30 km a nord-ovest di Prusa/Bursa. È da notare, in generale, che tutti i vini di circolazione sovraregionale provenivano da isole, o erano prodotti in zone costiere (ad esempio Creta, Lesbo, Chio, Taso, Cilicia e – in epoca protobizantina – le città di Palestina, come Gaza, Tiro, Sarepta). I centri principali di consumo possedevano anch’essi porti di rilievo, ad esempio Costantinopoli o anche Salonicco. Nella capitale si dibattè tenacemente, fino alla conquista ottomana (1453), se le taverne veneziane dovessero avere licenza di vendere il loro vino – che le esenzioni fiscali rendevano più economico – ai sudditi bizantini, anche al dettaglio o semplicemente in botti, un dibattito che, tra l’altro, la dice lunga sull’entusiasmo della clientela bizantina per il vino», In E WALD KISLINGER, cit.

[22] Creta. allora nominata Candia, che emerge in continuazione come sinonimo del vino Malvasia, entrava in tempi assai remoti, cioè nel 1211, sotto il dominio della Serenissima. Dal 1463 fino alla fine del Cinquecento la città di Monevasia appartenne proprio ai Veneziani.

[23] Cfr. Basilio Logothetis, Considerazioni storiche, cit.

[24] Per un sublessico, cit. nota 155 pag. 86

[25] The key role of “Moscato bianco” and “Malvasia aromatica di Parma” in the parentage of traditional aromatic grape varieties, in Tree Genetics & Genomes, May 2016

[26] Full-sibling

[27] G. Vasile SimoneI; G. MontevecchiI, F. MasinoI, S.A. ImazioI; C. BignamiI, A. Antonelli, Aromatic characterisation of malvasia odorosissima grapevines and comparison with malvasia di candia aromatica, in South African Journal of Enology and Viticulture vol.39, n.1, Stellenbosch 2018

[28] Il palazzo, in stile rinascimentale, sorge non lontano dal Cenacolo e dalla Chiesa di Santa Maria delle Grazie in corso Magenta. Gli Atellani, famiglia di cortigiani e diplomatici originari del sud Italia, si erano stabiliti al nord al servizio dei duchi di Milano: gli Sforza. È proprio Ludovico il Moro, Il duca, dopo aver comprato la dimora nel 1490 dai Landi, conti di Piacenza, la donò alla famiglia degli Atellani, a regalare a Giacometto della Tela, capostipite della famiglia, due case vicine ma separate con giardino situate lungo il borgo delle Grazie, l’attuale corso Magenta.

[29]  http://www.piacenzantica.it/page.php?507

[30] Piero Castignoli (Acura di), Atti che riguardano la navigazione fluviale a Piacenza dal secolo decimoquarto al decimottavo, Giuffrè, Milano 1965, pag 46. L’anno di riferimento è il 1558

[31] Vino malvasia: Caratello (sec. XVI) = 1 brenta. Brenta = 48 pine = lt. 75,771.

[32] Ivi, pp. 59, 63, 78, 85-89

[33] Steafno Pronti (con Mario Fregoni), Storia e cultura del vino, Fonti inedite e casi esemplari sul vino piacentino dall’antichità a oggi, Edizione Tip.le.co, Piacenza 2008, pag. 117

[34] Da Taccuini gastrosofici www.taccuinigastrosofici.it

[35] Andrea Bacci, De naturali vinorum historia, de vinis Italiae et de conuiuiis antiquorum libri septem Andreae Baccii . accessit De factitiis, ac ceruisiis de q[ue] Rheni, Galliae, Hispaniae et de totius Europae vinis et de omni vinorum vsu compendiaria tractatio, Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini di Alba, traduzione Mariano Corino – ediz.1992

[36] Andrea Bacci citato in A. Marescalchi, G. Dalmasso, Storia della vite e del vino in Italia, III Volume, Enrico Gualdoni, Milano. 1933, pag 491

[37] Steafno Pronti (con Mario Fregoni), Storia e cultura del vino, cit. pp. 205, 206

[38] Ennio Ferraglio, Il vino nella tradizione agronomica rinascimentale, in La civiltà del vino, cit. pp. 725, 726

