MINERALITA’!

Anche questo breve saggio farà parte della mia ricerca.

La battaglia che circonda il concetto di ‘mineralità’ di un vino è una battaglia essenzialmente di tipo politico, in parte geo-strategica e solamente per un verso secondario anche scientifica. Innanzitutto il primo problema che si pone è di tipo concettuale: come può un termine, come quello di ‘mineralità’ che ha una valenza relativa ad un impatto di tipo sensoriale e quindi degustativo, ma che rimanda inevitabilmente ad una valutazione di analisi chimico-organica, possedere invece una sua dimostrabilità in termini scientifici tale da poter far pensare che si possano traslare le componenti organiche di un terreno alla vite ed infine al vino?

Alla base vi è anche un problema di tipo linguistico, in senso tecnico, che viene conferito da alcune discipline scientifiche che sono alla base dei processi di vinificazione e di produzione del vino: mi sto riferendo all’agronomia, all’enologia, alla viticoltura, alla chimica, ecc. Un secondo livello viene fornito da altre discipline, che strutturano elementi di produzione, di commercializzazione, di pubblicizzazione, come l’economia, il diritto, la medicina ecc. Infine un terzo livello, che gioca più su di un piano simbolico, attraverso l’uso di metafore, è quello legato alla comunicazione del vino e fa già riferimento ad un processo di traduzione interna allo stesso mondo vitivinicolo. Pensiamo, come si diceva poc’anzi, all’uso di alcuni termini nella degustazione di un vino: fa sorridere sentire un sommelier che si esprime, nell’esame olfattivo, sul bouquet del vino parlando dei sentori floreali, di quelli fruttati, di quelli minerali e via dicendo. Spesso i più non sanno che questo linguaggio è già una traduzione sia di termini chimici che di processi fermentativi: «I profumi e/o aromi sono sprigionati da sostanze ‘volatili’, cioè in grado di evaporare dalla parte liquida. Le caratteristiche del vitigno, le fasi di lavorazione, la maturazione del vino sono i fattori che attribuiscono circa 200-220 composti odorosi appartenenti a diversi gruppi quali: ALCOLI, ACIDI, GRASSI, ALDEIDI, CHETONI, ESTERI, ETERI, TERPENI e altri ancora… (si possono rilevare mediante analisi come la gascromatografia). Il sommelier dovrebbe essere in grado di riconoscere le varietà dei sentori e decifrarle non in base alla loro nomenclatura chimica bensì identificandoli con profumazioni presenti in natura (fiori, frutti, spezie, ecc.).  Il motivo per cui si traducono i nomi chimici è che questi risulterebbero estremamente complessi e meno gradevoli di espressioni familiari legati al mondo della natura. D’altra parte è facile capire come sia più apprezzabile utilizzare le espressioni ‘miele’ e ‘rosa’ anziché le definizioni ‘acido feniletilico’ e ‘alcol feniletilico’.(…)[1]

Ed è per questo che credo che esista un problema di traduzione del linguaggio inteso nel senso che ci  e rimanda Gadamer: «Comprendere ciò che qualcuno dice, non vuol dire ‘trasferirsi in lui e ripetere in sé i suoi Erlebnisse (vissuti). Significa piuttosto intendersi sulla ‘cosa’. Bisogna che ci sia un consenso’. Il processo di comprensione è sempre un fatto di linguaggio. Ciò che il traduttore si prefigge è infatti trasporre il significato del discorso nel contesto in cui vive colui al quale è rivolta la traduzione. Ma trasporre non vuol dire alterare il senso del discorso. Il senso anzi deve essere mantenuto ma, ‘dovendo essere compreso in un diverso mondo linguistico, va come ricostruito in un modo nuovo’. Qualunque ‘traduzione è pertanto un’interpretazione’: si può dire che la traduzione è il compimento dell’interpretazione che un traduttore ha fornito della parola a cui egli si è trovato di fronte[2].» Si potrebbe dire in altre parole che «benché le parole improvvisate siano le più dense di significato e lascino ampio spazio all’interpretazione personale, è anche vero però che in alcune di queste professioni (sommelier, enologi, profumieri) gli odori sono oggetto di un lessico stabilito convenzionalmente, di una terminologia negoziata e codificata ai fini della comprensione reciproca degli esperti. Non è un caso che molti sforzi siano stati orientati a stabilizzare i linguaggi professionali, con l’intento di formalizzare un sapere. E tuttavia la condivisione e la trasmissione di un odore restano incerte e parziali, perché – fermo restando che il livello della condivisione dipende anche dalla natura dell’apprendistato – ciascun professionista non può del tutto astrarsi dalle proprie idiosincrasie percettive, influenzate anche dai ricordi infantili (i più radicati). ‘Il paradosso della degustazione – osserva Emile Peynaud,  uno dei maestri dell’enologia mondiale – è che essa tende ad essere un metodo oggettivo, impiegando mezzi soggettivi: il vino è l’oggetto, l’assaggiatore il soggetto. Nella degustazione i sensi umani vengono utilizzati come strumenti di misura’[3]» Lo sforzo di comprensione di un linguaggio vuol dire fare uno sforzo nella direzione di comprensione degli attori sociali studiati, anche se questo non significa di potere trasporre uno (il linguaggio) sull’altra (la società), anche perché «i concetti possono sia mascherare la realtà che rivelarla, e mascherarla un po’ può forse essere parte della loro funzione[4]

