Enoturismo. La vita, l’amore e le vigne.

Sigmund Freud

Quanto la politica debba alla psicanalisi e quanto questa debba alla politica fa parte di uno dei misteri poco gloriosi e suscettibili di ravvedimento della nostra ultraterrena vita campestre. Quando viene colmato un vuoto legislativo ci si sente tutti un po’ meglio: la fase riempitiva chiude la perdita dell’oggetto investito narcisisticamente allo stesso modo con cui il Ferrero Rocher badava egregiamente a quel leggero languorino della contessa con il cappello a falda larga e di giallo vestita. L’Ambrogio di turno, il colmatore del vuoto, prospera nelle vesti del legislatore proponente: questa volta è toccato all’Enoturismo (disegno di legge 2616). “Le cantine potranno fatturare degustazioni, visite in cantina, pacchetti enoturistici e vendemmie esperienziali”: così esplicita Winenews. Basta aggiungere all’agro un tocco di villeggiatura: “Art.1 comma 2 Con il termine «enoturismo» o «turismo del vino» si intendono tutte le attività di conoscenza del prodotto vino espletate nel luogo di produzione, quali visite nei luoghi di coltura, di produzione o di esposizione degli strumenti utili alla coltivazione della vite, degustazione e commercializzazione delle produzioni vinicole locali, iniziative a carattere didattico e ricreativo nell’ambito delle cantine.
3. Le attività di ricezione e di ospitalità, compresa la degustazione dei prodotti aziendali e l’organizzazione di attività ricreative, culturali e didattiche, svolte da aziende vinicole, possono essere ricondotte alle attività agrituristiche di cui all’articolo 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 96, secondo i princìpi in essa contenuti e secondo le disposizioni emanate dalle regioni”.

Quello che non si comprende appieno è se il vuoto da riempire sia quello legislativo, o se la legislazione diventi un espediente formale, di tipo fiscale (di cui all’articolo 5 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), per rendere evidente tutto ciò che, nel mondo del vino, manteneva la sua più esplicita informalità. I contorni del vuoto assomigliano ai confini della galassia di Orione. Dare la possibilità di fare una cosa rientra nel novero nelle strade lastricate di buone intenzioni ma, dal punto di vista concettuale, stravolge la nozione di senso della pratica stessa: far passare i costi di promozione diretta dal produttore al cliente, almeno nelle intenzioni implicite del legislatore, comporterà una serie di ricadute parzialmente prevedibili e forse non sempre auspicabili. Si dice che si vuol fare come in Francia: ma da quelle parti “il vino è sentito dalla come un bene che le è proprio, allo stesso titolo delle sue trecentosessanta specie di formaggi e della sua cultura. E’ una bevanda totem, pari al latte della mucca olandese o al tè cerimonialmente sorbito dalla famiglia reale inglese. (…) Ma particolare della Francia è il fatto che il potere di conversione del vino non è mai dato apertamente come fine: altri paesi bevono per ubriacarsi, e tutti lo dicono; in Francia, l’ubriachezza è una conseguenza, mai un fine; la bevanda è sentita come un dispiegamento di un piacere, non come la causa necessaria di un effetto voluto: il vino non è soltanto un filtro, è anche atto durevole del bere: il gesto assume un valore decorativo, e il potere del vino non è mai separato dai suoi modi di esistenza (…)” (Rolad Barthes, Il vino e il latte in Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994; ed. orig. 1957)” Per dirla in altri termini: in Francia il vino è un progetto nazionale. Di spesa soprattutto. La Francia è un paese deduttivo, senza alcun dubbio: universalizza, ipotizza, ipostatizza, organizza e struttura. Qui in Italia prevale, invece, un approccio induttivo: viene stimolato il particolare affinché il generale, casomai e caso-voglia, si ponga da raccordo tra le parti emerse con azioni combinate e contemporanee: le collaborazioni e la cooperazione di più elementi in una stessa attività, o per il raggiungimento di uno stesso scopo o risultato, dovrebbero comportare un rendimento maggiore di quello ottenuto dai varî elementi separati. Ma il generale è già così intriso di particolarità separate, di micro e macro poteri strutturati e strutturanti che è più facile uscire che starci dentro; o starci dentro e fare finta di niente; oppure stare fuori e continuare con le variopinte informalità che è poi la ragione per cui si scappa dalla città.

Ecco che allora, in fuga dalle metropoli, orde di enoturisti feroci e ostinati si butteranno in vasche di cemento ricolme di fecce fini, godranno di vendemmie ascetiche, di cavalcate selvagge su trattori imbizzarriti e di sovrumani calli che potranno mostrare, al ritorno da sagaci vacanze contadine in cui ogni esperienza avrà un costo e ogni costo il suo prezzo, ai colleghi cittadini assai sbiaditi e un po’ trascurati.

 

 

Lo stallo catalano o della “partita patta”

 

Secondo il regolamento della F.I.D.E (Federazione Internazionale degli Scacchi) una partita è patta quando si verificano le seguenti situazioni:

