Per un programma organico che diseduchi al vino e alle altre cose

Studenti-insegnanti praticano l’insegnamento in un asilo della Normal School di Toronto in Canada nel 1898
Di Ontario Ministry of Education – This image is available from the Archives of Ontario under the item reference code RG 2-257, Acc. 13522, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3486877

Al giorno d’oggi sarebbe necessaria una grande, poderosa e soprattutto collettiva campagna diseducativa che tocchi un po’ tutti temi, le apprensioni, le convulsioni e quindi anche il vino. Intendo perciò concentrarmi sul prefisso “dis-“ e non tanto per quello che riguarda i suoi aspetti negativi, ma in ragione dei suoi esiti privativi: annullare gli effetti di una educazione ricevuta. Viviamo in un mondo tremendamente maleducato sia nelle restituzioni formali e convenzionali sia nei tratti di contenuto o etici. Ed è soprattutto in ragione di questo che sarebbe opportuno diseducare i più a tutto quanto hanno appresso sino ad ora. Me compreso. Ma non si può affatto pensare che il percorso sia semplice: così come la mala educazione è stata assimilata sin dall’infanzia più polverosa, allo stesso modo la diseducazione necessita di un processo lungo e tortuoso. La disassuefazione richiede molta pazienza, accentuate virtù, moltissima concentrazione e applicazione costante.

Due sono i fondamenti da cui partire per volgere a nostro favore lo sviluppo diseducativo:

  1. Gli oggetti inanimati, le cose, i manufatti non parlano, anche se si può comunicare con loro (principio di schizofrenia, panteismo o, per alcuni, segno di grande intelligenza).
  2. Alcune cose non si possono insegnare, nemmeno comunicare, tutt’al più trasmettere. Da questo ne consegue che anche il vino, benché sostanza viva, si risolva per la sua fondamentale qualità auto-definitoria: esso non spiega nulla di se stesso più di quanto abbia qualcosa da dire.

Si può arrischiare di insegnare le modalità di produzione, di coltivazione della vigna, ma non si può insegnare il vino: c’è una parte dell’incontro, legato alla sincronicità dell’atto, che non è descrivibile. Questo aspetto di simultaneità è ciò che rivela tanto l’atteso quanto l’inaspettato. Una introduzione al vino che tenti di decifrarlo rischia di avere una funzione pre-digestiva.

Quindi non se ne può parlare, non esistono criteri per parlarne eccetera?

Al contrario: è nel dialogo imprevedibile e traballante tra più soggetti pronti allo smarrimento e alla privazione, anche solo parziale, delle proprie certezze che può aver luogo quel momento irripetibile nel quale qualcosa si traferisce dall’uno all’altro. Questa cessione non è priva di ancoraggi poiché ognuno di noi è intrecciato ad un testo sociale di rilievo: non tutti allo stesso modo e non tutti con le medesime pratiche, conoscenze eccetera eccetera. Ma non è a quel rilievo che si può concedere lo spazio che già detiene, ma allo scambio che interviene nello stupore, nell’indecifrabile. E per concedere che questo barlume di indeterminatezza trovi un varco occorre lasciare spazio ad un ampio programma di diseducazione personale e collettivo.

“Me nonu l’à mai campà l’ua an tera”. A tavola con produttori veraci del Monferrato e del Grignolino. Di Andrea Ferreri

Di Davide Papalini – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11259547

Nelle sere estive più calde in alta collina, quando si portano a termine i lavori in campagna e il sole è sul punto di salutarci, si arriva a far notte nel sollievo del fresco e la pace concede di non sentir alcun rumore intorno se non il ronzio degli insetti o il passaggio di qualche animale.

Il panorama si armonizza al luccichio delle lucciole e delle stelle.

La ranghinatura nei campi o i trattamenti di notte tra i filari consentono di percepire quell’eccitante profumo di erba bagnata che sa regalare gioia alle narici e ai polmoni.

Per un contadino e un vignaiolo del Monferrato questo è uno tra i momenti più belli e felici della vita. Alla fatica del giorno sopraggiunge un sorriso e la soddisfazione di un lavoro portato a termine. La bellezza di poter ascoltare ogni suono nel silenzio, aiuta a ricordare di quando da bambini, nelle notti di luna piena, si era seduti con il nonno ad ascoltare storie di caccia mentre i segugi abbaiavano rincorrendo le lepri in calore.

Ricordo quando da bambino mia mamma tornava da Casale Monferrato per lavoro. Ogni volta portava a casa una cassetta di latta con dentro i biscotti “krumiri”. È sufficiente ripensare a quei momenti per rivivere e risentire certi profumi e fragranze.

Vorrei essere io oggi a portare mia madre nel Monferrato, l’accompagnerei tra le colline per godere del bellissimo paesaggio, per assaporare i vini di questo territorio. Da ragazzino non sapevo apprezzare certi sapori e con questo viaggio immaginato, vorrei dimostrarle che crescendo alcune idee si cambiano: ne ho cambiate poche, ma sono sicuro che la sorprenderebbe la mia sempre più importante passione per il vino. Questo interesse inizia dall’incontro con le persone e dal transito di territori, tutte esperienze indispensabili per potere assaporare appieno un vino.