Il  blog di Giampiero Nadali, aristide.biz, in merito al dibattito sul terroir e sul suo uso o abuso pubblicitario, riporta il dibattito e l’attacco non certo velato, che l’enologia statunitense, attraverso la Società geologica, gli sferra contro attraverso l’indimostrabilità della mineralità (leggi terroir). Il terroir viene da loro inteso soprattutto come terreno (composizione organica, pendenza, clima, impianto eccetera), allorché viene imputato di non essere in alcun modo riconoscibile, dal punto di vista scientifico, nelle componenti del vino. L’accusa rimanda, nei termini di un confronto geopolitico, anche alla presunta superiorità territoriale degli europei. Perché la mineralità e non altro? Il rimando al territorio è, con questo termine, implicito ed evidente quanto mai. Giampiero Nadali si butta nel confronto e riporta quanto sostenuto da un altro sito americano di informazione sul vino, il Winesandvines.com, che richiama in un articolo dal titolo esplicito, ‘The Myth of Minerality’, gli studi di diversi esperti sul mito della mineralità in un vino, del suo ancoraggio ad un territorio e della possibilità di rintracciarla al palato: «(…) Abuso di marketing?

Non vi sfuggirà il riflesso ‘commerciale’ di questa disputa. In Europa si reagisce alla sfida del Nuovo Mondo impugnando la bandiera del terroir, un concetto assai sfumato e impreciso per la verità. Possiamo provare a sintetizzarlo nel concetto di un vino capace di esprimere il ‘senso di un luogo’, quel luogo specifico dotato di caratteristiche fisiche trasmesso dalla vite al vino. Fatalmente, quel vino sarà espressione di quel terroir. In questo caso, i produttori del Nuovo Mondo accusano gli europei di ‘abuso di marketing’, di utilizzare oltre ogni evidenza un concetto non dimostrabile scientificamente. Mentre in Europa il concetto di terroir è un vero e proprio approccio filosofico per i produttori, nel pragmatico Nuovo Mondo è una strada da prendere per il miglioramento della qualità, attraverso le pratiche della viticoltura di precisione, per ottenere livelli omogenei di maturazione delle uve all’interno di vigneti parcellizzati per qualità omogenea – sembra che la chiamino ‘unità base di terroir’. L’espressione di quel ‘senso di luogo’ si afferma con i disciplinari di produzione adottati in ogni contea europea (mi raccomando, trattenete i sorrisi…) e, soprattutto, con l’associazione tra le proprietà del vino e la tipologia di suolo sul quale crescono le uve. Si sente spesso esaltare il carattere minerale del vino (la mineralità) associandolo ai minerali presenti nel suolo della vigna di origine e da esso tratti dalle radici della vite fino al vino. I francesi usano l’espressione gôut de terroir (gusto di terroir). La questione è questa: possono il gesso, la silice o l’ardesia presenti nel suolo conferire caratteri a loro riconducibili nel vino? In che modo il suolo può influenzare la qualità del vino? Esistono spiegazioni scientifiche sull’effetto terroir? Mettetevi comodi perché la risposta non è semplice: trovare fondamento scientifico alla causa della mineralità nel vino è questione di grande valore e importanza, sia per risolvere i dubbi degli scettici, sia per aiutare la comprensione dei meccanismi del terroir e sfruttarne al meglio gli effetti[5]