  1. a. La partita è patta quando il giocatore che ha il tratto non ha mosse legale e il suo Re non è sotto scacco. Si dice che la partita finisce per ‘stallo’. Ciò termina immediatamente la partita verificato che la mossa che ha prodotto lo stallo sia una mossa legale. Secondo la Corte Costituzionale Madrilena la mossa indipendentista catalana non è legale, per cui il primo incontro viene vinto dagli unionisti con lo scioglimento del campo avversario e l’indizione delle nuove elezioni. La vittoria è stata decisa da un tribunale nazionale, benché la controparte avesse affermato che la piena legalità di un mezzo riconosciuto dal proprio ordine statuale. La monarchia madrilena non riconosce alcun altra forma regale al di fuori di se stessa. Seguono gli arresti degli Alfieri, dei Cavalli e delle Torri catalani. Il “re” designato fugge in Belgio
  2. b. La partita è patta quando si raggiunge una posizione in cui nessuno dei due giocatori può dare scaccomatto all’avversario con una qualsiasi serie di mosse legali. Si dice allora che la partita finisce in ‘posizione morta’. Ciò termina immediatamente la partita, verificato che la mossa che ha prodotto la ‘posizione morta’ sia una mossa legale. Questo, a quanto pare, è il risultato delle elezioni catalane: vincono tutti. Il paese è spaccato in due, anche se con un apparente vantaggio di una parte sull’altra: il favore numerico dei pedoni catalani non consente, per via legale, di dare scaccomatto al re Madrileno
  3. c. La partita è patta per accordo tra i due giocatori durante la partita. Ciò termina immediatamente la partita. Di solito sono accordi che passano nelle retrovie della partita, quando i due giocatori, dopo essersi insultati davanti all’arbitro, trovano un accordo di massima nei bagni della società scacchistica che li ospita. Alla luce del sole non vi è alcun accordo possibile.
  4. d. La partita può essere dichiarata patta se un’identica posizione sta per apparire o è apparsa sulla scacchiera almeno tre volte. E’ un’ipotesi futuribile, ma non da escludere completamente. Governicchi che governano senza grandi intese né pretese possono portare, alla lunga, ad una situazione prolungata di apparente immobilismo.
  5. e. La partita può essere dichiarata patta se almeno le ultime 50 mosse consecutive di ciascun giocatore sono state fatte senza alcuna spinta di pedone e senza alcuna cattura. E’ un caso tipicamente italiano, ma da cui gli abitanti in terra ispanica potrebbero trarre giovamento e beneficio in una prospettiva a lungo termine. Significa anche girarci intorno. Nel gioco degli scacchi c’è la variante dello scacco perpetuo che ha un sapore mistico.

Ricordo, per concludere, che nell’antico gioco degli scacchi non era previsto lo stallo: chi ci finiva per colpa perdeva la partita per essersi messo in una posizione di sfavore. Nel nuovo medioevo contemporaneo questa è una soluzione che non si può escludere.

“Negli esseri del mondo tutte le cose sono in relazione tra di loro”

dinamizzazione – la raia azienda agricola biodinamica – Gavi

Tra il 24 dicembre 1922 ed il 6 gennaio 1923 Rudolf Steiner tiene a Dornach una serie di conferenze sul tema della nascita e dello sviluppo storico della scienza[1]. Nell’ottava conferenza, tenuta il 3 gennaio 1923, Steiner fa riferimento alla ‘forza vitale’ di Stahl[2], medico e chimico vissuto tra Sei e Settecento, la cui opera fondamentale è ‘Theoria medica vera’. In tutte le conferenze Steiner insiste su un dato: la descrizione degli eventi esterni nell’antichità era profondamente ed intimamente legata alle esperienze interiori, per cui Talete parlò della nascita di tutte le cose dall’acqua proprio perché il suo temperamento era flemmatico, poiché si caratterizzava in prevalenza dall’umore composto da ‘acqua’, o ‘muco’ detti anche ‘flegma’; allo stesso modo Eraclito, di temperamento collerico, fa discendere tutto dal fuoco. La teoria degli umori è alla base della medicina galenica, che riprende e poi amplia le teorie di Alcmeone di Crotone, allievo di Pitagora, che nel VII-VI secolo a.C.  fu il primo ad avere l’idea che l’uomo fosse un microcosmo costituito dai quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco)  fondamentali. Secondo lui dall’equilibrio degli elementi, che chiamò isonomia o democrazia, derivava lo stato di salute, mentre lo stato di malattia derivava dalla monarchia, ovvero dal prevalere di un elemento sugli altri. Questa teoria venne poi ripresa da Ippocrate, padre della medicina, nel V Secolo e perfezionata da Galeno (Pergamo, 129 – Roma, 216), che aggiunse ai quattro elementi e alle loro qualità elementari (freddo, umido, secco e caldo), le complessioni che si compongono e si ricompongono, attraverso i quattro elementi, nel corpo umano determinando caratteristiche organiche e di temperamento di ogni persona, variabili a seconda delle età di ognuno: Aria – Sangue – Temperamento sanguigno – Adolescenza – Est – Umido e Caldo;  Fuoco – Bile gialla – Temperamento bilioso – Juventus ( 25 -40 anni) – Estate – Sud- Caldo e Secco; Terra – Bile Nera – Temperamento melanconico – Senectus  (40 – 65 anni) – Autunno – Ovest – Freddo e Secco; Acqua – Flegma – Temperamento flegmatico – Senium (oltre i 60 anni) – Inverno – Nord – Freddo e Umido[3]. Ciò che importa a Steiner e all’approccio antroposofico della filosofia medica di Galeno è di segnalare la stretta corrispondenza tra essere umano e mondo circostante, sia nella composizione materiale di entrambi sia nella percezione che nel vissuto di ciò che, per l’uomo, è esterno ed esteriore. Stahl che cosa fa secondo Steiner?: “Partì dal convincimento che i processi fisici e chimici che si svolgono nell’uomo non possono fondarsi sul quel tipo di fisica e di chimica che si veniva proprio allora applicando al mondo esterno. Siccome però non disponeva di null’altro, egli inventò quelle che chiamò la ‘forza vitale’. In tal modo lo Stahl fondò la cosiddetta scuola dinamica. Si tratta dunque di un’invenzione sostitutiva di qualcosa che era andato perduto[4]!” Stahl, riprendendo la teoria galenica sugli elementi primordiali costitutivi della terra, elabora una teoria circolare sulla migrazione degli elementi materiali nei regni della natura, dapprima attraverso il cielo, fluido, che si distingueva in etere, principio iniziale del moto di tutti i corpi naturali, ed acqua, mediatore chimico tra l’etere e  la ‘terra elementare’, ovvero il secondo elemento primordiale costitutivo della terra. La terra poteva poi essere distinta in ‘vitrescibile’, ‘calcarea’, ‘solforosa’ e flogistica’. Il flogisto era il principio di infiammabilità dei corpi ed era il costituente fondamentale di tutte le sostanze presenti nei tre regni della natura (minerale, vegetale e animale). “Tutti gli elementi materiali migravano continuamente attraverso questi regni formandovi tutti i corpi composti, e in questa loro circolazione ininterrotta gli elementi restavano sempre identici a se stessi, inalterati in tutti i differenti processi ai quali partecipavano. Il flogisto, in particolare, era abbondantemente presente nell’aria grazie alla putrefazione delle piante o alle combustioni delle sostanze infiammabili. Dall’aria, per mezzo di una parte ‘salina’, penetrava poi nelle piante reagendovi diffusamente attraverso un ulteriore processo di ‘circolazione’. In fine, grazie alla nutrizione, passava dai vegetali agli animali: e in questo modo il circolo si chiudeva e si ripeteva continuamente[5].” Stahl riprende l’idea del moto circolare e ciclico della natura, da uno dei più importanti iatrochimici di scuola paracelsiana[6] di metà del Seicento, Johann Joachim Becher: per lui la Creazione ex nihilo aveva prodotto il ‘cielo’ e la ‘terra’. Il primo era il principio universale della vita sia come luogo della creazione dei corpi sia per quanto riguarda il loro moto. La terra, invece, rappresentava il principio fisico del mondo, che al contrario del cielo, il principio formale di tutte le cose, si distingue fin dall’origine come tripartita in tre enti particolari, ovvero terra, acqua e aria. Essa era inoltre specificata nel sua tripartizione trinitaria in terra vitrescibile, in terra infiammabile e in terra mercuriale. La natura, come somma del tutto, partecipa, attraverso la ripetizione dei cicli cosmici, in una successione infinita di eventi, all’eternità[7]. Alcuni secoli più tardi, Rudolf Steiner, nel suo corso sull’agricoltura, ci riporta a questa integrazione circolare della natura quando afferma che “oggi si usa molto spesso guardare gli esseri, siano essi minerali, piante o animali ( e facendo per ora astrazione dall’uomo), che ci si presentano in natura come se fossero isolati uno dall’altro. Si è abituati a guardare oggi una pianta isolatamente, per sé, e passare poi alla specie, essa pure vista isolatamente, poi da questa a un’altra e così via. Tutte vengono elencate, classificate e incasellate secondo genere e specie, ed è tutto quel che se ne deve sapere. Ma la natura procede ben altrimenti; in natura e in genere , agiscono reciprocamente le une sulle altre. Oggi, in periodo materialistico, si usa solo seguire l’azione grossolana di una cosa sull’altra; così si osserva se una cosa viene mangiata e digerita da un animale o se il letame dell’animale arriva al campo. Si seguono soltanto queste grossolane azioni reciproche. Oltre a queste azioni grossolane, ci sono però anche scambievoli azioni, provenienti forse da sostanze più sottili: dall’elemento calore, da quello chimico-eterico continuamente operante nell’atmosfera, dall’etere di vita[8].”


