Il vino e il suo prezzo. Franco Fortini a Mosca

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Parte prima.

La merce per essere tale deve rimanere merce: non può dotarsi di suppellettili ideologiche, di forme di valore che la rendano esente dal suo statuto d’uso e commerciale. Non si scappa da Marx: «Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi» (Karl Marx, Il capitale, Libro I). Il vino ha sempre cercato di sottrarsi a questa immancabile predestinazione, come altri beni (i libri ad esempio), ammantandosi, di volta in volta, di storia, di relazione, di fede, di ancestralità, di profondità, di  silenzio. Ma poi vi è qualcuno, da qualche parte, che ci ricorda che il vino è immancabilmente merce, valore e sicuramente denaro, ovvero prezzo. La censura, e il potere politico da cui si sorregge e trae linfa vitale per posizionare corpi e menti nei nuovi apparati della riproduzione del parassitismo sociale, non fa altro che spingere la merce-vino nei suoi anfratti più desolanti, quelli della causa-effetto: il vino è bottiglia, etichetta, liquido rosso, bianco o rosato, scontrino, esiti collaterali. Poiché il potere-censore è anche pusillanime, non è interessato, nella sua infinita bassezza, a che l’oggetto –merce – vino riacquisisca il suo feticismo simbolico. Per far questo dovrebbe proibirlo del tutto. Ma non vuole, più che non può: perché la merce è comunque denaro, tassazione (Iva inclusa) e posizionamento politico. Perciò il potere censore redarguisce: bere fa male; fumare fa male; giocare fa male. Ma non li vieta: avverte soltanto, nella sua infinita bontà e nel suo infinito bisogno di denaro.

Parte seconda.

Mi è venuto in mente, a tal proposito, un bellissimo scritto del 1973 di Franco Fortini, ora raccolto nei Meridiani Mondadori, che s’intitola, appunto, “Il prezzo”. Fortini racconta di quando si recò alla biblioteca ‘Lenin’ di Mosca e chiese con garbo alla giovane bibliotecaria quale modulo si dovesse riempire per avere in lettura un volume di Trockij. Lei arrossì fino alle tempie: «Quegli scritti tuttora interdetti testimoniano però che in URSS il rapporto tra parola e azione continua ad essere più rischioso e autentico che da noi. Come per due secoli quella russa, nessuna nazione moderna ha avuto un conflitto così mortale fra pensiero e potere; nessuna, tanti scrittori ammazzati, condannati, esiliati…(…) Tanto fra chi ha il potere quanto fra chi lo combatte, sembra che in URSS ci sia ancora la persuasione che la verità muova i corpi, possa agire. Quando gli scritti di Trockij saranno in edizione economica nelle edicole sovietiche, vorrà dire che avranno subìto la stessa riduzione a “cultura” che, nelle nostre, hanno subìto Nietzsche, Lenin, i documenti di Auschwitz e il diario di Guevara. Per agire, la verità si cercherà allora altre vie[1]

I rapporti tra le cose e i rapporti con le cose sono rapporti sociali tra le persone: il prezzo, non di meno di altre varianti, racconta parte di questa relazione e per agire, la verità si cercherà allora altre vie.


[1] Franco Fortini, Il prezzo (1973) in Saggi ed Epigrammi, Meridiani Mondadori,  Milano 2003, pag. 2008

Forse non è così necessario che raccontiate quanta solforosa c’è nel vino. Per la critica della ragione tecnica

Claude Monet – Impression, soleil levant, 1872

Non possiamo immaginare il racconto di un piatto, di un dipinto, di un pezzo musicale, di un film, di una foto, di un romanzo attraverso la frammentazione dei passaggi tecnici che lo hanno visto realizzarsi. Possiamo, al contrario, immaginarci che la parte tecnica abbia un ruolo, non secondario sicuramente, dentro il processo di comprensione e in accordo con un più ampio spirito che accompagna l’opera e che aiuti ad abbracciare un’epoca, le conformità e le difformità estetiche, le pretese e i costi di realizzazione, i passaggi e le incursioni simboliche e sociali. La tecnica, assoggettata alla volontà dell’uomo, spezza storicamente, in maniera graduale o con notevole dirompenza a seconda dei casi, tutti i limiti spaziali e temporali inizialmente limitati al solo movimento corporeo: l’estendersi dell’azione (tecnica), mentre modifica il suo significato, costruisce la possibilità di una nuova foggia del mondo. Il fine, che poi è il postulato della tecnica, non solo permane come finalità in sé, ma è la condizione per cui tutto si tramuta in oggetto. La suddetta finalità richiede che la volontà si inscriva in un ordine estraneo ad essa: la “scoperta” della natura  significa, dunque, riconoscimento e rivelazione. Nel passaggio umano al primo strumento tecnico è insito il germe del dominio, del dominio sul mondo: “lo strumento compie nella sfera oggettuale la stessa funzione che è rappresentata nella sfera del logico (terminus medius)” (Ernst Cassirer, Critica della ragion tecnica). Ciò che cambia è lo sguardo: l’intenzione fonda la previsione (visione in anticipo) e con essa la possibilità di realizzare un fine lontano spazialmente e temporalmente.

