Ricetta letteraria (n°4). Sulle orme di Charles Dickens

«Questo fu il viaggio del signor Pickwick e dei suoi amici col Telegrafo di Muggleton alla volta di Dingley Dell; ed alle tre di quello stesso giorno, si trovavano tutti, ritti e asciutti, sani e salvi, forti ed allegri, sulla soglia del Leone turchino, avendo già ingollato lungo la via tanta birra e acquavite da mettersi in grado di sfidare la gelata che copriva il terreno dei suoi strati durissimi e andava sospendendo i suoi bei ricami bianchi agli alberi e alle siepi. Il signor Pickwick era tutto assorto in contare le sporte delle ostriche e in sopraintendere al disseppellimento del merluzzo, quando si sentì dolcemente tirato per le falde del soprabito; si voltò e scoprì che la persona la quale ricorreva a questo mezzo di richiamare la sua attenzione era né più né meno che il paggio favorito del signor Wardle, meglio noto ai lettori di questa disadorna istoria sotto l’appellativo del ragazzo grasso.

— Ah, ah! — esclamò il signor Pickwick.

— Ah, ah! — fece il ragazzo grasso.

E accompagnando questa esclamazione con un’occhiata che andava dal merluzzo alle sporte di ostriche, gorgogliò un riso di soddisfazione. Era più grasso che mai.

— Bravo, avete una cera molto rubiconda, — disse il signor Pickwick.

— Sono stato a dormire proprio davanti al fuoco, — rispose il ragazzo grasso, che un’ora di sonno aveva scaldato fino alla tinta d’un mattone cotto. — M’ha mandato il padrone con la carretta per portare a casa il vostro bagaglio. Avrebbe anche mandato dei cavalli da sella, ma ha pensato che col freddo che fa avreste preferito farvi il cammino a piedi.

— Sì, sì, — disse subito il signor Pickwick, ricordandosi di un altro famoso viaggio fatto sulla medesima via. — Sì, preferiamo venircene a piedi. Sam!

— Signore?

— Date una mano al domestico del signor Wardle per mettere i bagagli sulla carretta, e montate con lui. Noi c’incamminiamo avanti.

Dato quest’ordine e pagato il cocchiere, il signor Pickwick e i suoi tre amici presero il sentiero attraverso i campi, e si avviarono di buon passo, lasciando a fronte per la prima volta il signor Weller e il ragazzo grasso. Sam guardò con grande stupore al ragazzo, ma senza dire una parola; e incominciò a caricare il bagaglio sulla carretta, mentre il ragazzo grasso se ne stava tranquillamente da parte, pensando forse esser una cosa molto interessante vedere il signor Weller che lavorava da sè.

— Ecco fatto, — disse Sam gettando sulla carretta l’ultima sacca da viaggio.

— Sì, — disse il ragazzo grasso soddisfatto, — ecco fatto.

— Ebbene, piccolo pezzo da cento, — disse Sam, — così come siete, avreste il premio alla fiera.

— Grazie, — rispose il ragazzo grasso.

— Non avete nulla pel capo che vi tormenti? — domandò Sam.

— Non mi pare, — rispose il ragazzo.

— Avrei pensato, a vedervi, che foste consumato di dentro da una passione sorda per qualche bella giovane, — disse Sam.

Il ragazzo grasso crollò il capo.

— Ebbene, — disse Sam, — mi fa piacere di saperlo. Bevete mai qualche cosa?

— Mi piace meglio mangiare, — rispose il ragazzo.

— Ah, me lo figuravo; ma in somma, lo pigliereste un sorso di qualche cosa, tanto per scaldarvi? Del resto, in quanto a freddo, con codesta ciccia addosso, non credo che ne abbiate idea.

— Qualche volta sì, ed allora mi piace un gocciolo di qualche cosa, quando è buono.

— Ah sì? Bravo! Venite di qua allora.

Arrivarono subito nella sala del Leone turchino, e il ragazzo grasso ingollò un bicchiere di liquore senza batter ciglio, il che gli fece guadagnar molto nella stima del signor Weller, il quale, sbrigata che ebbe per conto proprio la medesima faccenda, tornò alla carretta seguito dal ragazzo e insieme vi montarono.

— Sapete guidare? — domandò il ragazzo grasso.

— Crederei di sì, — rispose Sam.

— A voi dunque, — disse l’altro dandogli le guide e accennando ad un sentiero. — Sempre diritto, non potete sbagliare.

Con queste parole il ragazzo grasso si distese amorosamente a fianco del merluzzo, e fattosi guanciale di una sporta di ostriche, si addormentò istantaneamente».

Charles Dickens, Il circolo Pickwick, 1836 (Traduzione dall’inglese di Federigo Verdinois 1904)

Lo Stoccafisso accomodato alla genovese

1 kg. stoccafisso già bagnato, 300 g. di patate, 20 g. di funghi secchi, 1 manciata di foglie di prezzemolo, 1 cipolla, 1 costa di sedano, 1 spicchio d’aglio, 2 acciughe sotto sale, 1 manciata di pinoli, 1 manciata di olive verdi snocciolate, 1 manciata di olive nere taggiasche, 1 cucchiaio di conserva di pomodoro casereccia, 6 cucchiai di olio d’oliva extra vergine sale q.b.

Preparazione:

Scottate lo stoccafisso in acqua bollente leggermente salata per circa 10 minuti, per poterlo pulire.

Scolatelo e pulitelo, eliminando pelle e lische, con il coltello fatelo a pezzetti.

