LA BELLA MORTE? Notazioni sulla presenza dell’estrema destra nel movimento No-Vax

Memento mori di Andrea Previtali (1502), retro del dipinto Ritratto d’uomo
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Premessa.

Questo breve articolo risponde a due domande che mi pongo da tempo.

La prima riguarda i forti richiami del movimento No-vax alla sfida con la morte (“io questo virus, a questo punto, mi auguro di prenderlo, piuttosto che morire strisciando meglio morire in piedi!”), tali da essere assunti come estremo sacrificio personale e simbolico, per alcuni di loro, fino al rifiuto totale di ogni cura. La seconda tocca invece la presenza, viva e attiva, delle destre neofasciste, naziste e nazionaliste nel movimento No-vax europeo in misura largamente maggiore e visibile delle sinistre antagoniste. Credo che tra la prima domanda e la seconda ci sia una forte correlazione.

Preciso che con movimento No-vax intendo esplicitamente solo e soltanto quello che si esprime nelle pubbliche piazze o attraverso variegati contesti comunicativi social. Questo significa che non esiste una correlazione automatica tra non vaccinati e movimento No-vax. Non esiste, allo stesso modo, una complicità necessaria tra tutte le parti del movimento No-vax e l’estrema destra. Allo stesso tempo, in molti casi, non è stabilita né definita una netta separazione. E anche questo pone altre e irrisolte domande.

La bella morte?

Il Covid-19 ha riproposto, in forma nuova ed aggiornata, una pletora di temi su cui sarebbe molto oneroso, anche se doveroso, tornare. Uno di questi è il rapporto con la morte: espulsa dal mercantilismo capitalistico come un accidente della vita, è tornata prepotentemente ad accompagnare la quotidianità delle vite di ognuno di noi non solamente come fattore ineludibile e consustanziale all’esistenza stessa, ma quale coadiutrice indesiderata della quotidianità. Imprevedibile, implacabile e portatrice di sofferenze. Non che non lo sapessimo già, ma non eravamo più abituati ad immaginarla a braccetto di una cena, di una spesa, di una partita di calcetto, di una proiezione cinematografica e così via. Gran parte della discussione che da due anni ad oggi ruota intorno al Covid-19, ai vaccini, alle misure di contenimento ha un nemmeno tanto malcelato convitato di pietra: la morte. Intorno ad essa hanno ballato e danzano posizioni radicalmente divergenti.

Per la prima volta rimango fortemente scosso quando un mio contatto “social”, riferendosi ad altrui intervento pro vaccino, rivendica “una morte con il sole in faccia, da uomini veri e non da sudditi (l’accusa è contro pretoriani di Regime). Non è l’unico, naturalmente: piazze, siti, chat, dichiarazioni private e pubbliche di non vaccinati riprendono slogan militareschi tra cui campeggia il “meglio morire in piedi piuttosto che morire strisciando!”.