[1] Cfr. Rudolf Steiner, Nascita e sviluppo storico della scienza, Editrice Antroposofica,  Milano 1982

[3] Cfr. Yann Grappe, Sulle tracce del gusto. Storia e cultura del vino nel Medioevo, Editori Laterza, Bari – Roma 2006, in particolare il capitolo primo ‘Il vino e la dietetica’.

[4] Rudolf Steiner, cit., pp. 128, 129

[5] Antonio Di Meo, Circulus Aeterni Motus. Tempo ciclico e tempo lineare nella filosofia chimica della natura, Einaudi, Torino 1996, pp. 23, 24

[6] “Col termine Iatrochimia Paracelso intese l’opera di manipolazione, da parte del medico, dei componenti messi a disposizione dalla Natura, al fine di ottenere un medicamento, mentre con il termine Spagiria volle ripescare l’assioma alchemico ‘solve et coagula’  fondendo i due vocaboli della lingua greca: spao ‘separo’ ed agheiro ‘riunisco’. Il credo spagirico di Paracelso si basava sul principio che, poiché l’uomo conteneva nel proprio microcosmo, tutte le leggi del macrocosmo ed il contrario, ecco che conoscendo le informazioni simboliche, alchemiche d’ogni elemento, separandolo e riunendolo in modi diversi, sarebbe stato possibile interagire sulle componenti spirituali e somatiche di ogni individuo. Le proprietà di ogni sostanza, secondo Paracelso, dovevano essere apprese con la “ratio et experimenta”, per cui la dottrina della scuola di iatrochimica di Paracelso pose le basi, della moderna farmacologia cioè lo studio metodologico di sostanze ad uso terapeutico. La sua dottrina divenne in breve tempo il segnale della scissione tra l’alchimia dei filosofi e le esperienze dei chimici che si dedicarono a preparare sostanze inorganiche come il cloruro d’oro, il nitrato d’argento, i sali di ferro, di rame e piombo, il nitrato di stagno, bismuto, nichel e cobalto, i composti di zolfo e arsenico, gli acidi minerali e l’acqua regia, e sostanze organiche come l’alcool etilico, gli eteri, le aldeidi e i gli estratti alcoolici di piante e di sostanze animali. Secondo Paracelso, i medicamenti dovevano essere prodotti separando le sostanze inutili ed inerti dal principio essenziale la cui purezza sarebbe stata sostanziale per le cure degli infermi. Nel 1526, il medico spagirico fu nominato professore all’Università di Basilea ove tenne il primo corso di chimica pura in lingua tedesca scandalizzando i propri colleghi universitari. Nella prima lezione egli si scagliò contro i vecchi autori come Avicenna e Mesue accusandoli, con sarcasmo, d’essere dei ciarlatani e di avere scritto opere inutili per la salute degli uomini. Uomo di laboratorio fu il primo a segnalare: l’esistenza dello zinco, a trattare la tossicità dell’arsenico e l’efficacia del precipitato rosso di mercurio nel trattamento della gonorrea. Così Paracelso introdusse la chimica nell’arte medica scombussolando con violenza le abitudini degli spezieri.” In Marcello Fumagalli, Iatrochimica e Spagiria. L’arte dei preparati chimici, www.marcellofumagalli.it/scritti/saggi/txtmngr/read.php?id=6 del 08/02/2006

[7] Cfr: Antonio di Meo, cit. in particolare capitoli primo e secondo.

