Il vino atmosferico

Una mia foto dei racconti di terra mare

L’atmosfera crepuscolare reca un’intonazione d’animo della sera o del chiaro di luna, che la piena luminosità della luce diurna dissolve dapprima nell’intollerabile vividezza dell’aurora e, a seguire, nella limpidezza sfolgorante del giorno; diversamente il vento di scirocco, in cui bisogna essere “assai impenitenti per avere il coraggio di scrivere qualche cosa che persone ragionevoli debbano leggere”; e altrimenti la nebbia, che “colma d’abisso che la circonda”. Dunque la notte, dove le forme regrediscono ad una figurazione primordiale e i contorni delle immagini si sfrangiano nell’oscurità.

L’atmosfera avvolge lo spazio e il tempo proprio come l’aura si configura come singolare intreccio tra i due: mentre la prima “non si confonde con il pensiero, eppure serve da mezzo al pensiero. Non si confonde con la sensazione, eppure la propaga, aumenta o diminuisce, comanda ogni sensazione”. (Daudet, Melancholia, 1928) La seconda, l’aura, si forgia come apparizione unica di una lontananza seppur vicina. “Seguire placidamente, in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sull’osservatore, fino a quando l’attimo, o l’ora, partecipino della loro apparizione – tutto ciò significa respirare l’aura di quei monti, di quel ramo”. (Walter Benjamin, Aura e choc in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica; prima stesura 1935- 1936)

Il vino, dal suo canto, partecipa alle strade, ai crocicchi, agli angoli bui e alle cose illuminate, ai bicchieri sfavillanti, al tintinnio della pioggia, agli sguardi sommessi, al cielo che si fa ombra, all’animo pesante oppure a quello leggero, ai banchi bianchi, al vociare intenso, alle risa, alla brezza, alla salsedine, in un attimo che si adagia sulla soglia del tempo.

FONTI STORICHE PER LO STUDIO DELLA MALVASIA DI CANDIA AROMATICA NEL TERRITORIO PIACENTINO

Η Μονεμβασιά σε γκραβούρα του 1688
Vincenzo Coronelli – Repubblica di Venezia p. IV. Citta, Fortezze, ed altri Luoghi principali dell’ Albania, Epiro e Livadia, e particolarmente i posseduti da Veneti descritti e delineati dal p. Coronelli, Venice, 1688

QUALI DOMANDE ALLA STORIA? MALVASIA O MALVASIE?

In un bellissimo saggio sul mestiere di storico Carlo Ginzburg riprende le riflessioni metodologiche, postume, di un altro grande studioso, Marc Bloch: «gli uomini» – egli osservò – «con gran disperazione degli storici, non hanno l’abitudine di cambiare, ogni volta che mutano le abitudini, il vocabolario[1]». E così Bloch continuava: «Il vocabolario, la storia lo riceve dunque, per la maggior parte, dalla materia stessa del suo studio. Essa lo accetta, già modellato e deformato da un uso prolungato; ambiguo, peraltro, spesso fin dalla nascita, come ogni sistema di espressione che non sia emerso dallo sforzo severamente concentrato dei tecnici[2]».

Niente di più vero quando ci si immerge, a ritroso, nel tentativo di ricostruire una storia verosimile di un vino (o vini?) e, nel mio caso, di quello che porta con sé una nomea tale che, in tempi antichi, nel Medioevo per la precisione, precede di gran lunga il valore, la diffusione e la qualità stessa di una, diverse o moltissime uve che portavano il medesimo nome: la Malvasia. Si potrebbe pensare, di primo acchito, che la difficoltà di delimitare o quantomeno di circoscrivere il nome di un vitigno e, a cascata, del vino da esso prodotto, possa essere ascrivibile esclusivamente alle difficoltà di catalogazione scientifica presenti all’epoca, alla dispersione dei nomi, alla loro traslazione, alle consuetudini locali e via dicendo. Questa ragione spiegherebbe soltanto una parte del problema: le uve e i vini erano allora come oggi valore produttivo, sociale, culturale e di scambio economico e mercantile. Ridurre tutto alla questione nominale equivarrebbe a rendere la visuale della ricerca molto parziale e, soprattutto, incompleta. Come vedremo ben presto, la necessità di uniformare sotto lo stesso nome uve tra loro assai diverse, ma con caratteristiche organolettiche che presentavano alcune similitudini, serviva principalmente a due cose: a rendere rilevante un prodotto, il suo prezzo e, secondariamente, a circoscrivere intorno a questa fama un’origine geografica che ne facesse da suggello e da certificato di provenienza. In una sorta di paradosso che, se ci pensiamo bene dal punto di vista commerciale paradosso non è, l’origine delle uve e del vino se dapprima servì ad esaltare i territori di provenienza, in un secondo tempo, pur conservando lo stesso nome, favorì tutti vini prodotti da quelle uve indipendentemente dai luoghi di produzione. Nel notevole lavoro che va sotto il nome di l’”Ampelografia Universale”[3], Viala e Vermorel scrissero che «le nom de Malvasia, Malvasier, Malvoisie est appliqué à quantité de cépages très divers et les qualificatifs qui suivent ces noms n’ont pour la plupart aucune signification déterminative…[4]». Lo stesso G. di Rovasenda, dopo aver citato nel suo «Saggio» un gran numero di Malvasie, notò: «A mio avviso dovrebbero dirsi Malvasie solo quelle uve profumate che hanno il sapore speciale di Moscato un po’ amarognolo. Sono però troppe le uve a sapore semplice chiamate Malvasie perché si possa sperare di spogliarle del nome che portano benché indebitamente[5]».

Ma non è forse questo il sogno, tanto meno recondito, che oggi porta alcune zone produttive del mondo a cercare di accaparrarsi non tanto il nome dei vitigni, questi sì internazionali, ma dei luoghi stessi di produzione? Ebbene le Malvasie furono le progenitrici di questa lunga storia che ancora oggi non abbiamo interamente risolto: «Il successo dei vini venduti con il nome generico Malvasia, nome che era usato con poche varianti dagli inglesi (Malmsey), dagli spagnoli (Malvagia), dai tedeschi (Malvasier), dai francesi (Malvoisie), rappresenta il risultato del più grande progetto di marketing della storia di questa bevanda ed il primo esempio di interpretazione commerciale di un vino come una commodity, reso possibile solo per la grande esperienza e la potenza marinara della Repubblica di Venezia[6]».

Un’importante novità nei trasporti delle derrate alimentari e del vino contribuì ad abbassare i costi: mentre a nord delle Alpi si usava, già in epoca romana, la botte di legno, nell’Italia settentrionale la si incontra dal XII secolo ed al più tardi nell’età dei Paleologi (1261-1453) essa sostituisce definitivamente l’anfora, fino ad allora dominante, anche in ambito greco, come testimoniano soprattutto i libri di conto:

«Nel commercio sovraregionale i bizantini fungevano esclusivamente da junior-partners o da fornitori. Ciò risulta in modo particolarmente chiaro nel caso della situazione commerciale della città di Monembasia, dalla quale nel XIV secolo salpavano ogni anno, in direzione di Creta, le navi delle principali famiglie locali con a bordo il loro carico di vino. La commercializzazione a livello internazionale era poi effettuata da Venezia, che cominciò ben presto a vendere anche i propri prodotti insulari con l’etichetta di Malvasia. A rigor di termine questo è un caso lampante di falsificazione di etichetta. Cerchiamo però di vederne gli aspetti positivi. Secoli dopo il giudizio inappellabile di Liutprando di Cremona sul “graecorum vinum, ob picis, taedae, gypsi commixtionem nobis impotabile[7]”, il vino greco, oltre alla nuova image positiva formatasi a Bisanzio stessa negli ultimi secoli della sua esistenza, ha ottenuto per lungo tempo una vasta ed entusiastica clientela anche nell’Europa occidentale[8]».

È molto istruttivo quanto riportato dal viaggiatore svizzero Felix Faber (o Fabri), che aveva visitato la Grecia e l’Oriente dal 1480 al 1483, cioè durante la seconda occupazione della Monembasia da parte dei Veneziani [9]: «Sulla radice di Malea, c’è una città, chiamata Malfasia, presso la quale viene prodotto un vino eccellente, che è il vero vino malfatico, come dicono alcuni, e questo una volta pensavano nei paesi occidentali. Il vino di Creta[10] non sarebbe mai stato conosciuto dagli occidentali, ma da quando fu provato che il vino di Creta è migliore del malfatico, acquistano vino di Creta e gli attribuiscono il nome di malfatico, siccome non viene più trasportato vino malfatico in Occidente, poiché la Malfasia è oramai dei Turchi, che non piantano viti ; ma codesto che ci viene portato dall’Oriente, è vino cretese, di Creta e Candia, trasportato da Metone, e che non ha di Malfasia che il nome[11]» (In radice Maleae, est civitas, quae Malfasia dicitur, juxta quan crescit praecipuum vinum, quod vere est malfaticum, ut dicunt quidam, et hoc olim ducebatur in occidentales partes. Numquam cretense vinum esset occidentalibus cognitum, sed postquam gustatum est cretense esse melius malfatico, cretense emunt et sibi nomen malfatici tribuunt; non enim amplius dicitur malfaticum vinum in Occidentem, cum Malfasia iam sit Turcorum, qui vineas non plantant, sed hoc, quod nobis de Oriente adducitur, est vinum creticum, de Creta vel Candia et de Metona transvectum, nihil de Malfasia habens nisi nomen).

E giungiamo, infine, alla Malvasia che qui interessa la ricerca: la Malvasia di Candia aromatica e il piacentino come territorio di riferimento storico. Possiamo affermare con certezza che essa faccia parte del novero delle malvasie provenienti dall’Egeo o da altri luoghi? Come relazionare dunque la scienza di oggi con la storia di ieri, con i nomi e i loro impervi tragitti noncuranti del senno di poi?

UN PASSO INDIETRO. MONEMBASIA E LE MALVASIE NAVIGATE

Monembasia (Μονεμβασία dal grecomedievale e Μονoβασία dal greco bizantino) è una località delle Laconia nord-orientale, nel Peloponneso, situata su un promontorio nei pressi dell’antica Epidauro Limera[12]. Forse dal greco μόνη έμβασία o μόνη έμβασίσ, “unico accesso” o “accesso difficoltoso”. Malvasia è anche una forma del Veneziano che ogni tanto appare anche nell’italiano. Corrispondente a uno sviluppo dell’italiano settentrionale o del galloromanzo da -z- -> -g- (cfr. Paris -a Parigi; venez. a. artesano -› it[13].  