Di fronte ad una malattia, solitamente, si usano toni meno bellicosi: il vaccino, piaccia qualcosa di più o molto di meno, è un medicinale. Ma, se si pensa di essere all’interno di una guerra, gli stessi registri linguistici cambiano e cambiano di molto. Per alcuni dei non vaccinati non saremmo dunque solamente davanti ad un virus, nato chissà dove e chissà come, ma dinanzi ad un nemico belligerante dai volti e dalle espressioni più diverse e più stratificate. Solo così e solo in questo senso possono essere capiti, anche se non compresi, motti che inneggiano ad affrontare la morte quasi fosse un vessillo di coerenza assoluta. Perché, ed è qui il paradosso più compiuto, se non ci si vaccina per non morire o per essere infettati da un “siero” (così lo chiamano) sperimentale e nocivo, non ha alcun senso invocare la morte come scelta di congruenza personale e politica per combatterlo. A meno che, a meno che, come dicevo prima, non ci si ritrovi in guerra. Ma di quale guerra parlano costoro? Sia nel caso in cui ritengano il virus cosa vera, sia nel caso in cui lo individuino come pura e mera fantasia, il Covid-19 assolve ad una funzione macro-politica: è quel grimaldello nato, cresciuto, sperimentato e poi diffuso al solo scopo di accelerare il processo di dissoluzione degli stati-nazione, di imporre un governo mondiale eterodiretto da forze finanziare/poteri occulti/multinazionali finalizzati a soggiogare l’intera popolazione mondiale ad un dominio tripartito (finanza, burocrazia/potentati economici) non democratico, volutamente e consciamente dittatoriale. La sanità diventa, secondo questa logica, forma precipua di dittatura proprio perché è strumento essenziale della propagazione delle volontà politiche eterodirette: la “dittatura sanitaria” segue pedissequamente questa logica. Tali posizioni politiche o pre-politiche si confrontano assiduamente e costantemente, che lo facciano o meno consapevolmente, con tutto il substrato culturale delle destre radicali che hanno sempre condannato il potere omologante della mondializzazione come condizione essenziale dell’indebolimento dei popoli, intesi nella loro unitarietà costitutiva, esistenziale, tradizionale e storica: in altre parole ciò che chiamano “comunità di destino”. Per chi conosca anche solo un po’ di vicende umane sa per bene che i processi unitari, non da ultimo quelli nazionali, passano attraverso innumerevoli conflitti e da inevitabili contaminazioni: elementi essenziali della loro formazione sono laceranti lotte di classe e cruente guerre civili. Quello su cui i teorici del complotto mondiale organizzato contano è di riconsegnare un’immagine innocente e perduta dei tempi passati, di mitologiche coesioni sociali, di imperiture e immutabili tradizioni in chiave nazionale volte ad esser calpestate da cocenti bombardieri virali a servizio di sua maestà il Dominio Mondiale.

La critica al sistema capitalistico e alla sua natura predatoria, doverosa, necessaria e quantomai attuale, è ben altra cosa da questi farfugliamenti della cospirazione.

Ma per la destra radicale il virus Covid-19 è niente più e niente meno che un atto di guerra che schiera due formazioni in campo: la servitù di Regime, che si vaccina e i combattenti per libertà, che lottano e muoiono per una causa nobile.

In questo senso libertà, liberazione, dittatura assumono fattezze significativamente diverse da quelli assunte storicamente e socialmente condivise: invocare battaglie contro forme di dittatura e di imposizione sociale, per l’estrema destra illiberale e autoritaria, potrebbe costituire un ulteriore paradosso. Ma si tratta di una bizzarria solo apparente: le dittature non sono intese nelle loro forme di realizzazione storica e sociale e la libertà non ha valore in sé, se non in relazione al contesto politico di riferimento. La diversità non contempla nessuno spazio alla differenza: la presunta unità di popolo non prevede alcuna divisione sostanziale: di classe, di genere, sociali, culturali, di pensiero e storiche. Essa le assimila nel nome di destino comune, il loro naturalmente, e le riconduce da una condivisione di spirito e d’intenti unico, univoco e indiscutibile. Chi si pone al di fuori da questa logica, si colloca al di là della stessa nazione: va o rieducato o espulso. Se le differenze interne sono ricondotte ad un’imprescindibile forzatura unificante, al contrario quelle esterne sono esaltate e fortemente virilizzate. Il virus ha riconsegnato all’estrema destra l’occasione per tornare a parlare di temi a lei cari. E di poterli portare, manco a poterlo solo sperare, in forme di movimento composite. La logica bellica assume, dunque, il duplice connotato di di guerra esterna e di guerra interna: i poteri “forti” mondiali e i loro lacchè locali.

Devastazione di una sede sindacale a Roma – inizi anni Venti

E qui torna prepotentemente la morte eroica come stilema di pensiero complessivo di una guerra da combattere: è sicuramente vero che la morte mitizzata non appartiene esclusivamente alle culture delle destre radicali, ma è indubbio che di questa ne facciano e ne abbiano fatto un vessillo imprescindibile della loro teoria-prassi politica.

Accenni sulla morte eroica e la dottrina fascista.

