Qualcosa che potrebbe stare per qualcos’altro: due parole sul “mi piace/dito all’insù” di facebook.

Ferdinand de Saussure

Mi piace e pollice all’insù” (o forse no)

Qualche giorno fa un’amica mi chiede di rendere conto di un “mi piace/pollice all’insù” dato su facebook ad una pagina istituzionale di una associazione di sommellerie. La domanda, quanto mai inattesa, coinvolge il senso e le ragioni di quel “mi piace” con tutte le condizioni esplicite ed implicite del gesto: nella sostanza mi si reclamano le ragioni di tale apprezzamento in ragione del fatto che le modalità comunicative di quell’associazione utilizzano delle immagini alquanto stereotipate, scorrete (impugnatura del bicchiere) e con richiami espliciti di tipo sessista/maschilista (una ragazza molto bella dallo sguardo ammiccante). Se, immediatamente, ho ritenuto la domanda spiazzante perché interessava un piano non necessariamente motivabile in termini di condivisione valoriale attraverso il processo dell’apposizione “mi piace/ pollice all’insù” (e spiegherò il perché), successivamente ho ritenuto che l’accaduto potesse darmi, al contrario, la ragione per approfondire la questione. Perché la domanda penetra in un punto scoperto del sistema. O, forse, sarebbe meglio dire che la domanda interessa più relazioni semantiche legate al linguaggio verbale/segni.

Segno, simbolo, denotazione e connotazione.

Umberto Eco, in “Semiotica e filosofia del linguaggio” (Einaudi, 1984:12) scrive a proposito dei segni: «Un tale ha all’occhiello un distintivo con una falce e un martello. Si è di fronte a un caso di “significato inteso” (quel tale vuole dire che è comunista), di rappresentazione pittorica (quel distintivo rappresenta “simbolicamente” la fusione tra operai e contadini) o di prova inferenziale (se porta quel distintivo, allora è comunista)?» Qualcosa diventa un segno solo se qualcuno lo interpreta come qualcosa che sta per qualcos’altro. I segni, nella loro varietà, assolvono tutti alla stessa funzione: quella di rendere significante (e sensata) la nostra vita associata.

E ancora: «Ma se si può fare una metafora (cfr. l’articolo «Metafora» in Enciclopedia Einaudi, IX, pp. 191-236) e chiamare il leone /re della foresta/, aggiungendo quindi a «leone» una figura di «umanità», e riverberando sulla classe dei re una proprietà di «animalità», questo accade proprio perché sia /re/ sia /leone/ preesistevano come funtivi di due funzioni segniche in qualche modo codificate. Se non esistessero, prima del testo, segni (espressione e contenuto), ogni metafora altro non direbbe se non che una cosa è una cosa. Invece dice che quella cosa (linguistica) è al tempo stesso un’altra. Quello che c’è di fecondo nelle tematiche della testualità è tuttavia l’idea che, perché la manifestazione testuale possa svuotare, distruggere o ricostruire funzioni segniche preesistenti, bisogna che qualcosa nella funzione segnica (e cioè il reticolo delle figure del contenuto) appaia già come gruppo di istruzioni orientato alla costruibilità di testi diversi. Dunque, almeno nell’apparenza un significante rimanda pur sempre ad una serie di significati espliciti, dichiarati e ad una serie di significati impliciti, relazionali, di senso inteso o sottaciuto». (Umberto Eco, Segno e inferenza, Einaudi, Torino 1997: 21)

Apparentemente questa relazione biunivoca dovrebbe facilitare la nostra comprensione quantomeno sui significati intesi. In realtà le cose si complicano per diversi ordini di ragioni:

  1. Un’immagine, ma potrebbe dirsi lo stesso per un simbolo, è polisemica, rimanda cioè a differenti significati. La parola legata all’immagine o al simbolo ha la funzione di condurre il lettore attraverso alcuni significati e non altri: ha una funzione direttiva, repressiva e di ancoraggio ideologico. Ad esempio la didascalia di una foto.
  2. Di fronte ad un messaggio di prima intenzione (denotativo), “casa”, ovvero “costruzione eretta dall’uomo per propria abitazione”, ci sono sistemi di secondo senso (connotativi): “protezione”, “famiglia”, “patria”, “confini” fisici e relazionali…: «Questa elaborazione, talora palese, talora dissimulata, razionalizzata, è molto vicina a un’autentica antropologia storica. […] Dal canto suo il significato di connotazione ha un carattere ad un tempo generale, globale e diffuso: è, se si vuole, un frammento di ideologia […]. Questi significati comunicano strettamente con la cultura, il sapere, la storia, ed è attraverso di essi, se così si può dire, che il mondo penetra il sistema. L’ideologia sarebbe insomma la forma dei significati di connotazione, mentre la retorica sarebbe la forma dei connotatori». (Roland Barthes, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino 2002)
  3. Il rapporto tra denotazione e connotazione è nella sua sostanza ambivalente e, nello stesso tempo, politico: la denotazione non è il primo significato, ma finge di esserlo. La connotazione, in breve, produce l’illusione della denotazione, l’illusione del linguaggio come trasparente e del significante e del significato come identici. Quando assimiliamo le denotazioni per la prima volta, ci posizioniamo anche all’interno dell’ideologia, imparando allo stesso tempo le connotazioni dominanti. In altre parole il significato esplicito e quelli impliciti fanno parte della stessa natura: il primo serve a naturalizzare i secondi e renderli a noi familiari.

Veniamo ora a quelle che sono le intenzionalità base o convenzionali che il sistema facebook riconosce al tasto “mi piace/pollice all’insù”.

1) Esplicito, convenzionale e denotativo: verbo intransitivo, riuscire gradito, bene accetto, rispondere pienamente ai gusti, alle esigenze, alle aspirazioni personali. Come il suo contrario (dispiacere), si costruisce spesso con prop. soggettiva o è usato impersonalmente (dizionario Treccani) Questa situazione si verifica sia nel caso in cui l’apposizione sia data ad una pagina istituzionale sia nel caso in cui venga dato ad una esposizione estemporanea legata o meno a fatti contingenti (una frase, un pensiero, una foto, una vignetta, una notizia…)

2) Esplicito, convenzionale e denotativo: condizione informatica per cui l’apposizione di tale simbolo consente un legame permanente, almeno fino a recessione dell’intenzionalità esplicita o al termine della nostra iscrizione, con la pagina istituzionale dedicata. In questo caso non si tratta più di un evento estemporaneo, ma di un legame “duraturo” con un progetto con cui si vuole in qualche modo strutturare un legame.

Connotazioni: legami impliciti e disaccordi non evidenti.

Nel secondo caso il gradimento non è necessariamente scontato: una persona può dare il suo assenso (mi piace) al collegamento con tale o tal altra pagina esclusivamente perché ne vuole rimanere in contatto. Si dà il caso dei siti istituzionali, politicamente affini o avversi, soltanto per il fatto che questo sistema relazionale (mi piace/mano con pollice all’insù) permette un costante aggiornamento informativo di ciò che l’altro fa e dice di fare o che semplicemente pensa.

Sia nel primo che nel secondo caso, rientrano tutte quelle modalità di relazione personale supportate da amicizia vera, presunta, finta, da interessi personali, da relazioni estemporanee, da reali condivisioni, da convenienze o da semplici atti di gentilezza disinteressata in cui il “mi piace/mano con pollice all’insù” corrisponde ad una o più di queste relazioni esplicite e implicite. In ognuno di questi casi il simbolo/verbo non è in grado di spiegare nessuna di queste volontarietà, ma solo di presupporle.

Pensiamo, poi, a quei casi in cui il “mi piace/pollice all’insù” designa intenzionalità opposte: uno degli esempi più palesi riguarda la morte di qualcuno. Nella maggior parte delle situazioni il “mi piace/pollice all’insù” non indica in alcun modo il piacere della notizia ricevuta quanto la condivisione sentita (cordoglio) dell’evento luttuoso che si è verificato. In altri casi, minori ma non insignificanti, il “mi piace/pollice all’insù” è quello che la volontà palese vuole significare: giubilo gaudente. Successe in grande numero per la notizia della morte di Bin Laden tanto per fare un esempio comprensibile e, come dicevo poc’anzi, per tanti altri piccoli o grandi eventi similari. Ma l’esempio potrebbe trasporsi in contenuti assolutamente differenti.

