Oggi. Il territorio valdostano coltivato a vite giace quasi interamente nella vallata centrale, percorsa dalla Dora Baltea, e si estende sulle pendici pedemontane che corrono da Pont-Saint-Martin a Morgex, interessando maggiormente le coste soleggiate della sinistra orografica: «Si tratta di un ‘solco’ che taglia in due la regione, caratterizzato da scarse precipitazioni, ventilazione costante ed escursioni termiche significative tra il giorno e la notte, con tutto ciò che questo significa in termini di maturazione rapida delle uve e sviluppo degli aromatici varietali. I terreni coltivati a vite sono morenici (l’intera regione era un gigantesco ghiacciaio), sabbiosi e sciolti e sorgono tutti sul versante della valle esposto a sud. L’attività vitivinicola della regione si sviluppa lungo il fondovalle che da Donnas si arrampica in meno di 90 chilometri fino ai milleduecento metri di Morgex, borgo posto alle pendici del Monte Bianco. Le ridotte dimensioni delle proprietà hanno l’effetto di determinare alte rese per ettaro; la fittezza media degli impianti si aggira in genere tra i 6.500 e gli 8 mila ceppi/ha. Qui i vigneti – che ricoprono tra l’altro un’importante funzione di tutela dal pericolo di frane e smottamenti del terreno – sono impiantati su terrazzamenti sostenuti da muretti a secco, tanto diffusi da caratterizzare il paesaggio in maniera inconfondibile [1].» La Valle D’Aosta è una regione che produce lo 0,1% del vino italiano (47mila quintali di uva, un milione di bottiglie circa) e gli ettari coltivati a vite sono appena 463, di cui 301 DOC e 162 di altri vini (dati Istat 2010). Nel 2014 gli ettolitri prodotti sono crollati del 27% a 14,500, con un andamento piuttosto difforme tra i vini bianchi, -41% a 5mila ettolitri e i vini rossi -17% a poco meno di 10mila ettolitri. Dei 463 ettari vitati, circa 74 sono coltivati a Petit Rouge, 44 a Nebbiolo, secondo vitigno, mentre il Prié blanc con 29 ettari è il più importante vitigno bianco. Precede altri due vitigni rossi, il Pinot Nero e il Fumin. Chardonnay, Petit Arvine e Moscato vengono subito dopo [2].
Nel 1800. Le maggiori informazioni sulla viticoltura valdostana dell’Ottocento ci giungono dal medico Lorenzo Francesco Gatta [3], socio libero della Reale Società Agraria di Torino, il quale menziona che «in molti vigneti di Ciambava, Nusso, Aosta, Sarre e San Pietro la vite non è quasi alta più di un palmo, e disponesi a filari ossiano spalliere assai soleggiate, ed anche su pergolette, che sono pur comuni.» A pergola o a spalliera sono dunque i sistemi di allevamento utilizzati dai vignerons di allora, con ceppi molto bassi, qualche decimetro appena dal terreno; abbastanza diffusa, soprattutto nel centro Valle, pare sia anche la coltivazione ad alberello – o a piquet – con viti isolate. Le produzioni di uva sono di conseguenza molto variabili: convertendo i dati statistico-economici offerti da Gatta per quanto riguarda la Valle superiore, le rese per ettaro differiscono enormemente, variando da 13 ettolitri a 210 ettolitri circa, con una media di 66 ettolitri per ettaro. Le misure agrarie utilizzate dai contadini di queste zone sono la tesa e la quartanata; 100 tese corrispondono ad una quartanata ed una quartanata corrisponde a circa 350 metri quadrati. Il vino invece si misura a terzeruole (pari a litri 1,850), a barili (litri 46,23) e in salme (litri 92,5). «La coltivazione della vite deve essere davvero molto importante agli inizi del 1800 [4]». Leggiamo ancora alcune importanti informazioni sull’opera di Gatta tratte da un’approfondita recensione dell’epoca: «(…) La descrizione delle specie e varietà delle viti coltivate nella valle d’Aosta formano quella parte del suo soggetto che il dote Catta trattò con maggior amore e con pia fina diligenza; inteso a porgere un esempio che se fosse imitato in ciascuna provincia vitifera italiana, porgerebbe i materiali della tanto desiderata sinonimia e classificazione delle viti italiane, bellissima impresa già dal cav. Acerbi lodevolmente cominciata [5]. Due delle specie descritte sono meritevoli di particolare riguardo. E in primo luogo la specie oriou [6] per essere indigena alla vallata e straniera, per quanto consta all’autore, agli altri paesi. (…) L’altro vitigno degno di special menzione è il priè. È bianco, amico delle regioni elevate ed alpestri, il cui freddo tollera mirabilmente ; è di molta gettata e assai primaticcia. I suoi tralci sono sottili, lunghi, con nodi piuttosto frequenti e cirri molli, sottili: le foglie piccole, dure, con incisioni poco distinte, che si conservano verdi assai oltre lo sfruttamento ecc. Ogni casa, ogni abituro della vai d’Aosta, dice l’autore, ha dappresso la sua cara pianta di priè, al cui lezzo siede lo stanco contadino, e del più dolcissimo frutto si disseta (…) [7].»