Alcuni filosofi dello scorso secolo si domandano se e in che modo la creatività tecnica per la costituzione, l’assicurazione e il consolidamento della visione “oggettiva” e “oggettuale” del mondo, si tramuti nel suo opposto, ovvero nello straniamento dell’uomo da se stesso. Non sto qui facendo riferimento in modo esclusivo al processo di alienazione, nel suo duplice significato di reificazione e di feticismo, ma in modo particolare a quella autocoscienza umana, apparentemente inscritta nella luce della superiorità sul mondo che Ludvig Klages include, al contrario, nella “luce di una schiavitù della vita sotto il giogo del concetto”. Se vogliamo è come provare a condurre l’alienazione marxiana, ovvero “l’arcano della forma di merce consiste (…) che, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro..” (Karl Marx, Il Capitale), nella sua più radicale proposizione di libertà, il gioco: “un singolo lancio di palla da parte di un giocatore rappresenta un trionfo della libertà umana sull’oggettività che è infinitamente maggiore della conquista più strepitosa del lavoro tecnico” (Herbert Marcuse, Cultura e società).

D’altronde, per dirla alla Gramsci, “è anche vero che «l’uomo è quello che mangia», in quanto l’alimentazione è una delle espressioni dei rapporti sociali nel loro complesso, e ogni raggruppamento sociale ha una sua fondamentale alimentazione, ma allo stesso modo si può dire che «l’uomo è il suo appartamento», «l’uomo è il suo particolare modo di riprodursi cioè la sua famiglia», poiché l’alimentazione, l’abbigliamento, la casa, la riproduzione sono elementi della vita sociale in cui appunto in modo più evidente e più diffuso (cioè con estensione di massa) si manifesta il complesso dei rapporti sociali”. Ed è per questo che Gramsci ritiene che la natura umana non possa ritrovarsi in nessun uomo particolare ma in tutta la storia del genere umano (e il fatto che si adoperi la parola «genere», di carattere naturalistico, ha il suo significato) mentre in ogni singolo si trovano caratteri messi in rilievo dalla contraddizione con quelli di altri: “Tutto è politica, anche la filosofia o le filosofie (confronta note sul carattere delle ideologie) e la sola «filosofia» è la storia in atto, cioè è la vita stessa” (Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Quaderno 7).

Se qualcosa è cambiato, in modo radicale, negli ultimi anni è proprio la concezione stessa di politica, che non solo ha perso gradualmente la sua visione integrativa dell’individuo nella società, ma che ha assunto, sotto la pressione tecnica e tecnologica, il piano dell’astrazione analitica e dell’oggettività avalutativa, come se queste avessero una loro capacità esplicativa al di fuori delle storie in atto e delle relazioni sociali che le hanno costruite. La razionalità tecnica separa l’azione dal suo contenuto etico e in questo modo si realizza come iper-ideologia (il governo dei tecnici).

Per concludere, occorre ritrovare un nuovo umanesimo che sappia ricongiungere spirito, azione e visione del mondo. Ed è per questo che, forse, e solo forse, potremmo percepire alcune piccole verità dei vignaioli sull’uso della solforosa prima dell’imbottigliamento del vino o sull’uso dei lieviti indigeni o selezionati, e pure sul lungo affinamento in botti di rovere…, solo a partire dall’ultimo romanzo letto, dalla visione di un film, da un vinile usurato, dai cambiamenti di idee, da un quadro alla parete, dalle esposizioni bancarie, dai mutui e fidejussioni, dai caratteri associativi o dissociativi presenti in determinato territorio, dai guadagni desiderati e attesi, dalle parlate e dai dialetti, da un sogno notturno, dalle paure, dalle gioie… Dalla vita insomma. 