[39] La nuova, vaga, – et dilettevole villa, di Giuseppe Falcone Piacentino, in Venetia, appresso Nicolò Moretti, 1603, è una seconda edizione. la prima di Pavia (1597) è dedicata al conte Bernardino in Steafno Pronti (con Mario Fregoni), Storia e cultura del vino, cit. pag. 207, 223

[40] Giovan Vettorio Soderini, Trattato della coltivazione delle viti, e del frutto che se ne puô cavare, edito a Firenze da Filippo Giunti, 1600, in-4°

[41] Giuseppe Acerbi, Delle viti italiane: o sia, Materiali per servire alla classificazione, monografia e sinonimia: preceduti dal tentativo di una classificazione geoponica delle viti, G. Silvestri, Milano 1825

[42]  A. Marescalchi, G. Dalmasso, Storia della vite e del vino in Italia, III Volume, pag. 532

[43] Annali dell’agricoltura del regno d’Italia, compilati dal cav. Filippo Re … contenenti fatti, osservazioni, e memorie sopra tutte le parti dell’economia campestre. Tomo XVIII aprile maggio e giugno 1813, Milano Dalla Stamperia Di Giovanni Silvestre agli Scalini del Duomo N 994

[44] Lo scrivente è Stefano Pronti, cit. pag. 300

[45] Testo tratto dal Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino (1961 – 2002) in https://www.gdli.it/

Un mondo al contrario. Di Luca Rostagno

Barbera al 6° anno ( dovrebbe essere il periodo di maggior vigore) con vegetazione quasi assente.
Settembre 2022. Foto di Luca Rostagno

Luca Rostagno è l’enotecnico dell’azienda agricola e vinicola “Matteo Correggia” http://www.matteocorreggia.com/homepage/, che non ha bisogno di grandi presentazioni e viticoltore in Diano d’Alba. Luca è bravissimo nel suo lavoro e ha la capacità di allargare lo sguardo a ciò che accade dentro e attorno le vigne. Meteorologia compresa, che cura dalla sua pagina instagram https://www.instagram.com/vino_meteo_natura/

Negli ultimi 2 secoli, in questo territorio (Langhe e Roero), il mondo del vino ha vissuto una grande rivoluzione e, oltre ad essere enormemente cresciute le conoscenze e le tecnologie, il miglioramento delle condizioni climatiche ha favorito il raggiungimento di un livello qualitativo altissimo.

Se prendiamo a riferimento i decenni ‘50 – ‘60 – ‘70 ogni 10anni c’era un’annata eccezionale o molto buona, un paio di buone, 2-3 sufficienti e le altre disastrose; nel decennio ‘80 almeno 5 sono state molto buone (82, 85 e 89 eccezionali). Poi, dopo la pausa 91-94, ci sono state 7 annate consecutive molto buone o eccezionali; ma dopo il piovoso 2002 solo il 2014 ha interrotto la serie di 20 annate molto buone/eccezionali.

In ogni decennio, accanto a tecniche agronomiche sempre migliori, diminuivano i giorni di pioggia e aumentavano le temperature medie così da avere uve mature in maniera più completa e precoce. Ma, dopo aver raggiunto un ottimo equilibrio a partire dal 2015, la situazione climatica ha iniziato ad essere “eccessivamente migliore” e abbiamo dovuto iniziare a trovare una soluzione ai troppi pochi giorni di pioggia, a temperature medie troppo alte e a maturazioni divenute ormai troppo precoci.

Con vegetazione molto stentata. Agosto 2022 Foto di Luca Rostagno

Sì! Si è ribaltata la situazione e nelle ultime 3 annate abbiamo vissuto una condizione completamente opposta a quella che si presentava non nel 1800 ma solo 25 anni fa:

– una delle caratteristiche fondamentali per definire “cru”, un appezzamento di terreno, è stata la sua esposizione: la più ricercata è sempre stata quella verso sud per aumentare il più possibile il soleggiamento e nei decenni è stata una ”gara” a comprare i terreni meglio esposti che ora sono quelli che più risentono del caldo eccessivo e della mancanza di pioggia;

– la vendemmia iniziava con i vitigni bianchi a metà settembre e si chiudeva a fine ottobre con i nebbioli: adesso inizia a metà/fine agosto e raramente arriva ad inizio ottobre;