Μονεμβασιά
Από Ingo Mehling – Έργο αυτού που το ανεβάζει, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5388365

Monembasia fu fondata, a causa della sua posizione privilegiata, nel 588, sotto il regno dell’Imperatore Maurizio (582-602), dagli abitanti della regione, dopo l’invasione e la devastazione della Laconia da parte degli Avari. La posizione naturalmente fortificata fece sì che la fortezza e la città, molto presto, e prima del 700, diventassero un importante centro amministrativo, economico e commerciale. Ma si trattava di una roccia. La terra coltivabile è situata sulla costa opposta del dipartimento di Epidauro-Limirà, e i vigneti nelle regioni della Monembasia, dell’Asopo e delle Boié. Le differenze sul nome del luogo chiamato” Monembasia”, mostrano le peripezie storiche della città. Negli scritti bizantini il nome si porta sotto due forme: Monobasia e Monembasia.

Un’ulteriore testimonianza, su cui vi furono diverse controversie interpretative, dei toponimo di Μονεμβασία – Monemvasia proviene da una Cronaca bizantina del X secolo[14], che si riferisce ad episodi storici avvenuti intorno alla fine del VI  d.C.:

Τότε δη και οι Λάκωνες το πατρώον έδαφος καταλιπόντες οι μεν εν τη νήσω Σικελίας εξέπλευσαν, οι και εις έτι εισίν εν αυτή εν τόπω καλουμένω δέμεννα και δεμενίται αντί Λακεδαιμονιτών κατονομαζόμενοι και την ιδίαν των Λακώνων διάλεκτον διασώζοντες. Οι δε δύσβατον τόπον παρά τον της θαλάσσης αιγιαλόν ευρόντες και πόλιν οχυράν οικοδομήσαντες και Μονεμβασίαν ταύτην ονομάσαντες διατο μίαν έχειν των εν αυτώ ειςπορευομένων την είςοδον εν αυτή τη πόλει κατώκησαν μετά και του ιδίου αυτών επισκόπου.

Precisamente allora anche gli abitanti di Lacedemone abbandonarono la terra natìa, salparono, alcuni di loro verso l’isola di Sicilia, e in parte ancora vi restano, nel luogo che si chiama Demenna e, conservando il dialetto dei Lacedemoni, cambiarono il nome in quello di Demenniti. Altri di loro, invece, avendo trovato un luogo inaccessibile presso la costa marittima, vi costruirono una forte città e la nominarono Monemvasia, giacché a quelli che vi arrivavano si offriva un solo accesso. Essi si stabilirono in questa città insieme con il proprio vescovo.

Ritroviamo la forma Mono – Monembasia, per la prima volta, «nella “Cronografia” di Teofane (8° secolo). La forma Monembasia appare negli Atti del “Concilium Nicaenum” dell’anno 787 e più tardi negli scritti di Pachymeris (1240-1310), di Phrantzès e di altri. Gli stranieri dal Monobasia e Monembasia (oppure Monovasià e Monem Monovasià) hanno prodotto infine le diverse forme apparse negli scritti medievali e posteriori. Nello scritto in lingua francese dei “Cronaca di Morea” (14° secolo), la denominazione si trova cambiata in “Malevasie” e Malvesie”, dalla quale poi facilmente risultarono le forme Malvoisie, Malvasia, Malvagia, Napoli di Malvasia ecc. Dunque pare che il nome Malvasia derivi dalla variazione in francese del Monembasia. Questo fatto — cioè il quasi completo annientamento della viticoltura di Monembasia — fa porre oggi diverse domande agli studiosi, e cioè: qual è la regione nella quale venne prodotto per la prima volta il vino Malvasia: la Monembasia (o Napoli di Malvasia), l’isola di Creta o l’isola di Chio?”[15]». Verosimilmente[16] nelle vicinanze della stessa città non veniva prodotto vino di grande rilievo bensì «veniva imbarcato il vino che proveniva dalle isole egee con destinazione l’Europa occidentale. Già nel secolo X i Greci affidavano “in un numero crescente di casi, il commercio con l’Occidente viene affidato agli italiani e soprattutto ai veneziani”. Nauplia, vicinissima a Monobasia, già in quest’epoca era uno dei porti prediletti degli stessi Veneziani. Creta. allora nominata Candia, che emerge in continuazione come sinonimo del vino Malvasia, entrava in tempi assai remoti, cioè nel 1211, sotto il dominio della Serenissima. Dal 1463 fino alla fine del Cinquecento la città di Monobasia appartenne proprio ai Veneziani. Comunque già negli anni precedenti il Peloponneso apparteneva loro per contratto. Joffroi de Villehardouin nel 1209 assumeva come feudo dal doge di Venezia il Principato di Achaia cedendo contemporaneamente ai Veneziani il libero commercio. Mi pare che sia evidente che il porto di Monemvasia venisse usato dagli stessi Veneziani come emporio per una massa rilevantissima’ di vini che provenivano da Creta, da Cipro e dal vasto territorio levantino-egeo. Sta di fatto che non si prendevano i soli vini di Candia per Malvasia ma tutti i vini dell’ampio spazio della Levante come dimostrano i resoconti delle crociate e dei pellegrinaggi. Partendo da Menemvasia il vino veniva esportato attraverso Venezia verso l’Europa occidentale probabilmente a partire dall’ultimo terzo del Duecento: lat.mediev. vinum di Malvagia (1278. Ka.hane. ReallexByzant 399). fr. malvesy ‘vin liquoreux de Grèce’ (1393, GdfS). cat. a. vi de Malvesia (1403. Rubi& DELCat 5.402). Nel Tre/ Quattrocento il vitigno emerge lungo la costa della Dalmazia156 accanto ai vitigni indigeni. Le forme alto-medio tedesche sono pervenute senza dubbio attraverso Venezia nel nord poiché numerosi centri tedeschi (Norimberga, Augusta) intrattenevano rapporti intensi con la Serenisssima[17]».

Il doge Francesco Foscari: il suo dogado segnò l’apogeo della Serenissima Repubblica, decretandone al contempo l’irreversibile spostamento del baricentro dai tradizionali interessi mercantili e marittimi verso quelli nei Domini di Terraferma. Di Lazzaro Bastiani – Damals. Nr. 4, Jg. 28, 1996, ISSN 0011-5908, S. 12., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3014054

Per rispondere nel modo più preciso possibile ci può venire incontro una deliberazione del Senato Veneto del 26 aprile 1432 in cui si affermava che dal momento in cui le navi le navi erano ritenute in Creta, e gli abitanti della Monovaxia da questo fatto non erano riusciti a vendere in tempo i loro vini, si concedeva loro un prolungamento per le imposte. Le denominazioni Malvasia e Monovaxia erano dunque riferite alla città di Monembasia. Altre notizie sulla Malvasia, raccontate in modo discontinuo e non lineare, giungono dai resoconti di alcuni viaggiatori nel corso dei secoli: «Stephan Gerlach (1547) c’informa che l’isola di Chio produce Malvasia che viene acquistata in Germania. A. Thevet (1549) menziona il vino Ariusio di Chio e lo paragona alla Malvasia. Thomaso Porcachi (1572) dice che “i vini chiamati nell’antichità arvisia (cioè l’Ariusio)… sono le Malvasie che altra volta erano tra-sportate dall’isola di Chio e attualmente dall’isola di Creta”. Pierre Belon (1589) scrive che: «il vino che noi chiamiamo Malvaticum è prodotto solo nell’isola di Creta. Il vino è esportato, dopo concentrazione, soprattutto da Retimno. Nell’Isola di Creta sono prodotte due Malvasie, l’una dolce e l’altra non comunemente appellata dai Veneziani Malvasia garba. Quest’ultima non può subire i trasporti, siccome non è concentrata e non può essere conservata a lungo tempo». D. O. Daper (1688) riferisce che nei suoi tempi il più famoso e più eccellente di tutti (i vini) è quello chiamato Malvoisia. D’altra parte la migliore di questa Malvoisia è quella prodotta nelle vicinanze della città di Retimno.  “Dicono — scrive — che è stato nominato Malvoisia e Malvasia dalla città Malvasia, altrimenti Napoli di Malvasia e un tempo Epidauro, situata sulle coste del Peloponneso che nell’antichità fu famosa per i vini rinomati prodotti dalla sua terra». Infine Joseph de Tournefort (1701), si è anch’egli occupato della Malvasia di Retimno, ma fa notare che nei suoi tempi se ne produce pochissima, cosicché non è riuscito a trovarne per degustarla. La guerra Turco-Veneziana (1645-1669) per l’occupazione dell’isola, aveva arrestato il fruttuoso commercio di vini Cretesi. Ormai era sopravvenuta l’inesorabile decadenza, dovuta alla conquista Turca, e poi pian piano il quasi completo annientamento della produzione. Secondo A. Jullien (1816) nell’Italia Settentrionale sono prodotti diversi tipi di Malvasia, che un vino liquoroso. A Napoli è prodotto «il vino “greco” chiamato così siccome il vitigno, dalle uve del quale è prodotto, era stato importato dalla Grecia ed è una specie delle Malvoisies delle quali porta tutti i caratteri specifici. A Lipari producono della Malvoisie derivata da viti importate dal Peloponneso. Scrive pure della Malvasia prodotta a Creta durante l’occupazione dei Veneziani, della Malvasia della Laconia (Sparta), come pure che questo vino è prodotto in tutta la Grecia, ma il migliore proviene da Mistrà e da Monembasia. A. Palmas (1842) descrive quattro metodi di produzione di Malvasia artificiale. E. Littré (1874) definisce la località alla quale si riferisce la parola: «in italiano Malvagia; in latino comune Malvaxia; Malvazia; da Napoli di Malvasia (Monembasie) città di Moréa (Peloponneso) il vino della quale ha dato il suo nome a tutti i simili tipi di vino[18]».

NICOLA MESARITE E IL VINO DI MONEMBASIA

Se le testimonianze sul nome della città richiamano tempi molto lontani e talvolta discordanti, la più antica, in greco, sul vino di Monembasia sembra essere quella di Nicola Mesarite Νικόλαος Μεσαρίτης, vescovo ortodosso bizantino, nel (1214): εχεέ καί οινος εκ Χίου ο ηδύς καί στύφων κατά τό ύμμετρον, α εκ Λέσβης ο καί γλυκίων το ού μέλιτος, ο εξ ‘Ευβοίας ο αρωματικός τε καί ευπνους, αλλά καί ο Μονεμβάσιος εις πλησμονήν ημέν εχιρνάτο.