[8] Rudolf Steiner, Impulsi scientifico-spirituali per il progresso dell’agricoltura. Corso sull’agricoltura. Otto conferenze e un’allocuzione tenute a Koberwitz presso Breslavia da 17 al 16 giugno 1924, Editrice antroposofica, Milano 1979, Settima conferenza, 15 giugno 1924,  pp. 179, 180

Il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo. E allora io bevo

Eduardo_De_Filippo

Il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo (Eraclito).

Il feroce dio delle messi, Kronos, partecipe delle divinità sotterranee e signore dei Titani, divoratore cruento dei propri figli, perdonato da Zeus e liberato dalle proprie catene nel Tartaro, rinasce per via della mistica orfica. Diviene, così, basileus immortale delle isole Beate al di là dell’Oceano, terre in cui si rifugia la felicità di un’antichissima stirpe aurea. L’uomo partecipa, per la prima volta, al divino. Ma l’orfico Kronos è solo assonante, occlusivo e aspirato, di Chronos.

saturnoSaturno che divora i suoi figli (F.Goya, pitt., Mus. del Prado, Madrid, 1819 -1823)

Prima una stirpe aurea di uomini mortali
fecero gli immortali che hanno le Olimpie dimore.
Erano ai tempi di Kronos, quand’egli regnava nel cielo;
come dèi vivevano, senza affanni nel cuore,
lungi e al riparo da pene e miseria, né triste
vecchiaia arrivava, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia,
nei conviti gioivano, lontano da tutti i malanni;
morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni
c’era per loro; il suo frutto dava la fertile terra
senza lavoro, ricco ed abbondante, e loro, contenti,
in pace, si spartivano i frutti del loro lavoro in mezzo a beni infiniti,
ricchi d’armenti, cari agli dèi beati[1]

Il Tempo non è stato ancora raggiunto: è sospeso nel lungo abbraccio festoso tra Kronos e Saturno, quando la semina si congiunge, ciclicamente, alla fertilità, all’abbondanza e all’eguaglianza. Ma perché Kronos diventi lo scorrere ineluttabile di giorni, perché muti in Chronos-Tempo, bisognerà aspettare che la fama postuma cinga, dei suoi futili allori, i Trionfi del Petrarca:

Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro;
chiamasi Fama, et è morir secondo;
né più che contra ’l primo è alcun riparo.
Così ’l Tempo triunfa i nomi e ’l mondo.

E, di seguito, che li rappresenti in modo figurato: al falcetto di Kronos-Saturno, il Tempo rimpiazza la lunga falce da fieno, allegoria della Morte livellatrice; al posto del veloce carro del Sole-Apollo, un carro di trionfo condotto dalle quattro stagioni e uno sfondo di rovine, sostituisce l’antica età dell’oro.

Ma ben si sa, in tutto il mondo antico, della fugacità del tempo[2].

Infinito fu il tempo, uomo, prima

che tu venissi alla luce, e infinito

sarà quello dell’Ade. E quale parte

di vita qui ti spetta, se non quanto

un punto, o, se c’è, qualcosa più piccola

di un punto? Così breve la tua vita

e chiusa, e poi non solo non è lieta,

ma è assai più triste dell’odiosa morte.

Con una simile struttura d’ossa

tenti di sollevarti fra le nubi nell’aria!

Tu vedi, uomo, come tutto è vano:

all’estremo del filo c’è un verme

sulla trama non tessuta dalla spola.

Il tuo scheletro è più tetro

di quello di un ragno. Ma tu

che, giorno dopo giorno, cerchi

in te stesso, vivi con lievi pensieri,

e ricorda solo di che paglia sei fatto.

A.P. Liber VII, 472. (Leonida di Taranto, Taranto, 320 o 330 a.C. – Alessandria d’Egitto, 260 a.C.)

“Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume, né due volte toccare una sostanza mortale nello stesso stato; ma per l’impeto e la velocità della mutazione (si) disperde e di nuovo si ricompone, e viene e se ne va (fr. 91). A chi discenda negli stessi fiumi, sopraggiungono sempre altre e altre acque (fr. 12). Noi scendiamo e non scendiamo in uno stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo. (fr. 49)”, dice Eraclito. Un tempo (αἰών) unico e non-rinnovabile: è il tempo divino, indivisibile, in cui convivono passato, presente e futuro. Lo scorrere del tempo è un susseguirsi in cui ogni cosa lascia il posto al suo contrario; questo processo di alternanza non è né libero né casuale, ma viene regolato da una legge necessaria e da una trama nascosta, il logos: “Nel logos come legge nascosta che governa permanentemente tutti gli eventi manifesti torna il concetto di tempo come chronos: sotto quello che sembrava l’imponderabile, quasi capriccioso, avvicendarsi di istanti compiuti in se stessi, ‘perfetti’ ed ‘eterni’ (aíon), si scopre un ordine (chronos), ancorché profondo e non accessibile a tutte le menti, che in realtà vincola e unisce quegli istanti. Ma la ragione, il logos, è essa stessa eterna e permanente: ecco che a sua volta il chronos si rivela come aíon. In altre parole: l’essenza permanente della realtà è il mutamento e la transitorietà. Il mutamento e la transitorietà però ricevono dal logos un senso: gli eventi, anche se in continuo divenire, non sono casuali, ma obbediscono a una legge”. [3]  Prima ancora che aion assuma le fattezze e la stabilità dell’eternità in opposizione al tempo misurabile, vi è una narrazione epica (Omero) in cui esso indica la forza vitale, e, in senso traslato, la vita e la durata stessa della vita. Lo Zodiaco, “invocato come ‘dominatore della volta celeste eterna’ (αἰωνοπολοκράτωρ: Pap. Gr. Mag., I, 202), viene anche definito ‘signore dei diademi ardenti’ (δεσπότης των πυρίνων διαδημάτων: Pap. Gr. Mag., IV, 520 s.), cioè della traiettoria celeste: evidente assunzione di una mansione specifica di Helios. Secondo una notizia di Epifanio (adv. Haer., LI, 22), ogni anno nel Korèion di Alessandria, nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, veniva inscenato il rito della nascita di Αion, non senza connessione con la divinità egizia della vegetazione, Osiride: palese è il riferimento all’inizio del nuovo anno quando, secondo il vecchio calendario tebano, il sole, raggiunto il punto del solstizio d’inverno, riprendeva la sua corsa ascendente verso l’orizzonte”.[4]