Preparate il soffritto, pulite sedano, carota e cipolla e tritateli.

Versate olio extravergine della riviera e il trito di verdure in un tegame, e fate rosolare le verdure.

Poi unite i pinoli e le acciughe salate (mi raccomando lavate prima per dissalarle e deliscate), e cuocete.

Ammollate i funghi secchi in acqua tiepida, scolateli e asciugateli leggermente con un canovaccio o carta da cucina, tritateli grossolanamente ed uniteli al soffritto (non gettate l’acqua di ammollo, ma usatela per bagnare lo stoccafisso durante la cottura). Sciogliete la conserva casereccia di pomodoro in poca acqua tiepida e versate anch’essa nel tegame Unite nel tegame lo stoccafisso pulito al soffritto, bagnate con l’acqua di ammollo dei funghi, salate, e fate cuocere a fuoco basso per circa mezzora, mescolando di tanto in tanto ed aggiungendo altra acqua tiepida se necessario. Passata la mezzora, aggiungete il prezzemolo tritato assieme all’aglio, e le olive sgocciolate.

Fate cuocere per circa un’oretta, sempre mescolando di tanto in tanto ed unendo acqua calda per non fare asciugare troppo.

Unite poi le patate pelate e tagliate a cubetti.

Cuocete sino a che le patate sono ben cotte.

Impiattate e servite caldo.

La ricetta è tratta da https://www.ristorantedarina.it/le-nostre-ricette/ Ristorante Da Rina – Genova

Il vino con lo stokke.

2019, Pigato Riviera Ligure di Ponente, Terre Bianche

Vermentino, pigato, favorita, rolle e verlantin (francesi) possono essere utilizzati per un dibattito filosofico-scientifico, ad ampio respiro, sull’identico e sull’uguale. Perché abbiamo voglia a dire che vermentino e pigato godono al 100% dell lo stesso profilo del DNA e che provengono dallo stesso vitigno iniziale cresciuto da un solo seme d’uva. Ma, con i secoli a venire e ad andare, per carattere e individualità, il pigato si abbellisce di foglie più lobate e più piccole dell’altro, di diversi i germogli (verde chiaro con sfumature rosa ed orlo carnicino), di acini meno tondeggianti e con piccole macchie sulla buccia (da cui pigau, ovvero “macchiettato” in dialetto). Abbiamo voglia, insomma. E se si va in un posto che ne ricorda altri non lontani e più o meno vicini, ma ne è alquanto differente per esposizione, altitudine (400 s.l.m.m.) argille e arenarie, vicinanze al mare e alle coltri di nubi che circondano le montagne, le cose cambiano ancora. Quindi il 2019 e un viticoltore, Filippo Rondelli che vai a sapere se in quell’anno, il 2019 per l’appunto, pur essendo identico per DNA al Filippo Rondelli del 2018, fosse totalmente uguale al Filippo Rondelli del 2018. Ma ne dubito. Questo pigato 2019 gioca, e piuttosto bene, su tutti i versanti da cui raccoglie ispirazione e lungimiranza, una bellissima lungimiranza: pesche gialle, limoni, miele aprono ad primo ingresso morbido e succulento per lasciare il passo lento ma inesorabile ad un centro bocca in cui si affastellano e si ricompongono fiori, erbe e macchia mediterranea, salvia soprattutto, resine, sali e pietre delle montagne d’intorno. E un finale lungo, leggermente balsamico, sicuramente amarognolo come è il fatto suo.

Ricetta letteraria (n°3) Sulle orme di James Joyce

James Joyce nel 1915
Di Alex Ehrenzweig -commons:File:James_Joyce_by_Alex_Ehrenzweig,_1915.jpg, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=3191236

Al mattino del 16 giugno 1904 con Mr Leopold Bloom. E, per chi non lo sapesse, il 1904 fu un anno bisestile del secolo scorso. E anche il 2020 lo fu.