Il vino del futuro agisce già su quello del presente

Di Quinn Publishing / Kenneth Fagg – http://thegoldenagesite.blogspot.com/search/label/Ken%20Fagg, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=44146775

Debbo ricondurmi ancora una volta a Karl Marx studioso e non tanto alle sue doti di chiaroveggenza, mai avute per la verità, né alle sue ipotesi di società futuribili che lasciano ampi spazi di interpretazione e di possibile confutazione previsionale. Sia nei “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica – Grundrisse” che nei “Manoscritti economico filosofici”, Marx fece riferimento alla società futura richiamando esplicitamente il fatto che elementi propri di ciò che sarà non solo debbono già essere presenti, ma che essi agiscono affinché lo stato delle cose cambi in modo radicale. I suoi punti di riferimento furono l’analisi dei i modi e dei rapporti di produzione, il partito e le classi sociali. Qualche decennio più tardi Lenin parlò della possibilità di un cambiamento radicale qualora l’involucro non dovesse più corrispondere al contenuto dello stesso (L’imperialismo. Fase suprema del capitalismo). Il futuro, attraverso diversi segnali, siano essi elementi produttivi, culture organizzative, tecnologie o altro agisce, dunque, a ritroso nel presente e lo conferma nei suoi aspetti determinanti destinati ad imporsi. I meccanismi non sono certo facili da scorgere e non accadono in maniera casuale: proprio perché sono intellegibili, profondamente umani e strettamente correlati tra loro, la miglior critica è quella che ci permette di intuire questi elementi e di trarne un relativo vantaggio d’azione. Ma questo dice anche altre cose: un’azione che anticipi i tempi fecondi rischia non solo di non essere compresa, ma anche di fallire, come un’eterna Cassandra, nei suoi esiti più realizzabili. Un’azione attesa al contrario, eternamente posticipata, a sua volta, si configura come inazione. L’azione migliore è quella che scorgendo alcune variabili e facendole proprie, anticipa gli accadimenti e cerca di condurli verso una propria visione politica (etica).

Dunque il vino.

Due sono e questioni che mi sono venute in mente: la prima è di carattere generale e investe sostanzialmente le modalità, in termini macro, con cui alcuni fattori incidono sulla produzione. In questo caso il futuro, attraverso i cambiamenti climatici, le concentrazioni produttive, le sensibilità ecocompatibili, biologiche e naturali, i mercati, i prezzi, il benessere, la salute, il controllo sociale, le evoluzioni tecnologiche e di questo passo, agisce già in maniera significativa su quelli che sono delle condizioni che solo un decennio fa erano appena accennate. I caratteri mutanti dell’oggi prevedono rapide accelerazioni, anch’esse impensabili sino a pochi anni passati, di status.

La seconda cosa è singola: di quel vino, di quell’annata, di quel produttore, da quei vitigni di quel o quei luoghi. Spesso si fa riferimento alla giovanile esuberanza di un certo vino, di cui si dice che “è un bambino”, facendo così intendere che i suoi caratteri evolutivi lo porteranno ad una piacevole pubertà e, coerentemente, ad una compiacente, rotonda e armonica maturità. Talvolta succede, ma altre volte no. Lo si può comprendere? Sì, anche se non sempre pienamente, a patto che si consideri quel futuro che già agisce ora in quel vino e si valutino le circostanze presenti che lo traghetteranno verso una nobile evoluzione. Tutto il resto permettendo.

TRUMPING. I dazi sul vino e sulle altre cose visti da Sun Tzu, Karl Marx, Friedrich Engels e, più modestamente, dal sottoscritto

Di 663highland – Opera propria, CC BY 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4876792

Iniziamo con il grande filosofo, generale e stratega della guerra, Sun Tzu, nato Sūn Wǔ (孫武), zì: Chángqīng (長卿); (544 a.C. – 496 a.C.) e il suo manuale militare “L’arte della guerra”. I riferimenti alla contemporaneità sono miei, ma le intuizioni tutte sue. Ricordo inoltre che, nella mia visione complessiva delle cose, per guerra s’intende non solo la parte combattuta con armi, eserciti, droni, missili terra-aria e balestre ma, di buon grado, tutte le forme di scontro economico, commerciale, sociale, culturale e politico che si verifichino in presenza di strumenti esplicitamente atti ad offendere, opprimere e sfruttare. Le guerre guerreggiate, le guerre di sterminio, le guerre di deprivazione, in questa graduatoria della crudeltà, la fanno da padrone. Le altre possono fare male ed essere condizione perché le prime trovino un terreno fertile di accrescimento e di attuazione.

Rimaniamo nell’ambito europeo.

Situazione generale: “Quando uno Stato (Europa) è racchiuso fra tre altri Stati (USA, Cina e Russia) che se lo contendono, il suo territorio è focale. Chi ne assume per primo il controllo riuscirà anche a conquistare Tutto sotto il Cielo”

USA, Russia e Cina: “In guerra è meglio conquistare uno Stato intatto. Devastarlo significa ottenere un risultato minore”.