– durante il periodo di raccolta c’era l’incubo che piovesse: negli ultimi anni più volte è capitato di fermare la vendemmia sperando in piogge riequilibratrici;

– il tenore zuccherino è sempre stato l’indice più utilizzato per valutare la maturità delle uve e più era alto e più alta era la soddisfazione del viticoltore e degli enologi. Raramente si arrivava alla fatidica soglia dei 14° alcolici….( vivo è ancora il ricordo di mio nonno che orgoglioso mi faceva vedere le analisi del suo Dolcetto&Barbera esclamando “ fa un bel 11°”)

Cercare di raccogliere l’acqua dei temporali in un vigneto nuovo e con forte pendenza.
Diano d’alba luglio 2022. Foto di Luca Rostagno

Ormai si anticipa sempre più la data di raccolta per limitarlo e si è “contenti” quando sulle varietà rosse si resta sotto i 15°!

– nella gestione del vigneto frequentemente si sfogliava la fascia grappolo in maniera energica per prevenire marciumi e accelerare la maturazione, e prassi consolidata era, per gli stessi motivi, il diradamento per diminuire la quantità di uva ben al di sotto di quella ammessa dai disciplinari: ora sfogliare vorrebbe dire esporre i grappoli a probabili ustioni e renderli ancora più soggetti a disidratazione e perdita di aromi.

Se sul fronte temperature ci stiamo abituando-adattando: attualmente la situazione più critica è quella legata alla siccità e la causa è da ricercare negli ultimi 3 anni in cui le piogge sono diventate sempre più scarse e mal distribuite.

In un territorio in cui la media pluviometrica annuale è di circa 750mm, lo scorso anno ne sono caduti appena 422 e partendo dal 30 aprile 2023 bisogna risalire fino a metà giugno 2021 (più di 22 mesi) per accumulare i 750m “medi”.

Negli ultimi 40 mesi (1/01/20-30/04/23) sono scesi 1627 mm : poco più di quello che sarebbe dovuto piovere in 2 anni!

Sud in stress idrico e vegetazione stentata. Agosto 2022. Foto di Luca Rostagno

La causa meteorologica di questa situazione è la presenza di un’alta pressione quasi costantemente allungata da sud-ovest verso nord-est a coprire penisola iberica, il centro-sud Francia e il nord-ovest italiano: con questa disposizione barica le perturbazioni atlantiche trovano la strada sbarrata e sono costrette a passare più a nord o a scaricare le loro precipitazioni sul versante nord delle Alpi e noi siamo ulteriormente prosciugati dai venti di Föhn.

Il dubbio che ci attanaglia è: stiamo vivendo una parentesi sfortunata e “breve” o è l’inizio di un nuovo trend?

I più anziani dicono “è sempre piovuto, pioverà anche quest’anno”: è possibile ed è la speranza di tutti ma per far sì che la situazione migliori e torni verso la normalità non abbiamo bisogno di temporali sporadici, ma la continuità di mesi molto piovosi come sono stati maggio 2018, giugno 2011 e luglio 2014.

3 mesi che ai tempi abbiamo “maledetto” ma che adesso rimpiangiamo a confermare che, sulle nostre colline, l’eccesso di pioggia è in qualche modo gestibile mentre l’assenza la possiamo quasi solo subire.

Nel quasi ci sono tecniche agronomiche che aiutano la pianta a rafforzarsi soprattutto nell’apparato radicale, ad aumentare la % di sostanza organica nel terreno per incrementare la trattenuta idrica; la gestione dell’inerbimento che limita l’erosione ma può andare in competizione con le viti; lavorazioni del terreno a ridosso di potenziali passaggi temporaleschi estivi per far entrare più acqua possibile che invece su terreni compatti ruscellerebbe via; abbassare l’altezza della parete fogliare per diminuire l’evapo-traspirazione.

I fossi sono serviti e hanno fermato l’acqua che altrimenti sarebbe ruscellata verso il basso andando persa e causando erosione. Diano d’Alba luglio 2022 Foto di Luca Rostagno

Non ho citato l’irrigazione per la mancanza di invasi per poterla alimentare: calcolate che in un periodo di stress idrico, per riequilibrare un vigneto, servono circa 7 litri di acqua a pianta ogni settimana: in ogni ettaro ci sono circa 5000 viti…vuol dire 35000 litri/ettaro/settimana!