Qualche anno dopo anche Fiorenzo Sartore[6], su Intravino, riprende l’argomento riportando gli studi della più nota Società Geologica Americana, anch’essa protesa a smontare, nel convegno annuale Portland, tenutosi nell’ottobre 2009, la mineralità di un terroir: «Few words in the wine world today generate as much confusion, controversy, and buzz as the term terroir. Is terroir scientifically provable? A romantic myth? A sign of authenticity and therefore quality? In danger from climate change? New marketing winespeak? The latest salvos in the ongoing debate were fired last month at the annual Geological Society of America conference in Oregon and in “Liquid Memory: Why Wine Matters,” the first book from filmmaker Jonathan Nossiter of “Mondovino” fame. The French term is a slippery one, difficult to translate, allowing terroir to mean many diverse things to different people. The shorthand definition is the “sense of place” found in a wine’s taste, the idea that a wine from a particular vineyard expresses characteristics of the spot where the grapes were grown. Generally it refers to a vine’s geographic environment or ecosystem — soil, water supply, microclimate, geography, sunlight — and the way those things are reflected in the scent and flavor of wine. The French usually add the effect of the human environment and history to the equation; many New World producers don’t. The latest scientific take emerged from a dozen papers presented in October at the Geological Society conference at Portland, Ore., which included a five-hour special session on terroir.  There didn’t seem to be much consensus beyond the idea that terroir exists but is elusive, yet exerts an indirect influence on wine. (…)  So even if science can’t tell us precisely why one wine tastes different from another made by the same winemaker, from a vineyard not far away, the differences are clearly there. Coming soon: How much should terroir matter?[7] »

L’attacco statunitense al terroir, preso da un’infinità di dubbi e di ipotesi probabilistiche, anche se in parte suffragate da altre supposizioni scientifiche, è sicuramente un attacco politico al concetto di terroir, così come politica né è la difesa rispetto ai quattro parametri evidenziati da Vaudour. Potrebbe allora valere l’intervento nel blog ‘Intravino’, in una delle risposte all’articolo di Sartore, ad opera di ‘gianpaolo’, viticoltore maremmano[8], il quale afferma che gli statunitensi «smontano l’equazione diretta: sasso=mineralita’ del vino. Ad un fiera a Londra accanto a me c’era un produttore della Loira con delle pietre prese dai vigneti, il Silex, che strofinate tra loro danno un odore simile a quello che poi si trova nei loro vini. Sicuramente suggestivo e convincente, come metodo di marketing, ma anche io che qualche trascorso tecnico-scientifico lo ho, ho sempre dubitato delle correlazioni così dirette e semplici. Non c’è dubbio però che un vino, nella migliore delle ipotesi, è comunque un figlio del suo terroir, che è molto più che il terreno, come giustamente dici tu. Secondo me comprende tutta la parte geopedologica sicuramente, ma anche, e in qualche caso sopratutto, la parte ‘umana’, ovvero quella legata alle scelte agronomiche, di cantina, ecc., nel bene e nel male. Un parallelo che mi e’ sempre sembrato convincente (benché  un po’ melenso) è questo: i vitigni e il territorio fisico sono i colori e la tavolozza, l’uomo è la mano che dipinge. Il che pone anche la questione di moda oggi: ha senso cercare di fare vino senza o quasi intervento umano, o in modo che questo sia minimo? (a ben guardare anche quella è una scelta, umana, produttiva).»

Uno scritto che ribatte indirettamente, su altrettante basi scientifiche, le posizioni della Società Americana di Geologia, proviene da Mario Fregoni, che in un articolo della rivista ‘VQ, Vite Vino & Qualità’, pubblicato nel numero di ottobre 2010, parla di humus e terroir. L’articolo sviluppa il tema dell’importanza del suolo nella produzione vinicola: «I vini eccelsi si ottengono nei terreni con strato attivo e sottosuolo porosi e con roccia madre penetrabile dalle radici, che devono raggiungere la falda freatica[9] profonda, per dare stabilità alla nutrizione idrica della vite, che costituisce un pre-requisito della qualità del vino (…) Di grande rilevanza agronomica è la struttura glomerulare del terreno, che determina la stabilità fisica de evita la compattazione del suolo, favorendo pertanto tutti i fenomeni chimico-biologici che avvengono nel terreno. La struttura glomerulare è legata al complesso argillo-humico, ossia al prodotto derivante dall’unione di due colloidi elettronegativi (argilla e humus) tramite il ponte di alcuni cationi positivi, in particolare il calcio, elemento portante nella fertilità del suolo. L’humus svolge un ruolo insostituibile nell’assorbimento minerale delle radici, attraverso il mantenimento di un Ph equilibrato, ossia verso la neutralità[10].» Di qui parte il ragionamento di Fregoni sul rapporto tra humus, generalmente traslato come terroir, quindi terreno modificato dall’uomo, e caratteri sensoriali: «Nel vino esistono una macrostruttura (alcol, acidi, ecc.) e una microstruttura (aromi, enzimi, ecc.) ed è quest’ultima che rappresenta la personalità organolettica e sensoriale del vino. La composizione del vino è talmente complessa che è difficile stabilire quali fattori del terroir siano correlati, ma è certo che la vita biologica del suolo e la composizione fisico-chimica del terreno sono fra le condizioni indispensabili per la produzione di vini di terroir. (…) Un terreno fertile sotto il profilo strutturale, chimico e biologico rafforza le difese endogene della vite, con la sintesi di molecole di resistenza, quali il resveratrolo, i tannini, la quercetina ecc.: ciò consente di ridurre gli interventi antiparassitari associando composti alternativi stimolanti di dette molecole (es. fosfito di potassio, acidi umici, aminoacidi) ai normali antiperonosporici[11].»  