«Mr Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e di volatili. Gli piaceva la spessa minestra di rigaglie (interiora di volatili), gozzi piccanti, un cuore ripieno arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto d’urina leggermente aromatica. I rognoni erano nel suo pensiero mentre si muoveva quietamente per la cucina, sistemando le stoviglie per la colazione di lei (la moglie Molly) sul vassoio ammaccato. Luce e aria gelida nella cucina ma fuori una dolce mattina d’estate dappertutto. Gli facevano venire un po’ di prurito allo stomaco. I carboni si arrossavano. Un’altra fetta di pane e burro: tre, quattro: giusto. Non le piaceva il piatto troppo pieno. Giusto. Lasciò il vassoio, sollevò il bollitore dalla mensola e lo mise di sbieco sul fuoco. Stava lì, grullo e accosciato, col beccuccio sporgente. Tazza di tè fra poco. Bene. Bocca secca. La gatta interita girò attorno a una gamba del tavolo con la coda ritta.– Mkgnao!– Oh, sei qui, disse Mr Bloom, distogliendosi dal fuoco. La gatta rispose miagolando e girò di nuovo interita intorno a una gamba del tavolo, miagolando. Proprio come quando incede impettita sulla mia scrivania. Prr. Grattami la testa. Prr. Mr Bloom guardava curioso, gentile, la flessuosa forma nera. Pulita a vedersi: la lucidità del pelo liscio, il bottoncino bianco sotto la radice della coda, i lampeggianti occhi verdi. Si chinò verso di lei, mani sulle ginocchia. – Latte per la miciolina, disse. – Mrkgnao! piagnucolò la gatta. Li chiamano stupidi. Capiscono quello che si dice meglio di quanto noi non si capisca loro. Capisce tutto quel che vuole. Vendicativa anche. Chi sa che cosa le sembro io. Alto come una torre? No, mi salta benissimo. – Ha paura dei polli, lei, disse canzonatorio. Paura del pìopìo. Mai vista una miciolina così sciocchina. Crudele. La sua natura. Curioso che i topi non stridono mai. Sembra gli piaccia.– Mrkrgnao! disse forte la gatta. Guardò in su con gli occhi avidi ammiccanti per la vergogna, miagolando lamentosamente e a lungo, mostrandogli i denti bianco latte. Egli guardava le fessure nere degli occhi che si restringevano per l’avidità fino a che gli occhi divennero pietre verdi. Poi s’avvicinò alla credenza, prese il bricco che il lattaio di Hanlon gli aveva appena riempito, versò il latte tiepido gorgogliante in un piattino e lo posò lentamente in terra.– Grr! esclamò lei e corse a lambire. Guardò i baffi splendere metallici nella debole luce mentre lei ammusava tre volte e leccava lievemente. Chissà se è vero che se glieli tagli non pigliano più topi. Perché? Risplendono al buio, forse, le punte. O una specie di antenne al buio, forse. Tese l’orecchio al leccottìo. Uova e prosciutto, no. Niente uova buone con questa siccità. Ci vuole acqua fresca e pura. Giovedì: non è nemmeno giornata per un rognone di castrato da Buckley. Fritto nel burro, un zinzino di pepe. Meglio un rognone di maiale da Dlugacz. Aspettando che l’acqua bolla. Leccò più lentamente, poi ripulì ben bene il piattino. Perché hanno la lingua così ruvida? Per leccare meglio, tutta buchi porosi. Niente da mangiare per lei? Si guardò intorno. No.

Con le scarpe che scricchiolavano in sordina salì la scala fino al vestibolo, si fermò alla porta della camera da letto. Forse le piacerebbe qualcosa di saporito. Fettine di pane imburrato le piacciono la mattina. Forse però: una volta tanto. Disse a bassa voce nel vestibolo vuoto:– Vado qui all’angolo, torno tra un minuto. Udita la sua voce dir questo soggiunse:– Vuoi niente per colazione? Un debole grugnito assonnato, rispose: – Mn. No. Non voleva niente. Sentì poi un profondo sospiro caldo, più debole, mentre la donna si rivoltava e gli anelli d’ottone ballonzolanti della lettiera tintinnavano. Bisogna mi decida a farli riparare. Peccato. Fin quassù da Gibilterra. Dimenticato quel po’ di spagnolo che sapeva. Chissà quanto l’ha pagato suo padre. Vecchio stile. Eh sì, naturalmente. Comprato all’asta del governatore. Venduto al primo colpo. Tenace nel contrattare, il vecchio Tweedy. Sissignore. Fu a Plevna. Vengo dalla gavetta, signore, e ne sono fiero. Eppure aveva abbastanza cervello da far soldi coi francobolli. Questo si chiama esser previdenti. La sua mano tolse il cappello dal piolo, sopra il suo cappotto pesante con le iniziali, e l’impermeabile usato comprato all’ufficio oggetti smarriti. Francobolli: figurine dal retro adesivo. Direi che un sacco d’ufficiali siano nel giro. È naturale. La scritta sudaticcia nell’interno del cappello gli disse muta: Plasto i migliori capp. Sbirciò rapido all’interno della banda di cuoio. Cartoncino bianco. Bene al sicuro. Sulla soglia si tastò nella tasca posteriore dei pantaloni per accertarsi se aveva la chiave. Non c’è. Nei pantaloni che mi sono cambiato. Devo prenderla. La patata c’è (portafortuna che tiene in tasca). L’armadio scricchiola. Inutile disturbarla. Quando s’è rivoltata era piena di sonno. Si tirò dietro la porta d’ingresso molto piano, ancora un po’, finché la parte inferiore del battente ricadde piano sulla soglia, lento coperchio. Sembrava chiusa. Va bene finché torno comunque. Attraversò dalla parte del sole, evitando la botola malferma della cantina del numero settantacinque. Il sole si avvicinava al campanile della chiesa di S. Giorgio. Sarà una giornata calda immagino. Specialmente con questo vestito nero si sente di più. Il nero conduce, riflette (rifrange?), il calore. Ma non potevo uscire con quel vestito chiaro. Come andassi a un picnic. Le palpebre gli si abbassavano spesso dolcemente mentre camminava nel beato tepore. Il furgoncino del pane di Boland che distribuisce a domicilio in telai il nostro quotidiano ma lei preferisce le forme di pane di ieri rivoltate nel forno con la crosta superiore calda crocchiante. Ti fa sentir giovane. In qualche luogo dell’Oriente: mattina presto: muoversi all’alba, viaggiare intorno davanti al sole, rubargli una giornata di cammino. Seguitare sempre così mai diventare più vecchio d’un giorno tecnicamente. Camminare lungo una spiaggia, paese straniero, arrivare alla porta d’una città, sentinella lì, vecchio soldataccio anche lui, i baffoni del vecchio Tweedy appoggiato a una specie di lunga lancia. Vagare per strade all’ombra di tende. Volti in turbante che passano accanto. Oscure caverne di negozi di tappeti, un omone. Turko il terribile, seduto a gambe incrociate a fumare una pipa dalle grandi volute. Grida di venditori per le strade. Bere acqua aromatizzata al finocchio, sorbetto. Vagabondare tutto il giorno. C’è caso di incontrare qualche ladrone. Be’, incontriamolo. S’avvicina il tramonto. Le ombre delle moschee lungo le colonne: sacerdote con un cartiglio arrotolato. Un fremito negli alberi, segnale, il vento della sera. Io passo avanti. Cielo d’oro evanescente. Una madre sta a guardare dalla soglia. Chiama i figli a casa nella loro lingua oscura. Muro alto: oltre esso corde pizzicate. Luna nel cielo notturno, violetto, colore delle giarrettiere nuove di Molly. Corde. Ascolta. Una fanciulla suona uno di quegli strumenti, come si chiamano: ribeche (antico strumento a corda). Io passo. Probabilmente non è affatto così. Roba che si trova nei libri: nella scia del sole. Sole raggiante sulla testata. Sorrise, compiaciuto. Quello che disse Arthur Griffith della testatina sopra all’articolo di fondo del Freeman: il sole dell’autonomia che sorge a nord-ovest dal vicolo dietro la banca d’Irlanda. Prolungò il suo sorriso compiaciuto. Trovata da giudeo quella: sole dell’autonomia che sorge a nord-ovest. Si avvicinò alla mescita di Larry O’Rourke. Dall’inferriata della cantina veniva fuori a fiotti il molle fortore della birra. Dalla porta aperta il bar sprizzava effluvi di zenzero, polvere di tè, briciole di biscotti. Buon locale, comunque: proprio dove finisce il traffico della città. Per esempio M’Auley laggiù: niente bene come posizione. Certo se facessero passare una linea tranviaria lungo la Circonvallazione Nord dal mercato del bestiame fino al porto il valore andrebbe su come un razzo. Testa calva dietro la persiana. Vecchio volpone. Non c’è da provare a lavorarselo per un’inserzione. Del resto il suo mestiere lo sa meglio lui. Eccolo là, proprio lui, il mio bravo Larry, appoggiato in maniche di camicia al recipiente dello zucchero attento al garzone in grembiule che fa la pulizia con secchia e cencio. Simon Dedalus gli fa il verso a perfezione, con gli occhi strizzati. Sa che cosa le dico? Che cosa Mr O’Rourke? Sa che cosa? I russi, i giapponesi se li mangerebbero per colazione.