Sicuramente De Maistre, Gobineau, Donoso Cortés, principalmente Barrés e poi Ernst Jünger e Spengler e la morte quale premio del destino e la diserzione borghese della storia; e quindi il nazionalista radicale Ernst von Salomon (invito a leggere questo pezzo di Cesare Cases a proposito degli eretici conniventi http://www.germanistica.net/2012/06/27/gli-eretici-conniventi/), il quale scriveva che “è meglio rischiare la propria vita che vivere male. Ecco perché la vita vera, pericolosa, deve essere preferita alla vita mediocre, e su questa stessa falsariga la morte gloriosa è meglio di una morte mediocre”, hanno puntellato, anticipato, sedimentato una cultura politica in cui la morte diviene essenza primaria della vita, sua compagna e guida, nazione e spirito dei tempi. La Grande Guerra, in tutto questo, rimane uno spartiacque da cui non si può fuggire né prescindere. Ma è nella costituzione materiale dei movimenti e partiti fascisti e nazisti dagli anni Venti in avanti che la morte gloriosa e mitizzata diventa corpo politico, fine e strumento, misura e principio. L’individuo della destra nazional-rivoluzionaria combatte per sé, anticipando e muovendosi nella direzione dei desiderata di altri individui pari a lui: per la nazione (sangue e suolo) e contro la patria borghese.

Chiare, in questo senso, riecheggiano le parole di José Antonio Primo de Rivera, co-fondatore assieme a Ramiro Ledesma Ramos e Ruiz de Alda della Falange Española Tradicionalista y de las Juntas de Ofensiva Nacional Sindicalista (FET y de las JONS): “la morte è un atto di servizio. Né più né meno. Non si possono, pertanto, adottare specifiche attitudini davanti ai caduti. (…) il martirio dei nostri è, per un verso, scuola di sofferenza e di sacrificio, quando abbiamo deciso di contemplarlo in silenzio. Per altro è ragione di rabbia e di giustizia. I nostri martiri non possono certo essere un argomento di ‘protesta’ secondo la consuetudine liberale”.

Il canto del Tercio Estranjero, s’intitola non casualmente “Il fidanzato della morte”, e così recita nel cuore della sua liturgia: “Quando più arduo era il fuoco e la lotta più feroce // difendendo la sua bandiera il legionario avanzò.// E senza temere la spinta del nemico esaltato // Seppe morire come un valoroso e le insegne salvò. // E dissetando col suo sangue il terreno ardente, //mormorò il Legionario con voce triste: // Sono un uomo che la fortuna ha colpito con zampa feroce; //sono un fidanzato della morte che si unirà con nodo forte // a una compagna così fedele”.

Non è da meno la Guardia di Ferro rumena, che rimanda ugualmente allo sposalizio con la morte: “La morte, soltanto la morte, legionari, // è un lieto sposalizio per noi. // I legionari muoiono cantando, // i legionari cantano morendo.”

E il fascismo nostrano con la canzone Fiamme Nere, dedicata all’arditismo bellico (nota anche come Il Canto degli arditi), ripresa all’inizio degli anni venti e poi nella Repubblica Sociale come inno delle Brigate Nere, così inneggia in una delle sue strofe:

avanguardia di morte // siam vessillo di lotte e di orror // siamo l’orgoglio mutato in coorte // per difender d’Italia l’onor”.

Con la Seconda guerra mondiale quest’aura sepolcrale, zeppa di simboli e riferimenti inneggianti al rapporto alla pari con la morte, quasi sfottente, trova il suo apice nella letteratura fascista: “Potrò guardare in faccia alla morte, sfuggirla, divertirmi con essa; giocare a rimpiattino deve essere bello. Come vedi le volontarie in camicia nera non temono la morte e prendono tutto con filosofia. Così viviamo… guardando in faccia alla morte con sorriso sulle labbra”, scrive un’ausiliaria in una lettera.

Lo storico Claudio Pavone afferma che ci sono due poli estremi che si possono isolare nelle espressioni fasciste: il primo riguarda una forma estetica dell’impulso di distruzione, che sembra propria di tutte le esistenze da paria nella misura in cui intimamente non sono del tutto schiave” (cfr. Georg Simmel).

Il secondo è quella della sfida proterva, fino alla morte.

Bibliografia minima.

Francesco Germinario, L’estremo sacrificio e la violenza. Il mito politico della morte nella destra rivoluzionaria del Novecento, Asterios editore, Trieste 2018;

Francesco Germinario, L’altra memoria. L’Esrema destra, Salò e la Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1999;

Furio Jesi, Cultura di destra, Garzanti, Mlano 1979;

Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Borignhieri, Torino 1991.

