Storytelling in the last Tavernello commercial

This text can be seen as a brief comment to Pietro Stara´s blog post (Tavernello. The latest TV commercial) on the last commercial spot of the bestselling Italian wine brand Tavernello.

By Sara Emilia Nässén, Yasuko Kamimura, Milena Cristina Martinez Jara, Alice Mortarotti, Federica Bassi master’s degree students in Wine Culture, Communication & Management at the University of Gastronomic Sciences of Pollenzo.

While Stara in his analysis put the spot in a wider perspective, drawing from theories from semiology, history and philosophy, in this post we simply aim at highlighting some details we found interesting and that could reveal some underlying ideas transmitted through the video. As brand strategist Giles Lury claims: “Stories are illustrative, easily remembered and allow any firm to create stronger emotional bonds with customers.” We want to point out what we consider a few methods used to create this type of bond: First of all, what came to our attention was the black and white setting of the video which transmits an aura of something old, classic and elegant. The deepness of the voice over, in combination with the background music, creates a cinematographic, nearly dramatic effect, playing on emotions. Throughout the video the rhythm is slow, transmitting an idea of something done with a great care for details, a symbol for quality and excellence.
The images are focused on hard working people; dirty hands, wrinkled faces, sending a message of genuinity, authenticity, skills, artisanal work, but at the same time simplicity and a connection with the earth. The people figuring in the spot differ in age and gender, communicating the idea of diversity. This diversity also functions as a way to create identification and recognition for the viewer.
The language used in the movie is highly evocative, with the use of words such as generosity, pride, true, strong, home – reinforcing the connection with family, heritage, history, rootedness and national identity.
An interesting phrase for describing the Tavernello wine is: “il sangue della terra, colore rubino, morbido come il velluto” (the blood of the earth, colored ruby red, soft as velvet). In the phrase, the word blood can be seen as a symbol for the family and rootedness; ruby red, other than being a concrete description of the color, creates a luxurious allure through its reference to the ruby gemstone, and velvet leading to associations of preciousness and high quality. Other interesting expressions of this wine are “quello che ti fa battere il cuore” (what makes yourheart beat) and “forte come l’amore” (strong as love) again as attempts to create a strong emotional association.
The last image of the video, where the Tavernello package finally is presented, appears to summarize the idea communicated throughout the whole spot: the creation of a traditional, personal and artisanal image for a product which in reality is mass produced and highly industrialized. This last image is even misleading in its contrasting nature: the Tavernello TetraPak, an innovation when it arrived on the market, is here placed in a very traditional setting; the glasses are placed on the oak barrels in the wine cellar, signalling a type of wine making that clearly is very distant from the actual one. Good as storytelling and perhaps also efficient – lessgood as a description of the reality of the wine making of the no 1 selling wine brand in Italy.

Lucio Giunio Moderato Columella: della vite e del terreno nel “De Re Rustica”