Diversi anni più tardi (1870-1880) il presidente del Comice Agricole di Aosta, Louis Napoléon Bich si lamenta dell’insufficienza e dell’inadeguatezza delle tecniche vinicole, dovute spesso a gravi carenze di istruzione teorica e pratica, nonché al perdurare di colture promiscue, spesso cereali, volte al sostentamento famigliare. A questo si aggiunge l’invasione dell’oidio: le cose cambiano a partire dal 1863, anno in cui in Valle d’Aosta inizia ad utilizzare lo zolfo: «solo sul finire del secolo scorso vengono combattuti efficacemente gli insistenti e continui attacchi fungini; il Bich, per porre rimedio alla ancora scarsa produzione di vino, auspica l’impianto di nuovi vigneti….
Come si suol dire, erano altri tempi, e una quindicina d’anni più tardi, nel 1896, nei 38 comuni interessati dalla viticoltura, la superficie vitata sale da 3000 a circa 4000 ettari! Stranamente, stando agli scritti da me consultati, a questo aumento di superficie non corrispose un aumento della produzione vinicola, ma anzi una sua diminuzione, vale a dire una media di circa 28500 ettolitri, quindi di 7,1 ettolitri per ettaro! Sull’attendibilità di questi dati e sulla possibilità che a fine ‘800 l’area vitata corrispondesse realmente a 4000 ettari, è lecito nutrire qualche dubbio: è probabile invece che il Bich, pur sottolineando l’esiguità dei raccolti, sia incorso in qualche errore, confondendosi o lasciandosi sfuggire qualche cifra.» [8]
Il rinnovamento valdostano dei vigneti è più lento che altrove, probabilmente per la diffusione tardiva della fillossera, che distrusse oltre i tre quarti dei vigneti presenti: «Ancora nel 1922 però si consigliavano gli ibridi, scartando tuttavia quelli introdotti sino ad allora (Isabella) e orientandosi invece verso nuovi ibridi, peraltro molto numerosi, per cui era di una certa difficoltà individuare i più confacenti all’ambiente valdostano.» [9] Soltanto diversi anni più tardi, nel 1938, si parla nuovamente [10] di portainnesti americani che vengono tuttora usati dai viticoltori valdostani e forniti da vivaisti regionali o extra regionali.
Per quanto riguarda i vini prodotti nella Valle d’Aosta vi sono dei primi resoconti che partono dai ritrovamenti degli inventari del castello di Châtillon dei Conti Challant nei primi decenni del secolo XVI e poi del 1766 del castello di Issogne, di proprietà sempre dei Challant, dove risiedono ben 142 ettolitri di vino immagazzinati in trenta botti. I vini presenti si distinguono in due categorie, ovvero i vini di lusso o vini-liquore, ottenuti da uve bianche e rosse di prima scelta fatte appassire o sovra maturate su cannicci, e vini comuni di prima qualità o vini comuni di pregio. Alla prima categoria appartiene il Valle d’Aosta Muscat de Chambave flétri e il Valle d’Aosta Nus Malvoise flétri, mentre per i vini a bacca bianca ci sono i vini delle colline de l’Envers (Pollein, Gressan, Jovençan, Aymavilles), il vino di Champalliez (Champailler sulla collina di Aosta), il vino di Montarveren (Montaverain e Arvier), il vino di Sancti Martini (Pont Saint Martin), il vino Donatii (Donnas), il vino Arnadi (Arnad) ed il vino Verredi (Verres), questi ultimi probabilmente prodotti con vitigni Nebbiolo, il primo, e con Picotendro e Neiret tutti gli altri, compreso il primo [11]: a partire da una costante produttiva nel corso dei secoli sulla base di altri resoconti come quello di Gatta del 1838, già citato, del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio del 1896 e quello di Berget del 1904 e poi del 1906, «si ha la conferma