cubicoloVilla di Silin (Leptis Magna – Libia), cubicolo diurno, stagioni

Da sinistra avanzano in direzione della personificazione del Tempo che sorregge lo Zodiaco con entrambe le mani. Le Quattro stagioni vengono accompagnate dai propri frutti già in atto di varcare la ruota Autunno, seguita dall’Estate, quindi la Primavera con il putto su una spalla; la teoria stagionale, avvolta nel mantello, è la personificazione dell’Inverno.

“Nel medesimo calice non è possibile bere due volte lo stesso vino”, con timore, sostengo io.

Tempo umano e tempo divino; tempo assoluto e tempo rifratto. Il tempo misurabile, concesso all’umanità, somiglia al mito della luce riflessa nella caverna platonica, un’immagine mobile dell’eternità, che procede secondo il numero. La creazione del tempo coincide con quella delle orbite planetarie intorno alla terra: «il tempo dunque fu fatto insieme col cielo» (Timeo 38b). “Ora, – dice il protagonista del dialogo – la natura dell’anima era eterna, e questa proprietà non era possibile conferirla pienamente a chi fosse stato generato: e però [il Demiurgo] pensa di creare una immagine mobile dell’eternità, e ordinando il cielo crea dell’eternità che rimane nell’unità un’immagine eterna che procede secondo il numero, quella che abbiamo chiamato tempo”.[5]

O, diversamente dal maestro Platone, il tempo numerato di Aristotele, quello dell’anima: se è possibile un quantum di numerabile questo avviene perché vi è un numerante, una coscienza (l’anima o la mente a dir si voglia) in grado di misurarlo. O perlomeno di ordinarlo. Il tempo, che di per sé non esiste (Una parte di esso è stata e non è più, una parte sta per essere e non è ancora. E di tali parti si compone sia il tempo nella sua infinità, sia quello che di volta in volta viene da noi assunto. E sembrerebbe impossibile che esso, componendosi di non enti, possegga una essenza, Aristotele Fisica, IV, A 7, 213 b 21), non è concepibile se non come accidente del cambiamento, che presuppone un prima e un dopo (il tempo è il numero del movimento secondo il prima e il poi, Aristotele, Fisica, IV, 11, 219b) e una mente che sia in grado di percepirlo: “quando, infatti, noi non mutiamo nulla entro il nostro animo o non avvertiamo di mutar nulla, ci pare che il tempo non sia trascorso affatto.” Il tempo si avverte come aspetto del movimento e, come tale, possiede la proprietà della continuità. Quest’ultima appartiene al tempo come una grandezza che presenta dei limiti in rapporto a ciò che è anteriore e ciò che è posteriore. Movimento, che ha un numero ed è determinabile quantitativamente, e tempo hanno luogo inseparabilmente: l’istante viene definito tra i due estremi che limitano il tempo, la cui grandezza è in simultanea corrispondenza con quella del movimento.

Lontano dagli echi di Agostino, si ascoltano le parole di un tempo soggettivo in cui la memoria produce il senso del flusso e la sua innata coscienza: “E, tuttavia, non v’è stato d’animo, per quanto semplice, che non muti ad ogni istante: perché non v’è coscienza senza memoria, non continuazione di uno stato senza che si aggiunga al sentimento presente il ricordo dei momenti passati. In questo consiste la durata. La durata interiore è la vita continua d’una memoria che prolunga il passato nel presente: o che il presente racchiuda esplicitamente l’immagine, senza posa crescente, del passato, o che attesti, piuttosto, con il suo continuo mutare di qualità il carico sempre più pesante che trascina con sé, via via che invecchia. Senza questo sopravvivere del passato nel presente non vi sarebbe durata, ma solo istantaneità”.[6] L’empireo corrisponde al primo motore immobile di Aristotele.

empireo

Petrus Apianus, Cosmographicus liber, Landshut 1524

Quando Lucrezio, nel primo secolo a.C., chiede e si domanda della caducità del mondo, “non vedi tu come le pietre stesse siano sottoposte a corrosione dal tempo? Non vedi come le eccelse torri si sgretolino e si riducano in polvere? Non vedi come i sacri templi e le statue degli dei cedano anch’essi sopraffatti dagli anni?…” (De rerum natura), il cristianesimo è ancora a venire. Quando, al termine del 1500, Shakespeare fa parlare l’arpista egiziano, il cristianesimo ha già detronizzato il tempo eterno, consegnando ai mortali la ritualità ciclica della natura, che coincide con quella dei campi. Ogni cosa ha il suo tempo, perché ogni cosa è sottoposta al suo tempo, sotto un sole che non lascia nulla di nuovo (nihil novi sub sole). Ma ciò che non muta è la sua passaggio divoratore, che fa sottostare splendori e amori alla rabbia della morte:

Quando dalla mano spietata del Tempo ho visto sfigurato

il ricco superbo sfarzo di età consumate e sepolte,

quando talvolta torri sublimi vedo rase al suolo,

e il bronzo eterno schiavo del mortale furore;

quando ho visto l’oceano affamato conquistare

vantaggio sul regno delle spiagge,

e la ferma terra vincere sulla distesa delle acque,

accrescendo possesso con perdita e perdita con possesso;

quando ho visto un simile avvicendamento di stato,

o lo stesso stato sconvolto a decadere,

la rovina mi ha insegnato così a rimuginare,

che il Tempo verrà e porterà via il mio amore.

