I colori del vino

Palloncino rosso (1922) Solomon R. Guggenheim Museum, New York. Di Paul Klee – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10873643

L’occhio e la sua parte.

Uno dei motti ricorrenti, pervadenti e talvolta banalizzanti, impone che la vista di un prodotto alimentare abbia la sua parte nell’estetica della presentazione. Un bel piatto, così come un bel vino, potrebbe/dovrebbe essere anche buono. Indubbiamente la vista, intesa non solamente come mero strumento fisico, consente differenti ambiti di indagine connessi alla valutazione dell’oggetto osservato e alla sua grazia esteriore. Dall’osservazione di un vino si possono intuire, in assoluta anteprima pre-olfattiva e pre-degustativa, alcuni segnali: età presunta, pulizia esteriore, consistenza, tenore alcolico, possibili difetti e così via. Segnali, appunto, che vengono letti attraverso la tonalità dei colori, la loro brillantezza (alcuni la chiamano più precisamente brillanza), luminosità, intensità, vivacità e trasparenza. Il vestito del vino, come si sarebbe detto nella Borgogna dell’Ottocento (Dictionnaire- Manuel du Maître de Chai – Féret – 1896): tinte, veste corta, una bella veste, ecc. Lemmi, parole che rimandano a pratiche che, a loro volta, rimandano ad altri termini descrittivi: rosso rubino scarico; riflessi aranciati…

Trasparenze.

Nei vecchi manuali di degustazione, o nei dizionari dei termini del vino, la parola “trasparenza” fa, a volte, un’apparizione fugace. Altre volte, invece, viene semplicemente subordinata e incorporata in una voce superiore: “limpidezza”. Ancora il “Dizionario Veronelli dei termini del vino”[1], risalente al non lontano 2001, propone soltanto il termine “limpidezza”. Il dizionario riferisce, poi, che essa corrisponde allo “stato di un vino trasparente o meglio privo di particelle in sospensione.” Insomma un gioco di sinonimia che soltanto la moderna manualistica ha approntato a separare. Trasparenza, quindi, come capacità di un liquido di farsi attraversare dalla luce e limpidezza come mancanza di particelle in sospensione misurabili con nefelometri. La trasparenza, dunque, ricompare come feticcio totalizzante nella società del positivo: le cose si liberano da ogni negatività quando sono prive di interferenze trapassanti. Immagini liberate di profondità e di senso sono disponibili all’occhio attraverso il contatto immediato, diretto e pornografico: “la società della trasparenza è un inferno dell’Uguale”[2]. Colori, luci, piacevolezze sono figlie del loro tempo.


Di Pierre-Auguste Renoir – Summer anagoria 1868 Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=19449994

Purezze e no.

Vi è un’analogia fra il tono, ossia l’intensità di un colore, la sua luminosità e il simbolismo del livello corrispondente, che si situa fra i poli della luce e dell’oscurità. La purezza di un colore corrisponde sempre all’autenticità di un significato simbolico, mentre le tinte miste, derivate e secondarie, sono in maggior misura soggette ad interpretazioni duplici ed ambivalenti[3]. Secondo Klee, la decifrazione dei simboli ci conduce verso quelle che chiama “insondabili profondità del respiro primordiale”, perché il simbolo collega all’immagine visibile “la parte dell’invisibile intuita occultamente[4]”. Nella civiltà occidentale, il bianco ha quasi sempre avuto due contrari, il rosso e il nero, tre colori che costituiscono i tre poli, intorno a cui, fino all’alto Medioevo, si sono articolati tutti i sistemi simbolici a partire dall’universo dei colori[5].