Uno dei migliori resoconti della viticoltura romana proviene da Lucio Giunio Moderato Columella[1] intorno al 65 d.C. , il De re rustica): in questo libro i riferimenti al terreno, alle forme di coltivazione, alla morfologia dell’uva, al clima, sono di notevole interesse e racchiudono dei saperi che vengono standardizzati e codificati per essere tramandati. Per la prima volta intervengono fattori che legislazioni moderne ritengono fondamentali nella gestione dell’abbinamento tra le componenti pedo-climatiche, i vitigni e il lavoro umano. Non è importante qui stabilire la veridicità agronomica di quanto affermato da Columella quanto la sua forza esplicativa e prescrittiva in un mondo agricolo in continuo cambiamento: «Nel mondo agricolo, la proprietà fondiaria era costituita da grandi imprese di proprietà patrizia, condotte con manodopera schiavile, fortemente specializzate in produzioni destinate al mercato urbano. I piccoli agricoltori erano progressivamente scomparsi in quanto, a causa dell’impegno nelle campagne militari, erano stati costretti ad alienare il proprio campo. Al loro ritorno erano stati costretti ad inurbarsi, amplificando la domanda di prodotti proveniente dai grandi centri. Si erano così formati veri e propri latifondi che non venivano curati dai proprietari, ma bensì lasciati nelle mani di uno schiavo fidato che assurgeva a quella che potrebbe essere definita la figura del fattore: egli aveva pieni poteri amministrativi ed esecutivi e doveva rispondere solamente a saltuarie verifiche. Aveva autorità sui sottoposti e spesso si rivelava violento. Questa figura, invece di gestire i terreni in modo oculato ed onesto, perseguiva un interesse strettamente personale ed era solita mercanteggiare i prodotti aziendali in maniera illecita, lucrando sui proventi[2].» Columella, nel Libro III, esamina il problema dei terreni adatti ai vitigni, i vivai e le talee per la riproduzione, la preparazione del terreno, il piantamento della vite ed il disegno dell’impianto di un vigneto. Nel IV Libro affronta la profondità dei fossi di drenaggio della vite, i metodi di allevamento e di potatura della vite, i supporti, i metodi di propagazione, la sistemazione dei vecchi vigneti, i doveri del vignaiolo e termina con le norme per il proprietario del vigneto. Altre informazioni sull’impianto del vigneto si trovano nel Libro V e nel nel Libro XII, l’ultimo, si trovano notizie sui vari tipi di vino e sui metodi di vinificazione[3]: «Però l’agricoltore, il quale non dev’essere, come credesi, di mediocre ingegno, ma esperto e accorto, tenga per fermo che quelle varietà di viti, le quali resistono senza soffrire danno alla nebbia, sono adatte alla pianura, laddove sono proprie del colle quelle le quali tollerano la siccità ed i venti. Così pure nel terreno pingue ed ubertoso si pianterà la vigna magra e di sua natura poco feconda, nel magro la vigna fertile, nel denso la forte che germoglia assai, nel polveroso e fertile va piantata quella che scarseggia di sarmenti. Fa d’uopo altresì conoscere che i luoghi umidi non sono acconci alle viti, che producono un frutto di grano[4] tenero e grosso, ma duro e piccolo e fornito di molti vinaccioli, come anche si deve sapere che nel terreno secco crescono le vigne di natura ancora varia. Ma bisogna por mente non solo al terreno, ma anche alla qualità dell’aria; poiché dove c’è per lo più freddo e nebbia, si mettono due specie di viti, cioè le primaticce, i cui frutti maturano innanzi tempo, e quelle che hanno il grano grosso e duro, le cui uve maturano bene tra i ghiacci come quelle esposte al caldo. Similmente con piena sicurezza in  una regione, dove predomina il vento e la tempesta, si metteranno viti robuste e di grano duro, come in quella dove c’è  molto caldo le più tenere, ovvero le viti che fanno grano strettamente uniti. Nelle contrade poi dove c’è placidezza e serenità di clima, si può mettere con fiducia ogni sorta di viti, ma vi allignano meglio quelle i cui grappoli o grani cadono prestamente. Il terreno migliore intanto è sempre quello che, quando non sia né troppo denso né troppo sciolto, si avvicini di più a quest’ultimo: che né magro né molto fertile, si accosti di più al fecondo, ed infine che senza essere in pianura né scosceso, sarà nonostante simile ad un piano inclinato[5]