«Nel 1214 Nicola Mesarita ritornò in missione diplomatica a Costantinopoli. In suo onore fu offerto un ricevimento nel Tomaita, un edificio che era anticamente sede del patriarcato ed era connesso architettonicamente al complesso di Santa Sofia. Il buffet non mancava di nulla (21, rr. 8-18). He de posis hoia? Questa la domanda retorica, dopo le pietanze, sulle bevande offerte. La relazione di Mesarita elenca a questo proposito il vino di Chio, quello di Lesbo, più dolce del miele, ed uno aromatico proveniente dall’Eubea (21, rr. 18-20)[19]. A conclusione della serata viene infine portato in tavola il principe dei vini, quello di Monembasia (21, r. 21). Lo studioso incontra questo prodotto per la prima volta. Mesarita in ogni caso lo conosce e lo apprezza da tempo e non mostra di avere alcun rimorso di coscienza per essersi dato al consumo di quattro vini tanto forti. Qui si trova fra uguali, ad un ambiente fine e raffinato si addicono vini scelti. Quanto diverse le reazioni di Giovanni Eleemon (il misericordioso), patriarca di Alessandria agli inizi del VII secolo, quando il suo cantiniere gli offrì un bicchiere di vino palestinese: questo è un lusso eccessivo, in futuro sarà sufficiente anche il vinello locale della palude mareotica (il quale, sia detto in parentesi, nell’antichità godeva di ottima fama – Plinio il Vecchio Naturalis historia 14, 4 (3), 39; Virgilio Marone, Georgiche 2, 91-92;  M.A. Lucano, De bello civile 10, (162- 163)[20]».

Precedentemente, durante le Crociate, e sotto le dinastie dei Comneni e degli Angeli (1081-1204), furono installate sulle coste del Mediterraneo orientale delle colonie commerciali dei paesi Occidentali. Per il vino Malvasia, con tale denominazione, si fa cenno per la prima volta in un Decreto del Consiglio Superiore di Venezia, del 9 ottobre 1326[21]. In questo Decreto è scritto: «…excepto vino Crete panello, vino Malvasie et vino Romanie». Più tardi il Senato Veneto in suo Atto del 16 maggio 1371 fissa: «…8°) Item sicut de vino Monavaxie… 9°) It em quod sicut de vino Romanie et Crete…». Eppure in un altro Decreto del 24 set-tembre 1381, del Consiglio Superiore è scritto: «Vina de Creta, Monovasia et Romania…». D’allora, cioè, si fa una netta distinzione tra il vino di Creta, di Monembasia e della Grecia Continentale.

Però, in quell’epoca, mentre l’isola di Creta[22] era dominio Veneto, Monembasia apparteneva all’Impero Bizantino. Ma durante il 14° secolo il vino Malvasia era già diventato ben noto nei paesi consumatori dell’Europa occidentale. Per un tale commercio però, la produzione della Monembasia non era sufficiente. E perciò i Veneziani avevano cercato di sviluppare la produzione di questo vino pure a Creta. Questo non è sorprendente.

Il pericolo delle invasioni dalla terra ferma (occupazione provvisoria dei Franchi, 1251-1262) e la sua posizione geografica, la obbligarono a mettersi in contatto con il resto del mondo per la via del mare. Così, con il tempo, Monembasia diventa un potente centro marittimo e commerciale soprattutto in seguito agli importantissimi privilegi concessile da Michele VIII Paleologo (1259-1282) e ratificati nel 1284 da Andronico II (1282-1328). Allora Monembasia aveva relazioni commerciali con la Calabria e la Sicilia e in genere con l’Oriente e l’Occidente.

Con una quarta bolla d’oro di Andronico II Paleologo venivano di nuovo concessi alla città di Monembasia importanti privilegi amministrativi ed economici per rinforzarla rispetto a Metone e a Corone occupate dai Latini. A Costantinopoli, Silibria, Eraclea, Redesto, Gallipoli ed altre città erano insediati molti Monembasioti che si dedicavano al commercio del vino della loro città.

L’imperatore Giovanni VI Cantacuzéno (1347-1355) scrive poi che, all’inizio del 14° secolo, l’agricoltura della regione fu abbandonata e le città e i villaggi devastati. Più tardi — all’inizio del 15° secolo — abbiamo la prima occupazione della Monembasia dai Veneziani (1419-1431). Durante il periodo 1460-1464 Monembasia fu posta sotto la protezione di Papa Pio II, perché i Turchi avevano ormai occupato la riva opposta ed i corsari l’avevano assediata dal mare. Nel 1464 comincia la seconda occupazione di Monembasia dai Veneziani (1464-1540). In seguito a ciò i Turchi l’avevano assediata e privata dei suoi vigneti e allora i Veneziani, con ritmo ancora più intenso, si erano dedicati alla produzione della Malvasia nell’isola di Creta.

Lo stesso, e per gli stessi motivi, avevano praticato i Veneziani anche per il vitigno Corinto nero e la produzione della Passolina nera, che in parte avevano trasportato dal Peloponneso nelle isole Ionie e più precisamente a Zante e a Cefalonia[23].

Partendo da Monemvasia il vino veniva esportato attraverso Venezia verso l’Europa occidentale probabilmente a partire dall’ultimo terzo del Duecento: lat.mcdicv. vinum di Malvagia (1278. Ka.hane. ReallexByzant 399). fr. malvesy ‘vin liquoreux de Grèce’ (1393, GdfS). cat. a. vi de Malvesia (1403. Rubi& DELCat 5.402). Nel Tre/Quattrocento il vitigno emerge lungo la costa della Dalmazia accanto ai vitigni indigeni.

Si apre, così, anche una seconda ipotesi sul piano storico, ovvero che il nome di un vino non derivi dal suo luogo d’origine, ma dal nome dell’emporio oppure del centro della sua vinificazione: se vediamo p. e. i Sacheracher Weine in Germania e i vini bordolesi in Francia (cfr. Braun iiber Land und Meer, 1879. 5,875 segg. in Schiller-Lilbben. Nachtrag[24].

Michael VIII Palaiologos. Miniature from the manuscript of Pachymeres’ Historia, 14th century. Munich, Bayerische Staatsbibliothek. Di unknown Byzantine illuminator. – Bayerische Staatsbibliothek (Munich), Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5402836

MALVASIA AROMATICA DI CANDIA NEL PIACENTINO

Una progenitrice: la Malvasia odorosissima di Parma.

Un recente studio genetico (Ruffa et al., 2016[25]) descrive una relazione genitore-figlio tra la Malvasia Odorosissima di Parma e la Malvasia di Candia aromatica (Parent-offspring relationships), nonché tra a Malvasia Odorosissima di Parma e Moscato bianco. Allo stesso tempo, non è stata osservata alcuna relazione genetica tra a Malvasia di Candia aromatica e Moscato bianco (As for the “Moscato bianco” kingroup, and likely for the same reasons, IBD statistics failed to discriminate between FS[26] and second-degree kinship for the two detected dyads “Bonardina”-”Ruché” and “Ruché”-”Malvasia di Candia aromatica”).

Moscato Bianco e genitore sconosciuto → Bordò e Malvasia odorosissima di Parma. Malvasia odorosissima di Parma e genitore sconosciuto (tra gli altri Malvasia moscata, Bonardina, Poliziana), → la Malvasia di Candia aromatica.

«La ricchezza del profilo aromatico del Malvasia odorosissima di Parma è una caratteristica importante per la valorizzazione enologica di questa varietà, attualmente in via di estinzione ed erroneamente confusa con il Malvasia di Candia aromatica, anche dagli enologi. La peculiarità del profilo volatile, con un elevato contenuto di terpenoidi in forma libera, addirittura superiore a quello del MC, costituisce un prerequisito per la produzione di vini aromatici. Inoltre, il MO sembra essere meno suscettibile alle variazioni stagionali in termini di espressione quantitativa dei volatili, come invece dimostrato dal MC. (…) Alcune evidenze rendono il profilo aromatico del MO simile a quello del Moscato bianco, dando così valore alla vicinanza già dimostrata dall’analisi genetica tra le due varietà aromatiche. La bassa resa di questa cultivar, che è stata l’unica ragione della sua sostituzione nei vigneti con la MC ad alta resa, può essere superata o mitigata da strumenti agronomici volti a migliorare la scarsa allegagione dei suoi fiori femminili attraverso l’introduzione di impollinatori appropriati e la gestione della chioma nel vigneto[27]».

Ben visibile il bastione di Fodesta e il tracciato del canale (100) Di Jérôme Lalande – Disponibile nella biblioteca digitale BEIC e caricato in collaborazione con Fondazione BEIC., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=119096458

Le scoperte scientifiche recenti aiutano a definire meglio l’origine e la diffusione storica della Malvasia di Candia aromatica? Solo parzialmente. Secondo i dati qui riportati non si può escludere né che la Malvasia di Candia aromatica faccia parte del grande novero di malvasie di importazione greca, adattatesi e modificatesi geneticamente nel corso dei secoli, né che appartenga ad altre progenie di differente provenienza.  Quello che mi pare di poter escludere è che la Malvasia di Candia aromatica faccia parte di un novero di vitigni la cui origine, perduta nel tempo, sia da annoverare esclusivamente al suolo italico.

Il riferimento è, in questo caso al vigneto di Leonardo da Vinci, quasi sicuramente composto dalla Malvasia di Candia aromatica che alcuni vorrebbero fosse arrivata da Candia Lomellina (provincia di Pavia), di cui Giacometto della Tela, ossia Atellani[28], era podestà e non più da Creta, il cui antico nome come già visto, era appunto Candia. Di lì, ad immaginare, senza alcuna prova a sostegno, che si trattasse di vitigni autoctoni per i riferimenti nominali legati alle proprietà, il passo è breve. Se a questo, poi, si aggiunge che la dimora Atellani venne comprata ai Landi, conti di Piacenza, il sospetto che i vitigni provenissero da lì e non da Candia Lomellina è più che probabile. E anche qualora fossero comunque pervenuti da Candia Lomellina nulla esclude che vi fossero stati portati dal piacentino. La vivacità commerciale del porto piacentino di Fodesta[29], costruito in epoca romana ed attivo fino al la fine dell’Ottocento, racconta di transiti per via fluviale che da e per la cità giungevano sino all’Adriatico e che si spingevano all’interno in tutte le direzioni allora navigabili: «Et appresso si dechiara che tutti li huomini et donne, così a piede come a cavallo, bestie d’ogni sorte, così minute come grosse, come di robbe d’ogni sorte, tanto piacentini quanto forastieri, carri, cocchi, lettiche, carozze, barozzi, cavalli et altri animali da soma, così carichi come vuoti, robbe d’ogni sorte, et d’ogni altra cosa di sopra espressa, che passerà et traverserà il Po, da una ripa all’altra, in qualsivoglia modo, nel territorio piacentino et nelle aque piacentine, siano tenuti et debbano pagare per il nollo di detto porto, pedaggio et traverso del Po, tanto quanto pagariano, se passassero al luogo di detto porto di Piacenza sul detto porto, o sopra le barche, nel luogo dove è il passaggio, et scuode il pagamento del porto, pedaggio et traverso di Piacenza sodetto, et questo d’ogni tempo, risservato però il nollo delle barche, sopra le quali passassero et si condurranno dette robbe et bestie come di sopra; secondo sarà dechiarato dall’illustre Magistrato delle entrade ducali di S.A. Serenissima. Et questo quando non passassero il luoco del porto, et tra la bocca di Trebbia et di Fodesta, come è detto di sopra, nel qual caso dovranno pagare si come passassero sopra detto porto[30]».  