Decifrare il colore di un vino non è un atto di mera razionalità percettiva, di oggettivo scandagliamento di lunghezze d’onda, di riverberi, di frazioni di luce, di vorticose rotazioni: è un’esperienza che tracima la ragione perché “ci sono innumerevoli cose che oltrepassano l’orizzonte della comprensione umana, così noi ricorriamo all’uso di termini simbolici per rappresentare concetti che ci è impossibile definire completamente”[6]. E poi l’osservazione è un atto sociale, storico e intimamente politico: guardiamo, annusiamo e sentiamo anche per i milioni di occhi, nasi e bocche che lo hanno fatto e lo fanno per noi. Il globo pullula, pertanto, di coloro che indirizzano le percezioni del piacevole: vuoi per guadagno, vuoi per imporre di modelli di consumo, vuoi per veicolare mode pervasive e reticolari.

Vino rubino, dunque, contro le variabili del rosato: “Ditegli barolo di dodici anni e il ricordo gli si illumina di un limpido caldo arancione; ditegli lambrusco, e gli arde nella memoria uno sfavillio di terso ostro (vento australe) orientale su cui gorgoglia per brevissimo tempo una spuma violacea; ditegli refosco, e rivede l’antro nero d’un’osteria in Carnia ove il buio è vinto solo dalle braci rosseggianti sul piano del Fogoldr; e sente venire dalla tavola in fondo animata delle ombre dei bevitori un canto sommesso di voci maschie: Al ven gnòt e scur di Aloe – no se vidd a fa’ l’amór… («È notte e scuro di pioggia – non ci si vede a far l’amore… » (…) Non intenderanno (gli amanti del rosato) il senso di quella poesia del poeta arabo Abu Novàs, che ebbi già occasione di citare nel mio Ghiottone errante: Io gli dissi: «è ora che rincasi; già vedo il rosso dell’aurora penetrare nella taverna». «Che aurora!» rise egli meravigliando; «qui non v’è altra aurora fuori del brillare del vino.»”[7]

Melancolia, lussuria e vino nero.

Il vino, come la natura, regola con il caldo ogni funzione dell’organismo. Ma, a differenza della seconda, soltanto momentaneamente. Il vino contiene aria, così come la natura del temperamento bilioso è dettata dal medesimo elemento. La dimostrazione ci viene fornita dalla schiuma che il vino nero, più del bianco, produce: “era chiaro che coloro nel cui corpo la bile nera aveva un ruolo predominante necessariamente dovevano essere anche mentalmente “anormali” in un modo o nell’altro. Anche il vino ha la proprietà di contenere aria, e quindi è affine per natura al tipo di complessione descritto. Tale sua proprietà è dimostrata dalla schiuma: l’olio infatti, pur essendo caldo, non fa schiuma, mentre il vino sì, e il nero più del bianco, perché più caldo e più denso. Per questo dunque il vino eccita all’impulso erotico, e non a caso si dice che Dioniso e Afrodite abbiano stretti rapporti. I temperamenti «melanconici» sono, per la maggior parte, lussuriosi, proprio perché l’impulso erotico è caratterizzato da un’emissione d’aria.” [8]

Il numero dei sapori e quello dei colori.

Aristotele ritiene che vi sia una somiglianza, da cui un possibile parallelo, tra la genesi dei colori e quella dei sapori: come, infatti, le specie dei colori sono generate dalla mescolanza del bianco e del nero, così i sapori nascono dalla mescolanza del dolce e dell’amaro. Anche nella quantità oltre che nella qualità vi è una relazione fra colori e sapori: “Aristotele distingue i sapori medi secondo il numero attraverso la somiglianza con i colori. E dice che le specie degli umori, cioè dei sapori, sono quasi uguali nel numero alla specie dei colori [442a19]96” [9]. I sapori, in ordine di elenco, sono otto:

  1. sapore dolce; 2. sapore amaro; 3. sapore grasso; 4. sapore salato; 5. sapore aspro o pizzicante; 6. sapore pungente o acidulo; 7. sapore agro; 8. sapore acido [10]