Fèrmati a scambiare una parola: sul funerale magari. Peccato il povero Dignam, Mr O’Rourke.Voltando per Dorset street disse arzillo salutando attraverso la porta aperta:– Buon giorno, Mr O’Rourke. – Buon giorno a lei.– Bel tempo, eh.– Come no. Dove li trovano i quattrini?Vengono garzoni dai capelli rossi dalla contea di Lei-trim, sciacquano vuoti e scolano fondi di bicchiere in cantina. E poi, attenzione,ti rispuntano come altrettanti Adam Findlar e Dan Tallon. Pensa anche alla concorrenza. Sete universale. Bel rompicapo sarebbe attraversare Dublino senza passare davanti a nessun bar. Metter da parte non possono. Fregano gli ubriaconi, forse. Segnano tre e riportano cinque. E con questo? Uno scellino qua uno là, a sgoccioli. Forse sulle ordinazioni all’ingrosso. Fanno il doppio gioco coi viaggiatori di commercio. Sistemala col padrone e ci dividiamo la torta, capito? Quanto farebbe al mese sulla birra soltanto? Diciamo dieci barili di merce. Diciamo uno sconto del dieci per cento. No, di più. Dieci. Quindici. Oltrepassò San Giuseppe, la scuola governativa. Urla di marmocchi. Finestre aperte. L’aria fresca rinforza la memoria. Oppure un coro cadenzato. Abbicci dieffegi cappel-lemmenne opicu errestiuvu vu doppio. Ragazzi sono? Sì. Inishturk. Inishark. Inishboffin. Hanno l’aggiograffia. Io ho la mia. Slieve Bloom».

(J. Joyce, Ulisse, trad. di G. De Angelis, Mondadori)

FINANZIERA ALLA PIEMONTESE (che sarebbe sicuramente piaciuta a Mr Leopold Bloom)

Ingredienti

100 g di animelle di vitello (lacèt)

100 g di cervella di vitello

100 g di filone di vitello (midollo spinale)

100 g di creste di gallo

2 testicoli di vitello

100 g di polpa di vitello tritata

100 g di filetto di vitello

100 g di rognone di vitello

100 g di fegato di vitello

100 g di fegatini di pollo

150 g di piselli sbucciati

100 g di funghi porcini sott’olio

burro

olio d’oliva

brodo

farina di grano 00 q.b.

un bicchiere di Barolo

un bicchierino di Marsala secco

un cucchiaio di aceto

sale

Procedura

Prendete un tegame piuttosto capiente atto a contenere tutti gli ingredienti della finanziera. In esso fate rosolare con un po’ di burro il rognone fatto a pezzettini e il filetto di vitello tagliato a striscioline. Appena rosolati, salate, aggiungete un po’ di brodo e mettete il tegame in caldo, a fiamma molto bassa. Con la carne tritata fate delle pallottoline grandi come nocciole, infarinatele e passatele in padella con un po’ di burro. Appena rosolate, salatele e mettetele nel tegame col filetto e il rognone.

