“Cappuccetto rosso”, quindi delle parole e del loro orrido utilizzo

Di Carl Larsson – Bukowskis, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=26016098

Massimo Gramellini, nel suo ultimo editoriale dal titolo quantomai evocativo, “Cappuccetto Rosso” https://www.corriere.it/caffe-gramellini/18_novembre_22/cappuccetto-rosso-cd85367c-edd1-11e8-be2f-fc429bf04a05.shtml?fbclid=IwAR2DgiEez7APWQEZnhmFVNzOLYbQx6fhcoHr_hx95e_OBKM47fzXBshmxWE così pensa, così inizia e così scrive: “Ha ragione chi pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya da una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta. Ed è vero che la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto”. Gramellini utilizza un espediente retorico che, ancor prima di essere tale, è uno strumento etico e politico allo stesso tempo: lui dice, in altre parole, “te la sei cercata!”: tutto ciò che segue nel suo discorso non fa altro che rafforzare questo, tanto banale quanto orrido, concetto. Il pensiero che sovrasta l’immagine evocata ha la funzione di distribuire le colpe e, contemporaneamente, di attenuarne la portata: “fossi rimasta a casa!”; “non avessi portato quella gonna!”; “non avessi bevuto troppo!”…  il fatto di essere una giovane cooperante bianca in Africa. A fronte di una “provocazione”, conscia o inconscia che sia poco importa, semmai suffragata da una pura, cioè supportata da inconsapevole ignoranza, energia giovanilistica, non possono che tornare in mente le parole di ‘Un americano a Roma’: “Maccarone … m’hai provocato e io te distruggo adesso, maccarone! Io me te magno!”. La “provocazione”, dunque, determina un merito che essa ha contribuito a causare e che, con esso, sortisce una “equa” suddivisione della colpa. Perché di colpa si tratta a proposito di quella “smania d’altruismo” e di colpa si tratta allorché “la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto”. Non è una ramanzina simpaticamente bonaria quella del professionista adulto Gramellini, ma una sentenza definitiva. E, davvero, nessuna intenzione di riportarla ad una più ragionevole mensa Caritas toglierà una virgola dalla violenza di quelle parole.

Chi può scrivere di vino?

Di Matteo De Stefano/MUSE, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=48039645

“Chi può scrivere di vino?” Tutti: uno, nessuno, centomila. Superate le prime difficoltà a disegnare aste e cerchi, una volta raggiunte le lettere tonde, quelle miste con gambe verso il basso e prolungamenti verso l’alto, ogni bambina e bambino può comporre un pensierino sul vino. O sul nonno che si è appena appisolato sul tavolo accanto al suo amato bottiglione. Anche mio figlio Marco, quando era in seconda elementare, ha svolto un compito vin-naturista: come si fa il vino? Il tutto era agghindato da disegni che seguivano il processo di vinificazione semplificato che, con qualche semplice salterello sulle uve, le trasformava, senza nulla aggiungere e ancor di meno togliere, in vino. D’altra parte insegniamo loro la pace, a volersi bene, a non fare differenze tra colori di pelle, occhi e peso corporeo specifico, ai difetti e ai pregi per poi svelare, qualche anno dopo che si tratta di cose belle, buone e giuste, ma che il mondo è un tantino diverso e che, dunque, sarebbe meglio adeguarsi. Anche in età adulta, costretti o meno da doveri disciplinari e compositivi, si può continuare a scrivere liberamente di vino: che si faccia il ferramenta, l’imbianchino, il killer seriale o l’astronauta, nulla lo vieta. Ma non solo: l’esplosione tecnologica, la condivisione argomentativa e la socializzazione maieutica delle esperienze personali permettono, oggidì, di poter pubblicare i propri pensierini sul vino. Come su tutto, del resto. Questo complica un tantino la faccenda: quello che era relegato ai meandri impercettibili delle pagine giallastre di diari sepolti da tonnellate di acari o ai quaderni gelosamente archiviati nei piani alti di ripostigli invasi da scarpe, scatole, conserve e bag-in-box, ora trova moderna e ridondante luce nelle pubblicazioni social, nei blog, nei siti professionali e commerciali e via di questo passo. Così, in una rincorsa inesauribile tra l’Es, il polo pulsionale della personalità, il vacanziero Super-Io, che presiede alla coscienza morale, ed un Io stravaccato tra il conscio e l’inconscio, le protuberanze di un narcisismo mai domo trovano il loro compiuto appagamento nelle pagine dattiloscritte e condivise del mondo web. Ma questa non è la questione, ma si aggiunge alla questione. Quando le domande sono molto semplici, le risposte si fanno parecchio complicate. Torniamo daccapo: “Chi può scrivere di vino?” Il verbo ‘potere’ indica e chiede di esprimersi sia sull’insieme delle possibilità che sull’insieme delle capacità di realizzazione. Ma non basta: il ‘potere’ sostantivato, così come nella sua forma di verbo, rimanda ai concetti di autorità auctorĭtas, alla facoltà legittima di esercitare un pubblico potere e di autorevolezza, o meglio di credito, di onorabilità, di rispettabilità e di stimabilità.