[1]       «Lucio Giunio Moderato Columella (4 d.C. – 70 d.C.) vive nel I secolo d.C., sotto la dinastia Giulio-Claudia. Nato a Gades nella Penisola Iberica in una famiglia patrizia appartenente alla tribù Galeria, inizia la carriera militare e nel 34 d.C. giunge al grado di tribuno in Siria. E’ proprietario di terreni in Italia (Ardea, Carseoli e Alba Longa) e in Spagna e si impegna nella elaborazione di un sistema di scienza della coltivazione. La sua opera, il “De re rustica”, può essere considerata il primo trattato di agronomia e il più importante fino al rinascimento. L’opera, scritta intorno al 65 d. C., è in 12 libri (quella che noi possediamo è la seconda edizione), preceduta da una lunga prefazione, dedicata a Publio Silvino; seguono i precetti per coloro qui rusticari velint, sul come scegliere il fondo, sulla disposizione della casa colonica, sui doveri del pater familias: vengono poi indicati (II) i tipi del terreno, l’aratura, i generi delle sementi, del letame; i tipi di vite (III) e i modi della loro coltivazione (IV); la coltura dell’olivo (V); l’impiego dei buoi, dei tori, dei cavalli e il modo di curare il bestiame (VI); l’uso di altri animali, come asini, pecore, capre, maiali, cani (VII); l’utilità degli animali da cortile (VIII); il IX libro, preceduto da una prefazione, tratta delle api e dell’apicoltura; il X libro, che ha per argomento il De cultu hortorum, è tutto in esametri e di fattura virgiliana; infatti l’autore vi raccoglie l’invito fatto da Virgilio nelle Georgiche, che lasciava ad altri il compito di descrivere i giardini; l’XI libro ripete lo stesso argomento del precedente; il XII infine tratta dei doveri della fattoressa, della cura del vino, delle olive, del formaggio; l’autore lo inizia con una prefazione dedicata a Silvino e lo termina dicendo di aver ritenuto di ricordare solo ciò che gli è sembrato particolarmente importante. Le fonti letterarie sono greche e latine: Senofonte, Catone, Varrone, Igino, Cnelso e Virgilio; ma una viva passione per la campagna anima l’intero trattato, sono lamentati i danni dell’urbanesimo, lodati i vantaggi della vita dei campi, una fonte di moralità di benessere, di felicità: «Solo l’agricoltura, che senza alcun dubbio è la più vicina e quasi consanguinea alla filosofia, non abbia né discenti, né maestri.»

Nicolò Passeri, Silvio Franco, L’analisi degli investimenti nel primo secolo dopo Cristo, in «Agriregionieuropa», anno 4, numero 13, giugno 2008

[2]       Ibidem.

[3]       Cfr. Tim Unwin, cit. pag 104

[4]       Acino

[5]       Columella, Libro III, 1.5-8, citato in Luigi Manzi, La viticoltura e l’enologia presso i romani, Edizioni Quasar, Roma 1998, ristampa anastatica del libro stampato a Roma per la Tipografia Eredi Botta nel 1883. Il testo viene preparato dall’autore per il concorso internazionale di attrezzi ed apparecchi di viticoltura, enologia e distillazione, tenutosi a Conegliano nel 1881.

Un vino benevolmente critico

Paul Cézanne, Les joueurs de carte (1892-95)

Di solito il vino lo sceglieva lui. Bramante era quello che ci metteva i soldi, che pagava il pranzo, il caffè e l’ammazzacaffè e neppure Cosimo, che avrebbe voluto almeno pagare la sua, di parte, era riuscito a liberarsi di tanta liberalità e umana comprensione. Ma quella sera Cosimo non era proprio dell’umore adatto: si era appena separato dalla moglie e i figli, per nulla prodighi, lo avevano abbandonato portandosi dietro quel po’ che, della cantina un tempo gloriosa, gli era ancora rimasto.