Connotazioni e peccati di omissione. Il “mi piace/mano con pollice all’insù” come fosse una nota a piè di pagina.

In un bellissimo libro dall’oggetto alquanto insolito, “La nota a piè di pagina* Una storia curiosa” (Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano 2000, pag. 20), Anthony Grafton scrive: “In Italia, per esempio, la nota spesso opera tanto per omissione quanto per ammissione. Il mancato riferimento a un particolare studioso o a un dato testo assume la portata di una dichiarazione polemica, di una damnatio memoriae, che la cerchia degli interessati immediatamente riconosce e decodifica. Ma la cerchia ha naturalmente una circonferenza ridotta. L’autore così strizza un occhio alla piccola comunità degli specialisti che conoscono quel linguaggio, e l’altro a quella assai più ampia degli storici e dei lettori che capitano, per caso, su una copia di una particolare rivista. Soltanto coloro che hanno memorizzato i puntini e i trattini del codice di citazione – un codice che muta, naturalmente, di ora in ora – leggeranno nelle omissioni le accuse e le polemiche. Ai non addetti le stesse note appariranno pacate e informative”.

Il “Mi piace/pollice all’insù” funziona, ovviamente secondo volontà del fruitore/commentatore/sodale e non dell’autore, in maniera similare: segna l’appartenenza ad una comunità; indica nell’autore un punto di riferimento imprescindibile, indipendentemente o meno dal contenuto espresso, rimarca i distinguo sia nei confronti di altri autori sia nei riguardi di comunità o individui che dal primo hanno preso e prendono le distanze. Un semplice “like” indica talora molto di più di quanto nel suo significato esplicito di piacevolezza voglia segnalare. In un sistema algebrico in cui “amicizia” sta per…, ma anche al posto di …, ogni funzione ad essa complementare o surrogata si dota delle stesse intenzionalità interpretabili in cui la ragione del gesto, al di fuori di una sua palese dichiarazione dell’interessato, resta priva di spiegazione. Non esiste tra simbolo/verbo (mi piace/ pollice all’insù), come abbiamo potuto vedere, un rapporto sostitutivo con l’intenzionalità dell’autore, ma solo un rapporto mediato col senso esplicito ed implicito che “facebook” assegna.

Il legame debole.

Altre volte, invece, il legame strutturato, ma bisognerebbe valutare caso per caso, è assai meno evidente e definito: il richiamo alla condivisione può essere dettato dal mero interesse; oppure ancora in riferimento e in luogo di una amicizia per cui si accorda un piacere non sulla base di quanto proposto; o semplicemente sugli effetti della relazione amicale in sé e così via. Diversi “mi piace/pollice all’insù” non presuppongo in itinere necessarie rivalutazioni da parte degli interessati: allo stesso modo con cui vengono accordati così possono rimanere per lungo tempo invariati, pur cambiando il contenuto della pagina “piaciuta” (nel mio caso non mi ero più occupato in alcun modo delle modalità comunicative di quella pagina allo stesso modo con cui non me ne occupo di molte altre a cui ho apposto per diverse ragioni sopra-elencate il “mi piace/pollice all’insù”). La mia, ovviamente, non può essere una giustificazione, né intende esserlo: diciamo che nel momento in cui si entra in un sistema comunicativo sovrastante si possono correre dei rischi più o meno prevedibili. Ma, ancora una volta, è il sistema di connotazione implicito nel mondo “facebook” che tiene dentro e naturalizza le sue denotazioni nella forma più ovvia: il “mi piace”. Da cui la domanda rivoltami dall’amica non virgolettata (è l’amica non virgolettata, la domanda sì).

Una breve digressione sul punteggio dei vini, numeri, chiocciole, faccine, bicchieri, soli o grappoli che siano.