L’immagine del vino al tempo delle stronzate

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L’ultimo scherzo di Hop-Frog (Edgar Allan Poe) in una illustrazione di Arthur Rackham (1935)

«Mai dire una bugia

quando puoi cavartela a forza di stronzate»

Eric Ambler, Una sporca storia (1967)

 

Agostino d’Ippona (Tagaste, 13 novembre 354 – Ippona, 28 agosto 430) era solito distinguere tra due espressioni del falso: “quod aut se fingit esse quod non est, aut omnino esse tendit et non est[1]” : ciò che o si crede di essere quello che non è, oppure cerca di essere ciò che non è.

Questo è il falso (falsum) che riporta a due figure della menzogna: quella intenzionale del mendace (mendax) o del fallace (fallax), ovvero ciò che ha una ben determinata intenzione di ingannare e quella di una  res che ‘tende’ al vero e che al vero somiglia, ma che è vera solo del suo essere immagine, e non dell’essere ciò che rappresenta. Quest’ultima figure è propria della finzione: «“Qui hoc differunt a fallacibus, quod omnis fallax appetit fallere; non autem omnis vult fallere qui mentitur”: “il finto è un prodotto di coloro che mentono. I quali differiscono dagli ingannatori, per il fatto che ogni ingannatore vuole ingannare; mentre invece non tutti quelli che mentono vogliono ingannare”. Chi ‘finge’, in definitiva, dice cose non vere ma non (deliberatamente) false solo perché ingannevoli. L’inganno è piuttosto l’incolpevole attestazione dell’impossibilità di essere autentico creatore di realtà[2].»

La stronzata, invece, si configura, secondo il filosofo americano Harry G. Frankfurt, in questo modo: «Uno che mente e uno che dice la verità giocano in campi opposti, per così dire, allo stesso gioco. Chi racconta stronzate ignora completamente tali esigenze[3]»

Una parte dell’immagine veicolata del vino apparirebbe più come finzione che come menzogna vera e propria, anche se di quest’ultima mantiene l’afflato. Di qualsiasi cosa si tratti: vigneti, campagne, vignaioli in festa, vini gocciolanti, sorsi, sorrisi e ammiccamenti. La fotografia restituisce ordinarietà all’artificio semantico: l’assenza di codice sembra fondere in natura i segni della cultura. «E’ questo, senza dubbio, un paradosso storico importante: più la tecnica sviluppa la diffusione di informazioni (e soprattutto delle immagini), e più essa fornisce i mezzi per mascherare il senso costruito sotto l’apparenza del senso dato[4]». E’ il gioco sottile del mito: attivare un processo ideologico di naturalizzazione delle dominanti culturali facendole sembrare senza tempo, di senso comune, auto-evidenti e, per ciò stesse, ovvie. Il secondo passaggio della funzione mitologica coinvolge le distinzioni sociali: si cerca di nascondere la loro formazione storica e politica.

La divisione perfetta. «Senza dubbio il nostro tempo… preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere… Ciò che per esso è sacro non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità. O meglio, il sacro si ingrandisce ai suoi occhi nella misura in cui al decrescere della verità corrisponde il crescere dell’illusione, in modo tale che il colmo dell’illusione è anche il colmo del sacro.» Ludwig Feuerbach, Prefazione alla seconda edizione de L’essenza del Cristianesimo in Guy Debord, La società dello spettacolo (1973).

[1] Soliloquia 2,9,16 in Augustinus, Soliloquia, in Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum LXXXIX, Soliloquia, De inmortalitate animae, De quantitate animae – ed. W. Hörmann 1986; Opere di Sant’Agostino, III, Dialoghi, traduzione di D. Gentili, Città Nuova, Roma 1970

[2] Introduzione al Petrarca in didattica.uniroma2.it/files/scarica/…/3740-Nel-mio-stil-frale-Parte-prima‎

[3] Harry G. Frankfurt , Stronzate. Un saggio filosofico, Rizzoli, Milano 2005, pag. 57; On Bullshit, 1986 trad. it. M. Birattari.