Di solito, appunto, perché quella sera Mirko e Mattia il vino lo avrebbero voluto scegliere proprio loro. Il mese precedente non era stato possibile: i piatti ordinati si erano rivelati del tutto improvvisati: spaziavano dal pesce crudo alla moda d’Oriente con intingoli di salsa al rabarbaro e coriandolo; procedevano, dunque, con alcune variazioni di risotto ai carciofi secondo l’antica sapienza creola; si immergevano nelle cozze gratinate al terriccio del Caucaso meridionale; infine si cullavano con  le irreprensibili code di gambero sotterrate in montagne di riso pilaf al ginseng della Manciuria. Mirko e Mattia avevano capito che, se avessero voluto scegliere il vino, sarebbero dovuti partire proprio di lì e non dal cibo. Mirko e Mattia avevano inteso, perché un po’ di formazione l’avevano avuta pure loro e i risultati sperati non si erano fatti attendere, che non si trattava neppure di soldi, ma puramente e semplicemente di condizioni: comprendevano, in altro modo, che non avrebbero potuto ordinate un vino totalmente inviso a Bramante e che potevano bellamente fregarsene sia di Cosimo che di Marta. Del primo se ne è già detto, mentre della seconda sarebbe superfluo aggiungere la benché minima informazione. Bramante stava invecchiando: qualche colpo lo aveva perso negli ultimi tempi e non aveva nessun sommelier a cui affidare l’immensa canina di cui aveva costruito le fortune e su cui, in seguito, avrebbe edificato la sua insperata notorietà e un potere mai difforme ad essa. Bramante, per dirla proprio tutta, voleva un gran bene a Cosimo: qualche finta scazzottata in gioventù, più per mostrarsi alle ragazze che per altro, non aveva impedito loro di continuare, ognuno nelle rispettive imprese familiari, di continuare l’operato dell’altro. Quando sembrava che uno smettesse di investire in un determinato settore vinicolo, ecco che l’altro, di comune intento, provvedeva a recuperare il tempo perso e a proseguire ciò che il primo aveva instradato con vigore e inusitata forza.  Pure nel momento in cui Bramante controllò la pressoché totale distribuzione del Chiaretto del Garda, del Bardolino, dell’Amarone, del Brunello, del Barolo, del Barbaresco, dell’Aglianico di qualsiasi provenienza, dell’Etna rosso e del Primitivo di Manduria, ebbene, pure lì, Cosimo, sebbene gli avesse dichiarato guerra, se ne restò in disparte con il suo grignolino, la barbera, il dolcetto di Dogliani e di Ovada e qualche Chianti sparso tra il Gallo Nero e la Torre di Pisa. Poi vene l’ora di Cosimo e così quella di Mirko e Mattia. Bramante non avrebbe voluto, in alcun modo, che Cosimo non partecipasse più a quelle cene e, con altrettanta cognizione, gli era chiaro che lo scettro della distribuzione sarebbe dovuto passare di mano. Bramante preferì accordare, per quella sera, e per quelle che sarebbero capitate di lì a venire, la scelta del vino a Mirko e Mattia. Avrebbe controllato più facilmente il vaglio della mercanzia, avrebbe fatto stralciare quelli a lui totalmente invisi ma, soprattutto, avrebbe accordato alle selezioni future una generosa e compiaciuta benevolenza critica.

Il vino industriale: Taylor e Ford in cantina.

Locali vinificazione inizi Novecento – Cantina di Santa Croce a Carpi

L’industrializzazione vinicola.

Le ragioni storiche che segnarono il processo di industrializzazione vinicola sono più o meno le stesse che informarono gli altri settori della trasformazione manifatturiera. Già a partire dalla prima metà dell’Ottocento si posero alcuni problemi tra loro intimamente legati:

  1. Razionalizzazione della produzione finalizzata alla realizzazione di processi di produzione standardizzati.
  2. Unificazione dei processi produttivi (vigneto/cantina) tramite aggregazioni di lavoro che facilitassero economie di scala.
  3. Costruzione di un prodotto vino uniforme e riconoscibile sui mercati internazionali.
  4. Riduzioni delle specie coltivate, favorendo quelle resistenti /produttive.
  5. Costruzione di un moderno sistema di conservazione e di commercializzazione del prodotto finale.
  6. Utilizzo delle migliori conoscenze e degli sviluppi in ambito scientifico e tecnologico atte a favorire i punti sopra-indicati.

Questo impetuoso sviluppo del capitalismo agrario, non esente da residui feudali, secondo la definizione di Emilio Sereni[1], portò con sé non solo processi di organizzazione standardizzata del lavoro basati sullo sfruttamento di un larga parte della manodopera agricola salariata e lo sviluppo della piccola proprietà privata contadina a conduzione familiare (come superamento tortuoso dell’istituto contrattuale della mezzadria), ma anche nuove mentalità collettive che trovarono solo in parte una loro collocazione naturale nel nascente movimento cooperativistico: “l’oggetto delle indagini – definito in generale, utilizzando l’apparato concettuale e lessicale elaborato e utilizzato dai maggiori protagonisti di questa storiografia – è quell’insieme di conoscenze, di saggezze anonime e diffuse, inconsapevoli o solo parzialmente consapevoli, di abitudini e modelli di comportamento automatici, condivisi e persistenti, diffusi in una cultura, e che costituiscono l’attrezzatura mentale collettiva, la radice delle pratiche culturali. Credenze, visioni del mondo, sensibilità, percezioni e rappresentazioni della realtà spesso caoticamente strutturate in nebulose mentali di lunga durata, tali da costituire il basso continuo di una società[2].” Da qualsiasi punto di vista lo si guardasse, il problema era divenuto quello di gestire lo sviluppo nelle sue contraddizioni (di classe, di genere, ambientali…) e di espellere, come anti-razionali, tutte le istanze che problematizzavano tale processo. Sarebbe lungo dibattere sulla storia di chi e in che modo si oppose, ideologicamente, ad un idea di sviluppo lineare della storia, progressivo, congruente dal punto di vista scientifico e chi, invece, lo sostenne a vario titolo. Si dà, in più di un caso, l’intersezione delle due volontà e, a volte, le sfumature prevalsero su istanze monocrome ben situate. Ma sarebbe altrettanto presuntuoso pensare che il dibattito odierno, che investe il lavoro contadino, la produzione artigianale, i vini ‘naturali’… sia tutto frutto di una disputa della contemporaneità informatizzata. Le radici dello scontro sono ben più antiche. taylor