Ancora oltre si spingono quegli studiosi che utilizzano i metodi isotopici nell’analisi geochimica dei terreni e in quella chimica dei vini che permetterebbero di distinguere atomi degli stessi elementi chimici, con identico numero atomico (numero di protoni), ma con differente numero di massa (nucleoni  e protoni). Un recentissimo studio sul vitigno ‘Cesanese’ condotto dall’Università di Roma Tre dall’Università di Firenze oltre che dal CNR di Firenze, ha dimostrato “che la composizione isotopica dello Stronzio (Sr) (generalmente presente in quantità < 1 mg/kg) assorbito dalle rocce del substrato della vigna in produzione, non viene modificato dal processo di vinificazione. Studi realizzati su vini tedeschi, francesi, portoghesi e italiani hanno dimostrato che i valori del rapporto isotopico 87Sr/86Sr rimangono costanti lungo tutto il percorso che inizia dal substrato e finisce nel vino….. i risultati ottenuti mostrano la notevole potenzialità del rapporto isotopico….. come indicatore di tracciabilità geografica….. Il riassunto conclude che ‘il valore espresso da questo rapporto può essere definito come un elemento affidabile per definire il legame tra il prodotto finito e il suo territorio di provenienza e dunque permettere la tracciabilità geografica di un vino al fine della sua certificazione e valorizzazione[12]’.” Altri studi[13] condotti in precedenza con le medesime tecniche hanno però evidenziato alcune difficoltà di ‘oggettivazione’ dei risultati, pur non nascondendo l’utilità del metodo: ciò significa che senza delle attendibili banche dati, costruite ex-antem, per varietà ed annata, ottenute su campioni di sicura provenienza, sarebbe alquanto complicato ricostruire in maniera precisa e sicura l’origine dei vini. Questo ovviamente non significa che non se ne possa avere una tracciabilità, anche attraverso elementi di definizione chimico-organica.

Da altra angolatura sono le considerazioni espresse da Sandro Sangiorgi, che nel suo ultimo libro, a proposito di terroir, afferma quanto segue: «Possiamo arricchire il concetto di terroir con quello di epigenetica[14], ovvero l’espressione genetica legata al consorzio microbiologico delle radici. Il consorzio microbiologico agisce in maniera multiforme nel rapporto pianta/suolo: aumenta la fertilità della pianta, la sua resistenza agli attacchi dei patogeni e agli stress, nonché le sue qualità organolettiche (il profumo ha maggiore varietà oltre a essere più profondo). Il terroir è la peculiarità che il vino deve lasciar trapelare, è un insieme di sensazioni che permettono a chi beve di risalire all’origine del prodotto[15]

La vite con le sue radici, con il suo ancoraggio fisico e simbolico alla terra e ad una origine ancestrale funziona da dispositivo di autorità: utilizza i contenuti evocati dall’immagine e attribuisce loro l’autorevolezza che promana dalla natura, dalla vita, insomma dalla necessità biologica. La natura, secondo tale schema, giustifica e spiega la storia, la quale ritorna su di essa come espediente esplicativo di un mero processo naturale: autorità ed incontrovertibilità lastricano pesantemente tutto il processo conoscitivo[16].

La scienza, insomma, soccorre, sostiene, determina, quando e come può, ipotesi politiche quand’anche non culturali: la sottovalutazione di un termine di paragone, la sua riconoscibilità/irriconoscibilità, la sua preminenza e prevalenza da punto di vista qualitativo e quantitativo concatenano una serie di considerazioni talvolta opposte, egualmente suffragate da sufficienti validazioni probatorie, a posteriori.


