Il vino cadavere

Di Rembrandt – Web Gallery of Art:   Image  Info about artwork, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15417287

La letteratura vinicola, che si occupa di analisi sensoriale, concorda nell’accostare il vino ad un’immagine antropizzata, alla vita dell’essere umano, alle sue fasi evolutive, sin che morte non sopraggiunga e lo separi dalla bottiglia: “L’evoluzione del vino” – così recita a pagina 166 il manuale su ‘La degustazione’ dell’Associazione Italiana Sommelier – “ può essere paragonata alle tappe della vita dell’uomo. All’inizio è immaturo, poi giovane, pronto, maturo e vecchio. Tutti i vini, seppur con modalità e tempi differenti, percorrono questa curva temporale: per alcuni vini si conclude in uno-due anni, per altri dura molto più a lungo, fino a decenni.” Altre associazioni di degustatori/sommellier, come l’ONAV, la FISAR o Slow Food utilizzano alcuni termini depennati dalla manualistica AIS, che conducono il vino da una vecchiaia più o meno dignitosa (che chiamano leggermente vecchio) alla vera e propria decrepitezza: “leggermente vecchio e poi via via spento, logoro, passato, decrepito, non più in grado di regalare piacevolezza a livello organolettico. Tonalità di colore ambrate (per i bianchi) o bruno-mattone (se si tratta di rossi) e profumi maderizzati sono indici sicuri di un vino finito, che forse non sarà neppure il caso di mettere in bocca[1]”. Il vino decrepito, se si guarda ad esempio una bottiglia di rosso controluce, ha messo ‘la camicia’: è quel vino che, insomma, se ne è andato. Senza alcun interesse verso l’estetica della morte, penso che l’esperienza della visione di un corpo morto, che è stato a suo tempo vivo e vitale (anche se sappiamo che molti vini, così come molti esseri umani sono già morti quando sono perfettamente in vita) sia uno dei luoghi privilegiati del nostro rapporto con la realtà e con la  sua capacità di sorprenderci e di perturbarci. Facendo parlare Blanchot, Stefano Velotti, nel suo saggio sulla Storia filosofica dell’ignoranza[2], sostiene che il cadavere finalmente assomiglia a se stesso: “Il ‘cadavere è la sua propria immagine’ in quanto rassomiglia a ‘niente’, simile in questo ad un oggetto d’uso reso inservibile che diviene la sua immagine, poiché ‘non sparendo più nel suo uso, appare’. (…) Spogliato dei suoi referenti determinati, di ciò che una persona viva significa in rapporto a questo o a quello, delle sue relazioni fungibili e parziali con il mondo dei vivi, il cadavere ‘assomiglia a se stesso’ o , in termini wittgensteiniani, ‘dice di se stesso’in quanto resta sospeso nell’esitazione tra il venir meno di relazioni vitali e l’esibizione della loro totalità indefinita[3].”

Il vino cadavere ci racconta, in realtà, molto di più di quanto potremmo aspettarci.


[1] A.A.V.V., Il piacere del vino. Manuale per imparare a bere meglio, Slow Food Editore, Bra (CN) 2003, pag. 220

[2] Steafno Velotti, Storia filosofica dell’ignoranza, Laterza, Bari – Roma 2003

[3] Ivi, pp. 180, 181

L’ordine del discorso vinoso, che vede alcune confraternite della parola accanirsi contro i vini naturali.

Cerchiamo subito di sgomberare il campo dagli equivoci: penso che quando alcuni potentati della parola eno-gastronomica, siano essi il Gambero Rosso, Bibenda o consorterie similari, attaccano il mondo del vino naturale, bio, biodinamico, vinoverista… non stiano parlando di vino, ma bensì di tutt’altro. Penso cioè che le loro critiche siano espressamente rivolte ad un settore in cui il loro interesse, conoscenza e capacità di discernimento sono pressoché nulle. Se qualcuno avesse  la voglia di leggere gran parte degli editoriali rivolti contro i vini naturali e i loro presunti esegeti si accorgerebbe ben presto che la (quasi) unica motivazione di rivalsa nei loro confronti ruota intorno ad una sola argomentazione: non è detto che per il fatto che un vino sia fatto secondo alcuni criteri poco o nulla invasivi nei procedimenti di coltivazione e di trasformazione della materia sia per ciò stesso buono. Vivaddio! Se questa è la ragione argomentativa non occorrono certo editoriali, articoli e quant’altro. Si potrebbe tranquillamente invertire la proposizione nel suo contrario e verrebbe fuori che non è detto, per lo stesso motivo, che un vino prodotto con criteri industriali sia necessariamente buono. Il discorso inizia dove si chiude, le motivazioni sono banali, banalizzanti, a volte misere. Allora perché questi discorsi (apparentemente) vinosi. La risposta, a mio avviso, va cercata in ben altro è cioè nella definizione di quello che Foucault avrebbe definito come una “società del discorso” in cui “la dottrina lega gli individui a certi tipi di enunciazione per legare gli individui tra di loro, e differenziarli per ciò stesso da tutti gli altri. La dottrina effettua un duplice assoggettamento: dei soggetti parlanti ai discorsi, e dei discorsi al gruppo, per lo meno virtuale, degli individui parlanti1.” La finalità di questi discorsi vinosi deve essere letta dunque non tanto nel senso interpretativo che essi danno, quanto nella loro capacità di posizionare poteri politici all’interno di un determinato campo. Le affinità elettive tra personaggi apparentemente lontani, in uno scacchiere in cui destra e sinistra servono soltanto a certificare l’adesione ad un modello di potere definito, si risolvono in comunanze di idee che stabiliscono che solo e soltanto loro hanno la capacità, in via oggettivante, di poter parlare di vino e che, secondariamente a questo, soltanto loro sono deputati a discorrere di esso. L’attacco rivolto ad altri soggetti, che direttamente o indirettamente, ad esempio attraverso i blog, hanno lasciato spazio alla formazione di nuovi poteri, referenti di altre coordinate produttive (bio…), ha esclusivamente la funzione di rivendicare la propria titolarità politica nel campo del discorso vinoso: questo significa che chiunque tenti di mettere in dubbio il loro ruolo preminente verrà escluso dalla parola. La verità del discorso, per queste confraternite, deve perciò  velarsi da verità scientifica, perché il loro potere non è  mai stato quello di coloro che lo possiedono di diritto e secondo rituale richiesto, ma secondo un’investitura divina. La partizione tra discorso vero e discorso falso ricorda  il vecchio principio greco: “l’aritmetica può ben riguardare le città democratiche, poiché insegna i rapporti di eguaglianza, ma solo la geometria deve essere insegnata nelle oligarchie, poiché essa mostra le proporzioni dell’ineguaglianza2.” Un osservatore attento replicava che nell’A.I.S., su temi della ‘naturalità’ dei vini, sono state espresse anche altre posizioni: questo non può far altro che confermare quanto già detto. E’ possibile che il signor Ricci non parli soltanto all’esterno, ma anche all’interno della sua organizzazione, dove nuovi scontri e inedite alleanze ridefiniscono ruoli, poteri ed economie.

Altri ancora, più attenti alle spinte del mercato, rilevano nel dibattito sui vini ‘puliti’ un’esigenza reale e popolare, che ben si può coniugare con un marketing attento al presente ed al futuro prossimo venturo.

In tutto questo il vino rimane lontano, sullo sfondo.

1Michel Foucault, L’ordine del discorso. I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola, Einaudi, Torino 1972, pag. 34

2Ivi. , pag. 16