Un ultimo sforzo. Nel caso in cui il potere rimandi a competenze, nella molteplici declinazioni di “essere in grado di…”, il riferimento è duplice: alla conoscenza della materia, anche in chiave esperienziale e alla capacità espositiva e divulgativa della stessa. Anche in questo caso le cose non sono semplici come appaiono: un buon conoscitore di vino non è detto che sia in grado di esporre a dovere la materia, così come un buon espositore non è detto che sia altrettanto efficace. Ad esempio il piano dell’espressione linguistica può essere molto alto, estremamente piacevole, sinuosamente forbito, ma assolutamente insufficiente a coinvolgere un pubblico che non sia limitato a qualche intorpidito lettore. Al contrario, un giovane Instagrammer, dotato di perizoma evocativo, di foto sapienti e di una buona dose di richiami alla foresta sensoriale, sarà in grado di succhiare follower dall’enomondo più di una echidna (formichiere spinoso) da un termitaio. Infine, per quanto riguarda il concetto di potere in relazione ad una sorta di investitura imperitura, dove autorità e autorevolezza si scambiano vicendevolmente di posto, il riferimento non può essere che alla produzione del discorso: essa è controllata, selezionata, organizzata e distribuita secondo una serie di procedure che hanno il compito di scongiurarne i poteri e i percoli attraverso tre passaggi: di assoggettamento, di differenziazione e di esclusione. Solo e soltanto alcuni avrebbero la capacità (in questo caso l’autorità), in via oggettivante, di poter parlare di vino.

A questo punto non possiamo più immaginare che esistano domande semplici e che, forse, ogni domanda ne contenga, segretamente, molte altre.

La piantata padana nelle terre emiliano-romagnole del 1500

Di unknown master – book scan, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5024237

Il sistema poderale, diversificato quanto a dimensioni aziendali, ma sempre proporzionato alla famiglia colonica e alla forza di tiro animale, presuppone la coltura promiscua e l’autosufficienza alimentare del contadino grazie ad una grande varietà di prodotti: tra questi primeggiano il frumento e il vino. La coltivazione della vite avviene maritandola ad un sostegno vivo, in genere all’olmo, all’acero campestre, al salice o al pioppo disposto in filari ai bordi del campo: «Su di un terreno che un’iniziativa collettiva o pubblica ha già dissodato,(…) più facilmente anche il singolo colono potrà procedere, ormai, non solo alle normali colture erbacee, ma all’impianto di quelle colture arboree ed arbustive, la cui estensione diverrà uno dei tratti caratteristici del paesaggio agrario italiano nell’età dei Comuni; e sulle terre di un antico acquitrino, del pari, che un’abbazia cistercense ha prosciugato, e che la pubblica iniziativa di un vescovo o di un Comune ha solcato di una rete di duagli – di fossi collettori consorziali – anche il singolo proprietario potrà ormai procedere alla sistemazione idraulica del suo fondo, senza dover temere che, alla prima pioggia, le sue scoline e i suoi fossati trabocchino per mancanza di sfogo [1].» Il trionfo della piantata all’interno del paesaggio agrario emiliano coincide, oltre che con l’affermazione del podere quale struttura produttiva caratteristica, anche con l’individualismo agrario con il superamento delle pratiche solidaristiche proprie dei campi aperti e con il prevalere lento, ma costante, dell’economia del pane e del vino su quella dell’allevamento ovino e bovino [2]. La densità delle alberature e la larghezza assegnata al campo dalle tradizioni locali sono variabili, ma su ogni ettaro di superficie agraria utilizzata possiamo incontrare da 90 a 180 piante.