[2]     Hans Georg Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983 citato in Ugo Fabietti, cit. pag 235

[3]     Rosalia Cavalieri, Il naso intelligente. Che cosa ci dicono gli odori, Editori Laterza, Bari -Roma 2009, pag. 184

[4]     Ernest Gellner, Causa e significato nelle scienze sociali,  Mursia, Milano 1992 (ed. orig. 1973), pag. 30, nota 1

[5] Giampiero Nadali Mineralità del vino: mito o realtà?, in http://www.aristide.biz/2006/11/il_mito_della_m.html, 29/11/2006

[6] Fiorenzo Sartore, Terra, terroir, territorio: miti?, Intravino, Un altro vino è possibile, http://www.intravino.com/vino/terra-terroir-territorio-miti/§, 28 ottobre 2009. 

[7] Elin McCoy, Is Terroir a Hoax?, Monday, 09 November 2009, in Zester Daily http://www.zesterdaily.com/drinking/266-is-terroir-a-hoax

[9] Acqua sotterranea di saturazione della porosità del terreno, la cui superficie superiore è libera, soggetta alla pressione atmosferica (su tale superficie la pressione atmosferica e quella dell’acqua nel terreno si eguagliano), e il cui movimento è regolato dalla forza di gravità. Sopra alla falda freatica, fino al piano campagna, si individua nel terreno la zona di aerazione, ove i pori del terreno non sono saturati d’acqua. In http://www.disclic.unige.it/glos_idro/show.php?id=74&lang=it&style=1

[10] Mario Fregoni. L’humus e il terroir, in «VQ, vite vino & qualità. In vite quallitas, in vino excellentia», Tecniche nuove, Milano 8 ottobre 2010, pp. 19, 20

[11]    Ivi, pag. 23

[12] Fabio Pracchia, Una via sicura di tracciabilità, in Slowine http://www.slowfood.it/slowine/pagine/ita/parliamodi.lasso?id_edit=1135 del 9 luglio 2012

[13] Bonello, Cravero, Tsolakis, Ciambotti, Applicazione dei metodi isotopici e dell’analisi sensoriale negli studi sull’origine dei vini, VIII International Terroir Congress, Soave (Vr), 14 – 18 Giugno 2010 in http://terroir2010.entecra.it/atti/VIIICongress_sess8.html

[14] La differenza fra genetica ed epigenetica può essere paragonata alla differenza che passa fra leggere e scrivere un libro. Una volta scritto il libro, il testo (i geni o le informazioni memorizzate nel DNA) sarà identico in tutte le copie distribuite al pubblico. Ogni lettore potrà tuttavia interpretare la trama in modo leggermente diverso, provare emozioni diverse e attendersi sviluppi diversi man mano che affronta i vari capitoli. Analogamente, l’epigenetica permette interpretazioni diverse di un modello fisso (il libro o il codice genetico) e può dare luogo a diverse letture, a seconda delle condizioni variabili con cui il modello viene interrogato’.

      Thomas Jenuwein (Vienna, Austria) in µhttp://epigenome.eu/it/1,1,0§

      Il ‘dogma centrale’ della biologia molecolare sostiene che le informazioni ereditarie sono trasmesse attraverso meccanismi genetici. In realtà, lungo le generazioni, una cellula scambia con le cellule figlie anche informazioni non contenute nella sequenza di basi del DNA. L’epigenetica studia la trasmissione di caratteri ereditari non attribuibili direttamente alla sequenza di DNA. Un paragone esemplificativo potrebbe essere quello che considera il cromosoma come un libro con un testo completo e corretto (la sequenza di basi), ma fattori esterni al ‘testo’, come l’incollamento di alcune pagine tra loro, potrebbero non permettere l’accesso alle informazioni contenute nel testo stesso. In http://apollo11.isto.unibo.it/Medicina/Genetica/17_Epigenetica.htm

[15] Sandro Sangiorgi, L’invenzione della gioia. educarsi al vino. sogno, civiltà, linguaggio, Porthos edizioni, Roma 2011, pag. 186

[16]    Cfr. Maurizio Bettini, Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, Il Mulino, Bologna 2012