Cuocete poi, in padella, gli altri ingredienti, uno alla volta e infarinati, cioè: i filoni, la cervella, i testicoli tagliati a fette, il lacetto, le creste di gallo, i fegatini di pollo e il fegato di vitello. Via via che hanno raggiunto la cottura, sistemateli sempre nel tegame, che manterrete umido col brodo e col Barolo che unirete poco alla volta. Cuocete infine i piselli con un po’ d’olio e di brodo e fate saltare in padella i funghi porcini sott’olio: unite poi piselli e funghi agli altri ingredienti. Amalgamate bene i componenti della finanziera che devono essere ben legati fra di loro.

Aggiustate di sale, se è il caso. Aggiungete il cucchiaio di aceto e il bicchierino di Marsala, alzate il fuoco per due minuti, poi servite immediatamente.

Tratto da https://langhe.net/recipes/finanziera/

Ricetta letteraria (n°2). Sulle orme del Barone di Münchhausen

Il Barone esplora i fondali marini a cavallo di un destriero marino, illustrazione di Franz Gottfried (1846-1905) Di Gottfried Franz (1846-1905) – The Miraculous Andventures of Baron Münchhausen. Translated by O. I. Rogova – 3rd ed. SPb. Publisher: A. F. Devrien, 1896. 50 pages, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=7686240

Rudolf Erich Raspe (1737-1794) narra, nella tappa di uno dei sorprendenti viaggi per mare del suo eroe, il barone di Münchhausen (1781), il mare di latte e l’isola del Formaggio. La descrizione viene ripresa dalla Storia vera di Luciano di Samostata[1] (Samosata, 120 circa – Atene, tra il 180 e il 192): «Fatto un cammino di un trecento stadii, approdammo ad un’isoletta deserta, dove provvedemmo d’acqua, che già mancava, saettammo due tori selvaggi, e partimmo. Questi tori avevano le corna non sopra la testa, ma sotto gli occhi, come voleva Momo. Indi a poco entriamo in un mare non di acqua, ma di latte: e in mezzo ad esso vedevasi biancheggiare un’isola, piena di viti: l’isola era un grandissimo formaggio, ben rassodato, come dipoi ce ne chiarimmo mangiandone, e girava intorno venticinque stadii: le viti erano cariche di grappoli, dai quali non vino, ma sprememmo latte, e bevemmo. Nel mezzo dell’isola era fabbricato un tempio a Galatea (la Lattaia) figliuola di Nereo, come diceva l’iscrizione. Durante il tempo che quivi rimanemmo avemmo per pane e companatico la terra dell’isola, e per bevanda il latte dei grappoli. Regina di quel paese dicevasi che era Tiro (la Caciosa), la figliuola di Salmoneo, la quale poi che fu lasciata da Nettuno ebbe quest’onore».

Ed ora la versione di Raspe: «Finalmente la burrasca si placò per dar luogo a un vento costante e gagliardo che continuò a trasportarci per sei mesi a una velocità di almeno quaranta nodi all’ora! Intanto avevamo constatato uno straordinario mutamento in tutto quanto ci circondava: d’un tratto ci sentimmo lieti e leggeri, il nostro olfatto fu deliziato dai più aromatici effluvi che si potessero immaginare: il mare stesso aveva cambiato aspetto e, da verde, s’era fatto bianco. Poco dopo tali prodigiose trasformazioni avvistammo terra e, non molto lungi da noi, un’insenatura che raggiungemmo dopo una sessantina di leghe di navigazione. La trovammo larga e profonda con latte squisitissimo che scaturiva d’ogni dove. Approdammo e presto ci accorgemmo trattarsi di un’isola consistente in un enorme pezzo di formaggio. Lo scoprimmo perché un uomo dell’equipaggio, che aveva sempre avuto una grande avversione per il cacio, perdette i sensi non appena attraccammo: quando rinvenne, espresse il desiderio che gli si togliesse il formaggio di sotto i piedi. Furono fatte le dovute indagini e gli si dovette dare pienamente ragione; poiché tutta l’isola, come ho detto poc’anzi, altro non era che una forma di cacio di spropositata grandezza! Di ciò soprattutto si alimentano gli abitanti, che sono straordinariamente numerosi, e ogni notte il formaggio ricresce in proporzione al consumo che se ne è fatto di giorno. V’erano – si sarebbe detto – viti in quantità, fitte di bei grappoli che, spremuti, non davano che latte. Gli abitanti erano bella gente, slanciata, alta circa tre metri, munita di tre gambe e un solo braccio, ma nel complesso di forme aggraziate: quando litigano fra loro manovrano con grande abilità un corno diritto che agli adulti cresce nel centro della fronte. Li vedemmo fare gare di corsa sulla superficie del latte: non che vi affondassero, anzi, correvano e passeggiavano sopra la massa lattiginosa come faremmo noi sopra un campo di bocce. Su quest’isola di formaggio cresce in quantità un grano le cui spighe producono forme di pane già bell’e pronte, tonde come funghi. Nelle nostre scorribande sopra codesto formaggio scoprimmo altri diciassette fiumi di latte e dieci di vino» (Rudolf Erich Raspe, Le Avventure del Barone di Münchhausen, trad. di Maria Luisa Agosti, Rizzoli, Milano 1989)

Budini di Parmigiano Reggiano allo zafferano

Ingredienti

Per 4 persone

5 uova

125 g latte

125 g panna

125 g Parmigiano Reggiano, grattugiato

sale e pepe q.b.