Nei vari traffici non di rado risultano movimentazioni di merci varie, tra cui della malvasia alla volta di Pavia come questa: “Dominus Andrea Tadine conduce per al Po a Pavia balle 1 sarza: (paga) L. 1, sol. 3, den. —; Petro Antonio Morande conduce per al Po a Pavia some 37 roba bona în colli 48 et some 1 savone et some 18 pionbe in colli 25 et some 40 valanie ? incolte 1 et sache 3 et brente[31] 17 malvasia in colli 17: (paga) L. 143, sol. 3, den. 9. Josefe Giavarde conduce per Po a Cremona some 2 corame la- vorate in colli 4: (paga) L. 10, sol. 2, den.”

O quest’altra: “Die 15 dete.

Herede dal Trezage conduce per Po balle 21 roba de Fiandera a Ferara, some 10,4: (paga) L. 13, sol. 13, den. 6; Avostine de Otine conduce per Po a Pavia balle 2, choltere n. 9, mataraze 1, 10 al cavezale 65, peze doie vergate, sigia 1 malvasia, chadreghe 24, viniciane reme 24, store 20, piseI charta stampata: (paga) L. 2, sol. 18, den”

E ancora: “Die 3 dete. Dominus Franciscus Dalarata per Petro Maria Renze conduce per al Po a Pavia some 6 gala; some 4 cordevane, some 1,% malvasia in colli 11: (paga) L. 8, sol. 19, den. 3. Et più colte 1, valania, some ***: L. —, sol. —, den. —; El Chodega conduce per al Po a Paviia some 10 valania in sache 13: (paga) L. 4, sol. 10, den.”

E qui: “Die 3 dete.

Dominus Franciscus Dalarata per Petro Maria Renze conduce per al Po a Pavia some 6 gala ®; some 4 cordevane, some 1,% malvasia in colli 11: (paga) L. 8, sol. 19, den. 3. Et più colte 1, valania, some ***: L. —, sol. —, den. —; El Chodega conduce per al Po a Paviia some 10 valania in sache 13: (paga) L. 4, sol. 10, den. —“.

E qui: “Die primo septembris 1558.

Domino Iovane Batista Sentino conduce per il Po a Pavia some 20 roba bona in coli 23: (paga) L. 24, sol. 12, den. —; Iovane Ieronimo di Bertone con- duce per il Po a Pavia carateli 2 malvasia, some 3 quarti 1 roba bona in coli 6, fagoto 1 zibilino 80 da preti: (paga) L. 7, sol. 16, den. 9”

E qui: “Adì 8 ditto 1558.

Domino Iovane Batista Santino conduce per il Po a Pavia quarto 1 roba bona: (paga) L. 1, sol. 10, den. 9; Herede dil Terzago conduce per il Po a Pavia bala 1 coltre: (paga) L. 1, sol. —, den. 6; Iovane Antonio Franzolo conduce per il Po a Pavia case 9 roba bona some 5, carteli 4 malvasia some 2, some 2,1/2 in coli 10 fagoti 2, pise 3 store, n. 100 cadrege, arnie n. 18: (paga) L. 18, sol. 4, den. 6”

E qui: “Adì 6 ditto.

Herede dal Terzago conduce per il Po some 9,4 roba deverse in coli 6 et fagoto 1 per Cremona some 57 in coli n. 114 e fagoto doi per Ferara: (paga) L. 53, sol. 2, den. 4; Cristoforo Canavini conduce per il Po a Pavia coleto I panno et faso 1 alzale: (paga) L. 3, sol. 7, den. —; Herede del Terzage conduce per il Po a Picigitone some 7 Ultramonte: (paga) L. 7, sol —, den. —; Io- vane Francesco di Bertone conduce per il Po a Pavia some 1 roba bona, careto I malvasia: (paga) L. 2, sol. rr, den. 6.”

E qui: “Adì 6 ditto.

Herede dal Terzago conduce per il Po some 9,4 roba deverse in coli 6 et fagoto 1 per Cremona some 57 in coli n. 114 e fagoto doi per Ferara: (paga) L. 53, sol. 2, den. 4; Cristoforo Canavini conduce per il Po a Pavia coleto I panno et faso 1 alzale: (paga) L. 3, sol. 7, den. —; Herede del Terzage conduce per il Po a Picigitone some 7 Ultramonte: (paga) L. 7, sol —, den. —; Io- vane Francesco di Bertone conduce per il Po a Pavia some 1 roba bona, careto 1 malvasia: (paga) L. 2, sol. rr, den. 6[32]

Altrettante, se non di più, sono le testimonianze sull’invio e sull’arrivo di merci, compresa la malvasia, da Venezia. Il che fa pensare al fatto che, nonostante vi fosse una produzione locale di malvasia, come vedremo dalle testimonianze scritte, vi era, allo stesso modo, una cospicua importazione e distribuzione di altre malvasie provenienti dalla Serenissima. Lo stesso si può immaginare riguardasse le talee e materiali adatti alla costruzione della vigna. Questi atti, che hanno pregnanza e validità storica, servono inoltre a ribadire quanto avevo accennato prima: se Leonardo da Vinci impiantò una vigna di Malvasia di Candia aromatica è assai probabile, anche qualora fosse arrivata dagli Atellani di Candia Lomellina (PV), che avesse origine nel Piacentino e, a ritroso, in un incerto passato che, per via fluviale avrebbe potuto rimandare a Venezia e da Venezia alle isole greche dell’Egeo, e Candia, ovvero Creta, in particolare. 

Fu soltanto a seguito della ripresa della guerra franco-spagnola nell’Italia settentrionale, che «la tradizionale vivacità commerciale di Piacenza ebbe un calo per la cessazione di merci dalla Francia e da Genova, per cui il gettito del traffico nel porto di Fodesta si ridusse di ben 3.200 lire imperiali, tanto che gli appaltatori del Dazio Grande nel 1558 chiedettero una parallela diminuzione dei canoni. I passaggi navali registrati dal gennaio al novembre 1558 sono soltanto 410, con prevalenti destinazioni ravvicinate a Pavia (235), Cremona (144), Ferrara (49) e Venezia (47); un mezzo disastro. Tra le merci in transito si riscontrano l’assenza dei cereali e la scarsità di olio d’oliva, miele e formaggi e si distingue il vino, calcolato in 12.000 brente, che da Piacenza era diretto soprattutto a Pavia, da dove proseguiva per Milano, che aveva un vasto mercato.

Il dazio sul trasporto del vino e dell’aceto, la “tratta”, era annesso al “Dazio grande della Mercanzia” e riguardava la quantità di vino transitante sul braccio di Po piacentino, che era sempre stato in gran parte piemontese (da Voghera al Monferrato) ed era diretto a Venezia; non mancava il vino piacentino esportato soprattutto in Lombardia. Il vino piacentino, soprattutto il bianco malvasia, era trasportato su piccole veggiole da due brente»[33].

LE TESTIMONIANZE STORICHE SULLA MALVASIA DI CANDIA AROMATICA NEL PIACENTINO.

Senza il percorso, tortuoso, non lineare, in cui diverse tracce si perdono nei precipizi della storia, quest’ultima parte, fatta per lo più di testimonianze scritte giunte sino a noi sembrerebbero come delle meteore vaganti per lo spazio.

Andrea Bacci (1596)

Medico e naturalista[34] nipote di un ingegnere della fabbrica della Basilica di Loreto e discendente da parte di madre dei Paleologi, ultimi imperatori di Bisanzio. Studiò a Matelica, poi fu a Siena, ed infine a Roma sotto la protezione del concittadino Modestino Cassini, Archiatra di Pio V. Laureatosi, nel 1552 divenne pubblico lettore di filosofia e favorito dal Cardinale Ascanio Colonna, entrando ben presto nella migliore società romana. Sei anni dopo diede alle stampe la sua prima opera “Sul Tevere”, ma fu con il “De Thermis” che, nel 1571 assurse a grande notorietà. Il libro venne accolto con entusiasmo perché ritenuto il più dotto trattato sulla storia e le qualità terapeutiche delle acque, ed ebbe diverse ristampe anche successive fino al ‘700.

Nel 1567 al Bacci fu assegnata la cattedra di botanica dell’Università “La Sapienza”, e nel 1586 Sisto V gli concesse la nomina di Archiatra Pontificio. Pur continuando a scrivere su varie tematiche, ormai colmo d’onori ed avanti negli anni, il Bacci si dedicò finalmente a redigere il “De naturali vinorum historia[35]“, trattato monumentale sulla storia dei vini.

Pubblicato nel 1596 è suddiviso in sette libri:

I -temi relativi alla vinificazione e conservazione dei vini;

II -consumo dei vini in rapporto alle condizioni di salute;

III -caratteristiche peculiari dei diversi vini;

IV -uso dei vini da parte degli antichi, specie nei conviti;

V -vini delle varie regioni d’Italia;

VI -vini che si importavano a Roma;

VII -vini dei paesi stranieri.

L’opera di Bacci, arricchita dei dati raccolti dalla letteratura greca e latina, propone annotazioni sul clima, sul paesaggio agrario, sulle iniziative economiche dei principi e delle popolazioni, sul carattere degli abitanti e sulle tradizioni conviviali dei vari Paesi.