Quando il Lambrusco faceva l’occhiolino alla Francia…

In uno scritto del 1892, “Di una denominazione di pubblico spazio mercatorio o nundinario[1] in Modena nel secolo XVI” , edito in proprio e stampato per la Tipografia del Commercio, Luigi Francesco Valdrighi fa riferimento per la produzione del lambrusco grazie ad un’ uva d’oro, trapiantata dalla Francia, più precisamente dalla Borgogna e ancor più esattamente dalla Côte d’or, da cui il nome: “sino dal XVI sec. l’uva d’oro tanto utile pel nostro famoso vino da famiglia e che vuole tradizione fosse prodotta da vitigni francesi della Côte d’or qui fatti acclimatare da non so quale Duca o Marchese di Ferrara, era in piena produzione.” Questo breve commento dà alcune preziose indicazioni: la prima è che probabilmente il Lambrusco veniva prodotto con uve diverse, forse anche a bacca bianca, o che con lo sesso nome, uve Lambrusche, secondo le indicazioni di Andrea Bacci[2] venivano chiamate uve diverse sia a bacca bianca che “rossiccia” e in secondo luogo che queste uve sono presenti nei territori emiliano romagnoli già da diverso tempo. In realtà “una testimonianza certa, invece della produzione di un vino chiamato “Uva d’oro” ci viene offerta solo all’inizio del 1600 dal georgico ravennate Marco Bussato, il quale nel suo trattato “Giardino d’Agricoltura”, pubblicato nel 1612, ci racconta testualmente: “Alcune persone dice al suo gusto del mangiar dell’uva e bevere del vino, che è meglio massimamente l’Uva d’oro ben matura”.

Tale fonte è sicuramente attendibile in quanto il Bussato proviene da una famiglia di origine ferrarese, che servì il serenissimo Duca Ercole I, ed ha svolto la sua attività lavorativa, quale innestatore, nell’area litoranea tra Classe e Mesola. Bisognerà, però, arrivare al 1700 per avere notizie più dirette e precise intorno alla coltivazione di un vitigno “Uva d’oro” nel ferrarese. Sarà infatti lo storico comacchiese Gian Francesco Bonaveri, nella sua “Storia della Città di Comacchio” (1720), a riferirci che i vini che d’ordinario si bevono in Comacchio sono ottimi al gusto e universalmente salubri…Questi vini sono detti d’Uva detta d’oro….

Il discorso sulla coltivazione dell’Uva d’oro sarà poi ripreso in modo ampio è approfondito da Domenico Vincenzo Chendi nel suo “L’agricoltor Ferrarese in dodeci mesi”, edito a Ferrara nel 1775. (…)Non esiste alcun riferimento storico attendibile che affermi che Renata di Francia, figlia di Luigi XII, venendo sposa al duca Ercole II d’Este, abbia importato a Ferrara il vitigno “Uva d’oro” o “Fortana”.

Infatti, il più noto storico ferrarese, Antonio Frizzi, nelle sue “Memorie per la storia di Ferrara”, dice testualmente: “E’ fama che Alfonso II facesse trasportare dalla Costa d’oro della Borgogna quelle viti che al presente [1796] riempiono le nostre possessioni e producono il vino universalmente usato ed appellato d’Uva d’oro”. Alfonso II, quindi, non Renata di Francia!

Il nome di quest’ultima, riferito all’ “Uva d’oro”, apparirà per la prima volta solo all’inizio del ‘900, quando Vittorio Peglion nel suo libro “La Bonifiche ferraresi” (1910), nel riprendere la notizia del Frizzi la arricchisce di un grossolano errore: “Dalle cronache di Mesola si rileva che là debba forse ricercarsi la prima importazione di viti dalla Borgogna, dovuta a Renata di Francia, consorte (?) di Alfonso II d’Este…”. (Ricordiamo per inciso che Renata fu sposa al padre di Alfonso, Ercole II, dal 1528 al 1559, e quindi madre di Alfonso).[3]

Escludendo la presenza di uve provenienti dalla Borgogna, che condizionerà diversi studi successivi sino al libro di Giorgio Giusti, “Rosso rubino, profumo di viola. Appunti per una ricerca sul lambrusco.” (Modena 1976, pag. 18), sappiamo però che il Lambrusco veniva prodotto anche con “l’uva nera forte proveniente” dalla zone di  Sorbara, secondo la documentazione della Cantina Ducale del 1748 (ivi, pag. 17). Uve nere forti o uve d’oro (così chiamata per la serbevolezza e perché molto produttiva) sono le uve che contribuiscono assieme alla Lambrusche a produrre il famoso vino Lambrusco e ancora oggi, a livello popolare, tanto forte è la novella storica, vengono ancora chiamate “uve francesi nere” (Doc Bosco Eliceo Fortana).