Questo pensiero è come una morte, che altro non può

che piangere di avere ciò che teme di perdere”.[7]

E allora bevo di Eduardo De Filippo

           Dint’ a butteglia                  

n’atu rito ‘e vino

è rimasto…

Embe’

che fa

m’ ‘o guardo?

M’ ‘o tengo mente

e dico:

“Me l’astipo”

e dimane m’ ‘o bevo?”

Dimane nun esiste.

E ‘o juorno primma,

siccome se n’è gghiuto,

manco esiste.

Esiste sulamente

stu mumento

‘e chistu rito ‘e vino int’ ‘a butteglia.

E che ffaccio,

m’ ‘o perdo?

Che ne parlammo a ffà!

Si m’ ‘o perdesse

manc’ ‘a butteglia me perdunarria.

E allora bevo…

E chistu surz’ ‘e vino

vence ‘a partita cu l’eternita’!

Nella bottiglia

è rimasto un altro goccio di vino…
allora

che faccio, me lo rimiro?

Lo tengo a mente

e dico:

lo conservo

e me lo bevo domani?

Il domani non esiste.

E il giorno prima,

siccome è già passato,

neanche esiste.

Esiste solamente

questo momento

e questo goccio di vino nella bottiglia.

E che faccio,

me lo perdo?

Neanche a parlarne!

Se me lo perdessi,

neanche la bottiglia mi perdonerebbe.

E allora… bevo…

e questo sorso di vino

vince la partita con l’eternità!

[1]  Esiodo, Le opere e i giorni, 109-120 (VIII secolo a. C.) Traduzione di Graziano Arrighetti, in Esiodo, Opere, Einaudi-Gallimard, Torino 1998

[2]  Cfr. Erwin Panofsky, Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento. In particolare cap. III Il Padre Tempo, pp. 89 – 134 Einaudi, Torino 1975

[3] Silvio Vitellaro, Testo 1- Dai Frammenti di Eraclito, in vitellaro.it

[4] L. Musso, Aion, in Enciclopedia dell’ Arte Antica, Treccani, Roma 1994

[5] Platone, Timeo 37c,d in Opere complete, Laterza, Bari 1971

[6] Henri Bergson, Introduzione alla metafisica, Laterza, Bari – Roma 1983, pag. 17

[7] Sonetto numero 64. in W. Shakespeare, Sonetti, trad. di Alessandro Serpieri, Bur, Rizzoli, Milano 1995

Detti e contraddetti sul vino

 

Totò e Davoli “Uccellacci e uccellini” (1966)

 

  • Il blogger vinoso esprime ciò che il lettore ha già pensato per conto suo in una forma di cui senz’altro non tutti i sommelier sarebbero capaci.

 

  • La differenza tra i produttori di vino e gli enologi è un po’ come il rapporto tra enologia convessa ed enologia concava.

 

  • A Barolo le vie sono lastricate con il vino. Negli altri paesi  le strade sono lastricate con l’asfalto.

 

  • Il sano senso comune pretende di seguire il vignaiolo “fino ad un certo punto”. Il vignaiolo dovrebbe rifiutare di farsi accompagnare anche fin là.

 

  • Non ce la faccio più a vivere in mezzo a gente che sa che dieci anni fa ho ordinato una freisa frizzante, e che oltre tutto non chiama il vino col mio nome, ma chiama me col nome del vino.

 

  • Il disgusto per un vino ha valore retroattivo.

 

  • La valutazione di un vino è legittima soltanto se si ha la sensazione di essere colti in flagrante plagio di se stessi.

 

  • Se si dice che un vignaiolo italiano è andato a scuola da quelli francesi, la cosa può valere da suprema lode solo nel caso in cui non sia vera.

 

  • Devo comunicare ai vignaioli qualcosa di rovinoso: una tempo la vigna vecchia era nuova.

 

  • Una delle malattie più diffuse oggi nel mondo vitivinicolo è la misurazione della frazione degli acidi volatili presenti nel vino.

 

  • Un grande vino può eccitarli tutti. Ma soddisfarne ognuno è al di sopra delle sue forze.

Questi miei aforismi traggono ispirazione, indicazione e rielaborazione dai “Detti e contraddetti” (1909 – 1918) di uno dei più grandi scrittori del secolo passato, senza cui non sarebbero mai parsi alla luce: Karl Kraus

Lajos Tihanyi Porträt Karl Kraus 1925

I migliori vini della Terra. Intorno all’anno 1200.