«Non meno pregiati vini produceva Castel S. Giovanni e gli altri colli vicini a Piacenza: bianchi e rossi, gagliardi ed alcoolici, tanto che, dice il B., pur chiamandosi Greci, Moscatelli e Trebulani, sono di questi più potenti. Assai meno potenti invece eran quelli prodotti da Borgonuovo: bianchi e rossi c sinceri e innocenti anche pei malati «Però fra i rossi di questo paese ve n’ era uno speciale per la sua robusta dolcezza, ottenuto dalle uve pignole, comuni in tutto il Piacentino, fragranti e aromatiche. Il nome deriva dalla forma del grappolo, denso di acini neri e succosissimi, a guisa di pigna. Nel vicino Zíano si producevano invece vini bianchi nitidissimi, più robusti dei circostanti, e molto apprezzati a Milano, specialmente una qualità chiamata Gatto (!). Inoltre sugli Appennini, fin sotto Torton a e Bobbío, si producevan certi vini molto apprezzati e dolci, detti Malvatici e Cornielati[36]. Ultra praedictum Sancti Joannis castrum, eodem situ in meridiem Burgum Novum cognomento nobile oppidum extat sub Ascanij Sfortiae dominio, ac comitatus dignitate ormatum. In cuis agri, ac frugiferis collibus vina producuntur syncera, rubro, ac flava colore, nec quicquam fumosa, ut aegrotantibus etiam habentur innoxia. Sunt & in censu rubeorum validiora, quae & gratum sapiunt dulcorem, Pineola; vina cognominantur in toto etiam. Placentino communia, quoniam & sapore atque atiam odore delectant aromatico; & ex ipso etiam uva-rum genere, compactis in ipso racemulo Pinearum instar uvis subrubentibus, & nigris, succosis. Quo potissimum uvae genere sub Ancarano cognominato Vico, Thebaldorum familiae illustri colles abundant. Est praeterea in eiusdemm Burgi comitatu Vicus Ziani nomine: in cuis colliculi ad meridiem, & occasum obversis, vina producunt prae ceteris vicinis validiora, flava, ac limpida nitore, atque adeo syncera, ut Mediolani habeantur preciosa, atque eius praesertim generis, quod vinum Gattum, sicut alibi Mattum in Benaco cognominant: quoniam odore valido, ac flavo similiter colore, facile tenent caput. Nec etiam Malvaticis cedit vinis. Porro longo eo tractum collium Appennini, ad occidentem, ac Boream nec minus sub Tortona, ac Bobio civitatibus excellunt, praesertim quae pro eadem saporis, atque dulcoris gratia, quasi Malvatica, ac Cornielata volgò appellantur, sub oppido Arquati, & pro edito situ electissima habentur vina».

«Nel libro sesto passa alla descrizione dei vini italiani partendo dal Lazio, per cui prima arriva a Modena (in Mutinensi et Parmensi vina), che dice celebre per i vini bianchi, di gusto piacevolmente piccante e di soave odore, e conosciuta anche per i vini rossi, dall’uva succosa dolce chiamata Spongiola, non diversamente da quelli di Carpi, Reggio e Parma. A Borgo San Donnino, dopo averne raccontato la storia, segnala diversi bianchi (f lava plurima), in particolare di Moscatella, di Schiava Trebiana, che si chiama Vernaccia; nella pianura presso il Po si creano vini mediocri, acquosi, propri per uso dei malati. Quando arriva a Castel San Giovanni, oltre alla ricchezza dell’agricoltura nella pianura del Po, dimostra l’eccellenza dei vini, tratti da vitigni trasferiti da ogni parte d’Italia, sceltissimi per ampia notorietà, bianchi, rossi forti, che, splendidi per il fulgore dorato, che osano chiamare Greci, o Moscatelli o Trebbiani, e sono talmente validi che danno facilmente alla testa. E poi cita il territorio di Borgo Novo, signoria di Ascanio Sforza, sui cui fruttiferi colli si producono vini sinceri, di colore rosso e biondo, non torbidi. I rossi sono nella considerazione più validi (Pignoli) perché hanno un gradevole gusto dolce e dilettano per il sapore e l’odore aromatico, provenienti da uve dal grappolo compatto e rossiccio o nero, ma succoso. Soprattutto di questo genere di uva hanno grande abbondanza i colli sotto il villaggio di Ancarano e nella stessa zona c’è il villaggio di Ziano, sulle cui colline si producono vini più validi degli altri, dorati e limpidi e tanto sinceri e buoni, che a Milano sono ritenuti pregiati, soprattutto quello che chiamano vino Gatto, come sul Garda il Matto, perché per l’odore forte e il colore biondo facilmente dà alla testa; e non rimane indietro nemmeno alle Malvasie. Nel tratto appenninico verso ovest tra Tortona e Bobbio eccellono soprattutto quei vini che vengono chiamati Corneliati, per quel sapore e per quella dolcezza, quasi di malvasia; nella cittadina di Arquato per gli stessi terreni si ottengono vini “elettissimi”. Insomma le due lunghe descrizioni occupano uno spazio almeno quadruplo rispetto a quello dedicato alle altre aree emiliane, segno che i vini piacentini erano davvero tenuti in grande considerazione[37]».

Giuseppe Falcone (1597)

La Villa del Falcone godette di un’indubbia fama, che produsse, tra il 1597 ed il 1691, ben otto edizioni: una a Pavia (1597), due a Brescia (1599 e 1602), una a Treviso (1602), quattro a Venezia (1603, 1612, 1619, 1628), ed una a Piacenza (1691). A quest’opera se ne affianca una seconda, minore, che riguarda l’allevamento del bestiame ed intitolata Rimedii dove s’insegna molti et varii secreti per medicar bue, vacche, cani, cavalli et ogni altra sorte di animali, pure con varie edizioni tra Cinque e Seicento anche se nessuna delle quali uscita a Brescia.

Il caso di Giuseppe Falcone è molto interessante, perché apre uno spiraglio del tutto inaspettato nella storia dell’editoria tardo-cinquecentesca. Come è stato sottolineato recentemente, la fortuna editoriale della Villa può essere dipesa in parte dall’afflato religioso e morale che pervade tutta l’opera, rendendola quindi bene accetta ai lettori dell’età post-tridentina. Si tratta naturalmente di un’ipotesi che andrebbe verificata attraverso uno studio approfondito; certo non va trascurato il fatto che le caratteristiche dell’opera si combinino con il dato ‘geografico’, e cioè che le prime edizioni siano uscite in zone – l’area milanese e quella bresciana che avevano raccolto l’eredità di s. Carlo Borromeo e di Domenico Bollani – nelle quali gli effetti del concilio di Trento si erano tramutati anche in una forte spinta per la produzione editoriale.

Ma l’agronomo bresciano non si formava esclusivamente attraverso lo studio dei testi di Gallo, Tarello, Falcone ed altri a lui contemporanei. Il primo passo era rappresentato dall’acquisizione dell’eredità lasciata dagli autori classici, latini e greci, relativamente all’agricoltura[38].  

«La rassegna dei classici moderni non si può concludere senza aver commentato almeno brevemente l’opera del piacentino Giuseppe Falcone, che compilò un’opera di notevole peso se rapportata ai trattati coevi, alla quale sarebbe giusto riservare un’attenzione particolare, che però si rimanda ad altra sede.

Con Falcone ha termine quella precettistica sull’agricoltura come attività produttiva e distensiva, che si contrappone alle tribolazioni della città e che assume ancora una disincantata visione rinascimentale della natura e della vita in villa. Questa concezione unitaria di alto retaggio classicistico, proveniente dai latini da Catone a Virgilio, dove il padrone è un pater familias che vede e provvede e che fa fruttare la campagna in modo ricco con la serenità d’animo, si spezza perché il signore vive e deve vivere nel suo palazzo di città e a corte per condividere il meraviglioso splendore del principe, per ossequiare il potere monocratico, che dispensa favori e privilegi solo ai fedeli sudditi di nobili schiatte.

Sul vino santo afferma che “questo si usa nel Piacentino, però se ne fabbrica anche nel Parmigiano, con l’uva Moscatella o Malvesia {sic)” raccolte mature e poi lasciate “nelle Camere a tasello ben pulite e riparate dall’umidità dell’aria, verso Natale poi e si follano e poi si mette a bulire per un mese circa, indi si cava, e si passa nei sacchetti fatti a tal uso, e poi si mette nelle pícciole botti munite di buoni cerchi e ben turate si lascia così per tre anni continui passati i quali si comincia a farne uso[39]».

Giovan Vettorio Soderini (1600)

Il Trattato apparve per la prima volta accompagnato da un altro trattato sul medesimo soggetto, di Bernardo Davanzati, e dall’Apologia del popone, di Leonardo Giacchini. L’opera di Soderini fu in seguito ristampata separatamente da Manni, Firenze, 1734, in-4°, con qualche aggiunta sulla vita dell’autore.

«Ancora “molto profittevole nel render vino” è il Greco, tanto ella sua terra nativa (che il S. pensava fosse nell’arcipelago greco…) quanto in Terra di Lavoro; “ma ama assai l’andare in alto, come anche il Trebbiano e l’istesso Pergolese di Tivoli”. Però aggiunge che “tutte le sorti di viti per lor natura desiderano d’andar in alto” cita in proposito – alcuni esempi di pergole a grande espansione …; “e poche se ne trovano che desiderino andar basse, o star terra terra, come le viti che fanno l’uva nera passerina di Coranto (evidentemente: Corinto) e le Passerine bianche”: e queste son da seccare.

Poi, senza nemmeno… far punto, continua con questa singolare affermazione: “e tanto fanno le viti che fan la Malvagia, delli quali vini un boccal solo condisce una botte di sei barili di vin bianco di quei paesi e lo fa esser tutto malvagia[40]”, e da sola “fa un vino potentissimo, e questa vite ne fa poco nel suo paese dí Candia e Cipri, e meno assai produce trasportata negli altrui, e si diletta d’andar terragnola”.

Già abbiamo avvertito quanto sia ingarbugliata l’ampelografía delle Malvasie; ma ciò che ne dice il Soderini ci fa escludere che si tratti dell’attuale Malvasia toscana, sembrando piuttosto trattarsi d’una Malvasia aromatica, di provenienza orientale: quella stessa che produceva í famosi vini greci, importati in gran quantità e tanto decantati durante i secoli XIV-XVII. Notiamo che l’Acerbi[41] cita appunto una Malvasia Moscado, della quale si dice che sia fatto il vino dí Madera … ed il Moscado dí Candia, e di varie isole dell’arcipelago, che ci viene da Venezia, e perciò da noi conosciuto sotto nome di Moscado di Venezia». Aggiunge che potrebbe essere la Malvoisie musquée) dei Francesi. E noi aggiungiamo che una Malvasia moscata si coltiva sull’ Appennino’ piacentino (e un po’ qua e là anche in Piemonte) sotto il nome di Malvasia di Candia[42]».

