C’è un’abitudine inveterata nel mondo discorsivo sul vino, ma potrebbe riguardare tutti i campi dello scibile, per cui si taccia di ‘luogo comune’ un’opinione espressa da altrui parere. Oppure, diversamente, si risponde a ‘luogo comune’ con simmetrico ‘luogo comune’. Luogo comune ha, in entrambe le accezioni, il significato di banalizzazione menzognera grazie al riciclo di falsità o di verità parziali comunemente prodotte in ambito non specialistico. Il sapere specialistico, al contrario, si baserebbe su predicati verbali di indubbia e comprovata scientificità o di quantomeno corroborata documentazione. Vorrei qui invece sottolineare come spesso il confine tra i saperi sia invece molto più confuso e come le invalicabili certezze scientifiche siano produttrici, a volte sulla base del committente politico ed economico a cui rispondono, di luoghi comuni altrettanto pericolosi. Questo non significa ricostruire una sorta di parificazione astratta tra forme di sapere e conoscenza assai diverse e per metodo e per contenuto: vuol dire, invece, riportare ogni forma del sapere, anche nelle sue pratiche procedurali, alla sua sostanza non mitizzata.
I luoghi comuni e le rappresentazioni che da essi derivano hanno, dunque, la forza di costituirsi come ambiente nel quale siamo immersi attraverso due processi: di ancoraggio e di oggettivazione. Nessuna rappresentazione che sia tale nasce dal nulla, ma trae origine da altre rappresentazioni. Come già sostenuto da Schutz: «se nelle nostre esperienze ci imbattiamo in qualcosa di precedentemente sconosciuto (…) diamo inizio ad un processo di analisi. Dapprima definiamo il nuovo fatto; cerchiamo di afferrare il suo significato; trasformiamo poi gradatamente il nostro schema generale di interpretazione del mondo in modo tale che il fatto strano e il suo significato si facciano compatibili e coerenti con tutti gli altri fatti della nostra esperienza e con i loro significati [1].»
Nel primo artefatto linguistico il problema è bello che risolto: si accusa l’altro (gli altri) di argomentare pro domo: si usa il luogo comune per ancorare il proprio discorso ad una verità più ampia, che quasi sempre coincide con l’altra domo, ovvero la propria: “E’ luogo comune pensare che soltanto gli enologi possano essere i migliori valutatori di un vino.” Ne consegue che “i migliori valutatori di un vino possono essere….”. Spesso le frasi cominciano, a tal proposito, con “Non dico che…”, per poi sopraggiungere ad un “ma” che nega interamente il costrutto precedente.
Il secondo caso è più complicato, perché s affrontano luoghi comuni che, hanno un contenuto di verità assai variabile: “la sostanza di luogo comune sta difatti non nel loro contenuto di verità, che può essere basso o inesistente (come nel caso dei cliché razzisti, ad esempio) ovvero alto e altissimo (cfr ‘i migliori bianchi del mondo sono tedeschi’), bensì nella loro ripetitività quale mantra salvifico ripetuto dalle genti[2].”
Uno degli argomenti più dibattuti dal punto di vista scientifico, dove per scientifico intendo la scienza come processo lineare che utilizza una: a) formulazione delle ipotesi; b) definizione del metodo di lavoro; c) raccolta dati; d) elaborazione dati raccolti; e) verifica ipotesi; f) comunicazione risultato, è quello del rapporto tra vino e salute, e non, ma non a caso, tra alcol e salute.
Credo che farebbe sorridere a molti un convegno su “grappa e salute”, e non tanto perché il contenuto alcolico della grappa sia piuttosto elevato, quanto per l’immagine sociale (da cui il luogo comune), comunemente e storicamente condivisa, del prodotto derivato dalla distillazione delle vinacce. Ma c’è di più: il vino non solo è un simbolo nazionale, come la pizza, la pasta e via cantando, ma è stato anche il prodotto più importante della farmacopea occidentale per almeno 1500 anni. La dietetica, la maggiore delle discipline mediche secondo la tradizione ippocratico – galenica, contemplava il vino (cotto, freddo, da solo o con altre sostante erbacee) come mezzo curativo di un numero infinito di disturbi e malattie.