Nonostante il grande stress, nel 2022 le viti hanno prodotto poca uva, ma la qualità dei vini è ottima anche grazie a tutte le accortezze che abbiamo avuto e soprattutto quella sulla scelta del momento della vendemmia.

Maggio 2023 è iniziato con una meravigliosa pioggia: speriamo non resti un episodio ma l’inizio del periodo piovoso che attendiamo da oltre 2 anni!

Nb: i dati citati sono forniti dalla stazione meteo installata a dicembre 2010 dall’azienda Matteo Correggia a Canale nel Roero.

Il gioco delle tre carte

Kant

Il gioco delle tre carte, ovvero quando attraverso l’indisponibilità a comprendere l’altro, il proprio semplicistico piacere si erge a piacere universale e il proprio giudizio trasmuta in giudizio a priori, in assioma indimostrabile, nella Tavola della Legge, nel Sangue che si transustanzia in Vino. La Parola, per farsi Verbo, si fa dunque Parolaccia, Scurrilità, Irriverenza: soltanto quando tocca la carnalità triviale del Popolo, il Profanatore della Critica sarà partecipe e compreso del destino comune e solo allora potrà ergersi alla testa di coloro verso cui aveva inabissato anima e corpo. Ma sapendo, perché il Profanatore sa, che a quel popolo non appartiene più da tempo e che il momento della discesa non serve altro che a renderlo più forte, improvvisa la salita. Come in ogni Populismo degno di se stesso. L’uso della parola ‘gusto’ «incoraggia un gioco delle tre carte verbale in cui si spacciano per oggettive le proprie preferenze, mentre viene contemporaneamente attenuata l’assolutezza dei propri giudizi, facendoli apparire come personali. L’“uomo (donna) di gusto” è chiaramente un individuo in cui per armonia prestabilita il piacere personale coincide con il bene supremo. Non c’è maniera migliore per falsare un problema» (Rudolf Arnheim, Parabole della luce solare)

L’immediato e l’emotivo: il culto del gastro-brand nella società come spettacolo. Di Nicola Perullo

La foto è di Nicola Perullo

Nel film The Menu (2022, regia di Mark Mylod) si mette in scena in modo piuttosto feroce una certa immagine contemporanea della cucina d’autore, altrimenti detta di “ricerca” o “avanguardia” o genericamente “creativa” (questi aggettivi sono spesso ma erroneamente usati nel linguaggio fagocitante dell’informazione come sinonimi). E sono rappresentate con notevole enfasi le reazioni e i comportamenti suscitati da questa cucina. Naturalmente, questo film ha prodotto immediati giudizi polarizzati. Non intendo qui esprimere alcun giudizio sul film, né entrerò in una sua analisi complessiva. Piuttosto, l’opera mi fornisce lo spunto per elaborare alcune riflessioni generali. The Menu, intanto, mi è interessato perché non è un film sulla cucina. È una metacritica di un certo modo di intendere la critica. In altri termini, decostruisce una determinata modalità di approccio alla creazione artistica e alla fruizione estetica in generale; ma questa modalità oggi si presenta socialmente con evidenza nell’ambito del gastronomico. In questo senso, il film risuona con molti punti che ho discusso nel mio libro Del giudicar veloce e vacuo. Metacritica della critica gastronomica (2020).

Qual è il punto? Si tratta di evidenziare lo stretto rapporto tra autorialità e immediatezza, tanto nel produrre che nel recepire. Si tratta di evidenziare, altrimenti detto, come la categoria del “nuovo” sia oggi il valore necessario per suscitare immediate reazioni emotive positive; il culto sociale che si alimenta di se stesso e che, per questo, si fagocita continuamente. Pensiamo alla politica, produttrice continua di novità tanto dirompenti quanto effimere; si pensi ai “cambiamenti epocali”, alle notizie da prima, seconda, terza e quarta pagina, completamente dimenticate dopo poco. Si pensi dunque agli chef “nuovi” e ai loro ristoranti. L’immediatezza nel creare corrisponde all’immediatezza nel recepire, nell’accettare: il culto dell’autore è diventato il culto dell’emozione. Ma le emozioni così repentinamente emerse svaniscono altrettanto facilmente.