Passare da un linguaggio verbale o segnico costruito intorno alla “langue” (Istituzione sociale e sistema di valori come parte sociale del linguaggio)e alla “parole”(combinazioni in base alle quali il soggetto parlante può utilizzare il codice della lingua per esprimere il suo pensiero personale) secondo il concetto dicotomico esplicitato da Saussure in “Cours de linguistique générale”(Losanna-Parigi, Payot, 1916), ad un simbolo grafico o ad un’immagine non è un tragitto di poco conto: non lo è per molte delle ragioni espresse qui sopra nonostante, come sapientemente riportato da Umberto Eco, questi siano delle convenzioni e dunque degli accordi segnici con cui delle comunità umane stringono delle relazioni operative. Pensiamo, anche solo per un momento ai voti scolastici: li comprendiamo nella loro essenza, sapendo che un quattro oltre che ad essere un rimando decisamente negativo potrebbe portare ad una sonora bocciatura, ma siamo in grado solo fino ad un certo punto di intendere il valore di senso che il soggetto erogante gli attribuisce, a meno che non espliciti a fianco una sequenza di “parole” socialmente comprensibili in un contesto valoriale (langue). E, neppure in questo caso, forse li capiremmo compiutamente. Quello che dobbiamo comunque cercare di comprendere, sia che si tratti di un “6–” o di un “83/100”, è il contesto di attribuzione sociale degli stessi, delle loro relazioni sociali e quindi politiche, e dunque economiche, e culturali all’interno di processi storici in cui i parametri di giudizio possono significativamente cambiare allo stesso modo con cui cambiano le relazioni di potere.

Breve corso di allontanamento dal vino

Primo giorno di scuola 1967
Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=5619644

Breve vademecum corsistico per allontanare, in poche mosse, chiunque dal vino. E alcune di queste mi capitarono.

  1. Imporre un alto costo al corso con relativa implementazione del budget attraverso l’acquisto obbligatorio di gadget e ammennicoli non desiderati; 
  2. Accogliere i corsisti in sale sovraffollate, calde, a visibilità ridotta nelle ultime file/banchi, ancora meglio se intercalate da colonne che ostruiscano la visuale;
  3. Usare aule dotate di luci al neon modello sale di attesa delle stazioni ferroviarie anni ‘80;
  4. Usare aule dotate di rimbombo tipico della grotta segreta di Ulisse sapientemente ampliato da apparecchi fonici appositi;
  5. Proporre sedili scomodi dotati di manubri improbabili e banchi auto-rovescianti;
  6. Proporre classi numerosissime con rapporto docente/discente di almeno 1/92;
  7. Affrontare lezioni mnemoniche, frontali, ripetitive, nozionistiche e centrate sulla lettura dettagliata di dati statistici sulla produzione e sugli affluenti di destra del nebbiolo e su quelli di sinistra del sangiovese;
  8. Parlare con voce piatta, monotona, leggermente cantilenante (beghine style);
  9. Proiettare cartine geografiche a mappatura orizzontale possibilmente colorate in maniera vivida (pastello);
  10. Servire vini mediocri e possibilmente difettosi a scopo didattico;
  11. Sminuire alcune zone produttive: ad esempio dire che i vini che finiscono in “-ino” sono vini del “belino”;
  12. Far compilare schede di valutazione dei vini spiegate con i canoni con cui si affrontano le scommesse Sisal/Totip;
  13. Rispondere in modo arrogante e con ampia sufficienza a domande esposte con estrema semplicità/ingenuità;
  14. Far intendere, nemmeno sotto le righe, che il relatore sa e che il discente non sa e che non saprà mai come sa lui/lei;
  15. Arrivare a lezione mezzi ubriachi e con cattiva digestione (che verrà ampliata dalle dotazioni acustiche rimbombanti);
  16. Chiamare alla lavagna un ignaro corsista privo di attitudini oratorie pubbliche e schernirlo di fronte alla platea; congedarlo con una pacca sulla schiena a mano aperta;
  17. Allontanarsi in bagno con la moglie/marito/amante/fidanzato/a di un corsista durante la pausa;
  18. Affrettare la chiusura;
  19. Allontanare la chiusura raccontando aneddoti personali e familiari non richiesti, oppure dilungandosi in un contenzioso con un corsista vivamente toccato dai vini del “belino”;
  20. Andarsene senza salutare;
  21. Salutare svogliatamente;
  22. Salutare solo quelli belli/belle

TRUMPING. I dazi sul vino e sulle altre cose visti da Sun Tzu, Karl Marx, Friedrich Engels e, più modestamente, dal sottoscritto

Di 663highland – Opera propria, CC BY 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4876792