lanziepoca

Intorno al 1223, Henri d’Andeli, troviere[1] normanno, compone la Bataille des vins dove racconta che il re di Francia Filippo Augusto (1180 – 1223 d. C.), desiderando raccogliere intorno a sé i migliori vini della Terra, invia diversi messaggeri con il compito di portargli più di ottanta vini pregiati francesi e di altre parti d’Europa. Il re è supportato, nella degustazione, da un sacerdote inglese, con il quale giudicherà e ricompenserà i migliori fra di essi: i vini, nella gara tra loro, vanteranno le migliori qualità e denigreranno i difetti altrui. Viene spontaneo domandarsi il perché di un prete inglese e non normanno, romano, longobardo o di altre parti. Lo spiega fondamentalmente una ragione commerciale, che, a sua volta, ne spiega altre legate alle capacità d’intendimento dei vini: «L’Inghilterra, le Fiandre e i paesi del Baltico rappresentavano il grosso della domanda del vino che confluiva nel commercio internazionale durante il Medioevo e gran parte della domanda inglese era soddisfatta dai vini della Francia occidentale. L’inizio di un rapporto ufficiale fra Inghilterra e Guascogna risale al divorzio di Eleonora d’Aquitania da Luigi VII di Francia e al suo matrimonio, nel 1152, con Enrico, duca di Normandia e conte di Anjou, Maine e Touraine, che portò a Enrico il ducato di Aquitania, che comprendeva il Poitou, la Guyenne e la Guascogna e, invece di comprare vini alla fiera annuale di Rouen, come avevano fatto fino a quel momento, gli inglesi da quel momento in poi andarono a comprarlo nei porti di Nantes, la Rochelle e Bordeaux. (…) Dal 1224 in poi il commercio di vino fra Inghilterra e Guascogna andò sempre aumentando, tanto che all’inizio del XIV secolo l’Inghilterra riceveva circa la metà dell’esportazione totale dei vini di Bordeaux, che si aggirava sulle 80000 botti all’anno. Quasi tutto il resto del vino Bourdeaux andava nelle altri parti della Francia, nelle Fiandre e nella Germania del nord, anche se Reounard fa notare che quei vini venivano esportati anche in Spagna ed erano consumati dagli eserciti di Castiglia durante le loro campagne di riconquista contro i Mori[2]batalilleCosì come per l’antichità, la qualità, la forza l’identità, l’origine di un vino, in epoca medievale si affermano sulla base di parametri raffrontabili alle degustazioni contemporanee soltanto nel merito delle classificazioni generali: «Il Segré des segrez[3] dedica otto capitoli al vino: il primo tratta della sua ‘natura’ e della sua ‘virtù’, gli altri discettano sui diversi criteri per differenziare i vini: ‘LVIII Differenziazione del vino a seconda delle età; LIX. Differenziazione del vino a seconda del colore; LX Differenziazione del vino a seconda del sapore; LXI. Differenziazione del vino a seconda del profumo; LXII. Differenziazione del vino a seconda della ‘sostanza’ (l’aspetto visivo); LXIII. Differenziazione del vino a seconda della forza o della debolezza; LXIV. Differenziazione del vino e seconda del terreno di produzione e dell’origine’[4].» Su questo ultimo punto, che è poi la traccia dell’intera ricerca, diversi sono i riferimenti all’origine territoriale di un vino ed alla loro espressione in relazione alla provenienza: «Nel genere letterario rappresentato da opere quali La bataille du vins o La desputoison du vin ed de l’iaue[5], i vini per autodefinirsi, glorificarsi o attaccarsi a vicenda, ricorrevano in primo luogo al criterio dell’origine, tracciando così i profili dei vigneti che si facevano concorrenza per ragioni tanto commerciali quanto gustative.(…) Una versione del Régime di Arnaldo da Villanova[6] fa esplicitamente uso del termine terrouer (terreno o terroir) spiegando che ‘la comparazione tra vari vini deve farsi tra quelli di una stessa regione o di uno stesso terreno o terroir. Viene evocata anche la ‘terrestré’ (il carattere legato alla terra) dei ‘vins de Brabant’ (regione del Belgio odierno, in cui si coltivava il vino all’epoca: ad esempio a Lovanio) e le ‘lies mordantes’ (la feccia aspra) dei vini del ‘Rain’ (Reno). (…) Il Segré des segrez, ad esempio, pur senza designare come tipico nessun terreno in particolare, si mostra comunque attento a un insieme di dati naturali intesi come elementi determinanti nella formazione delle caratteristiche e delle qualità del vino: si tratta essenzialmente di criteri di tipo geomorfologico e climatico. Il testo distingue in primo luogo i vigneti situati su terre in posizione elevata (‘haus terres’) e quelli situati in piano (‘basse terre’). I primi daranno un vino più forte e più limpido (‘plus fort et plus clers’); i secondi, un vino di qualità opposte. Si fa differenza infine tra i vigneti situati in cima a ‘montagne’ (colline) – ‘sommet des montaignes’ – e quelli coltivati nelle valli (‘qui croisent ens es valees’). Ma i vini che ‘plis vallent’ (valgono di più) sono quelli prodotti lungo i versanti e sulla ‘groppa’ delle colline.(…) Poi si considera l’esposizione, cioè la posizione rispetto ai punti cardinali e ai venti dominanti, a loro volta legati alla piovosità. Daranno vini forti quei vigneti più vicini all’‘Orient’ e direzionati verso ‘plogol’, termine che designa un orientamento a sud e che, in un’accezione più ampia, si riferisce anche ai venti spiranti da sud o da sud-ovest (o, più raramente ai venti spiranti da ovest), che sono portatori di pioggia(…) La fama di certi vigneti è presente nell’immaginario collettivo, come testimonia la letteratura, attraverso l’elogio di vini riservati alla cerchia di privilegiati. In effetti, chi poteva permettersi di avere alla sua tavola i vini di Saint Pourçain o di Cipro che bisognava procurarsi con grande spesa, se non il re, il papa e l’élite in generale? Così come il prezzo e il prestigio[7] del vino aumentavano mano mano che ci si allontanava dalle zone di produzione e dagli snodi commerciali, assaporare il nettare di vini non provenienti esclusivamente dalla produzione locale e regionale era senz’altro un lusso: quello di poter scegliere a più vasto raggio, di bere vini ‘esotici’[8]

[1]    Il Troviere è un poeta e un cantore, nel periodo del medioevo, nel nord della Francia dove viene usata la lingua d’oil. In contrapposizione al più famoso trovatore che opera al sud del paese, in Provenza, dove si parla la lingua d’oc.