Che cosa significa oggi “ricerca”, nello specifico campo della cucina ma, più in generale, nel campo dell’opera d’arte se è vero che la cucina può legittimamente essere considerata arte (cfr. Perullo 2013)? E cosa significano oggi le nozioni di “creatività” e di “avanguardia”? E soprattutto: fino a che punto, oggi, la presunzione di una “assoluta” libertà creativa del gesto artistico può essere sbattuta in faccia al fruitore, che sia il cliente di un ristorante o lo spettatore di un film? Ho sottolineato la dimensione della contemporaneità in tali domande perché il tema generale è invero molto antico: la problematicità del rapporto tra produzione e fruizione risale all’origine della creazione di opere per un pubblico, e si specifica poi con l’età moderna in rapporto a un nuovo tipo di società, periodo nel quale nasce anche l’estetica (cfr. Agamben 2022). Le considerazioni filosofiche generali devono riflettere, in modo concreto e specifico, ciò che oggi accade. Innanzitutto, dunque, il film The Menu descrive la figura dello chef-icona, dello chef come brand, rappresentando le diverse reazioni alla creatività assoluta dell’icona e del brand in quanto tale: dalla critica gastronomica di una nota rivista fino all’amatore entusiasta, dagli arricchiti fino ai borghesi, tutti (con la sola eccezione dell’intrusa, la “troll” della situazione e personaggio chiave del film, che però qui non prenderemo in conto) accetteranno, seppure con sfumature diverse, i gesti creativi, cioè autoriali-autoritativi e brandizzati, del cuoco, almeno fino a quando non prenderanno una piega che esula decisamente dal dominio gastronomico, giustificandoli innanzitutto in quanto pura espressione di un brand. Di fronte alla vecchia questione filosofica: “Dio vuole una cosa perché è buona, o una cosa è buona perché Dio la vuole?” la risposta offerta dalla società secolarizzata dell’immediato emotivo è sicuramente la seconda.

La foto è di Nicola Perullo

Questa situazione mette a sua volta in evidenza un altro punto: l’idea della libertà creativa connessa a una “genialità” che diviene marchio, brand, dunque firma riconoscibile, è oggi totalmente funzionale all’industria culturale capitalistica e alle sue logiche di commercio e mercato. In altri termini, ciò che accade è che il sistema non ha più alcun bisogno di “controllare” l’opera (come è invece accaduto nei sistemi della prima modernità, con le censure religiose e poi con le ideologie politiche totalitarie) affinché essa risulti consona, tanto accettabile all’autorità quanto poi gradita al pubblico, dunque vendibile. Ora la vendibilità è l’immagine stessa dell’opera, senza contenuto, perché l’opera, totalmente identificata con la sua firma, viene accettata in quanto brand. Lavorano su questo meccanismo coloro che creano l’opera (non solo il maker, lo chef in questo caso, ma tutto l’indotto: uffici stampa, creatori digitali, comunicatori di varia declinazione) affinché vi sia la fruibilità di un pubblico accettante. Un’accettazione che, in linea ben più che solo teorica, prescinde dunque da ogni considerazione sui contenuti dell’opera. O meglio: la valutazione, come vediamo in The Menu, avviene ex post, a partire dall’accettazione a prescindere: diviene un “giustificazionismo” generalizzato. In altri termini: dato che il brand è autoritativamente imposto, dato che l’informazione lo diffonde e lo rende “vero”, segue che vi sia del merito. Dunque, spetterà al fruitore trovarlo per convalidare la comprensione dell’opera. Credo che questo modello sia stato esemplarmente riassunto dall’idea che oggi circola, cioè che la vera creatività si trovi più spesso nella pubblicità e nel marketing di prodotti che non nel prodotto stesso. Del resto, alcuni anni fa, Jeff Koons, rese quella celebre dichiarazione secondo la quale l’arte non consiste nel fare un’opera ma nel venderla. Analogamente, nel cinema molti critici oggi sono impegnati a giustificare il merito artistico del brand che riempie le sale (pensiamo alla Marvel) proprio in quanto le riempie. Un’altra riflessione si presenta, dunque, quando l’informazione ci propone enfaticamente i risultati della ricerca creativa di molti chef e dei loro ristoranti: dove si investono oggi le maggiori e migliori energie, nel caso specifico in un lavoro sulla cucina o sulla sua comunicazione e promozione?