La quasi uguaglianza dipende dal fatto che, in un passo successivo, Aristotele accorpa il sapore grasso con quello dolce, mentre mantiene la suddivisione tra amaro e salato. Di qui i sette sapori che si affacciano ad otto colori: “Parimenti anche per quanto riguarda i colori a ragione si dice che il grigio sta al nero come il salato all’amaro,il biondo invece al bianco come il grasso al dolce; in mezzo invece ci saranno questi colori; lo scarlatto, cioè il rosso, e il porporino, cioè il giallo limone, il verde e il turchese, cioè il colore celeste, tuttavia in modo che il verde e il turchese si avvicinano più al nero, mentre lo scarlatto e il giallo limone si avvicinano più al bianco. E vi sono poi moltissime altre specie dei colori e sapori formati dalla mescolanza delle predette specie l’una con l’altra [442a19].” [11]

Impressioni.

…quando abbiamo di una cosa un sensazione continua se mutiamo sensazione, l’antica impressione ci segue, come quando, ad esempio, si passa dal sole al buio: capita allora di non vedere niente, perché il movimento causato negli occhi dalla luce permane ancora. E se siamo stati a guardare molto tempo un colore, o bianco o giallo, lo stesso colore apparirà su qualunque cosa poseremo lo sguardo. [Aristotele, Dei sogni] 459b9-13

E’ il sensus communis che coordina i sensi e fornisce la consapevolezza della percezione visiva e, con l’aiuto dell’immaginazione (phantasia, cioè produzione di immagini), della memoria (conservazione di immagini), dell’esperienza (affastellamento di sensazioni) e della reminiscenza (cercare nel passato di riafferrare un pezzo che è scomparso) distingue, riconosce, giudica, compone le impressioni dei sensi in immagini.

NOTE

[1] Curatori: Masnaghetti A. – Zanichelli M., Dizionario Veronelli dei termini del vino, Veronelli Editore, Bergamo 2001

[2] Byung-Chul Han, La società della trasparenza, nottetempo edizioni, Roma 2014

[3] Caroline Pagani, Le variazioni antropologico-culturali dei significati simbolici dei colori, in http://www.ledonline.it/leitmotiv/Allegati/leitmotiv010114.pdf

[4] Cfr. P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli, Milano 1952, vol. I.

[5]Cfr. M. Pastoreau, Couleurs, Images, Symboles. Etudes d’histoire et d’anthropologie. Le Léopard d’Or, Paris, 1986, p. 22

[6] C.G. Jung, L’uomo e i suoi simboli, Milano, Cortina 1990, p. 21

[7] Paolo Monelli, O.P. ossia Il vero Bevitore, Longanesi & C., Milano 1963

[8] Aristotele, La melanconia dell’uomo di genio, a cura di C. Angelino e E. Salvaneschi, Il Melangolo, Genova 1981, pp. 11-27

[9] Sentencia De sensu, tr. 1 l. 11 n. 5: «Deinde cum dicit fere enim distinguit sapores medios secundum numerum per similitudinem ad colores. Et dicit quod species humorum, idest saporum, sunt fere aequales numero speciebus colorum[…]».

[10] Cfr. Ilaria Prosperi, Gnoseologia e fisiologia del gusto nella tradizione neoplatonica – agostiniana e in quella aristotelica – tomista. Tesi di dottorato in Storia Medievale Alma Mater Studiorum Università degli Studi di Bologna

[11] Sentencia De sensu, tr. 1 l. 11 n. 5: «Similiter etiam rationabiliter dicitur ex parte colorum, quod lividum se habet ad nigrum sicut salsum ad amarum; flavum autem ad album, sicut pingue ad dulce. In medio autem erunt hi colores: puniceus, idest rubeus, et alurgon, idest citrinus, et viridis et ciarium, idest color caelestis, ita tamen quod viride et ciarium magis ppropinquant ad nigrum, puniceum autem et citrinum magis appropinquant ad album. Sunt autem aliae species plurimae colorum et saporum, ex commixtione praedictarum specierum adinvicem».