Iniziamo con il grande filosofo, generale e stratega della guerra, Sun Tzu, nato Sūn Wǔ (孫武), zì: Chángqīng (長卿); (544 a.C. – 496 a.C.) e il suo manuale militare “L’arte della guerra”. I riferimenti alla contemporaneità sono miei, ma le intuizioni tutte sue. Ricordo inoltre che, nella mia visione complessiva delle cose, per guerra s’intende non solo la parte combattuta con armi, eserciti, droni, missili terra-aria e balestre ma, di buon grado, tutte le forme di scontro economico, commerciale, sociale, culturale e politico che si verifichino in presenza di strumenti esplicitamente atti ad offendere, opprimere e sfruttare. Le guerre guerreggiate, le guerre di sterminio, le guerre di deprivazione, in questa graduatoria della crudeltà, la fanno da padrone. Le altre possono fare male ed essere condizione perché le prime trovino un terreno fertile di accrescimento e di attuazione.

Rimaniamo nell’ambito europeo.

Situazione generale: “Quando uno Stato (Europa) è racchiuso fra tre altri Stati (USA, Cina e Russia) che se lo contendono, il suo territorio è focale. Chi ne assume per primo il controllo riuscirà anche a conquistare Tutto sotto il Cielo”

USA, Russia e Cina: “In guerra è meglio conquistare uno Stato intatto. Devastarlo significa ottenere un risultato minore”.

USA, Russia e Cina: “Il loro scopo primario deve essere quello di riuscire a prendere Tutto-Sotto-Il-Cielo: così, non dovranno mantenere le truppe di occupazione e i loro profitti saranno assoluti. Questa è la regola per la strategia dell’assedio.”

USA, Russia e Cina: “Ricorda, la guerra si fonda sull’inganno. Il movimento si fonda sui vantaggi che ne vogliono conseguire. La divisione e riunione delle tue truppe si fondano sulla situazione che vogliono determinare”.

Europa: “Tattica senza strategia è il rumore prima della sconfitta”.

La guerra commerciale e il protezionismo.

Ricordo qui, brevemente, che il protezionismo non è un’invenzione di Trump. È stato usato in passato in numerose occasioni da tutti gli Stati senza alcuna eccezione, vuoi per cercare di proteggere e sviluppare la propria economia mercantilistica, vuoi per tentare di affossare le risorse altrui. Neanche il libero scambio è un’invenzione di Macron o della Merkel: solitamente è l’altra faccia della medaglia ed è stato adoperato per intenti similari, ma al contrario: sono lo lo yin e lo yang dell’economia capitalistica.

Secondo Karl Marx, ne “Il Capitale”, “il sistema protezionistico è stato un espediente per fabbricare fabbricanti, per espropriare lavoratori indipendenti, per capitalizzare i mezzi nazionali di produzione e di sussistenza, per abbreviare con la forza il trapasso dal modo di produzione antico a quello moderno”.

Per Friedrich Engels, nella “Prefazione all’edizione inglese del discorso di Marx sulla questione del libero scambio” del 1888, “il protezionismo è, nella migliore delle ipotesi, un circolo vizioso senza fine e non si sa mai quando finisce. Proteggendo un settore, si danneggiano direttamente o indirettamente tutti gli altri, e quindi si devono proteggere anche loro. Ma in questo modo si danneggia di nuovo il settore che era stato protetto all’inizio che richiederà degli indennizzi, e questi indennizzi avranno effetti, come nel primo caso, su tutti gli altri settori, giustificando le loro richieste di indennizzo e così via all’infinito.”

Così concluse la sua arringa Karl Marx sul libero scambio: “In generale attualmente il protezionismo è misura conservatrice, mentre il libero scambio agisce come forza distruttiva. Esso distrugge le vecchie nazionalità e spinge agli estremi l’antagonismo fra proletariato e borghesia. Il libero scambio affretta la rivoluzione sociale. È solo in questo senso rivoluzionario, o signori, ch’io voto pel libero scambio”.

Per finire, posso dire che sono assai meno fiducioso di Carletto sulle magnifiche sorti e progressive della rivoluzione sociale. Anzi, sarà che sono passate le feste, ma il mio vuoto/pieno – pieno/vuoto è totalmente in disequilibrio. Vedo solo accelerazioni, ma dove queste ci portino non lo so affatto. Mi sembra di intuire soltanto una cosa: la guerra dei dazi fa parte di una guerra molto più grande.