Il campo arativo-arborato e vitato è dunque il modello organizzativo di un sistema agrario a coltura promiscua ma intensiva, capace di esprimere il massimo di efficienza dal punto di vista energetico. Ai bordi del campo si allineano in bell’ordine centinaia di alberi e viti. Sotto i filari si stendono spazi erbosi (strenerivali) che servono da sgrondo delle acque piovane verso gli immancabili fossi di scolo. Anche la loro modesta produzione foraggiera viene utilizzata. La produzione legnosa della piantata non è trascurabile, collocandosi tra il 5 e il 10 per cento della produzione lorda vendibile. Essa serve per i bisogni energetici sia della famiglia contadina, sia del padrone in città. Tutta la letteratura agronomica, dal ‘500 in avanti, detta infatti norme e precetti per una buona dotazione arborea del podere e per l’annessa coltura viticola. Nella pianura romagnola, secondo rilevazioni catastali disponibili, si può ipotizzare che quasi due terzi delle terre arabili siano state sistemate, tra XV e XVII secolo, con la piantata di alberi e viti in filari. Stesso andamento si può ipotizzare per l’alta e media pianura bolognese, modenese e reggiana. Il discorso non muta se ci avviciniamo alle terre racchiuse dai rami deltizi del Po del ferrarese e del Polesine di Rovigo. Nel 1576 nel Polesinedi S. Giorgio, la parte meglio sistemata dell’agro ferrarese, i terreni abbragliati con la piantata sono 21.783,7 ettari, pari al 69,8% delle superfici accatastate, le quali non comprendono però i terreni vallivi e i pascoli. Gli arativi nudi coprono invece solo meno dell’11% del totale. L’espansione della piantata padana, ottenuta imponendo ai mezzadri e ai coltivatori, attraverso i patti colonici, una ingente massa di lavoro, diviene una delle strade principali di valorizzazione del capitale fondiario: «Ciò che più caratterizza la diffusione della piantata padana nel Cinquecento è la maturazione delle pratiche di sistemazione idraulica del suolo, che, raggiungendo una nuova compiutezza tecnica, diventano di tipo permanente ed intensivo, e conferiscono alle campagne un aspetto ordinato, scandito da campi regolari, delimitati da viottoli, cavedagne, scoline, e fossati, le cui rive sono ora sempre più spesso fiancheggiate da filari di vite [3]

L’investimento del proprietario urbano per dotare il podere di abitazioni per la famiglia contadina e per gli animali da lavoro verrà abbondantemente ripagato con il forte incremento di valore del campo arborato e vitato rispetto alle altre forme di uso del suolo. Si può dunque concludere che l’avanzata dei coltivatori nel cuore delle terre inselvatichite e delle residue foreste padane avviene dal XVI secolo in avanti ricollocando con ordine ai bordi dei seminativi quegli alberi che erano stati estirpati qualche anno o qualche secolo prima. Facendo questo l’agricoltore compie anche una selezione rigorosa ed economicamente funzionale delle specie arboree: alberi dolci (salice, pioppo) per asciugare terreni umidi e fornire pali, fascine, vimini; alberi da foraggio che contemporaneamente fungono da sostegno vivo per la vite (olmo, acero campestre, frassino); alberi da reddito per la produzione di foglia e per l’allevamento dei bachi da seta (gelso); alberi da olio, come il noce, valido sostituto dell’ulivo in tutta la bassa padana, col cui legname si facevano mobili e arredi; alberi forti e da cima per fare travi e legname da opera, come la farnia [4], alberi da frutto, ecc.

Intorno al 1500 il paesaggio rurale cambia.