Filippo Re

Nei primi anni dell’Ottocento fu segretario della Società agraria di Bologna e titolare della cattedra di agricoltura all’Università felsinea, di cui venne nominato rettore dal 1805 al 1806. Autore di studi e pubblicazioni sulle malattie delle piante, la concimazione dei terreni e l’erba medica, fu promotore di un’inchiesta sull’agricoltura dalla quale nacquero gli Annali dell’agricoltura del Regno d’Italia (1809-1814), ove dette risalto e valore alle varietà e alle differenze dell’agricoltura italiana.

Dell’ Agricoltura del circondario di Piacenza[43] dipartimento del Taro impero francese Memoria di un anonimo in risposta ai quesiti proposti dal compilatore degli Annali dell’Agricoltura del regno d’Italia a molti agronomi e specialmente a quelli esposti nel tomo III di detti Annali. Continuazione e fine

«Le uve di questo circondario per la più parte sono nere. Tra le molte varietà io qui annovererò quelle che sono le più pregiate per far vino coi nomi del paese Son queste l’uva fruttana l’oriniona la pignola la crova la berzemina la bessegana. Le più famigerate fra le bianche sono la malvasia la moscatella la greca la tribbiana

che fa vin duro e la lugliatica solo dilettevole a mangiare.

Il vino fra di noi più stimalo il di cui nome solo ne fa l’elogio, e nel tempo stesso il più serbatojo, è il vino santo Per farlo scelgono due terzi tra malvasia e moscatello e un terzo d’altra uva bianca e di poco tribbiano, e di queste qualità d’uve scelgono le più dicotte. Le lasciano distese sopra graticci sino al Natale.

In questa stagione le calcano solto il torcolare lasciano il mosto in vasi aperti venti o trenta giorni indi lo mettono ben chiuso in piccoli dogli sopra terra Questo vino è reso ottimamente abile al bersi dopo tre anni e quanto più invecchia tanto più migliora».

La Malvasia rosa

L’attività di genetica viticola della Cattedra di Viticoltura di Piacenza si è anche dedicata al miglioramento delle varietà tradizionali del Piacentino mediante la selezione clonale, durata decenni, che ha portato all’omologazione dei seguenti doni: Malvasia di Candia aromatica n° 3 doni, Sauvignon B. n° 3 doni, Ortrugo n° 2 doni, Barbera n° 2 doni, Bonarda n° 2 doni. La propagazione dei suddetti doni è stata affidata all’ESAVE, confluita poi nell’Ente Regionale dell’Emilia Romagna denominata CRPV. Sotto il profilo giuridico lo scrivente[44] rimane il responsabile dei doni in quanto costitutore genetico.

Come è noto i cloni derivano da mutazioni genetiche ma rimangono all’interno della varietà madre. Una mutazione gemmaria che invece è uscita dalla varietà genitrice è la Malvasia rosa, selezionata dallo scrivente nel 1967, a seguito di una segnalazione del compianto Dr. Giuseppe Comolli, grande tecnico del Consorzio Agrario di Piacenza. In realtà nel 1967 fu il mezzadro dell’azienda Uccellaia in Val Nure (presso Albarola) a non rendersi ragione della presenza di un grappolo rosa su una pianta di Malvasia di Candia aromatica, i cui grappoli sono notoriamente bianchi. Lo scrivente prese in adozione il ceppo e selezionò le gemme per utilizzarle nell’innesto, al fine di ottenere figlie di Malvasia rosa.

CONCLUSIONI

La storia delle malvasie, necessariamente al plurale, conduce verso rivi e percorsi tanto accidentati quanto carsici: portano fino ad un certo punto per poi far scomparire le loro tracce. In tutto questo i nostri antenati, come abbiamo potuto notare, hanno messo del loro e la ragione è presto detta: quella commerciale. E le malvasie hanno rappresentato, dal punto di vista storico, un precedente di tutto rilievo: identità territoriali, produzioni, commercio e prezzi hanno giocato ruoli finalizzati ad un’unica parte e al medesimo risultato. A guardar bene, poi, nei lontanissimi XIII e XIV secoli, un seppur minima suddivisione tra vini proveniente da Creta (Candia), Cipro e da Malvasia (Monembasia) vi era. Se a questo aggiungiamo che comunque, già all’epoca, vi era chi riteneva che Monembasia era soltanto un porto d’imbarco delle merci (e il raffronto va con altre regioni europee), altri interrogativi si accavallano a quelli posti all’origine. Nonostante i dubbi di provenienza e di origine siano ancora pienamente legittimi, quello che si sa con buona certezza riguarda il ruolo che ebbe Venezia in tutto questo. Essa non fu solamente la reggente dei traffici delle malvasie, del possesso, alterno, delle terre che ne videro la probabile origine ma anche e soprattutto, il canale di diffusione dei vini e la promotrice della espansione viticola di un marchio. E in questo caso giocò un ruolo essenziale un altro importantissimo canale d’acqua: il fiume Po.

E Piacenza e il piacentino non solo facevano parte di quell’enorme corso d’acqua e di distribuzione, ma ne erano parte integrante sia per il porto cittadino che per le campagne che la attorniavano. Ed ecco allora che si sa, con altrettanta buona certezza, che in quelle terre si coltivava malvasia e la si esportava sia in forma di vino che di vitigno. Ma di quale malvasia si trattava? Di un frutto che i relatori dell’epoca definivano come profumato. Oggi sappiamo il grado di discendenza con un’altra malvasia, ovvero quella odorosissima di Parma tanto a rafforzare sia la comune origine territoriale che quella aromatica. Agli inizi dell’Ottocento, infine, l’inchiesta agraria di Filippo Re rimanda ancora ad un vin santo composto per i 2/3 di malvasia aromatica, racconto che rimanda a quello seicentesco di Giuseppe Falcone. Da bersi dopo tre anni: un vino fatto con uve appassite, certamente aromatico e profumatissimo e, naturalmente, secco.   

APPENDICE

La Malvasia nelle opere letterarie[45].

Malvasìa’ (ant. malvagia, malvascìa, malvaxìa), sf. Enol. Vino bianco pregiato, di gradazione compresa tra gli // e i /7 gradi alcoolici, di sapore aromatico, dolce oppure secco, originario del Peloponneso; hanno lo stesso nome anche altri vini con caratteristiche in parte diverse, derivati da varietà di vitigni coltivati in 1talia, Spagna, ecc.

Boccaccio, Dee., 73 (/63): Lasciamo stare d’aver le lor celle piene d’alberelli di lattovari e d’unguenti colmi, …di bottacci di malvagia e di greco e d’altri vini preziosissimi traboccanti, …essi non si vergognano che altri sappia loro esser gottosi.

Sacchetti, 3/7: Denar quaranta per la malvagia.

Prudenzani, LXV1-/-//4: Romeca de mattina e malvascia, / a tavola gaglioppa e cortonese, / cima de giglio e vin di Romania.

S. Bernardino da Siena, 1V-/2: Alle taverne, empiuti i corpi di malvagia e di pinocchiati, i vostri giovanzelli che ne segue?

M. Savonarola, 59: Valle molto a fare la dieta aqua [ardente] malvaxia, vino de Tiro, trebiano, ribolla, vino greco, vernacia, romania, universalemente con le proprietade e condizione che de sopra diete sono. Sanguinacci, XXX1X/-298: Ricanati ancor qui non dispresio / che sono signori di buon trebiani, / …di Candia la malvasìa novella.

Bandello, 2-37 (1-/055): Riccardo re fece annegar il duca di Clocestre, suo zio, essendo a Cales, in un vaso di malvagia.

Lancerio, LXV1-/-3/7: La malvagia buona viene a Roma di Candia. Di Schiavonia ne viene la dolce, tonda e garba. Se si vuole conoscere la meglio bisogna che non sia fumosa né matrosa, ma che sia di colore dorato.

Tassoni, //-22: Fattosi recare un fiasco pieno / di vecchia e dilicata malvagia, / gli ne fece assaggiar tre gran bicchieri.

Siri, 1-/55: 1n quel disnare, andandosi per gradi dalli vini communi fin’all’acqua di vite, senza fermarsi né alli moscati di Candia né alle più vigorose malvaggie, eccitando la sete con salami, caricò e aggravò in maniera S. A. lo stomaco che ‘l calore naturale non potendo digerire un tale e sì grande me- scuglio, fu assalito dalla febre.

Redi, /6-1-8: Han giudizio e non son gonzi / quei Toscani bevitori / che tracannano gli umori / della vaga e della bionda, / che di gioia i cuori innonda, / malvagia di Montegonzi.

Baruffaldi, 1-271: Eri avvezzo a starti giorno e notte, / e più allor che il lion nel ciel ruggia, / chiuso e sepolto nelle fresche grotte / per riscaldarti colla malvaggia.

Fantoni, 11-60: 1o depongo questa fiasca piena / di malvagia.

Ghislanzoni, 239: Non mi farebbe male l’adagiarmi per qualche ora su quel divano, pensava il visconte, dopo aver sorseggiato un mezzo bicchiere di malvasia.

Thovez, /-97: Aveva inviato in dono una botte di malvasia o di vernaccia che fosse.

Dessi, 9-/2/: La fama di anarchico, di eversore di governi, di mangiapreti, e anche di sottaniere, era giustificata da certe improvvise sfuriate che la buona gente metteva in relazione con i bicchierini di ~ filu ferru ‘ o di malvasia che si scolava.

P. Petrocchi [s. v.]: 1l malvasia è giallo chiaro, dolce,

spiritoso, di corpo. Malvasia stravecchio. Malvasia mo- scado.

  • L’uva che, vinificata, dà origine al vino omonimo; la più diffusa è quella con frutto bianco di sapore semplice, ma esistono altre varietà con frutto nero e rosso, e anche con sapore aromatico simile a quello del moscato.

Trinci, /-63: L’uva malvasia, o sia grechetto, è di qualità bianca; comincia a maturare circa alla metà d’agosto e, giunta alla sua perfezione, partecipa quasi del giallo; ne fa ragionevolmente di pigne piccole, raccolte, serrate e di granella piccole, un poco bislunghe e di guscio più tosto duro.

Paoletti, /-2-49: La malvagia, la volpola o cimiciattola, il navarrino, ecc. son tutte uve atte a formare un vino saporito, spiritoso, durevole.

Lastri, 11-/74: Un’uva bianca, di colore alquanto carico e che produce un vino potente e squisitissimo, è quella che si chiama ~ moscadellata ‘ e può chiamarsi ancora ~ malvagia di Piemonte ‘, essendo originaria di quel paese.