Torniamo al mito della presunta libertà assoluta di creazione. Se guardiamo attentamente alle politiche messe in atto dalle grandi piattaforme come Netflix, Amazon Prime o consimili, ma più in generale all’industria culturale (a cui anche la cucina appartiene pienamente) vediamo una situazione interessante: il prodotto “creativo”, libero, “avanguardistico” di autori iconici/brand trova sempre più spazio anche sul piano della stessa produzione (pensiamo a film come Roma di Cuarón, The Irishman di Scorsese, Bardo di Iñárritu, ma la lista è enorme e in espansione). L’industria culturale non sta affatto annullando quanto fagocitando l’arthouse, lasciandolo libero come pura firma, come pura forma: ciò vale per il cinema e per l’editoria, la musica e ovviamente i ristoranti. Attenzione, però: il “prodotto artistico” non è però considerato opportuno e accettato soltanto perché consente di continuare a lavorare sui prodotti di massa, i Blockbuster progettati a tavolino. Non è cioè solo questione del fatto – innegabile – che lo stesso proprietario del ristorante stile The Menu possa anche marchiare, brandizzare, pizzerie e paninoteche. È qualcosa di ancora più sottile e insidioso: in quanto è apprezzato come brand, l’arthouse stesso è totalmente parte del medesimo meccanismo della produzionecommerciale propria dei Blockbuster e delle pizzerie. Si tratta di creare icone spettacolari: tanto basta. Il brand è lo spettacolo, l’esperienza nuova che si nutre di sé, indipendentemente da ciò che rappresenta e, nel caso del cibo, da ciò che propone. In The Menu, la figura del “food enthusiast”, il gastrofilo è colui che risparmia denaro per permettersi queste esperienze. Il fan – che non è né il critico né l’arricchito, seppure anche queste figure reagiscano in modi simili – incarna al meglio questo processo di immediatezza emotiva che diviene giustificazione cognitiva: ogni creazione dello chef-brand viene accettata e motivata in quanto proviene da lui. La “libertà creativa” è il dogma, il sacro secolarizzato del sociale spettacolarizzato.

Si scioglie così questo apparente paradosso: nella società dello spettacolo c’è uno spazio preciso, sempre più ampio, riservato alla libertà creativa “assoluta” del gesto artistico: uno spazio curato, organizzato e capitalizzato dallo stesso mainstream contro il quale apparentemente si indirizzerebbe questa presunta “pura” ricerca che si definisce ancora, spudoratamente, avanguardia. La definizione è spudorata perché qui non si sta in alcun avamposto: si è ben saldi e ben piantati (al di là delle vicende individuali anche drammatiche, come ancora una volta mostra bene The Menu) nella bulimia del sistema produttivo. Quello che voglio sottolineare qui è come a tale bulimia produttiva debba corrispondere una bulimia fruitiva; all’iperproduzione corrisponde un’iperstimolazione, più precisamente una volontà continua di “emozionare” (tutti vogliono regalare emozioni; sentiamo continuamente gli chef sostenere che il loro ruolo è “dare emozioni”). Ora, il meccanismo della libertà creativa assoluta come brand e questo bombardamento emotivo, superficiale e alla fine – in modo apparentemente paradossale – anestetizzante, vanno insieme: la prima serve proprio per suscitare apprezzamento emotivo immediato, uno shock funzionale alla mancanza di stratificazione e memoria. Immediatezza e impazienza, produzione di un prêt-à-porter creativo/autoriale. Si pensi a ulteriori tre casi: un film come Babylon di Damien Chazelle, il ristorante Ultraviolet di Paul Pairet o la moda del vino naturale come fenomeno “hipster” sono movimenti che nascono dentro tale meccanismo. Anarchia della creazione produttiva = immediatezza fruitiva emotiva. Di fronte a esse, la narrazione come brand sopravviene: dato che la risposta da dare è immediata, o si rifiuta o si accetta subito. Dato che, nel primo caso, si rischia di non far parte dello spirito del tempo, dell’interesse, allora si opterà per l’accettazione: vedere tutto, ingoiare tutto, una narrazione che sopravviene all’esperienza metabolica della digestione lenta e appassionata. Se Peynaud ne Il gusto del vino teorizzava che il gusto deve adattarsi e adeguarsi alle regole dell’enologia tecnologica, ora il gusto si deve adattare alla pura libertà delle visioni del maker, indipendentemente dal comprenderle o no: il gusto è un equalizzatore di brand. Il feticcio del brand, il brand che diviene l’esperienza stessa. Il feticcio della ricerca assoluta e dell’esperienza assoluta.