[4]  Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Einaudi, Torino 2001, pag. 35; edizione originale 1982

Il vino nell’antico Egitto

vino egizio

Offerta di vino al dio Amon – Museo Egizio di Torino

Le più antiche etichette da vino che la storia tramandi sono egiziane: i logogrammi ed altri segni similari, incisi su sigilli premuti su grandi tappi di argilla, risalgono ad un periodo databile tra il 3100 a. C. ed il 2700 a. C., risalenti alle dinastie I e II del primo periodo dinastico. In questo caso il sigillo rimanda direttamente ad un faraone, a voler significare che la denominazione di origine è legata ad una personalità ben precisa ed al suo regno e non ad un luogo particolare. E’ solamente con la V dinastia (2470 a. C.), secondo Hugh Johnson[1] e con la VI (2200 a. C.), secondo Patrick E. McGovern[2], che si parla di vere e proprie denominazioni territoriali. E’ molto probabile che l’origine si riferisca, e su questo concordano entrambi gli autori, a dei luoghi di produzione, a delle fattorie vinicole, presenti sul delta del Nilo: ‘vino del Nord’, ‘vino abesh’, ‘vino sunu’ (sunu viene inteso come Sile, sul lato nordorientale del delta), ‘vino hamu’, ‘vino Ime’». Alla classificazione territoriale, Tim Unwin aggiunge che «fin dal III millennio sono documentati un certo numero di vini diversi, classificati a seconda del colore e della qualità oltre che per il luogo di provenienza[3].» I riferimenti di Unwin sono gli studi di Lutz nel 1922[4] e di Younger[5] del 1966. Ma è soltanto con il Nuovo Regno[6] che gli Egiziani «anticiparono di migliaia di anni il concetto francese di regione viticola, incluso nel sistema di classificazione dei Bourdeaux del 1855 e nella legge del 1936 sulla appellation controlée. Gli ostraka[7] indicano come principale zona di produzione viticola e vinificazione una regione in particolare, il ‘fiume occidentale’, che comprendeva la regione del delta nordoccidentale lungo il ramo canopico del Nilo. Altre aree erano Per-hebyt (l’odierna Behbet el-Hajar) sul delta centrale, Tjaru (Sile) sul delta nordorientale, Menfi e le oasi desertiche occidentali, probabilmente Kharga e Dakhala. Venivano indicati anche i nomi delle tenute, tra cui quelle di ‘Nebmaatre’ (nome proprio di Amenofi III), ‘Amenofi’, o semplicemente ‘il Faraone’ e ‘la Moglie Regale’. Le etichette con ‘è lo splendore di Aton’ si riferiscono a un’innovazione religiosa del faraone: il nuovo dio Aton (il disco solare), che Ekhnaton, figlio di Amenofi III e suo coreggente negli ultimi anni di regno, aveva introdotto al posto di Ammon. Il vignaiolo capo di solito è menzionato: tra gli altri, produssero vino per il faraone Amenofi, Amennemone, Pa e Ptahmai. L’informazione fornita dagli ostraka era superiore a quella fornita dalle etichette moderne, perché spesso indicava lo scopo e l’occasione per cui era stata offerta l’anfora: ‘vino per offerte’, ‘vino per tasse’ e ‘vino per divertimento’ si spiegano da soli; il ‘vino per un lieto ritorno’ forse veniva servito a una festa di arrivederci o di ultimo addio per un morto che si preparava a partire per la vita eterna. Le due occasioni festive più importanti ricordate dagli ostraka erano il ‘sollevamento dell’anno’, cioè la celebrazione del Capodanno, e soprattutto lo heb-sed[8] o festività sed[9]

Anche nella tomba di Tutankhamon (morto nel 1324 a. C. a soli 19 anni), ritrovata nel 1922 dall’egittologo Howard Carter, si trovano trentasei anfore contenenti vino, di cui ventisei marcate: sette con sigillo delle tenute del re e sedici con il nome della residenza reale di Aten. Ventitré di questi vini appartengono a tre annate, designate con ‘anno 4’, ‘anno 5’ e ‘anno 9’: non si comprende se queste date si riferiscono agli anni di regno oppure se indichino semplicemente gli anni di invecchiamento del vino. Una di queste anfore è marcata con ‘anno 31’ che non si può riferire alla breve durata del regno di Tutankhamon. Come si è già potuto vedere per il regno di Amenofi III, su tutte le anfore, ad eccezione di quelle più vecchie, vi è inciso il nome del capo cantiniere, a dimostrare così l’importanza di colui che produce materialmente il vino. Il fatto che il nome di uno di questi, Kha’y, si trovi nei sigilli sia dei vini della tenuta personale di Tutankhamon, che in quella di Aten fa pensare sia al fatto che questi funzionari dirigessero entrambe le tenute sia che la loro consulenza, al pari di un enologo di fama contemporaneo, fosse importante per la realizzazione di un buon vino.[10]