L’Universo sta dalla parte dei tannini in espansione

Di Ute Kraus, Physics education group Kraus, Universität Hildesheim, Space Time Travel, (background image of the milky way: Axel Mellinger) – Gallery of Space Time Travel, CC BY-SA 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=370240

Ci sono dei fenomeni che la scienza non spiega o che, inizialmente, chiarisce in un modo e successivamente in un altro. Oppure, ancora, che risolve in maniera diversa e confliggente, perché diverse sono gli impianti assiomatici e dimostrativi su cui pone le basi probatorie.

Si è scoperto di recente, grazie alla una nuova analisi delle onde gravitazionali riconosciute nel 2015 e prodotte dai buchi neri 1,3 miliardi di anni fa, che la superficie di azione dei suddetti buchi neri non si restringe. Se per la meccanica quantistica, bella bella quatta quatta, l’idea fondamentale è l’impossibilità di considerare separatamente il frammento di energia e l’onda che gli è associata così da ritenere possibile la riduzione, nel tempo, dei buchi neri (sino alla loro evaporazione), per i fisici del Mit, al contrario, l’entropia del sistema solare non può diminuire: “I ricercatori hanno preso in mano i dati dei segnali delle onde gravitazionali e hanno calcolato la massa e lo spin dei due buchi neri prima e dopo la fusione dei buchi neri e rielaborando i dati hanno calcolato la superficie d’azione (l’area dell’orizzonte degli eventi) prima e dopo la collisione. La superficie del nuovo buco nero, creato da questo scontro fra i due, era maggiore: in pratica l’area risultante è più estesa di quella iniziale. Questo aumento conferma – a livello teorico, ovviamente, e non sperimentale – la legge di Hawking con un livello di confidenza che gli scienziati indicano pari al 95%. Insomma, abbiamo una prova di questa caratteristica dei buchi neri[1]”.

Di Gustave Courbet –  Le Gros Chêne, The Colby College Museum of Art, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=34003824

Nello spazio/universo finito del vino, i tannini si baloccano con le nostre proteine salivari e, facendole precipitare, causano una minore lubrificazione delle mucose della bocca.

Un tempo “si pensava che l’astringenza aumentasse con la dimensione molecolare fino ad un certo valore (dp = 7), oltre il quale la progressione era inversa perché si supponeva che i tannini precipitassero”. Poi alcuni autori (Vidal et al, 2003) hanno dimostrato che l’astringenza aumenta con l’aumentare delle dimensioni molecolari senza limite di stazza “la percentuale di galloilazione (maggiore nei vinaccioli) rinforza la sensazione d’astringenza mentre il livello di triidrossilazione (specifico dei tannini delle bucce) la riduce. (…)”

E fosse finita qui: l’alcool e l’acidità amplificano l’astringenza, mentre zuccheri residui e glicerina ne diminuiscono la sensazione. Nelle macerazioni lunghe (10-12 giorni), la percezione tannica aumenta con il tempo dopo di che, se le bucce sono sufficientemente mature, diminuisce con aumento della morbidezza. Anche il legno gioca un ruolo sull’astringenza: da un lato si liberano ellagitannini, che contribuiscono all’astringenza e, dall’altra, aumenta fortemente la sensazione di dolce (“sucrosité”), che attenua la percezione tannica. Infine, i parametri di degustazione, la temperatura del vino, l’ambiente in cui si assaggia, lo stato fisiologico, gli alimenti ingeriti … hanno un effetto importante sulla percezione dell’astringenza[2].

Cosa volevo dire con tutto questo? Niente di molto sensato: ieri sera ho bevuto un aglianico del Vulture, di cui non faccio il nome, di ben 15 anni. Speravo in un una vivace e intesa polimerizzazione dei tannini che non è avvenuta: nel contempo le mucose della bocca si sono completamente liofilizzate e il cavo orale è stato coperto da un sottile strato di rovere. Interrogativi inevasi mi hanno arrovellato la mente per diversi minuti: ma questi qua non dovevano precipitare almeno un po’? Pensa te se lo avessi bevuto con dei carciofi?!? Due rette parallele che vanno verso l’infinito: chi le paga? (Crozza/Zichichi)

Poi ho letto dei buchi neri e oggi dei tannini. So che, al momento, non c’è una correlazione diretta tra i due fenomeni. Ma mi sento più tranquillo. L’Universo sta dalla parte dei tannini in espansione.