I vantaggi che comporta la piantata sono molteplici, tanto che si possono sviluppare contemporaneamente diverse colture: la vite, i seminativi al suolo e il foraggio. Visto il clima delle zone padane, non certamente il più adatto alla produzione vitivinicola, le viti mantenute in alto dagli alberi permettono ai grappoli la massima insolazione che favorisce la maturazione, ed il minimo di umidità, che impedisce i pericoli delle muffe. Gli ‘alberi tutori’ sono prevalentemente l’olmo, l’acero campestre (quello che i contadini chiamano ancora opi) e in alcuni casi sono impiegati anche pioppi e gelsi. Le foglie di queste piante, raccolte quando erano ancora verdi, costituiscono una ottima integrazione alimentare invernale per i bovini. Gli alberi sono piantati in filari distanti alcuni metri tra loro e altrettanti dal filare vicino: nel sistema reggiano la norma è una distanza di 6 metri, mentre nel mantovano i filari distano fino a 30 metri [6].Leandro Alberti [5] assicura nella sua «Descrittione di tutta Italia» che, «scendendo alla via Emilia e camminando per mezzo dell’amena e bella campagna questa appare ornata di vaghi ordini di alberi dalle viti accompagnate». Per tutta la pianura emiliana, racconta sempre Alberti «si veggono artificiosi ordini di alberi sopra i quali sono le viti, che da ogni lato pendono.» E’ la piantata padana; questa la disposizione degli alberi a tutela della vite, che secondo alcuni è già presente nel Medioevo, e che è quasi sopravvissuta fino ai giorni nostri.

Una descrizione esaustiva e compiaciuta, a ragione, della piantata ci giunge a metà del Seicento dal Tanara: «fili d’arbore, o piante che sostentano le viti: con questi non s’occupa o impedisce parte alcuna di terreno che non si possi lavorare e cavarne frutto; anzi dallo stesso lavorare che per altrui si fa, la vite ne viene coltivata senza spesa, e quasi perpetui (gli alberi) mantengono e sostentano la vite, e col mezzo di questi le allunghi e dilati tanto, che rende più un filo di questi arbori, o due (alla bolognese) nella piantata bene aiutata che non fa una vigna, porgono ancora dilettazione alla vista e servono di comodità di separare un campo dall’altro… [7]

NOTE

[1]      Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Edizioni Laterza, Roma – Bari 1997, pp. 125, 126 (edizione originale 1961)

[2]      Cfr. Marco Cattini, Individualismo agrario, viticoltura e mercato del vino in Il vino nell’economia e nella società italiana,Quaderno RSA 1 AA.VV. Convegno di Studi Greve in Chianti, 21-24 maggio 1987 Firenze, 1988 pp. 203 – 220

[3]      Francesca Finotto, Vaghi ordini di alberi dalle viti accompagnati: la piantata padana, in Quaderni della Ri-Vista, ricerche per la progettazione del paesaggio anno 2007 – numero 4 – volume 1 – gennaio-aprile, pag. 178 in http://www.unifi.it/ri-vista/quaderni/…/quaderno…/14_FINOTTO_Piantata_padana_completo.pdf – Simili

[4]      Quercia

[5]      Leandro Alberti (1479-1552) Storico bolognese. Nella prima giovinezza attrasse l’attenzione del Retorico Giovanni Garzo, che volontariamente si offrì come suo insegnante. Entrò nell’ordine domenicano nel 1493 e dopo aver completato i suoi studi teologici e filosofici fu chiamato a Roma dal suo amico il Maestro Generale Francesco Silvestro Ferraris nel 1528. Nel 1517 pubblicò in sei libri un trattato sugli uomini più illustri del suo ordine, tradotto in molte lingue. Oltre a numerose Vite di Santi, e una storia sulla Madonna di San Luca e sul Monastero che ne porta il nome, pubblicò una cronaca sulla sua città natale: Istoria di Bologna. La fama di Leandro Alberti resta però legata alla sua ‘Descrittione di tutta Italia’, del 1550, in cui si trovano numerose osservazioni topografiche ed archeologiche. Da http://www.sassiweb.it/matera/la-citta-di-matera/introduzione/materani-illustri/biografie-personaggi-illustri/bioalberti/

[6]      Franco Cazzola, Terre senza foreste: zone umide, pinete costiere e piantate di alberi nell’economia agraria della bassa valle del Po (secoli XV-XVIII), in L’uomo e la foresta, sec. XIII-XVIII,«Atti della ventisettesima settimana di studi» (Prato, 8-13 maggio 1995) dell’Istituto internazionale di storia economica ‘F. Datini’ di Prato, a cura di S. Cavaciocchi, Le Monnier, Firenze 1996, pp. 971-988. Id., Disboscamento e riforestazione ‘ordinata’ nella pianura del Po: la piantata di alberi nell’economia agraria padana, secoli XV-XIX, in «Storia Urbana», anno XX, n. 76-77, luglio-dicembre 1996, pp. 35-64.