che, indipendentemente dalla tipologia, i vini rossi superiori generalmente erano elaborati a partire da assemblaggi di uve rosse, mentre i vini bianchi provenivano da vinificazioni in purezza di uve bianche. Si desume inoltre che alcuni vini fini e comuni di pregio, tra i quali Torrette, Enfer d’Arvier, Malvoisie de Nus, Muscat de Chambave, Donnas, Arnad, Montjovet, Prié (o Blanc) de Morgex, sono stati prodotti con continuità per molti secoli fino ad oggi. All’opposto, altri vins fins e crus réputés, di non minore valore né meno antichi dei precedenti, tra i quali il Clairet de Chambave, il Clairet d’Aoste, l’Impagliato di Aosta, la Malvoisie di Aosta, il Montouvert di Villeneuve, il Terrasses de Saint–Vincent, il Pré de Gignod, il Prié d’Allein, il Prié de Valpelline, sono scomparsi e sono caduti nel dimenticatoio.» [12]
NOTE
[1] Marco Arturi, L’eroica viticoltura della Valle d’Aosta, in http://www.sorgentedelvino.it/articoli/i-vini-e-la-viticoltura-della-valle-daosta.htm
[2] Bacca, Valle d’Aosta – principali vitigni – aggiornamento ISTAT 2010, 11 aprile 2014 in http://www.inumeridelvino.it/ Per chiunque voglia avvicinarsi alla viticoltura contemporanea della Valle D’Aosta è imprescindibile il libro di Fabrizio Gallino, in arte Enofaber, Vino in Valle, un viaggio fra i vignerons della Valle d’Aosta, Edizioni Giramondo Gourmand 2013
[3] Il Saggio intorno alle viti e sui vini della Valle d’Aosta, scritto dal medico Lorenzo Francesco Gatta, socio libero della Reale Società Agraria di Torino, fu pubblicato nel 1838 nell’XI volume delle Memorie della Reale Società Agraria dalla Tipografia Chirio e Mina in via di Po a Torino.
[4] Cfr. Giulio Moriondo, Probabili origini e storia dei vitigni valdostani, in http://www.mediavallee.it/ilvinaio/origini.html, Tutto il materiale presentato è tratto dal libro: Giulio Moriondo , Vini e vitigni autoctoni della Valle d’Aosta, edizione IAR, Tipografia Duc, Aosta, e dall’opuscolo Giulio Moriondo, Ricerca a memoria d’uomo, della tecnica e del linguaggio viticolo-enologico in centri rappresentativi del Piemonte e della Valle d’Aosta, Nus, Associazione Museo dell’Agricoltura del Piemonte, Tipografia Duc, Aosta 1997.
[5] Vedi Tentativo di una classificazione geoponica delle viti ecc. Bibl. Ital, tom. 3o.° pag. 344 (giugno 1823), e Trattato sulle viti italiane, ossia materiali per servire alla classificazione monografia e sinonimia ecc. Milano l825, tip. Silvestri. Nota dell’autore del testo
[6] Sull’origine del temine ‘oriou’ rimando al capitolo ‘Suggestioni sugli Orious’, in Giulio Moriondo, Vina Excellentia, Vini-liquore, vins fins, crus réputé<s, de la Vallee D’Aoste, Tipografia DUC, Aosta 2008.
[7] Saggio sulle viti e sui vini della Valle d’Aosta, del don. Lorenzo Francesco Gatta (Memoria estratta da quelle della R. Società agraria di Torino, t. XI). — Torino, 1836, in 8.°, di pag. 126, in ‘o sia Giornale di Letteratura, Scienze ed Arti compilato da varj letterati’, Tomo 84, Anno Ventesimoprimo, Imperiale Regia Stamperia, Milano Ottobre, Novembre, Dicembre 1836
[8] Giulio Moriondo, in www.mediavallee.it/ilvinaio/origini.html
[9] Anonimo, La vigne pp. 55-57, in ‘Le Messager Valdotain’, Imprimerie Catholique, Aoste 1922, citato in Giorgio Vola, Storia regionale della vite e del vino in Italia, Valle d’Aosta, Accademia Italiana della Vite e del Vino, Conegliano (Tv) 2010
[10] Ivi, pp. 334 – 336
[11] Cfr. Giulio Moriondo, cit.
[12] Ivi, pag. 101
In precedenza pubblicato su http://www.seminarioveronelli.com/viticoltura-valdostana-tra-ottocento-e-tempo-presente/