P. Petrocchi [s. v.]: Malvasia’: specie d’uva delicata. ~ Senti com’è buona questa malvasia. La malvasia è quasi gialla’. Soldati, 5-//6: 1 vini della Riviera del Garda e quelli detti della Franciacorta… sono prodotti nelle colline a sud del Lago d’1seo, con uve 80% un misto di barbera, berzamino o barzamino nostrano, sangiovese; e 20% un misto di malvasia e vernaccia bianca.

  • Locuz. Dar malvasia per dolce vino: rendere la pariglia.

Berni, 59-56 (V-88): Così fu rapportato anche al danese, / che combatteva, e non era di sotto; / anzi ben stava al par con Serpentino, / dando a lui malvagia per dolce vino.

Essere più dolce che la malvasia: essere amabile e desiderabile in sommo grado.

Lorenzo de’ Medici, 11-276: Più chiara se’ che acqua di fontana / e se’ più dolce che la malvagia; / quando ti sguardo da sera o mattina, / più bianca se’ che il fior della farina.

Fare le prove intorno alla malvasia: competere a chi ne beve di più.

Aretino, 20-/59: Se le prove del letto si assimigliassero a quelle che fanno intorno ai fasciani e a la malvagia, ne incacarebbero Orlando.

Innaffiare il corpo di malvasia: berne in gran quantità.

Nievo, 1-581: Non è vero puranco che il lampadaio ha cura soltanto d’innaffiare il suo corpo di malvasia e rimpinzarlo di polli e di salati?

– Non esser né malvasia né marsala: vivere in una modesta mediocrità.

Carrieri, 4-93:Non sei, mai sarai / malvasia né vino marsala. / L’oscuro tanto t’addolcisce, / il chiuso goloso ti ripara.

– Nuotare nella malvasia: berne a volontà, rimpinzarsene oltre ogni limite.

Mariconda, 1-2-2: S’io fussi padrone, …vorrei… che

i miei servi notassero sempre nelle guamaccie e nelle malvagie.

– Trasudare la malvasia dai pori a qualcuno: presentarsi con l’aspetto congestionato che è conseguenza di abituali eccessive libagioni.

Di Brente, 78: Un certo rotondo abate, cui trasudava la malvasia dai pori.

= Dal nome della cittadina greca di Monembasia o Napoli di Malvasìa dei Veneziani.

Malvàtica, sf. Ant. Malvasia.

Cammelli, 167-13: L’un dice che a mangiarli [i fichi] l’acqua vòle, / chi li vói soli e chi li vói col pane. / Io mi fo beffe delle lor parole: / la malvatica queste [frutte] fa più sane, / ché l’acqua putrefar sempre le sóle.

= Etimo incerto, probabil. da malvasia1.

Malvàtico1, agg. (plur. m. -ci). Ant. Vino malvatico: malvasia.

M. Savonarola, 1-188: Ancuora è laudato l’aqua di gramegna, l’olio dato cum vino malvatico. Brasca, 61: Poi scopersemo insula de Candia, …la quale insula è abundante de perfetissimi vini malvatici.

Dalla Croce, II-31: Sempre gli gocciava nel fondo quattro o sei goccie di quello mirabile liquore, secreto di mio padre; Recipe onc. 20 di vino malvatico schietto; onc. 4 di betonica e onc. 2 di succo di calamento, mirra olibano, alce, sangue di drago, mastici, centaurea minore, granella d’ipericone, an. dramm. 1.

Cinquanta, XXXIV-679: Tu mi allonghi la vita, se in la cane va / conservi il vin malvatico, / ch’ormai più non si trova nel commercio.

BIBLIOGRAFIA

Volumi

Carlo Ginzburg, Le nostre parole, e le loro. Una riflessione sul mestiere di storico, oggi; in La lettera uccide, Adelphi, Milano 2021;

Ampelografia universale storica illustrata: i vitigni del mondo: compendio del/compendium of Ampélographie di/by Pierre Viala e Victor Vermorel, L’Artistica Editrice, Savigliano 2012;

VIALA – VERMOREL, Traité général de viticulture, dite aussi Ampélographie Viala et Vermorel, vol. VII, p. 212. In https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k6532418x/f13.image;

Giuseppe di Rovasenda, Saggio di una Ampelografia Universale, Ermanno Loescher, Torino 1877;

A.A.V.V., La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento, Centro Culturale Artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, luglio 2003;

A. Marescalchi, G. Dalmasso, Storia della vite e del vino in Italia, III Volume, Enrico Gualdoni, Milano. 1933;

Wolfgang Schweickard, Deonomasticon Italicum. Dizionario storico dei derivati da nomi geografici e da nomi di persona. Volume III. Derivati da nomi geografici: M–Q, ‎ De Gruyter, Berlino 2009;

Thomas Hohnerlein-Buchinger, Per un sublessico vitivinicolo. La storia materiale e linguistica di alcuni nomi di viti e vini italiani, De Gruyter, Berlino 2009;

Ivan Dujčev, Cronaca di Monembasia. Introduzione, testo critico, traduzione e note, 1976, Pubblicazioni dell’Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neoellenici in Palermo;

Piero Castignoli (Acura di), Atti che riguardano la navigazione fluviale a Piacenza dal secolo decimoquarto al decimottavo, Giuffrè, Milano 1965;

Steafno Pronti (con Mario Fregoni), Storia e cultura del vino, Fonti inedite e casi esemplari sul vino piacentino dall’antichità a oggi, Edizione Tip.le.co, Piacenza 2008;

Andrea Bacci, De naturali vinorum historia, de vinis Italiae et de conuiuiis antiquorum libri septem Andreae Baccii . accessit De factitiis, ac ceruisiis de q[ue] Rheni, Galliae, Hispaniae et de totius Europae vinis et de omni vinorum vsu compendiaria tractatio, Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini di Alba, traduzione Mariano Corino – ediz.1992 (prima edizione 1596);

La nuova, vaga – et dilettevole villa, di Giuseppe Falcone Piacentino, in Venetia, appresso Nicolò Moretti, 1603;

Giovan Vettorio Soderini, Trattato della coltivazione delle viti, e del frutto che se ne puô cavare, edito a Firenze da Filippo Giunti, 1600, in-4°;

Giuseppe Acerbi, Delle viti italiane: o sia, Materiali per servire alla classificazione, monografia e sinonimia: preceduti dal tentativo di una classificazione geoponica delle viti, G. Silvestri, Milano 1825;

Annali dell’agricoltura del regno d’Italia, compilati dal cav. Filippo Re … contenenti fatti, osservazioni, e memorie sopra tutte le parti dell’economia campestre. Tomo XVIII aprile maggio e giugno 1813 Milano dalla stamperia di Giovanni Silvestre agli Scalini del Duomo N 994

Angelo Costacurta, Sergio Tazzer, Malvasia. Il vino prezioso d’Oriente che Venezia rese nobile nel Mediterraneo, Kellermann Editore, Vittorio Veneto (TV) 2020

C. Favero, Il vino nella storia di Venezia. Vigneti e cantine nelle terre dei Dogi XIII secolo e XXI secolo, Biblos, Cittadella PD, 2014

Articoli e saggi

Roberto Miuravalle, Attilio Scienza, Storia delle malvasie, in “L’Enologo”, Mensile dell’Associazione Enologi Enotecnici Italiani, n°10 ottobre 2017;

Attilio Scienza, Serena Imazio, La stirpe del vino, Sperling & Kupfer, Segrate (Mi), 2018

Ewald Kislinger, Dall’ubriacone al krasopateras. Il consumo del vino a Bisanzio, in La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento, Centro Culturale Artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, luglio 2003;

Basilio Logothetis, Considerazioni storiche sulle Malvasie, in Rivista di Storia dell’Agricoltura – a. IV, n. 1, marzo 1964, pp. 12-25;

The key role of “Moscato bianco” and “Malvasia aromatica di Parma” in the parentage of traditional aromatic grape varieties, in Tree Genetics & Genomes, May 2016;

G. Vasile SimoneI; G. MontevecchiI, F. MasinoI, S.A. ImazioI; C. BignamiI, A. Antonelli, Aromatic characterisation of malvasia odorosissima grapevines and comparison with Malvasia di Candia aromatica, in South African Journal of Enology and Viticulture vol.39, n.1, Stellenbosch 2018;

Ennio Ferraglio, Il vino nella tradizione agronomica rinascimentale, in La civiltà del vino;

Regione Emilia-Romagna, Scheda tecnica per l’iscrizione al repertorio (revisionata) – Malvasia Aromatica di Parma RER V047;

Danilo RIPONTI, Venezia e le Malvasie, Storia di un legame secolare in 4th International symposium “Malvaia of the Mediterranean”, MONEMVASSIA (Greece), 25 – 27 June 2013 in https://www.aivv.it/Archivio/Atti/R051_1306_0050_Riponti.pdf;

Andrea Nanetti, Vigne, vitigni, uva, mosto e vini a Corone e Modone (1289-1500) in https://edizionicafoscari.unive.it/media/pdf/books/978-88-6969-545-2/978-88-6969-545-2-ch-09.pdf

Sitografia

Arrosto di capretto del X secolo – Un Longobardo alla corte dell’imperatore bizantino in https://historicalitaliancooking.home.blog/italiano/ricette/arrosto-di-capretto-del-x-secolo-un-longobardo-alla-corte-dellimperatore-bizantino/;

Piacenza antica http://www.piacenzantica.it/page.php?507;

Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino (1961 – 2002) in https://www.gdli.it/;

Taccuini gastrosofici www.taccuinigastrosofici.it


[1] Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, in Carlo Ginzburg, Le nostre parole, e le loro. Una riflessione sul mestiere di storico, oggi; in La lettera uccide, Adelphi, Milano 2021, pag. 69

[2] Ivi, pag. 70

[3] Ampelografia universale storica illustrata: i vitigni del mondo: compendio del/compendium of Ampélographie di/by Pierre Viala e Victor Vermorel, L’Artistica Editrice, Savigliano 2012

[4] VIALA – VERMOREL, Traité général de viticulture, dite aussi Ampélographie Viala et Vermorel, vol. VII, p. 212. In https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k6532418x/f13.image

[5] Giuseppe di Rovasenda, Saggio di una Ampelografia Universale, Ermanno Loescher, Torino 1877, p. 105.