[7]      Vincenzo Tanara, L’economia del cittadino in villa del sig. Vincenzo Tanara. Libri VII. Quarta impressione, riveduta, & accresciuta in molti luoghi, con l’aggiunta delle qualità del cacciatore, Bologna 1656 (prima edizione Venezia 1644) citato in Marco Catini, cit. pag 205

Dialogo tra due produttori piemontesi di vino naturale di fronte ad una fiera convenzionale

La foto è tratta da medium.com

Aufrej: “Dit parèj a peul smijé brut, ma cula fera parëssa üna sbërnùfia!”

Bartromé: “Qual?”

Aufrej: “Cula là, cula cunvensiunal!”

Aufrej: “detto così può sembrare brutto, ma quella fiera pare una una donna sofisticata e sprezzante!

Bartromé: “Quale?”

Aufrej: “Quella là, quella convenzionale!”

Marco Porcio Catone: “governa la vigna in questo modo…”

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C’è un solo testo che proviene da una tradizione manoscritta diretta, anche se rimaneggiata, che è anche il più antico scritto in prosa latina sino a noi pervenuto: il ‘Liber de agri cultura’ di Marco Porcio Catone, composto tra il 170 ed 150 a. C. e dedicato al figlio (ad M. filium). Questo libro, diviso in 162 capitoli, la cui titolazione è presumibilmente successiva, ha una strutturazione di tipo ‘precettistico’, ovvero è una summa di temi  sulla conduzione della villa rustica, con la finalità ultima di consegnare un corpus di indicazioni che torni utile al padrone nella gestione economica delle faccende agricole. Le argomentazioni si susseguono in maniera non omogenea e a volte ripetute, condizione questa dettata da rimaneggiamenti postumi: si passa così dai consigli relativi all’acquisto del fondo e all’attrezzatura della villa, ai tinai, ai frantoi, alla seminagione, alla concimazione, alla coltivazione della vite e dell’olivo, alla preparazione del vino e dell’olio e via  dicendo. E’ alquanto probabile che si tratti di un’opera, secondo la definizione di Paolo Cugusi e Maria Teresa Sblendorio Cugusi, che hanno curato l’edizione per la Utet[1], ‘aperta’, ovverosia di appunti raccolti nel corso del tempo, interpolati da modifiche successive, non bloccati in un piano preciso. Contributo alla genesi dell’opera sono sia la conoscenza di testi greci, nella loro dimensione introduttiva (isagocica) ed in quella geoponica (geøponikós = per il lavoro della terra), come gli scritti sulla botanica di Teofrasto[2], sia la pratica diretta come agricoltore dello stesso Catone. Per ciò che riguarda la vigna si parte dall’11° capitolo quando catone si cimenta in un elenco di manodopera umana ed animale e di strumenti necessari ad attrezzare un vigneto di 100 iugeri[3], per poi saltare al 31° in cui tratta la cura della vigna: «Governa la vigna in questo modo: rimondata bene la vite, tirala ritta e perché non resti storta, guidala per ogni parte costantemente per quanto potrai; e accortamente lascia i tralci che danno il vino e que’ che possono a questi supplire. Fa la vigna più alta che puoi; legala bene, purché per altro non la stringa di soverchio (non stringerla troppo). Va governata così. Nel tempo delle semine rincalza tutti i tronchi delle viti. Zappa intorno alla vigna potata. Comincia ad arare e fa su e giù solchi continui. Propaga al più presto che puoi viti tenerelle. Poscia castra le vecchie men che puoi; o piuttosto, se farà bisogno,  coricale e due anni dopo recidile (potale). Il tempo di recidere la novella è quando avrà acquistata fermezza. Se la vigna sarà deserta fa in essa de solchi piantavi delle marze. Togli da solchi l’acqua e vangavi spesso. In vigna vecchia semina ocino (trifoglio) se sia magra: non seminarvi biade (piante con semi). Ai piedi poi delle viti aggiungi sterco, paglia e vinacce e roba insomma che vieppiù la fortifichi. Tosto che la vigna abbia cominciato a frondeggiare, la spampina (sfrondala). Allaccia strette le vigne novelle onde i loro getti non si rompano: e di quella che andrà alla pertica lega i pampini leggermente e correggili onde si mettano in buona positura. Quando 1’uva comincerà a variegare, lega di nuovo le viti, mondale de’ pampini, metti fuori i grappoli, zappa intorno ai tronchi[4].» Sappiamo, a partire da questa testimonianza, che nell’antica Roma i vigneti vengono collocati in trincee scavate nel terreno (sulci): «È evidente che dove l’altezza del suo-lo era inferiore, lo scavo incideva più o meno profondamente la sottostante superficie tufacea. Ed è proprio la traccia di questo scasso quella che spesso ritroviamo sul tufo delle colline suburbane, dove negli scavi si rinvengono tipi diversi di tagli, con caratteristiche differenti: trincee più strette e dal profilo concavo sono solitamente identificate come canalizzazioni per l’acqua, utilizzate sia per l’irrigazione che per lo smaltimento, spesso in stretta connessione topografica con sistemi di trincee parallele, riportabili invece a coltivazioni in filari. In molti di questi sistemi, quasi sempre in connessione con le suddette canalizzazioni, sono distinguibili caratteristiche comuni, come la larghezza costante (che si aggira tra gli 80 e 90 cm), il profilo squadrato, la lunghezza delle trincee, e la relativa regolarità della di-stanza fra una trincea e l’altra all’interno di ogni impianto, che hanno portato ad identificarli come impianti di coltivazione della vite, che Catone stesso considera comunque la più redditizia per un’impresa agricola della sua epoca[5].» E dopo la cura della vigna, gli innesti (cap. 41), i solchi e le propaggini (cap. 45), la vite vecchia (cap. 49), perché non vi siamo bruchi nella vigna (cap. 95 ripreso poi da Plinio con citazione di Catone, Naturalis… XV, 33) e poi il vino, come produrre innanzitutto i famoso vino greco, di cui quello di Cos è esemplare più sopraffino (cap. 112): «Se vorrai fare del vino di Cos attingi al largo acqua di mare, in una giornata di mare calmo, quando non tirerà vento, settanta giorni prima della vendemmia. Quando l’avrai attinta dal mare versala in una giara, ma senza riempirlo: manchino cinque quadrantali (circa 133 litri) a farla piena; mettici il coperchio ma lascia una fessura per cui traspiri. Quando saranno trascorsi trenta giorni travasa pulitamente in un’altra giara, piano piano e lascia sul fondo il deposito. Dopo altri venti giorni travasa allo stesso modo in un’altra giara: e lascia stare così sino alla vendemmia.catone
I grappoli con cui vorrai fare il vino di Cos lasciali sulla pianta, lasciali maturare bene e quando sia piovuto e tornato asciutto, allora finalmente raccoglili e ponili due giorni al sole, all’aperto se sarà bel tempo; se pioverà mettili dentro casa su delle stuoie; se ci saranno acini guasti toglili.
Poi prendi l’acqua marina di cui si è discorso sopra, versa dieci quadrantali (circa 266 litri) di questa acqua marina in una giara da cinquanta urne; quindi dai grappoli misti stacca i grani dal graspo facendoli cadere nel tino fino a che l’avrai riempito. Schiaccia gli acini con la mano perché si imbevano di acqua marina. Quando avrai riempito la giara coprila con il suo coperchio, lasciando una fessura perché traspiri. Quando saranno passati tre giorni togli l’uva dalla giara e pigiala nel torchio e riponi il mosto in giare lavate, pulite e asciutte.» Poi le correzioni per rendere un vino aspro più dolce, o per togliervi il cattivo odore, oppure ancora per sapere se il vino è annacquato o meno e, infine, il vino secondo la rinomata tradizione medica ‘ippocratica’, come rimedio contro diversi disturbi: sciatica, dispepsia e difficoltà ad urinare, dissenteria, tenie e vermi. In molti attinsero da questo scritto e molti gli furono imperituri debitori.