Per la besciamella allo zafferano

50 g farina “00”

50 g burro

1/2 l latte

0,1 g zafferano in pistilli

sale q.b.

burro per gli stampini

Preparazione

  1. Sbattere le uova e aggiungere il Parmigiano Reggiano, il latte, la panna, il sale e, se si desidera, del pepe. Amalgamare bene con una frusta, così da evitare la formazione dei grumi, e versare il composto in piccoli stampi di alluminio precedentemente imburrati. Sistemare su una teglia coprendo con pellicola trasparente e cuocere in forno a vapore per circa 32 minuti a 80°.
  • Nel frattempo preparare la besciamella allo zafferano. Tritare grossolanamente i pistilli di zafferano e lasciarli a bagno in un po’ di latte caldo. Sciogliere il burro e aggiungere la farina setacciata mescolando con l’ausilio di una frusta. Poi aggiungere poco alla volta il latte caldo e lo zafferano mescolando. Togliere la besciamella dal fuoco quando non è ancora troppo densa e aggiungere un pizzico di sale. Far raffreddare i budini e, una volta tiepidi, capovolgerli e guarnirli con un mestolo di besciamella allo zafferano.

Ricetta tratta da https://www.parmigianoreggiano.com/it/ricette/budini-di-parmigiano-reggiano-allo-zafferano/


[1] Nella traduzione di Christoph Martin Wieland; Riguardo all’influsso esercitato da Luciano di Samosata su Wieland si rimanda a Julius Steinberger, Lucians Einfluss auf Wieland, Dissertation, Göttingen 1902 e a Christopher Robinson, Lucian and his Influence in Europe, Chapel Hill, London 1979.

Ricetta letteraria (n°1) Memorie di un cuoco d’astronave

This image was created by Martin Hermann, Filmemoker GbR. – The permission to publish this image under this license was given by Ralf Vielhauer, Filmemoker GbR., CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=356572

Questa stupefacente ricetta è tratta dal romanzo umoristico / fantascientifico di Massimo Mongai «Memorie di un cuoco d’astronave», vincitore del Premio Urania nel 1997.

L’autore scrive, nella postfazione alla prima edizione, di essersi ispirato all’esperienza di lavoro che fece su una barca: “prende le mosse dal personaggio Rudy “Basilico” Turturro, nominato aiuto cuoco su una astronave da crociera e promosso sul campo a Chef per indisposizione del precedente capo. Il libro si dipana in una serie di racconti sui tre anni di viaggio, mettendo in luce la passione di Mongai per la cucina e la sua ironia tagliente. Infatti il cibo è basilare nelle relazioni che si stabiliscono a bordo dell’astronave e alla fine sarà l’elemento fondamentale che permetterà di salvare la galassia dalla distruzione. Relazioni multietniche, sociali, filosofiche e politiche sono al centro, come d’altronde i principi di uguaglianza e di tolleranza fra tutte le razze del cosmo, in quanto l’Agorà (l’antica piazza delle città greche) cioè la comunità galattica del futuro è antiproibizionista, liberal, anticonformista dal punto di vista sessuale e antirazzista1”.

1Fabrizio “Astrofilosofo” Melodia, L’ultimo viaggio per Massimo Mongai, cuoco di astronavi in http://www.labottegadelbarbieri.org/lultimo-viaggio-per-massimo-mongai-cuoco-di-astronavi/

Fonduta erotico-mediterranea “à la mode de Kumpawdaepheeawree”.

Ricetta tratta da “Il Turturro, Manuale di Cucina Spaziale, ottava Edizione” di Rudy “Basilico” Turturro.

Dosi

non indicabili

Preparate un soffritto di olio, aglio, peperoncino, cipolle e peperoni tagliati il più possibile fini; appena il tutto imbiondisce, aggiungete pomodori a pezzettoni e passata di pomodoro e fate ammalvire a fuoco lento, finché i vegetali non si sono quasi completamente sciolti. A parte, preparate un ciotola con non più di 20 grammi di “poon-tah-raelluh”, mi raccomando, non più di 20 grammi. Conditeli con un pesto di aglio e acciughe. A parte, preparerete dei pezzettoni di bruschetta (pane tostato con aglio e olio strofinati).

Verserete il sugo così ottenuto in una ciotola di coccio abbastanza capiente (potrete cucinare direttamente nella ciotola) che porterete a tavola su un fornello a spirito di quelli per la fonduta alla borgognona. Intingete il pane nel sugo bollente, mangiateci insieme una forchettata di “poon-tah-raelluh” e beveteci sopra ad ogni boccone un sorso di vino frizzante, secco e gelato.

Note e variazioni

Già mi immagino la vostra obiezione: come ci arrivo su Kumpawdaepheeawree a comprare la “poon-tah-raelluh”? A parte il fatto che si trova anche congelata nei migliori negozi di raffinatezze spaziali, vi concedo che, costando letteralmente a “peso di platino” è un po’ cara.

Vi do due alternative:

La prima andrebbe bene anche agli Umanisti: in pochissimo burro fuso, ma non bruciato, sciogliete una quarantina di grammi di hashish, possibilmente di quello nero afgano, ma anche quello commerciale andrà bene; amalgamatelo lentamente ed aggiungete pasta d’olive, pasta di funghi, un po’ di tartufo ed un pizzico di aglio spremuto. Con questo paté guarnite le fette di pane tostato.