[2]    Tim Unwin, Storia del vino. Geografie, culture e miti dall’antichità ai giorni nostri,  Donzelli Editore, 2002. pag. 180

[3]    The Secret of secrets, or in Latin Secretum or Secreta secretorum is a translation of the Arabic Kitab sirr al-asrar, fully the Book of the science of government, on the good ordering of statecraft. It takes the form of a letter supposedly from Aristotle (and considered as such by medieval readers) to Alexander during his campaign in Persia. This text is taken from Robert Copland’s printed edition of 1528, a copy of which resides in Cambridge University Library. La traduzione dall’arabo viene attribuita a Jofroi of Waterford, monaco domenicano residente, presumibilmente (le date sono molto discordanti), a Parigi intorno al 1300.

[4]    Yann Grappe, Sulle tracce del gusto, Storia e cultura del vino nel Medioevo, Edizioni Laterza, Bari – Roma 2006, pp. 101, 102.

[5]    Anonimo fine XIII, inizi XIV secolo d. C.

[6]    Arnaldo da Villanova, Francia 1240 – 1312 Cenni biografici: Nasce in Provenza e dedicatosi inizialmente agli studi letterari, si appassiona in un secondo momento alla medicina che approfondisce nella scuola araba di Spagna e a Parigi. Viaggia lungamente nella penisola iberica, in Francia e in Italia e coltiva la conoscenza dell’alchimia e della filosofia, cadendo in disgrazia per contrasti religiosi con la Chiesa; viene alla fine riabilitato e termina i suoi giorni presso la sede papale di Avignone. Interessi botanici: È uno degli alchimisti più importanti e leggendari ma soprattutto uno scienziato universale: la sua pratica medica comprende l’astrologia e la magia e i suoi lavori comprendono anche la teologia, l’oniromanzia e la filosofia. In medicina tratta nel Breviarium practicae (pubblicato nel 1483) tutte le malattie conosciute al suo tempo: queste sono raggruppate in sintomi fisici, funzionali e soggettivi e le loro cause differenziate in determinanti (eziologiche), antecedenti (ereditarie) e congiunte. Introduce in Europa l’uso dell’alcool, appreso dagli arabi, utile alla preparazione e alla conservazione dei prodotti medicamentosi. In botanica si dedica allo studio dei semplici e all’uso terapeutico delle piante e all’utilizzo della teriaca. Le sue ricette tramandate indicano il vino aromatizzato come un valido ricostituente; in uno studio, suggerisce con convinzione l’uso benefico dell’idroterapia. Le sue opere principali: De Vinis, De Venenis, Causilium ad regem Aragonem de salubri hortensium…, Tractatus varij …, De regime sanitatis Da http://www.abocamuseum.it/bibliothecaantiqua/Autore_Biografia.asp?Id_Aut=317

[7]    Interessanti a tal proposito le considerazioni di Ivan Pini, cit. pag. 589, 590: «Il vino ‘orientale’, che sarà poi genericamente definito ‘vino di Romanìa’ perché proveniente dai territori dell’Impero romano d’Oriente, cioè dall’Impero bizantino, poteva viaggiare a costi non proibitivi solo per via d’acqua, ma anche qui con navi dallo stivaggio ancora molto limitato. Giunto ai porti dei grandi empori commerciali del tempo (Genova, Pisa, Venezia), risaliva, se possibile, i fiumi su chiatte a fondo basso per poi essere trasferito su carri trainati da buoi o in piccole botticelle caricate a soma sui muli. Tra spese di trasporto e vari tipi di dazi il prezzo di questi vini ‘di Romanìa’ (tra cui più tardi si distinguerà il vino di Creta e il vino libanese di Tiro, il cui commercio verrà in gran parte monopolizzato dai Veneziani) saliva alle stelle. Si è potuto calcolare che una partita di vino partita da un porto del Levante raddoppiava il suo prezzo per giungere per via mare a Venezia, poi ancora lo raddoppiava se trasportato per via fluviale a Bologna (ca. 150 Km), poi nuovamente raddoppiava se condotto su carri per via di terra a Reggio Emilia o a Faenza (ca. 60 Km). Non deve allora stupire il fatto che gli statuti di molte città vietassero l’importazione di vini prodotti al di fuori dei loro distretti, facendo però quasi sempre eccezione per pochi vini di lusso destinati in teoria ai malati (pro egritudine), ma in realtà destinati alla tavola dei componenti di quelle classi aristocratiche, o comunque dirigenti, che detenevano il potere politico nelle città e cercavano adeguate forme per gratificarsi e per esternare il loro prestigio così nell’abbigliamento come nell’alimentazione, e dettavano ovviamente anche le regole statutarie dei rispettivi comuni. Se il vino che dà prestigio, il vino di lusso, il vino del ricco deve essere per forza di cose un vino costoso, anzi il più costoso di tutti, i vini “navigati” provenienti dal Levante rispondevano sicuramente a questa peculiarità. Ma a sua volta il consumo alimentare dettato inizialmente e in gran parte dalla volontà, ma anche dalla necessità, di esternare il proprio prestigio, il proprio potere, la propria ricchezza, finì col creare, come spesso accade, un nuovo gusto, una nuova moda. I vini che venivano dal Levante erano vini forti, dall’alta gradazione alcolica, gli unici peraltro adatti al trasporto e all’invecchiamento. Il gusto orientale, che si era andato consolidando nel corso dei secoli, li preferiva bianchi, dolciastri e liquorosi, non di rado arricchiti con spezie ed essenze profumate, e fu appunto questo il gusto che conquistò anche l’Italia e l’Occidente per oltre tre secoli, dal Duecento al Quattrocento.»

[8]    Yann Grappe, cit. pp. 131 -136