
Nell’autunno del 1975 Mario Soldati compie l’ultima tratta del suo giro per l’Italia, viaggio iniziato nel 1968 e proseguito nel 1973, alla ricerca di vini genuini e così, dopo aver solcato i meravigliosi nettari del Levante, capita in quella Genova deturpata (già a quel tempo), ma di tanta grandezza e civiltà che non si può lasciare così, senza dire nulla dei suoi vini. E allora Soldati va di proposito alla trattoria di Checu, il padrone che è anche il cuoco, soprannominato dai foresti in senso spregiativo “Toro”, in via Demarinis, a Genova Sampierdarena per bere il vino di Begato, proprio quello dell’omonimo Forte: “bianco, lieve, delizioso, meno aspretto e meno chiaro del Coronata, ma più scivolante e più profumato(…) E, all’orecchio di Remo Borzini, che mi è accanto, mormoro la felice definizione, ch’egli ebbe un giorno a dare di questi genovesi, isole resistenti se altri mai: ‘L’aristocrazia degli umili’.[1]” Già in un’operetta del 1770 attribuita a Girolamo Gnecco, conte di Nervi, ci si lamentava che “la cognizione forse anche esagerata della mediocrità de nostri prodotti e della nostra agricoltura: quanto la passion forse troppo eccedente per lo commercio, e per li vantaggi, che da esso ritraggonsi hanno certamente allontanato un buon numero di persone dalla ricerca di quelli, che può somminìstrar l’agricoltura. (…) Ella è una verità incontrastabile che, se le arti, e il commercio si stabiliscono a danno dell’agricoltura o per qualunque altro motivo si distraggono quelle ricchezze che sono necessarie alla buona coltivazione e al miglioramento de’ fondi; questi vanno sempre più degradando, e non riportano que’ maggiori profitti che se ne posson ritrarre. Dello spender ne fondi (mezzo vantaggiosissimo all’agricoltura) non posson far uso i poveri agricoltori unicamente occupati a cavarne il proprio sostentamento, e solamente può impiegarvi danaro il Proprietario, dal quale assai comunemente viene ad altro oggetto rivolto. La terra non dà ricchezze se non in proporzione di quelle, che le sono confidare non moltiplica il frutto fuorchè in ragione del travaglio, e della spesa[2].” Insomma, sembra di sentir parlare dell’oggi: gli investimenti agrari costano cari, i padroni rivolgono le loro attenzioni ad altre attività maggiormente remunerative dal punto di vista finanziario (arti, commercio…), mentre i poveracci non possono fare investimenti perché tutto ciò che guadagnano va a sostentamento della sopravvivenza. Genova è, per chiunque vi fosse approdato dall’anno 1000 in avanti, piena di vigneti: tutta la fascia costiera è vitata, da Sampierdarena ad Albaro, e di particolare bellezza e specializzazione, a danno del prevalente ulivo, era la collina di Carignano: “All’altro capo della città la collina di Carignano sembra invece caratterizzata da una precoce specializzazione viticola. Si veda per esempio, in un documento dell’anno 1000, la permuta di terre fra l’abate di S. Stefano e due cittadini genovesi riguardante cinque appezzamenti siti in Carignano, di cui quattro definiti cum vinea et alios arbores fructiferos e uno cum vinea et alios arbores fructiferos et olivectis e altri documenti coevi con ulteriori indicazioni, sempre in Carignano, di vigne o di coltura promiscua a base viticola. Dato che abbiamo nominato 1’abbazia benedettina di S. Stefano possiamo aggiungere che se sulle sue terre non risulta assente l’ulivo, tuttavia i più antichi contratti ad pastinandum[3] concernenti terre del monastero non prevedono esplicitamente piantagioni di ulivi ma soprattutto di viti e di castagni. L’area suburbana genovese sembra, a cominciare dal XIII secolo, andare assumendo il suo peculiare paesaggio: accanto ai numerosi insediamenti ecclesiastici e monastici, sui quali esiste una abbondante documentazione, cominciano a sorgere le «ville» dei cittadini e l’agricoltura va precocemente modellandosi sulle esigenze del mercato cittadino, come dimostra anche la formazione dell’area orticola della piana del Bisagno[4].” Ed è proprio nella Val Bisagno che la curia vescovile ha il centro dei suoi interessi agricoli ed in particolare quelli legati alla coltivazione della vite ed alla produzione di vino[5], in particolare nelle zone di san Siro di Stroppa e di Montecignano. Dall’altra parte la val Pozzevera vanta i vini della Costa di Rivarolo e di Coronata: “Il Bertolotti (Viaggio nella Liguria Marittima, 1834) con la sua abituale enfasi accenna ai vigneti di Val Polcevera ‘con indicibile studio tenuti’ per affermare poi: ‘La valle della Polcevera è la Tempe moderna. Se i suoi vini e i suoi olj corrispondessero in bontà alla singolare diligenza e vaghezza della sua coltivazione, ed alla magnificenza delle due ville, ella sarebbe più ricca che l’aurifera Valle di Cusco’[6].” Le uve, tutte bianche, della Valpolcevera sono: Rollo, Vermentino, Bosco, Trebbbiano, Bianchetta. Oggi rimane solo una piccolissima produzione del vino di Coronata[7] che così Francesco Mazzoli descriveva: “Ne risulta un ‘bianco’ dal colore paglierino tendente al freddo, profumato di bosco. Gusto secco, asciutto ed allegro[8], con finale gradevolmente amarognolo e cosa allappantina. Talvolta sa di zolfo: dovuto a terreni nei quali detto minerale ha una consistente presenza. Ma tale sapore lo si toglie quasi del tutto con pazienti e tante travasature. I pigri però lasciano perdere: dicendo che è il gusto peculiare di Coronata…[9]”