Se nella vostra area, l’hashish è ancora illegale (ebbene sì, miei cari lettori, esistono ancora luoghi sulla Terra e nell’Agorà in cui questa follia accade) voi e la/il/i vostra/o/i partner praticate trenta giorni di astinenza da sesso ed alcool, contemporaneamente a trenta giorni di addestramento quotidiano di mezzofondo, per almeno tre ore al giorno, sempre di pomeriggio inoltrato o verso sera. Il trentunesimo giorno, fate preparare tutto da un cuoco o da un amico, sostituendo la “poon-tah-raelluh” con abbondanti cime di cicoria di tipo romano; allenatevi per un’ora soltanto e dedicatevi poi, subito dopo una doccia tiepida, alla cena; gli ingredienti sopra indicati e lo scatenarsi delle endorfine da “estasi dell’atleta” per le mancate due ore d’allenamento, dovrebbero dare un effetto molto simile a quello della poon-tah-raelluh. Provare per credere!

Il libro per intero lo trovate qui: https://www.liberliber.it/online/autori/autori-m/massimo-mongai/memorie-di-un-cuoco-dastronave/

Logogrifo di Barbera: BRERA (Gianni).

8 Settembre 1919 – 19 dicembre 1992

In memoria.

«Il vino va odorato con un lieve moto circolare del bicchiere, che lo arrubini e appanni prima di ricomporsi. Poi lo si accosta lentamente alle labbra e si alza in modo che la lingua ne sia ragionevolmente bagnata: papille gustative, terminazioni nervose delle gengive e delle guance, palato, retrobocca danno la misura del gusto, dell’acidità, del vigore e di tutte le doti o difetti che ho enumerato più sopra. Ma quando si sia definita la classe del vino, allora non bisogna indugiare troppo. Le ingenue ragazzole che centellinano sorso a sorso lo champagne, trattenendolo in bocca al punto da annegare le papille, quelle sono le più facili a perdere la tramontana. Il bere deve essere lento e continuo, quasi a formare sulla minor porzione di lingua un ruscelletto fluido e costante: meno si spande per la bocca e meno il vino ubriaca. Per contro, i bevitori ingordi si sborniano grossolanamente; ubriacarsi è quasi sempre disdicevole; inebbriarsi può essere bello ma è ben presto vietato agli abitudinari; bere, senza affogare il cervello è piacere sottile e raro, da veri specialisti».

Tratto da Gianni Brera, Il vino che sorride, http://www.brera.net/gianni/articoli/vino.html

Declinare le proprietà di un vino o di un idiota

Рисунки и рукописный текст Ф.М. Достоевского. “Идиот”
Di Fëdor Dostoevskij – http://az.lib.ru/d/dostoewskij_f_m/text_0810.shtml, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=65476356