[1] https://www.wired.it/scienza/lab/2021/06/21/stephen-hawking-area-buchi-neri-non-diminuire/?refresh_ce=

[2] Stéphane VIDAL, Patrick VUCHOT, Conoscenza e gestione dei composti aromatici e fenolici dei vini, Articolo estratto dagli Atti dell’8° edizione dei Rencontres Rhodaniennes, 25 Marzo 2004, in https://www.infowine.com/intranet/libretti/libretto2532-01-1.pdf

Il vino inesistente. Dialoghetto senza né capo né coda, ma con un bel finale moraleggiante

Di Flickr.com user “tanakawho” – https://www.flickr.com/photos/28481088@N00/160781390/, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1020048

Lui: “Vi vorrei far assaggiare questo nebllbll……………….”
Lei lo interrompe: “oh, è pazzesco questo clima: mi vesto come una cipolla. Cappotto, sciarpa, maglione al mattino, sotto la maglia a mezze maniche, poi canotta, jeans invernali, calze di lana e calze di riserva in borsa, scarpe da trekking e siamo a giugno” “A GIUGNOOO! Machecazzo!”
L’altro: “Verissimo! Una primavera che sembrava dicembre, tutto che arrancava e ora arriva sta botta umida che manco a ottobre!”
Lui: “Ed è per questo che vi ho proposto questo meraviglioso neblll…”- parte la radio
L’altra: “ Cos’è sto pezzo?!? Dai, dai, aiutatemi! Ce l’ho lì sulla punta della lingua: lo ballavo in cucina proprio ieri sera”
Lei: “Ma sì è coso…coso, Cast…no aspe’ Calvin, Calvin”
L’altro: “Calvin Harris!”
L’altra: “Mitico!”
Lui consulta il cellulare: “Giant è il pezzo con Rag’n’Bone man” – “Volete un po’ di parmigiano con questo fantastico neblll….?” – Gli altri alzano il volume e si mettono ballare.

L‘altro si dimena in maniera scomposta con il bicchiere in mano. Lei, cercando di prendergli la mano per un giro di valzer in pochi metri quadri, gli urta il braccio. La mano di lui si gira e tutto il vino si spande sul meraviglioso cashmere rosa dell’altra.
Allora l’altra indietreggia, apre le braccia in segno di disdegnato stupore e furente sorpresa e, con il culo, urta la bottiglia che cade a terra rompendosi in mille pezzi: “ma porca merda, biiiip biiiiiip, bip bip, me l’ha regalata mia nonna per miei 35 anni!!!! E ora come faccioooo?!? Stramerda!”
Voci concitate si accavallano. Sullo sfondo la parola strozzata di lui: “il mio nebblblll… (imprecazioni e insulti incrociati) no! Lo tenevo lì per questa occasione. Non ne ho altre di bottiglie di quell’annata! Era del 19zbrrscsh …sommerso dalle grida”
L’altra: “ma chissenefotte, guarda il mio maglione!” – piangendo lacrime disperate
L’altro: “Non te la prendere, te la ricompriamo uguale così tua nonna non si arrabbia”
L’altra: “Mia nonna è morta… sai è il ricordo” – dice singhiozzando
Lei: “Si ti capisco. Ma te la ricompriamo!”
Lei, l’altra e l’altro escono di casa per dirigersi al negozio dei maglioni di cashmere più figo della città.
Lui rimane a casa, raccoglie i cocci e si versa un succo al pompelmo rosa mentre pensa: “Il maggior guaio del gittar perle ai porci non è tanto che si sprechino le perle quanto si guastano i porci”. (Ugo Bernasconi)