[1] Marco Porcio Catone, Opere, Volumi I e II, Utet, Torino 2001

[2] Teofrasto (in greco Θεόφραστος; Ereso, 371 a.C. – Atene, 287 a.C.), Storia delle piante (Περὶ Φυτῶν Ιστορίας), in nove libri (originariamente erano però dieci), classifica oltre cinquecento piante, dividendole in alberi, frutici, suffrutici, erbe; nel libro IX classifica, per la prima volta nell’antichità, droghe e medicinali con il loro annesso valore terapeutico. Nel secondo, Cause delle piante (Περὶ Φυτῶν Αἰτιῶν), in sei (originariamente in otto) libri, descrive la generazione spontanea e la vegetazione delle piante per cause esterne.

[3] Uno iugero è equivalente a 0,252 ettari.

[4] Opere di Marco Porcio Catone, con traduzione e note, accresciuti, tradotti ed illustrati con note dal Prof. Ab. Giovanni Berengo, dalla tipografia di Giuseppe Antonelli Editore, Venezia 1846, pp. 38, 39.

[5] Rita Volpe, Vino, vigneti ed anfore in Roma repubblicana, in  http://sovraintendenzaroma.academia.edu/RitaVolpe/Papers/1364504/Vini_vigneti_ed_anfore_in_Roma_repubblicana

 

 

Il vino cadavere

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La letteratura vinicola, che si occupa di analisi sensoriale, concorda nell’accostare il vino ad un’immagine antropizzata, alla vita dell’essere umano, alle sue fasi evolutive, sin che morte non sopraggiunga e lo separi dalla bottiglia: “L’evoluzione del vino” – così recita a pagina 166 il manuale su ‘La degustazione’ dell’Associazione Italiana Sommelier – “ può essere paragonata alle tappe della vita dell’uomo. All’inizio è immaturo, poi giovane, pronto, maturo e vecchio. Tutti i vini, seppur con modalità e tempi differenti, percorrono questa curva temporale: per alcuni vini si conclude in uno-due anni, per altri dura molto più a lungo, fino a decenni.” Altre associazioni di degustatori/sommellier, come l’ONAV, la FISAR o Slow Food utilizzano alcuni termini depennati dalla manualistica AIS, che conducono il vino da una vecchiaia più o meno dignitosa (che chiamano leggermente vecchio) alla vera e propria decrepitezza: “leggermente vecchio e poi via via spento, logoro, passato, decrepito, non più in grado di regalare piacevolezza a livello organolettico. Tonalità di colore ambrate (per i bianchi) o bruno-mattone (se si tratta di rossi) e profumi maderizzati sono indici sicuri di un vino finito, che forse non sarà neppure il caso di mettere in bocca[1]”. Il vino decrepito, se si guarda ad esempio una bottiglia di rosso controluce, ha messo ‘la camicia’: è quel vino che, insomma, se ne è andato. Senza alcun interesse verso l’estetica della morte, penso che l’esperienza della visione di un corpo morto, che è stato a suo tempo vivo e vitale (anche se sappiamo che molti vini, così come molti esseri umani sono già morti quando sono perfettamente in vita) sia uno dei luoghi privilegiati del nostro rapporto con la realtà e con la  sua capacità di sorprenderci e di perturbarci. Facendo parlare Blanchot, Stefano Velotti, nel suo saggio sulla Storia filosofica dell’ignoranza[2], sostiene che il cadavere finalmente assomiglia a se stesso: “Il ‘cadavere è la sua propria immagine’ in quanto rassomiglia a ‘niente’, simile in questo ad un oggetto d’uso reso inservibile che diviene la sua immagine, poiché ‘non sparendo più nel suo uso, appare’. (…) Spogliato dei suoi referenti determinati, di ciò che una persona viva significa in rapporto a questo o a quello, delle sue relazioni fungibili e parziali con il mondo dei vivi, il cadavere ‘assomiglia a se stesso’ o , in termini wittgensteiniani, ‘dice di se stesso’in quanto resta sospeso nell’esitazione tra il venir meno di relazioni vitali e l’esibizione della loro totalità indefinita[3].”

Il vino cadavere ci racconta, in realtà, molto di più di quanto potremmo aspettarci.


[1] A.A.V.V., Il piacere del vino. Manuale per imparare a bere meglio, Slow Food Editore, Bra (CN) 2003, pag. 220

[2] Steafno Velotti, Storia filosofica dell’ignoranza, Laterza, Bari – Roma 2003

[3] Ivi, pp. 180, 181