[6] Roberto Miuravalle, Attilio Scienza, Storia delle malvasie, in “L’Enologo”, Mensile dell’Associazione Enologi Enotecnici Italiani, n°10 ottobre 2017

[7] Arrosto di capretto del X secolo – Un Longobardo alla corte dell’imperatore bizantino in https://historicalitaliancooking.home.blog/italiano/ricette/arrosto-di-capretto-del-x-secolo-un-longobardo-alla-corte-dellimperatore-bizantino/

[8] Ewald Kislinger, Dall’ubriacone al krasopateras. Il consumo del vino a Bisanzio, in La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento, Centro Culturale Artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, luglio 2003, pp. 162, 164

[9] Zakithinos D., Note Storiche. Annali Società Scienze Bizantine, vol. IX, Atene, 1932. FRATIS FELICIS FABRI, Evagatorium in Terrae Sanctae etc., Ed. C. Hassler, vol. IlI, p. 314, Stuttgard, 1849 in Basilio Logothetis, Considerazioni storiche sulle Malvasie, in Rivista di Storia dell’Agricoltura – a. IV, n. 1, marzo 1964, pp. 12-25

[10] Il vino di Creta, nel Medioevo, vevina distinto dalla Malvasia: «Scendendo a scrittori minori, ricorderemo come il migliore novelliere trecentesco. dopo il &v:caccio. Francesco Sacchetti, ín una sua novella (la 177a) citi alcune specie di uve del suo tempo: l’Angiota (forse l’attuale uva da tavola bolognese), la Verdolina, la Sancolombana (forse la Verdea, tutt’ora coltivata a Peccioli sotto il nome di Colomtsanaì. la Cimiciattola, ecc. Ed è sua la notizia già da noi ricordata, dell’introduzione da Portovenere della Vernaccia di Corniglia, ricordata dal Boccaccio. In varie sue novelle nomina poi diversi tipi di vino: oltre alla Vernaccia, il Trebbiano, la Malvagia o Malvasia, il Víno dí Creta» in A. Marescalchi, G. Dalmasso, Storia della vite e del vino in Italia, III Volume, Enrico Gualdoni, Milano. 1933, pag. 427.

[11] Ivi Basilio Logothetis: “Senza dubbio quando scrive «la Malfasia è oramai dei Turchi» intende la terraferma di Peloponneso e non la roccia con la fortezza e la città”.

[12] Wolfgang Schweickard, Deonomasticon Italicum. Dizionario storico dei derivati da nomi geografici e da nomi di persona. Volume III. Derivati da nomi geografici: M–Q, ‎ De Gruyter, Berlino 2009, pag. 100

[13] Thomas Hohnerlein-Buchinger, Per un sublessico vitivinicolo. La storia materiale e linguistica di alcuni nomi di viti e vini italiani, De Gruyter, Berlino 2009, pag. 86

[14] Ivan Dujčev, Cronaca di Monembasia. Introduzione, testo critico, traduzione e note, 1976, Pubblicazioni dell’Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neoellenici in Palermo, pp. 33 – 35

[15] Basilio Logothetis, Considerazioni storiche, cit.

[16] “Il fenomeno che il nome di un vino non derivi dal suo luogo d’origine ma dal nome dell’emporio oppure del centro della sua vinificazione si verifica abbastanza frequentemente, se vediamo p. e. i Sacheracher Weine in Germania e i vini bordolesi in Francia (cfr. Braun iiber Land und Meer, 1879. 5,875 segg. in Schiller-Lilbben. Nachtrag 206). Cfr. anche Johnson 153.”, in Sublessico nota 155

[17] Thomas Hohnerlein-Buchinger, Per un sublessico vitivinicolo. La storia materiale e linguistica di alcuni nomi di viti e vini italiani, cit. pp.85,86

[18] Basilio Logothetis, Considerazioni storiche, cit.

[19] Le zone coltivabili a vite dell’Egeo orientale (fra cui anche Samo, Rodi e Cos) sono noti e apprezzati fin dall’antichità. In particolare su Chio ; su Lesbo v. ATENEO, Deipnosophiston 1, 28 e-f, edd. A.M. Desrousseaux, C. Astruc, Paris 1956 (Collection des Universités de Françe [CUF]), pp. 67-68; Q. ORAZIO FLACCO, Carmina 1, 17, 21-22, in Le opere, a cura di F. della Corte, P. Venini L. Canali, I/1, Roma 1991 (Antiquitas Perennis), p. 143; e TEODORETO DI CIRO, Epistula 13, ed. Y. Azéma, Correspondance, II, Paris 1964 (Sources chrétiennes, 98), p. 44. Nota di Ewald Kislinger

[20] Ewald Kislinger, cit.

[21]  «In una lettera, a mio avviso databile fra il 1324 e il 1330, Giovanni Cumno descrive una sorta di carnevale bizantino. Dalla mattina fino a tarda notte si faceva onore a Dioniso, si brindava con grandi bicchieri colmi di vino di Monembasia e Trigleia e ci si sentiva forti come tori, benché ci si potesse a malapena tenere dritti. Il vino di Monembasia, così la nostra fonte, ha perso la sua esclusività. Ora è apprezzato da molti per la sua corposità insieme ad un nuovo tipo, il vino di Trigleia (oggi Zeytinbagi). Questa località è situata sulla costa meridionale del Mar di Marmara, 30 km a nord-ovest di Prusa/Bursa. È da notare, in generale, che tutti i vini di circolazione sovraregionale provenivano da isole, o erano prodotti in zone costiere (ad esempio Creta, Lesbo, Chio, Taso, Cilicia e – in epoca protobizantina – le città di Palestina, come Gaza, Tiro, Sarepta). I centri principali di consumo possedevano anch’essi porti di rilievo, ad esempio Costantinopoli o anche Salonicco. Nella capitale si dibattè tenacemente, fino alla conquista ottomana (1453), se le taverne veneziane dovessero avere licenza di vendere il loro vino – che le esenzioni fiscali rendevano più economico – ai sudditi bizantini, anche al dettaglio o semplicemente in botti, un dibattito che, tra l’altro, la dice lunga sull’entusiasmo della clientela bizantina per il vino», In E WALD KISLINGER, cit.

[22] Creta. allora nominata Candia, che emerge in continuazione come sinonimo del vino Malvasia, entrava in tempi assai remoti, cioè nel 1211, sotto il dominio della Serenissima. Dal 1463 fino alla fine del Cinquecento la città di Monevasia appartenne proprio ai Veneziani.

[23] Cfr. Basilio Logothetis, Considerazioni storiche, cit.

[24] Per un sublessico, cit. nota 155 pag. 86

[25] The key role of “Moscato bianco” and “Malvasia aromatica di Parma” in the parentage of traditional aromatic grape varieties, in Tree Genetics & Genomes, May 2016

[26] Full-sibling

[27] G. Vasile SimoneI; G. MontevecchiI, F. MasinoI, S.A. ImazioI; C. BignamiI, A. Antonelli, Aromatic characterisation of malvasia odorosissima grapevines and comparison with malvasia di candia aromatica, in South African Journal of Enology and Viticulture vol.39, n.1, Stellenbosch 2018

[28] Il palazzo, in stile rinascimentale, sorge non lontano dal Cenacolo e dalla Chiesa di Santa Maria delle Grazie in corso Magenta. Gli Atellani, famiglia di cortigiani e diplomatici originari del sud Italia, si erano stabiliti al nord al servizio dei duchi di Milano: gli Sforza. È proprio Ludovico il Moro, Il duca, dopo aver comprato la dimora nel 1490 dai Landi, conti di Piacenza, la donò alla famiglia degli Atellani, a regalare a Giacometto della Tela, capostipite della famiglia, due case vicine ma separate con giardino situate lungo il borgo delle Grazie, l’attuale corso Magenta.

[29]  http://www.piacenzantica.it/page.php?507

[30] Piero Castignoli (Acura di), Atti che riguardano la navigazione fluviale a Piacenza dal secolo decimoquarto al decimottavo, Giuffrè, Milano 1965, pag 46. L’anno di riferimento è il 1558

[31] Vino malvasia: Caratello (sec. XVI) = 1 brenta. Brenta = 48 pine = lt. 75,771.

[32] Ivi, pp. 59, 63, 78, 85-89

[33] Steafno Pronti (con Mario Fregoni), Storia e cultura del vino, Fonti inedite e casi esemplari sul vino piacentino dall’antichità a oggi, Edizione Tip.le.co, Piacenza 2008, pag. 117

[34] Da Taccuini gastrosofici www.taccuinigastrosofici.it

[35] Andrea Bacci, De naturali vinorum historia, de vinis Italiae et de conuiuiis antiquorum libri septem Andreae Baccii . accessit De factitiis, ac ceruisiis de q[ue] Rheni, Galliae, Hispaniae et de totius Europae vinis et de omni vinorum vsu compendiaria tractatio, Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini di Alba, traduzione Mariano Corino – ediz.1992

[36] Andrea Bacci citato in A. Marescalchi, G. Dalmasso, Storia della vite e del vino in Italia, III Volume, Enrico Gualdoni, Milano. 1933, pag 491

[37] Steafno Pronti (con Mario Fregoni), Storia e cultura del vino, cit. pp. 205, 206

[38] Ennio Ferraglio, Il vino nella tradizione agronomica rinascimentale, in La civiltà del vino, cit. pp. 725, 726

[39] La nuova, vaga, – et dilettevole villa, di Giuseppe Falcone Piacentino, in Venetia, appresso Nicolò Moretti, 1603, è una seconda edizione. la prima di Pavia (1597) è dedicata al conte Bernardino in Steafno Pronti (con Mario Fregoni), Storia e cultura del vino, cit. pag. 207, 223

[40] Giovan Vettorio Soderini, Trattato della coltivazione delle viti, e del frutto che se ne puô cavare, edito a Firenze da Filippo Giunti, 1600, in-4°

[41] Giuseppe Acerbi, Delle viti italiane: o sia, Materiali per servire alla classificazione, monografia e sinonimia: preceduti dal tentativo di una classificazione geoponica delle viti, G. Silvestri, Milano 1825

[42]  A. Marescalchi, G. Dalmasso, Storia della vite e del vino in Italia, III Volume, pag. 532

[43] Annali dell’agricoltura del regno d’Italia, compilati dal cav. Filippo Re … contenenti fatti, osservazioni, e memorie sopra tutte le parti dell’economia campestre. Tomo XVIII aprile maggio e giugno 1813, Milano Dalla Stamperia Di Giovanni Silvestre agli Scalini del Duomo N 994

[44] Lo scrivente è Stefano Pronti, cit. pag. 300

[45] Testo tratto dal Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino (1961 – 2002) in https://www.gdli.it/