Tra i vini che potremmo assaggiare avrei sicuramente il piacere di ricercare quelli più rari, a partire da vitigni antichi e riscoperti, come la Malvasia del Monferrato, che i viticoltori Casalone hanno recuperato e valorizzato per l’aromaticità e versatilità di produzione a Lu Monferrato.

Il Baratuciàt, tipico vino della Val di Susa vinificato con grande successo da Gabriele Athos nel Monferrato a Murisengo.

Oppure andrei a ricercare la Balsamina, vitigno autoctono non iscritto al Registro Nazionale delle varietà di viti, ma di cui ogni vignaiolo più attento ha mantenuto tra qualche filare.

C’è un vino in particolare di cui sarei ancora più curioso e che vorrei maggiormente condividere e assaporare, il Grignolino. Credo che questo vino, più di tutti gli altri, riesca a raccontare e rappresentare quello che è il Monferrato, mostrandoci come questa zona si differenzi da tanti altri territori e come questo vino sia unico nel panorama vitivinicolo.

In questa zona del Piemonte l’urbanizzazione non ha preso il sopravvento e si sono mantenuti piccoli centri dislocati tra di loro. Le colture sono variegate, la superficie è prevalentemente coltivata a seminativi, seppur siano presenti, specialmente in alcuni luoghi, frutteti e vigneti. Anche l’area boschiva è ampia, seppur la preponderanza di robinieti1 indica l’abbandono di alcune aree volte a testimoniare le politiche agricole degli ultimi cinquant’anni, a cui sono seguite le mode e le esigenze del profitto e del mercato.

Come testimoniano i libri di Nuto Revelli la conseguenza di tutto questo è stato l’abbandono delle campagne e l’esodo verso le città e le fabbriche, capaci di garantire un reddito sicuro e migliore specialmente per le comunità che vivevano di un’agricoltura di sussistenza.

A tavola con i produttori. Alla trattorie Serenella di Vignale Monferrato. Foto di Andrea Ferreri

Anche in campagna, oltre al problema dell’abbandono, la ricerca del successo e del profitto ha spinto a monocolture e mono-varietà, indebolendo e impoverendo così le campagne sia dal punto di vista economico sia da antiche e preziose conoscenze.

I noccioleti sono un esempio di una coltura importata nel Monferrato perché non avrebbe richiesto maggiore lavoro né interventi fitosanitari, mentre nel tempo ha portato con sé agenti chimici e cimici.

C’è chi dice “per colpa della Ferrero”, mentre altri che pensano che siano stati gli stessi agricoltori a seguire la tendenza del momento: qualunque sia la causa, mercato e moda portano benefici economici nell’immediato, creando però desertificazione del suolo e contribuendo alla sconfitta del mondo agricolo e contadino.

Ho avuto l’occasione di sedermi a pranzo con cinque produttori di diverse zone del Monferrato prevalentemente Casalese, insieme a due vignaioli del Roero, anche loro innamorati del buon vino, della bella compagnia e affascinati dalle tante storie che ogni uomo e ogni donna con le mani nella terra sa e riesce a raccontare.

Le differenze del territorio e le diverse annate si sono ben espresse negli assaggi, mentre non si è volutamente dato conto alla conduzione agronomica o alla denominazione riportata in etichetta. Come condiviso a tavola “che sia Monferrato Casalese, Piemonte o Vino Rosso, l’importante è che sia Grignolino…in purezza”, ognuno fa il Grignolino alla sua “manera”e per fortuna.

Il Grignolino non può e non deve essere omologato ad un gusto, è un vino particolare, diverso per annata e territorio.

La vinificazione del Grignolino è tra le più difficili e le più problematiche: si rischia di avere ossidazioni, oppure andare in riduzione, diventare molle o essere sgradevole per tannini eccessivi e acerbi.

Le certificazioni non hanno importanza per loro: tutti i vignaioli presenti vivono e lavorano la propria terra. Tra questi produttori c’è Francesco Brezza di Tenuta Migliavacca: fa il letame con le sue mucche che mangiano il grano, l’orzo e il fieno coltivato dalla stessa tenuta. Lui dichiara: “poi tutto questo c’è chi lo chiama biologico, biodinamico, bio. Ma nel mondo moderno non si riesce più a capirne il significato…l’importante è come viene fatto il vino”.

Ogni produttore si mostra giustamente fiero e orgoglioso del Grignolino: il motto da tutti conosciuto é “pan de dui dì, grignolin de dui ani, tòta de vint’ani”, da cui si capisce come questo vino già tradizionalmente giunga al suo apice qualitativo a due anni dalla vendemmia e necessita di gioventù.