Parole nel tempo: biologico

Campo di grano sotto cielo nuvoloso, 1890, Van Gogh Museum, Amsterdam

Mi capita, ogni tanto, nelle ore di lezione che svolgo presso il master in Wine Culture and Communication dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, di soffermarmi sull’uso delle parole legate al vino, sulla loro etimologia, sul loro senso e significato, sulla loro storicità, sul loro uso comune o meno, sulla loro sincronia o diacronia con la lingua corrente parlata e scritta, sul loro slittamento semantico, sul loro valore, etico, politico, scientifico, economico… Insomma sulla lingua e sulle parole come elementi relazionali e sociali. Come scrissi da altre parti, sul discorso come pratica sociale.

Siccome è tornato in auge, per ragioni contingenti, il dibattito sul biologico e sul biodinamico, vi propongo qui, in italiano e in inglese, alcuni spunti di discussione sull’origine della parola “organic” che, poi, nella nostra lingua ha trovato un riparo piuttosto sicuro nella traslazione in “biologico”, che altro non è che il pensiero, la parola, la ragione e il principio creatore della vita. E da questo, capirete bene, che il mio “altro non è” si fa piuttosto complicato. Questi spunti linguistici non hanno alcuna pretesa né di giustificare, né di confutare alcun metodo.

Hanno invece la volontà di far comprendere la precarietà delle parole e la precarietà delle relazioni che esse ingenerano e di cui sono portatrici. Perché, neppur tanto sotto, le parole sono anche potere e strumenti di lotta per il potere; per la propria o altrui affermazione.

1510s, organico “che serve (funziona) come organo o strumento”, [dal lat. organĭcus, gr. ὀργανικός «attinente alle macchine, agli strumenti; che serve di strumento», der. di ὄργανον: v. organo] (pl. m. -ci). “di o appartenente a un organo, che serve come strumento o motore”, da organon “strumento” (vedi organo: estensione di ergo: lavoro e di ergon: opera).

Il senso di “da esseri viventi organizzati” è stato registrato per la prima volta nel 1778 (prima questo senso era in organical, metà del XV secolo).

Significato “privo di pesticidi e fertilizzanti” attestato per la prima volta nel 1942. La chimica organica è attestata dal 1831.

Precedentemente era organical “relativo al corpo o ai suoi organi” (metà del XV sec.) e l’inglese medio aveva organik, di parti del corpo, “composto di sostanze distinte, con proprietà distinte” (1400 circa).

organo (n.) Il significato biologico “parte del corpo di un uomo o di un animale adeguata a una certa funzione” è attestato dal tardo XIV secolo, da un senso latino medievale del latino organum. Dall’inizio del XV sec. come “un attrezzo, uno strumento”. Il senso ampio ed etimologico di “ciò che svolge una certa funzione” è attestato in inglese dagli anni 1540. Dal 1788 come “un mezzo, uno strumento di comunicazione”. Organ-grinder, “musicista ambulante che ‘macina’ musica su un organetto” è attestato dal 1803.

organicamente (adv.)

1680 in riferimento agli organi corporei; 1862 in riferimento agli esseri viventi; 1841 come “come parte di un tutto organizzato”; da organic.

inorganico (agg.)

1727, “senza la struttura organizzata che caratterizza gli esseri viventi”, da in- (1) “non, contrario di” + organico (agg.). Inorganico in questo senso è del 1670. Nel significato “che non arriva per crescita naturale” è registrato dal 1862.

Il termine “agricoltura humus (a base di composti organici)” (difficilmente traducibile in italiano) è andato fuori moda negli anni ’40, quando il termine “organico” è diventato più popolare.

Secondo un’unica fonte, il primo uso di “organico” per descrivere questa forma di agricoltura si trovava nel libro Look to the Land di Lord Northbourne, pubblicato nel 1940. Northbourne usa il termine per caratterizzare le aziende agricole che usano metodi di “agricoltura humus”, perché li percepisce come imitatori dei flussi di nutrienti ed energia negli organismi biologici – “…un insieme vivente equilibrato, ma dinamico. “Pertanto, la parola “organico” era intesa e utilizzata per descrivere il processo e la funzione all’interno di un sistema agricolo, non la natura chimica dei materiali fertilizzanti utilizzati e non l’aderenza a una nozione screditata di nutrizione delle piante.