Non sto qui suggerendo che un film come Babylon o un ristorante come quello rappresentato in The Menu non possano offrire un’esperienza sensibile appagante, coinvolgente, emozionante, stupefacente o anche solo divertente. Il punto che qui sollevo è diverso: queste opere sono realizzate e prodotte secondo un modello che, basandosi sul criterio dell’accettazione iconica, autoriale-autoritativa prima descritta, le sottrae del tutto alla metabolizzazione, cioè al tempo. Il tempo inteso non come istantaneità della reazione emotiva, ma come durata, passione, memoria e sedimento (cf. Perullo 2013): ciò in cui dovrebbe radicarsi un’opera per corrispondere al farsi di una sensibilità che accomuna. Far attecchire l’opera nell’ecologia, significa realizzare una corrispondenza tra opera e gusto. Questo tipo di lavoro, non la brandizzazione volatile dell’autore dell’opera proprio del marketing del consumismo capitalistico, è stato quello proprio anche delle avanguardie. Ma questo lavoro è un compito senza fine: si sviluppa come densità e processo, sempre in risonanza. Ho provato a suggerire l’ipotesi per questo tipo di lavoro in alcuni miei libri precedenti (cfr. in particolare Perullo 2021) attraverso l’idea di gusto come compito. Percepire è un compito che non si dà mai una volta per tutte, ma si realizza nel processo – perciò chiede attenzione, attenzione e ancora attenzione, non istantanea accettazione né rifiuto, ma tempo. Allo stesso modo, la creazione è compito: giammai libertà assoluta, sciolta da vincoli, ma recupero, relazione, comunanza. La creazione e la ricezione sono libertà dipendenti, cioè vincolate.

La foto è di Nicola Perullo

L’analisi sopra proposta potrebbe anche intendersi anche come critica alla libertà del gusto dei vini naturali, una posizione che si potrebbe apparentemente ascrivere al progetto presentato in Epistenologia? No, ma certo ne costituisce una necessaria precisazione. Da un lato, infatti, non si è mai sostenuto che l’artefatto “naturale” sia di per sé gustativamente apprezzabile in quanto tale: altrimenti, si ricadrebbe nell’obiezione sopra esposta, cioè quella della sacralizzazione del brand come tale, della narrazione che riduce a sé ogni esperienza. Si percepisce sempre dentro una rete ecologica, cioè di relazioni vincolanti, di sedimenti movibili; invece, il mito della presunta libertà creativa, il prêt-à-porter autoriale, allena percezioni istantanee e impazienti, tanto di giudicare quanto di venire stimolate. Dall’altro lato, però, essere consapevoli dei vincoli relazionali non significa lavorare su regole predeterminate e “oggettive”. Epistenologia ha di mira quest’ultimo feticcio, che vale anche per l’arthouse brandizzata e sapientemente “comunicata” nel cinema, nella musica, nella ristorazione, nell’industria culturale in generale. Quindi: né libertà assoluta né regole oggettive, ma compito in quanto continua attenzione. Il gusto è relazione e resistenza: negoziazione, dialogo, costruzione di uno spazio comune. Si tratta di non accettare passivamente: né le regole del mercato mainstream né il brand apparentemente fuori mercato del mercato più sofisticato, quello che mette precisamente in scena il fan gastrofilo nel film The Menu. Si tratta di coltivare meno emozioni e più passioni; educare il percepire per radicare l’opera nell’ecologia di un gusto che al contempo si sedimenta e si ricrea, costantemente.