Il dibattito a cui assistiamo oggi, il proliferare di pubblicazioni e di società in difesa del vino, o contro di esso, viene sostenuto e costruito da teoremi, prove, misurazioni che hanno il compito di suffragare l’ipotesi di partenza, ovverossia l’assunto assiomatico. Ma se l’evidenza scientifica dovesse dire altro, sia i favorevoli che i contrari dovrebbero prenderne atto e mettere quantomeno in discussione il postulato che, come tale invece, non viene in alcun modo dibattuto. Ecco perciò che i luoghi comuni, i quali si formano dal sostegno di postulati apparentemente scientifici, hanno una loro forza divulgativa assai maggiore di quelli popolari, ma non per questo possono essere meno pericolosi dei primi. Si potrebbe replicare con le parole usate Barry Barnes, in uno studio su Kuhn, quando dice: «benché gli scienziati presumano spesso che i loro concetti e teorie in qualche senso si applichino già a tutti gli aspetti della natura, quel che essi fanno realmente nel corso della ricerca normale è ordinare i fenomeni sotto determinati concetti, caso per caso. È l’attività della scienza normale che dà significato ai concetti, non il significato intrinseco dei concetti che ne determina l’attività[3].» Da ciò si può affermare che «molte delle tesi avanzate per distinguere la scienza dalla pseudo-scienza sono in realtà costruzioni a posteriori formulate per giustificare il già avvenuto rigetto di determinate ipotesi scientifiche. Se fossero applicate ex ante per determinare il valore di ipotesi ancora in discussione porterebbero molto probabilmente, come suggerisce Feyerabend, alla scomparsa della scienza come la conosciamo oggi[4].»
Se ciò corrisponde al vero, possiamo concordare sul fatto che il luogo comune, che deriva da un senso comune diffuso“non è l’autore del suo presunto discorso; non è ciò per cui si presenta o viene spacciato. Esso è propriamente il termine di un’operazione strategica perseguita dal sapere propriamente detto (…) Nelle vicende delle sue certezze così come in quelle delle sue illusioni, il senso comune ha dietro di sé la committenza di un sapere che non è né comune, né popolare. Scopriamo che ciò che va sotto il nome di senso comune è una funzione delegata dal pensiero scientifico-filosofico in corso; che esso è inserito entro un immane reticolo dove parti del sapere si strutturano con altre parti, con altri frammenti di scienza[5].” Ed è proprio questa tradizione filosofico-scientifica che consegna un repertorio di certezze e di verità come erede di una tradizione mitologica che si realizza al di fuori dei processi stessi della metodologia della scienza. Il mito è, infine, ciò che Furio Jesi definisce come “una macchina che serve a molte cose, o almeno il presunto motore immobile e invisibile di una macchina che serve a molte cose, nel bene e nel male. È memoria, rapporto con il passato, ritratto del passato in cui qualche minimo scarto di linea basta a dare un’impressione ineliminabile di falso; e archeologia, e pensieri che stridono sulla lavagna della scuola, e che poi, talvolta, inducono a farsi maestri per provocare anche in altri il senso di quello stridore. Ed è violenza, mito del potere; e quindi è anche sospetto mai cancellabile dinanzi alle evocazioni di miti incaricate di una precisa funzione: quella, innanzitutto, di consacrare le forme di un presente che vuol essere coincidenza con un eterno ‘presente’[6].”
Dunque bevo vino per diverse ragioni: ho qualche dubbio che mi faccia bene. Dipende dal bene.
[1] Alfred Schutz, Saggi sociologici, Utet, Torino 1979 (ed. orig. 1973), pag. 389
[2] Rizzo Fabiari, 24 maggio 2012 alle 08:18 in risposta a Rossano Ferrazzano su http://accademiadeglialterati.com/2012/05/28/elenco-provvisorio-di-luoghi-comuni-del-vino-lista-in-aggiornamento/
[3] Barry Barnes, T.S. Kuhn: la dimensione sociale della scienza citato in Luca Guzzetti, La frode scientifica. Normatività e devianza nella scienza, Liguori Editore, Napoli 2002, pag. 18
[4] Ivi pag. 197
[5] Aldo Gargani, Scienza, filosofia e senso comune in Ludwig Wittgestein, Della certezza. L’analisi filosofica del senso comune, Einaudi, Torino 1999, pag. XXVIII
[6] Furio Jesi, L’accusa del sangue. Mitologie dell’antisemitismo. Morcelliana, Brescia 1993, pag. 101