Ma l’ammiccamento con Francia non è finito qui: Antoine Claude Pasquin – Valery, un erudito viaggiatore belga, bibliotecario del Re presso il Palazzo di Versailles e del Trianon, intraprende un viaggio storico-letterario per l’Italia negli anni dal 1826-1828, dando vita ad una voluminosa opera ricca di notizie che avrà numerose edizioni e ampliamenti nel corso degli anni. La prima edizione è intitolata “Voyages historiques et littéraires en Italie pendant les années 1826, 1827, 1828, ou l’Indicateur italien”, voll. 5, Paris 1831-1835.  

Tornerà in Italia molte altre volte e nel 1842, per la Società Belga dei Librai, darà alle stampe un libro, “Bologne, Ferrare, Modène, Reggio, Parme, Plaisance et Leur environs” in cui scrive a proposito del Lambrusco di Sorbara (pag. 182): “Vin rouge de la montagne de Modène (vîno tosco) Vin de Sorbara qui se rapproche du Bordeaux mais qui perd sa force en vieillissant et comme la plupart des vins d Italie ne supporte point le voyage de mer:”

Alcuni anni più tardi, nel 1868, Mendola, nel suo “Estratto del Catalogo generale della collezione di viti italiane e straniere radunate in Favara” scrive che “le Lambrusche del modenese, segnatamente di Sorbara, prendono l’aria di piccoli Bordeaux e per tali li spaccia alcun mercante di Genova, senza offendere il gusto dei bevitori[4].”


[1] “La parola cambio ha nel linguaggio della giurisprudenza due affatto distinti significati. Nel primo significato il cambio esprime la permuta materiale che si fa di una specie di moneta con altra specie equivalente come di monete d’oro o d’argento ovvero di monete dello Stato con altre straniere. Anche presso i Romani era nolo il cambio minuto e plateale che consisteva nel materiale baratto delle diverse monete che correvano per le mani del popolo onde servire alla comodità del mercato Dalla parola greca collìbos specie di piccola moneta fu detto cambio collitistico o anche nundinario dalle circostanze nelle quali veniva praticato.” BIBLIOTECA SACRA ovvero DIZIONARIO UNIVERSALE DELLE SCIENZE ECCLESIASTICHE Opera compilata dai Padri Richard e Giraud, Ora per la prima volta in italiano tradotta ed ampliata da una società di ecclesiastici, Supplemento, Tomo II, Milano presso l’editore Ranieri Fanfani, 1837, pag. 261

[2] Cfr. Andrea Bacci, Libro V di De naturali vinorum historia, Niccolò Muzi, Roma 1596

[3] Intervista a Marcello Bertelli in http://www.boscoeliceo.net/it/intervista.htm

[4] Giorgio Giusti, cit. pag. 17

Optimus potor. Il vero bevitore. Un omaggio a Paolo Monelli

Ventotto anni dopo aver pubblicato il suo viaggio gastronomico attraverso l’Italia, ‘Il ghiottone errante’, assieme all’amico illustratore, astemio e inappetente Giuseppe Novello, ‘Paolo Monelli dà alle stampe per i tipi di Longanesi & C. “O.P. ossia Il vero Bevitore”.

O.P. sta per Optimus Potor e come ci dice lo stesso autore “è soprattutto bevitore e intenditore di vino. Può accadere che preferisca la birra, nei mesi estivi, per i pasti di mezzodì sotto la canicola; e sa certo apprezzare, passate le Alpi, le varie birre nordiche…; sa le virtù tropicali e serotine del whisky e quanto valga un cocktail Martini secchissimo a rimettersi dalla fatica intellettuale; e magari come lo scrivente ha bevuto starka polacca con i montanari di Zakopane e saké con i giapponesi e tecc’ con gli etiopici; ma naturalmente la sua massima reverenza va al vino[1].” Dopo aver passato in rassegna le caratteristiche dell’intenditore di vino, che si distingue dal bevitore corrente e dal beone, sempre in preda alla sbornia che è “mente che si smarrisce, lingua che cianciula, occhi strabici e sciocche lacrime e gesti violenti” (pag. 18), il vero bevitore è colui che apprezza la nobile ebbrezza del vino saviamente bevuto: “Ogni uomo dovrebbe sapere, e bisognerebbe insegnargliene i primi elementi a scuola, con quali vini o sceltissime acquaviti, con che ritmo, con che pause, può raggiungere quel paradiso fra terra e cielo in cui i sensi restano vigili, la lingua pronta, la memoria scorrevole, ma le associazioni di idee si fanno pindariche, le sensazioni fanno ressa levigate e illuminate, bombardano il cuore come i raggi cosmici bombardano l’atomo, e sotto di esse ci trasmutiamo con trasalimenti ed esaltazioni.” (pag. 19)