Come ci ha indicato bene Guy Debord, viviamo nella società dello spettacolo, cioè nella società come spettacolo. Lo spettacolo è il conformismo. Ha scritto Maurizio Iacono:

Nel secolo scorso il conformismo era contrassegnato dall’uso delle camicie tutte dello stesso colore. Oggi avviene il contrario. Il conformismo si presenta con le camicie multicolori, i tatuaggi, l’esibizione sotto le false spoglie della trasgressione. Si era conformisti come il Marcello Clerici del romanzo di Alberto Moravia e del film di Bernardo Bertolucci. Si è conformisti così come ce lo hanno descritto Sandro Luporini e Giorgio Gaber. Questo serve allo spettacolo delle merci e questo si fa in un contesto in cui, immersi come siamo in un presente-eterno e in assenza di qualunque desiderio di un futuro che non sia la falsa speranza individualistica di soddisfare i propri bisogni, la stessa contrapposizione tra destra e sinistra è diventata ormai solo parte della stessa rappresentazione. Questo significa arrendersi? No! Significa soltanto togliersi i prosciutti dagli occhi. Ciò fatto, il resto verrà.1

La società come spettacolo. Ma – come ha da parte sua mostrato bene Calasso (cfr. Calasso 2017) la società è oggi l’unica religione. Quindi lo spettacolo è l’unica religione. Si comprende così il nesso tra immediatezza della produzione, mito della libertà assoluta, generazione continua di brand come “novità”, culto dell’emozione. Inventarsi sempre qualcosa di nuovo per girare a vuoto, ideologizzare l“immersività” come esistesse uno stato di emersione. L’immersività ideologizzata è figlia del culto dell’immediatezza emotiva e produce l’opposto di quanto millanta: essa distrae. Ma per radicare l’opera nell’ecologia di un gusto che si realizza c’è bisogno di continua, infinita, attenzione. Un’attenzione totale.

Il film The Menu ci fa riflettere su questioni essenziali, perché un ristorante come quello rappresentato può nascere solo dentro il sistema dell’informazione e dell’immediato emotivo, nell’età dell’“innominabile attuale” che stiamo attraversando. Inventarsi sempre “nuovi” format di ristoranti perché lo scopo è “dare emozioni”. Però, anticipare quotidianamente il futuro significa diventare professionisti di “novità”; cioè, significa trovarsi da subito già nel trapassato senza essersene consapevoli. Vivendo un tempo accelerato e immediato, ne veniamo ipso facto fagocitati, subendolo passivamente. E The Menu gioca esplicitamente anche su questo fatto perché – come sa bene chi conosce l’argomento specifico di questo tipo di cucina – tutte le novità sono refrain già consunti (il creare un piatto come se fosse un paesaggio, il pane come essenza, il cheeseburger come retorica del non-nuovo, della tradizione per eccellenza, ma anche il piatto che il fan, sfidato dallo chef, realizza, venendone dileggiato. I suoi abbinamenti sono “davvero rivoluzionari”, gli dice sarcastico lo chef). Abbiamo ancora davvero bisogno di spettacolo, di cinema, ristoranti, di “evasione” (ma da cosa dovremmo evadere?). Abbiamo davvero ancora bisogno di “fare nuove esperienze” per alimentare il loro stesso bisogno? Non sarà forse che l’unica, vera novità consisterebbe nel fermarsi, cioè nel non volere programmarsi ad esperire?

Bibliografia

Agamben, Giorgio, L’uomo senza contenuto [1974], Quodlibet, Macerata, 2022

Calasso, Roberto, L’innominabile attuale, Adelphi, Milano, 2017

Debord, Guy La società dello spettacolo [1967], Massari, Bolsena, 2002.

Iacono, Alfonso Maurizio, “Lo spettacolo e il conformismo”, BAC BAC Associazione culturale, https://www.bacbac.eu/2023/02/17/lo-spettacolo-e-il-conformismo, 2023.

Perullo, Nicola, La cucina è arte? Filosofia della passione culinaria, Carocci, Roma, 2013.

Perullo, Nicola, Del giudicar veloce e vacuo. Metacritica della critica gastronomica, Edizioni Estemporanee, Roma, 2020.

Perullo Nicola, Epistenologia. Il vino come filosofia, Mimesis, Milano, 2021.

1 https://www.bacbac.eu/2023/02/17/lo-spettacolo-e-il-conformismo/?fbclid=IwAR3TrWNv13QWpbdFYDAKVMA7GfJkxaiI_f4Bgygt_vrpAWRLr0FOji9q_9c