I danni all’ambiente sono stati riconosciuti per la prima volta nel 1938, quando il “topsoil” (terriccio) venne spazzato via dalle Grandi Pianure, lasciando decine di migliaia di agricoltori senza lavoro, secondo un rapporto dell’USDA (U.S. Department of Agricolture), “Soils and Men“1, che evidenziò il modo in cui le pratiche agricole impoverivano i terreni coltivabili. Questo rapporto è una relazione che anticipa le ragioni per un’alternativa sostenibile in agricoltura. Più tardi, nel 1945, J.I. Rodale, forse la figura più influente nel movimento americano del cibo organico, pubblicò un articolo che metteva in guardia sui pericoli posti dal DDT e più tardi Rachel Carson ampliò la critica al DDT nel suo libro “Primavera silenziosa”. Tutte queste pietre miliari crearono una piattaforma su cui il movimento biologico americano poté crescere.

1510s, organic “serving as an organ or instrument,” from Latin organicus, from Greek organikos “of or pertaining to an organ, serving as instruments or engines,” from organon “instrument” (see organ).

Sense of “from organized living beings” is first recorded 1778 (earlier this sense was in organical, mid-15c.).

Meaning “free from pesticides and fertilizers” first attested 1942. Organic chemistry is attested from 1831.

Earlier was organical “relating to the body or its organs” (mid-15c.) and Middle English had organik, of body parts, “composed of distinct substances, possessing distinct properties” (c. 1400).

organ (n.) The biological meaning “body part of a human or animal adapted to a certain function” is attested from late 14c., from a Medieval Latin sense of Latin organum. From early 15c. as “a tool, an instrument.” The broad, etymological sense of “that which performs some function” is attested in English from 1540s. By 1788 as “a medium, an instrument of communication.” Organ-grinder, “strolling musician who ‘grinds’ music on a barrel-organ” is attested by 1803.

organically (adv.)

1680s in reference to bodily organs; 1862 in reference to living beings; 1841 as “as part of an organized whole;” from organic. From 1971 as “without the use of pesticides, etc.”

inorganic (adj.)

1727, “without the organized structure which characterizes living things,” from in- (1) “not, opposite of” + organic (adj.). Inorganical in this sense is from 1670s. Meaning “not arriving by natural growth” is recorded from 1862.

The term “humus farming” went out of vogue in the 1940s as the term “organic” becam more popular. According to one source, the first use of “organic” to describe this form of agriculture was in the book “Look to the Land”, by Lord Northbourne, published in 1940 Northbourne uses the term to characterize farms using humus farming methods, because he perceived them to mimic the flows of nutrients and energy in biological organisms – “…a balanced, yet dynamic, living whole.”Therefore, the word “organic” was intended and used to describe process and function within a farming system – not the chemical nature of the fertilizer materials used, and not adherence to a discredited notion of plant nutrition.

Detriments to the environment were first recognized in 1938, as topsoil blew off the Great Plains, leaving tens of thousands of farmers destitute, a USDA report, Soils and Men, discussed the way agricultural practices depleted the soil. This report an early argument for a sustainable alternative in agriculture. Later in 1945, J.I. Rodale, perhaps the most influential figure in the American organic food movement published an article warned about the dangers posed by DDT and later Rachel Carson expanded the criticism of DDT in her book Silent Spring. All these milestones, created a platform upon which the American organic movement could grow.

Nella breve storia dell’umanità la parola “organic” è una piccola infante. Non parliamo, poi, del nostro “biologico”. Eppure sembra che ci siano da sempre.

Fonti:

George Kueppe, A Brief Overview of the History and Philosophy of Organic Agriculture, Kerr Centre, 2010;

https://www.etymonline.com/;