Nel capitolo secondo si passa ad una visione  montesquieuiana del rapporto tra lo spirito delle genti che abitano un determinato luogo e il carattere del vino: così i nebbioli piemontesi fanno da contrappunto a gente pratica, di abitudini regolari, con poca fantasia, razionale piuttosto che poetica, seria come il vino che producono. Il barolo, aristocratico, che invecchia lentamente e matura tardi così come la barbera, corposa e robusta, che regge ai viaggi e ai climi, tutta afrore, tutta vino, sono in contrasto con l’adolescente chianti, vino di toscani pazzi e insensati, (ma anche fini, arguti ed acuti) come definisce Dante i vani senesi o i botoli ringhiosi aretini.

E poi i pacifici veronesi, “un po’ matti ma più strambi nei sogni che nell’azione”, hanno il valpolicella, il torcolato e il recioto, amabili, “un po’ abboccati anche quando i veronesi li chiamano secchi, ma questo è frutto della loro indole mite… Ed i trevisani ciacoloni hanno vini lievi, più bianchi che rossi, che danno un’ebbrezza di parole e basta; finché si arriva sul Carso, patria di gente silenziosa e aspra e si trova il refosco ruggente e spaccabicchieri, ed il terrano che ha proprio l’odore e il gusto di quel terreno guerriero.” (pp. 31, 32) Poi i modenesi, i romani e quindi i francesi, i tedeschi, che fanno vini pallidi e biondi come la loro dottrina imperiale.

Il terzo capitolo è invece un attacco frontale ai nemici del vino, in primis gli osti, quelli che non capiscono di vino, quelli che lo taroccano e infine quelli che non ne hanno della propria regione. A ruota i nemici del vino sono gli astemi e  tra questi soprattutto quelli che Monelli definisce come i costruttori de mito ‘enofobo’. Il capitolo termina con una divertente offensiva contro la moda di scolorire i vini rossi, ovvero contro i vini rosati improvvisati: “Intendiamoci; non quei rosati che si producono da un pezzo, ed hanno una tradizione e nobile origine, come il rosa di Ravello, il vin de rosa di Parenzo, i cerasuoli d’Abruzzo, i rosa di Gioia del Colle; come i rosa della Valténesi, basse colline lungo la riva destra del Garda, da Padenghe a Salò (un rosa vispo e petulante che bevvi molti anni fa all’Osteria del Sudicio di Savona al porto). Ma da qualche tempo si sta progettando da parecchi produttori di scolorire in rosa tutti i vini rossi e neri, mescolando al loro mosto pallide vinacce, alterandoli con anidride solforosa e acido carbonico, filtrandoli attraverso carbone vegetale; e questo perché si dice dai commercianti che i consumatori preferirebbero i vini color di rosa agli altri ritenendoli più innocui…” (pag. 55) Le sapienze del marketing che gioca con il colore, con la salute e con le mode correnti e passate. E poi il Monelli si addentra nel discorso del vino e della salute, delle produzioni vinicole delle varie regioni italiane, per passare in rassegna i superalcolici e per concludere gloriosamente con i cocktail (capitolo dodicesimo). A ben pensarci è proprio un piccolo condensato di una manualistica ante-litteram, giocata sulla aneddotica, sui giudizi di valore e su quella vena sentenziosa cara ai prosatori d’arte[2]. Un piccolo capolavoro da rileggere e da ripubblicare.

[1] Paolo Monelli, O.P. ossia Il vero Bevitore, Longanesi & C., Milano 1963, pp. 12, 13

[2] Cfr. Luca Clerici, Introduzione a Paolo Monelli, Il ghiottone errante, Viaggio gastronomico attraverso l’Italia, Illustrato da Novello, Touring Editore, Milano 2005. Edizione originale: 1935

I soviet più le botti grandi non fanno il comunismo. Rappresaglie a Montalcino.

I soviet più le botti grandi
non fanno il comunismo
anche se è un dato di fatto
che a Montalcino non passano
anche se è un dato di fatto
che a Montalcino non passano
lunga vita al Presidente
lunga vita al Presidente!

non si svende non si svende
neanche se non funziona
neanche se non funziona
niente saldi di speranze
niente saldi di esistenze
niente voti alla Madonna

Liberamente adattato da: CCCP Fedeli alla linea, “Manifesto”