Così come fu per Tutankhamon, circa tre secoli più tardi, al ritrovamento ed allo studio, condotto da Wilhem Spiegelber, del tempio mortuario di Ramses II (1297 – 1213 a. C.), a nord di Tebe, si ritrovano 679 ostraka in cui sono nominati 34 località geografiche e 34 vinificatori. Dei 67 anni di regno circa 30 sono citati nelle etichette, con una netta prevalenza dei primi 11 anni, che coincidono anche con la costruzione del tempio e la conseguente necessità di approvvigionamento vinicolo. L’anno 7 è citato per ben 244 volte, forse ad indicare un’ottima annata. La qualità del vino trova rispondenza sulle etichette di buono (nfr) e ottimo (nfr nfr). Alcuni archeologi suppongo no che nfr faccia riferimento anche alla quantità di alcol presente nel vino. La funzione di sommelierie viene gestita da uno scriba che amministra il «dipartimento del vino della Residenza»[11]. Le considerazioni a cui giunge Mcgovern sulla base degli studi di Spiegelberg differiscono, rispetto alle analisi di Hugh Johnson, sull’attribuzione dei numeri delle anfore nei riguardi degli anni di effettivo regno dei Faraoni. A meno che le forme di numerazione non cambino tra il regno di Tutankhamon e quello di Ramses II. Ciò che invece si può affermare con certezza è la rinomanza che acquisisce sotto il dominio di Ramses II il ramo pelusiaco del Nilo, dopo la dominazione degli Hyksos e l’acquisizione del dio Seth a capo del pantheon dei sovrani ramessidi, che diviene la ‘vigna dell’Egitto’ (Kaenkeme).


[1] Hugh Johnson, Il vino. Storia, tradizioni, cultura, Franco Muzzio Editore, Padova 1991, pag. 37
[2] Patrick E. McGovern, cit. pag. 98
[3] Tim Unwin, Storia del vino. Geografie, culture, miti., Donzelli Editore, Roma 1993, pag. 69
[4] H.F. Lutz, Viticulture and Brewing in the Ancient Orient, J.C. Hinirichs’sche Buchhandlung, Leizpig 1922
[5] W. Younger, Gods, Men and Wine, The Wine and Food Society, London 1966
[6] Con l’unificazione del paese e la fondazione della XVIII dinastia, ebbe inizio il Nuovo Regno (1580-1085 a.C.) o secondo impero tebano, forse il periodo più fiorente della storia egiziana. Si ristabilirono i confini e le strutture di governo del Medio Regno, riprendendone anche il programma di bonifiche, e venne mantenuta l’ autorità sui governatori locali grazie al controllo dell’esercito. La capitale fu spostata ancora una volta a Tebe, città di cui era originaria la XVII dinastia e dove aveva sede il culto del dio Ammone, destinato a diventare, durante il Nuovo Regno, il più importante di tutto l’Egitto. Tratto da http://www.storiafilosofia.it/egiziani/
[7] Ostraka è il supporto scrittoio per le iscrizioni in ieratico (la scrittura ieratica è la forma di scrittura dell’Antico Egitto correntemente utilizzata dagli scribi. Sviluppatasi insieme o in seguito alla forma detta geroglifica era maggiormente adatta ad essere tracciata con un pennello sul papiro.) Il riferimento sono gli ostraka della tomba di Amenofi III (1413 – 1377 a. C.) ritrovati negli scavi di Malkata, nella Tebe sud occidentale.
[8] Con il termine di festa Heb-Sed, o festa ‘giubilare’, o ‘festa del cane’ (verosimilmente perché il re indossava la pelle di tale animale), si suole intendere una cerimonia che veniva celebrata dagli antichi Re egiziani al compimento del loro trentesimo anno di regno.
[9] Patrick E. McGovern, cit., pagg 130, 131
[10] Cfr. Hugh Johnson, cit pag 36
[11] Cfr. Patrick E. McGovern, cit., pp.149