Meccanizzazione e chimizzazione.

Tornando all’Ottocento, risultano interessanti le considerazioni di Giorgio Pedrocco quando sostiene che il processo di industrializzazione della produzione vinicola sia passato attraverso due direttrici: «da un lato la meccanizzazione, dall’altro la chimizzazione del processo di vinificazione; entrambe queste discipline chiedevano dei loro ‘pedaggi’, che lo trasformarono e gli fecero assumere una connotazione industriale. La meccanizzazione riguardò sopratutto le prime fasi del ciclo: alcune macchine come le pigiatrici – diraspatrici e i torchi mossi dalle macchine a vapore, avevano il compito primario di risparmiare lavoro e di far fronte al grosso dispendio di manodopera e all’occupazione di grandi spazi che la pigiatura a forza d’uomo comportava. (…) La chimizzazione riguardava soprattutto le fasi successive alla pigiatura e aveva lo scopo di stabilizzare  il vino per garantire la conservazione e facilitarne trasporto e commercializzazione. Un’operazione completamente nuova, volta a prevenire l’acetificazione del vino era la ‘pastorizzazione’. Messa a punto da Pasteur a metà del XIX secolo, richiedeva un riscaldamento del vino a 60 gradi per distruggere tutte le colonie di microrganismi, soprattutto il Mycoderma aceti e il Mycoderma vini.  (…) Anche il travaso del vino, questa tecnica antichissima che completava la fermentazione e ripuliva il vino attraverso lenti processi di sedimentazione, venne notevolmente agevolato dall’introduzione di pompe che facilitavano e velocizzavano i flussi di liquido da una botte all’altra. In questa fase – per la  stabilizzazione del vino e per evitare l’acetificazione – si doveva operare un trattamento chimico aggiungendo del bisolfito di sodio. Con lo stoccaggio del vino il moderno impianto industriale si distingue dalle cantine tradizionali consentendo, da un lato, all’impresa di far fronte alle necessità di mercato anche nelle annate sfavorevoli attingendo alle riserve e dall’altro, di assicurare al prodotto quelle caratteristiche costanti che realizzavano per i  vini ‘industriali’ un rapporto più consolidato con il mercato. (…) Ulteriori perfezionamenti riguardarono i trasporti ferroviari, dove la società di esportazione Cirio ideò dei vagoni cisterna con rivestimenti interni di alluminio che consentirono un ulteriore salto di qualità nella distribuzione dei prodotti enologici[3]

Parlare dell’industrializzazione enologica significa anche entrare nel merito dell’alfabetizzazione scolastica e della produzione di migliaia di opuscoli divulgativi a carattere pedagogico. Nei primi decenni post-unitari, per la prima volta nella storia della cultura italiana, si assisteva ad un netto aumento della produzione di titoli di argomento scientifico, addirittura maggiore rispetto a quelli letterari. I dati generali furono significativi: nel 1863 in Italia si stamparono 4243 titoli, mentre 23 anni dopo, nel 1886, si arrivò a ben 9003 pubblicazioni. Le divulgazioni con tematiche viti-vinicole[4] ebbero, non diversamente da altri argomenti a carattere tecnico, culturale e sociale, uno sviluppo impetuoso in concomitanza con la crescita di fenomeni, in parte già citati, quali le inchieste agrarie, lo sviluppo delle cattedre ambulanti, la scolarizzazione e l’alfabetizzazione di massa, la fede per il progresso e le scienze positive, la diffusione delle conoscenze tecniche e delle tecnologie applicate in vari settori. E dunque le grandi esposizioni internazionali, la nascita delle scuole di specializzazione in campo enologico, la fondazione di associazioni di settore e via dicendo.