USA, Russia e Cina: “Il loro scopo primario deve essere quello di riuscire a prendere Tutto-Sotto-Il-Cielo: così, non dovranno mantenere le truppe di occupazione e i loro profitti saranno assoluti. Questa è la regola per la strategia dell’assedio.”

USA, Russia e Cina: “Ricorda, la guerra si fonda sull’inganno. Il movimento si fonda sui vantaggi che ne vogliono conseguire. La divisione e riunione delle tue truppe si fondano sulla situazione che vogliono determinare”.

Europa: “Tattica senza strategia è il rumore prima della sconfitta”.

La guerra commerciale e il protezionismo.

Ricordo qui, brevemente, che il protezionismo non è un’invenzione di Trump. È stato usato in passato in numerose occasioni da tutti gli Stati senza alcuna eccezione, vuoi per cercare di proteggere e sviluppare la propria economia mercantilistica, vuoi per tentare di affossare le risorse altrui. Neanche il libero scambio è un’invenzione di Macron o della Merkel: solitamente è l’altra faccia della medaglia ed è stato adoperato per intenti similari, ma al contrario: sono lo lo yin e lo yang dell’economia capitalistica.

Secondo Karl Marx, ne “Il Capitale”, “il sistema protezionistico è stato un espediente per fabbricare fabbricanti, per espropriare lavoratori indipendenti, per capitalizzare i mezzi nazionali di produzione e di sussistenza, per abbreviare con la forza il trapasso dal modo di produzione antico a quello moderno”.

Per Friedrich Engels, nella “Prefazione all’edizione inglese del discorso di Marx sulla questione del libero scambio” del 1888, “il protezionismo è, nella migliore delle ipotesi, un circolo vizioso senza fine e non si sa mai quando finisce. Proteggendo un settore, si danneggiano direttamente o indirettamente tutti gli altri, e quindi si devono proteggere anche loro. Ma in questo modo si danneggia di nuovo il settore che era stato protetto all’inizio che richiederà degli indennizzi, e questi indennizzi avranno effetti, come nel primo caso, su tutti gli altri settori, giustificando le loro richieste di indennizzo e così via all’infinito.”

Così concluse la sua arringa Karl Marx sul libero scambio: “In generale attualmente il protezionismo è misura conservatrice, mentre il libero scambio agisce come forza distruttiva. Esso distrugge le vecchie nazionalità e spinge agli estremi l’antagonismo fra proletariato e borghesia. Il libero scambio affretta la rivoluzione sociale. È solo in questo senso rivoluzionario, o signori, ch’io voto pel libero scambio”.

Per finire, posso dire che sono assai meno fiducioso di Carletto sulle magnifiche sorti e progressive della rivoluzione sociale. Anzi, sarà che sono passate le feste, ma il mio vuoto/pieno – pieno/vuoto è totalmente in disequilibrio. Vedo solo accelerazioni, ma dove queste ci portino non lo so affatto. Mi sembra di intuire soltanto una cosa: la guerra dei dazi fa parte di una guerra molto più grande. 

Il consumatore, il prodotto, il suo feticcio e l’amante.

Di Paolo Veronese, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=51965150

Da un po’ di anni a questa parte al feticcio della merce si è poco a poco sostituito un altro mito pagano di adorazione reificata: il consumatore. Architrave e palinsesto della nuova economia della massificazione produttiva, il consumatore è, allo stesso tempo, giudice ed imputato di un sistema di valutazione che, già da un po’ di anni, ha trasferito la democrazia al consumo, lo scontro di idee al giudizio anticipato (pre-giudizio) dell’acquistato, del digerito o dell’assimilato.

Il consumatore è un cliente che ha sempre ragione sino a prova contraria o torto, marcio a volte, fin tanto che il torto stesso, sovente svilito da questioni morali, non è divenuto esso tesso prova della incapacità di giudizio. Il consumatore medio, moderno d’un tratto, viene tirato per la giacca purché questa sia di gomma e che torni indietro il più velocemente possibile. Epifenomeno di una metafisica dell’indimostrabile, numero statistico di bisogni indotti, il consumatore viene continuamente riplasmato a immagine e somiglianza non tanto del prodotto, perché sarebbe troppo facile, ma della relazioni che il prodotto e la produzione sottendono: “L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti che esiste al di fuori di essi(…) Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi” (da Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Prima sezione, Cap. I). Il vino, dunque, ogni vino ci parla di questo rapporto. Il prezzo, ogni prezzo, ci parla di questo rapporto. Il luogo in cui viene prodotto, stoccato, distribuito e venduto ci parla di questo rapporto. E non di meno coloro che ne parlano e ne scrivono.