Potrebbe sembrare una questione squisitamente filosofica, con insensate deviazioni semantiche e biforcazioni matematiche, ma l’attribuzione di una qualità (positiva o negativa) a qualcosa riguarda sia il godimento della qualità in oggetto, che del come essa venga goduta. Non basta dire, in altre parole, che uno è un idiota allorché palesi la sua evidente idiozia, ma occorre aggiungere in che modo il tizio in questione riveli la sua idiozia. E, poi, per essere fino in fondo corretti, occorrerebbe specificare anche se gode di quella proprietà, ovvero dell’idiozia, in modo necessario. “Vediamo che ciò che sarà ha origine sia dal deliberare che dall’agire, e che in generale, nelle cose che non sono sempre in atto c’è la possibilità di essere e di non essere; qui le possibilità sono aperte, sia l’essere che il non essere, e di conseguenza sia l’aver luogo che il non aver luogo. Molte sono le cose che ci è manifesto che stanno in questo modo.” Nel capitolo IX de “Sull’interpretazione” Aristotele presenta un argomento contro il principio di bivalenza, ovvero la tesi secondo cui ogni enunciato (assertivo) possa essere vero o falso. Diversamente, per quanto riguarda il futuro, ogni asserzione non necessaria si presuppone possibilmente vera o possibilmente falsa, dove per ‘possibile’ si intende ‘potenziale’. Si apre qui la disanima degli enunciati contingenti che aprono al dilemma dei futuri contingenti[1]. Se il primo principio analizzato è quello della bivalenza, il secondo è quello del terzo escluso (tertium non datur), mentre il terzo ed ultimo riguarda il principio di non contraddizione: tra due enunciati contraddittori non può esservi un medio.
Il Medioevo (Abelardo utilizza il commento di Boezio al testo di Aristotele) farà un salto qualitativo nella valutazione delle asserzioni modali, innanzitutto distinguendo gli enunciati assertori, ad esempio “il vino è un alimento”, oppure “il vino non è un alimento”, che riguardano l’inerire (de inesse), cioè il possedere o meno una determinata proprietà, dalle asserzioni modali, che specificano il modo secondo cui il soggetto possiede la proprietà in questione. Tra le asserzioni modali si distinguono poi quelle de dicto, se il modo che le qualifica si riferisce all’intera frase: “il vino biologico non è un vino naturale” (necessariamente vero); oppure de re: “il vino biologico non è un vino necessariamente naturale”; oppure ancora: “il vino biologico non è naturale necessariamente”, se una cosa gode o non gode di una certa proprietà in modo necessario. Questa distinzione tra le proposizioni modali (de dicto/de re) giunge a noi, attraverso il dibattito filosofico, linguistico e matematico, che attraversa un paio di millenni, più o meno immutata.
Lo stesso vale per il vino. Se pensiamo che nella definizione dell’ O.I.V. “Il vino è esclusivamente la bevanda risultante dalla fermentazione alcolica totale o parziale dell’uva fresca, pigiata o meno, o del mosto d’uva. Il suo titolo alcolometrico effettivo non può essere inferiore a 8,5% vol. (…)” non sappiamo proprio nulla delle qualità relative ad un vino. Quello che succede nel dibattito attuale, in maniera nemmeno celata, è che il vino risulterebbe tale, ovvero vino, soltanto se frutto di alcuni processi che ne rivelino determinate qualità specifiche e non altre. Ma, essendo l’uva l’unico ingrediente disponibile e incontrovertibile, la cosa si complica un tantino e sposta la contesa su piani differenti: la vigna, il terreno, i prodotti in uso alla coltivazione, alla fermentazione, in cantina. I recipienti… E, poi, il lavoro, il trasporto, la commercializzazione, l’etichettatura….
Potremmo affermare, con David Lewis, esegeta del realismo modale, che “ci sono molti modi in cui le cose avrebbero potuto essere, oltre al modo in cui effettivamente sono.” Questi mondi possibili, inclusivi, isolati gli uni dagli altri, causalmente indipendenti, che condividono proprietà esemplificate dagli oggetti che appartengono a ciascun mondo esistono parallelamente al nostro, o meglio ci introducono nuovamente al discorso aristotelico sulla potenzialità e a quello, ben più pernicioso, sulla verità.
Partiamo allora da quello che Roland Barthes chiamò “il verosimile critico”: al di là di ogni metodo, il verosimile critico, nel dibattito su come dovrebbe essere il vino, si pone al di qua di ogni ragionevole dubbio. Innamorato dell’evidenza, il verosimile critico, elabora regole che non si possono trasgredire, a meno che non si voglia toccare la natura stessa delle cose: “i disaccordi diventano deviazioni, le deviazioni errori, gli errori peccati, i peccati morbi, i morbi mostruosità[2]”.
Alla base di tutto, probabilmente, c’è la funzione totalitaria del verbo ‘essere’: “ancora oggi, dal punto di vista strategico, il verbo essere serve un po’ a tutto, è dotato dei significati più contraddittori; sbrigativo, discreto e innocente, trasforma, con un colpo di bacchetta magica, un’opinione in verità, una speranza per il futuro in antichissima realtà, una semplice affermazione in Natura universale; arma, utensile o velo, a seconda delle necessità della Causa, è lo Scapino[3] della retorica oltranzista. […] Ecco cosa c’è nel verbo essere della retorica oltranzista: una furibonda collusione tra l’indicativo e l’ottativo, la trasformazione impossibile del desiderio in fatto, del futuro in passato, al di sopra di un presente che resiste[4]”.
Dunque, come diceva la mia professoressa di latino: nel bene e nel male occorre sempre declinare.


[1] Cfr. Massimo Mugnai, POSSIBILE / NECESSARIO, Il Mulino, Bologna 2013
[2] Roland Barthes, Critica e verità, Einaudi, Torino 2002, pag. 20
[3] Scapino Maschera del teatro italiano, figlio di Brighella, che rappresenta il servo incostante, intrigante, spiritoso, mentitore e millantatore, detto anche Scappino. Indossava il camicione e i pantaloni bianchi degli Zanni, cui in seguito si aggiunsero una livrea listata di verde. Celebri S. furono F. Gabrielli, G. Bissoni, bolognese (inizi 18° sec.), e A. Ciavarelli, napoletano (18° sec.). Molière ne fece il protagonista della commedia Les fourberies de Scapin (1671). Teccani.it
[4] Roland Barthes, Mythologies, du Seuil, Paris 1993, trad. it. di L. Lonzi, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, pp. 263-265.

Domande senza tempo per vini senza senso

Di Sconosciuto – Beauty Parade Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15473331
Un articolo di una rivista di Beauty Parade del marzo 1952 che stereotipa le donne alla guida. Presenta Bettie Page come modella.

Si può bere un vino da meditazione in due?

Come posso far capire che si sta meditando?

Se dalla meditazione si passasse al sonno, il vino cambierebbe di specificazione? O soltanto il bevitore?

Un vino da donna sta nella borsetta?

E, soprattutto, come faccio a capire se un vino è un vino da donna se non sta nella borsetta?

Un vino da uomo sta nelle tasche posteriori dei pantaloni?

E, soprattutto, come faccio a capire se un vino è un vino da uomo se non sta nelle tasche posteriori dei pantaloni?

Cosa succede ad una donna se beve un vino da uomo e viceversa?

Un vino da collezione può, ad un certo punto, essere bevuto?

Un vino da passeggio deve essere bevuto solo camminando?

I vini eroici sparano i raggi laser?

Anche chi beve i vini eroici poi spara i raggi laser?

Un vino quotidiano può essere bevuto ogni tanto?

Un vino quotidiano è anche un vino routinario? Lo si può bere in maniera distratta?

Un vino da merenda che orari ha?

I vini delle feste possono essere bevuti in giorni feriali?

Un vino delle feste bevuto in un giorno feriale diventa un vino quotidiano? E viceversa?

Un vino degli abissi quando vede la luce si acceca?

Per i vini in orbita, cambiando la dimensione spazio-temporale, cambiano anche i disciplinari sull’affinamento e sull’invecchiamento?

Se il vino lo si fa in vigna, in cantina cosa si fa?