F. W. Taylor. ford e taylor

Frederick Winslow Taylor (1856 –1915), ingegnere americano e componente dell’Associazione Americana degli Ingegneri Meccanici (ASME)  presentò, durante gli incontri presso l’associazione, diverse relazioni, che ora sono raccolte in “Direzione di officina, Principi di organizzazione scientifica del lavoro e la Deposizione di Taylor davanti alla Commissione speciale della Camera dei Deputati” sulle sue principali idee in merito all’organizzazione razionale di lavoro in fabbrica. Da lui prende il nome quel fenomeno storico-sociale che va sotto il nome di “fordismo-taylorismo” (il primo termine si riferisce alla Ford –modello T di Henry Ford). L’assunto principale del trattato fu che esiste un modo ottimo ed uno soltanto per compiere qualsiasi operazione del ciclo produttivo. One Best Way indicava il modo più economico per completare una data operazione in termini di quantità e qualità dei movimenti. Naturalmente tutto questo era sottoposto alla decisione tecnica della direzione:  la One Best Way non ammetteva la possibilità di scelte individuali nell’esecuzione del processo produttivo. Non esistendo ritmi individuali, dunque, il lavoro veniva estremamente parcellizzato e scomposto in operazioni semplici. Il prodotto finale si presumeva identico.

Trasporto materiale con carriola[5].

a = tempo per caricare una carriola con qualsiasi materiale;

b = tempo per prepararsi al trasporto;

c = tempo per trainare una carriola carica per metri 30,5 (pari a 100 piedi);

d = tempo per scaricare e voltare;

e = tempo per ritornare per metri 30,5 con carriola scarica;

f = tempo per lasciare la carriola e cominciare a paleggiare (usare la pala);

p = tempo per frantumare un m3 col piccone;

P = percentuale di giornata per riposo e inevitabili interruzioni;

L = carico di una carriola in dm3;

B = tempo per frantumare, caricare e trasportare un metro cubo di terra di una data qualità ad una data distanza.

Allora:

B = (p + [a+b+d+f + (distanza di trasporto)/30,5 +(c+e)] 1000/L )(1 + P)

Così, quasi per concludere.

L’industrializzazione enologica, come già ricordato non diversamente da altre produzioni manifatturiere, introdusse principi similari e modelli funzionali volti alla fabbricazioni di prodotti invarianti al tempo, alle condizione delle uve, ai terreni e via discorrendo. Mentre si aprivano nuove strade produttive, inevitabilmente se ne chiudevano delle altre. Quanto i processi non siano mai lineari, ma forieri di enormi ed insolute contraddizioni è quasi sempre il senno di poi a raccontarlo. Che di alcune invenzioni siano tutti i produttori a beneficiarne, anche su questo non vi è alcun dubbio. Sul prezzo sociale, ambientale e salutare neppure. L’unica certezza, alla fine, che i benefici e i malefici di determinate evoluzioni non sono mai semplici somme o sottrazioni proprio perché il tempo non ne dà una ragione univoca e tantomeno inalterata. Per cui è inevitabile ricordare che ogni scelta è politica e che ogni politica implica un’etica. Per questo mi piace pensare che il vino, la vita e tutto il resto siano delle carriole un po’ zigzaganti.

 


[1] Cfr. Emilio Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1860 – 1900), Einaudi , Torino 1968 (prima edizione 1947)

[3] Giorgio Pedrocco, Viticoltura e industria enologica, in Pier Paolo D’Attorre e Alberto De Bernardi (a cura di), Studi sull’agricoltura italiana. Società rurale e modernizzazione, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 1994, pp. 327 – 329

[5] F. W. Taylor, Direzione di officina in L’organizzazione scientifica del lavoro, Edizioni di Comunità, Milano 1952,  pag. 107

la foto iniziale è tratta da cantinasantacroce.it