A tavola con i produttori. Alla trattorie Serenella di Vignale Monferrato. Foto di Andrea Ferreri

Le donne hanno acquisito, nel corso del tempo, ruoli sempre più importanti e fondamentali nel mondo del vino e del territorio, come testimoniano Teresa e la nipote Bianca, rappresentanti di Cascina Tavjin, e Tiziana, moglie di Silvio Morando, che si prende cura dell’agriturismo, “La Locanda degli Ultimi”.

Ognuno dei vignaioli, come scritto poc’anzi, per produrre lo stesso vino, segue la propria strada, spesso definita dalle tradizioni familiari.

In alcuni casi, assaggiando i vini, si percepisce la mano del produttore: c’è chi ha compiuto studi più tecnici o i propositi del giovane enologo, ma in tutti i casi possiamo parlare di vini di terroir, espressioni autentiche del territorio e della base ampelografica.

Difatti la prima e vera distinzione dei vini deriva dal tipo di terreno in cui è impiantata la vite e dall’annata di vendemmia.

L’autenticità di questi vignaioli la si denota anche dalla loro puntuale e severa osservazione del mondo e non solo di quello del vino.

Ci tengono a distinguersi per vini e territorio da zone commercialmente più attive come le Langhe, seppur il timore sia quello di un mondo sempre più omologato: “Le stalle si sono trasformate in sale di degustazione, nessuno produce più latte, ma bisognerà pur mangiare.” La richiesta: “Lasciateci lavorare in campagna, produrre bene”, “Io non voglio gnun”. Il contadino è sparito per diventare manager, i parcheggi hanno rubato spazio al verde. Il turismo di massa mortifica il paesaggio, la speranza di tutti è che il Monferrato si mantenga per quello che è.

L’animo contadino è presente a tavola, che non si parli di diradamento, “me nonu l’à moi campò l’uia in tera”, “il diradamento è nella forbice quando poti”, è un contro senso “portare a maturazione tutta l’uva, spremendo e sfruttando la pianta per poi tagliare i suoi frutti”.

Come vuole il buon senso contadino e come mi ammoniva anche mia nonna, “non si butta via niente!”.

È giusto sottolineare che l’uva grignolino presenta maturazioni diverse nella stessa pianta e addirittura nello stesso grappolo. Questo significa che per il vignaiolo risulta necessario effettuare più vendemmie nello stesso vigneto e anche una cernita in cantina dell’uva raccolta.

Ovviamente l’uva migliore servirà per fare il vino più pregiato.

Oltre alla pressa ad aria c’è ancora chi utilizza il vecchio torchio e i ricordi ritornano all’utilizzo che se ne faceva una volta. Francesco Brezza ricorda “mio nonno torchiava con il torchio Bazzi (ancora presente e utilizzato in cantina), disfaceva le vinacce, ricaricava il torchio e torchiava nuovamente”. Anche Silvio Morando racconta: “io da bambino, quando torchiavamo il primo vino in damigiana, si disfaceva il resto a mano con la bigoncia in cantina e poi lo ributtavamo nel torchio con una piccola innaffiata. Poi andavo dentro nel torchio, pestavo tenendomi appoggiato con una candela dentro e torchiavamo una seconda volta il vino da bere per noi e la terza passata era il vino da dare alla distillazione fino all’ultima stissa”.

Degustazioni

Cascina Tavjin, Grignolino 2021

Il primo vino assaggiato è della cantina di Nadia Verrua, siamo nel Monferrato Astigiano a Scurzolengo, al limite con il Casalese. I terreni di queste zone risultano più asciutti e meno compatti, con maggiore presenza di sabbia e argilla.

Al naso il vino ci regala note di frutta rossa e un fiore che ricorda il geranio. Si percepisce una nota pungente e una piccola riduzione che con il tempo si affievolisce, mostrandoci un vino sempre più gentile.

In bocca il vino è accompagnato da una nota tannica e rinfrescante. Richiama alla beva, ricorda spontaneità e sincerità.

Tenuta Migliavacca, Grignolino 2021

Questo vino è prodotto in terreni calcari e argillosi alle porte di Casale Monferrato, nel borgo di San Giorgio Monferrato. Blocchi di marna calcarea scura, da cemento, tengono l’acqua garantendo maggiore riserva idrica.

Il vino al naso è delicato con una lieve nota speziata di anice. È in bocca che si apre e si esprime grazie a un tannino deciso e un sorso verticale che si mantiene nel tempo.

Ha carattere e mantiene la piacevolezza: riassaporando il vino, il tannino vira tra il vellutato e una nota spigolosa che consente piacevoli e differenti accostamenti culinari.

Cascina Isabella, Monte Castello Grignolino 2021

Gabriele “Athos” ci accompagna con il suo vino nella Valle Cerrina, a Murisengo, ultimo comune a ovest della provincia di Alessandria.

Zona ricca di marne calcaree bianche e con presenza di tufo. I due vigneti in cui è impiantato questo grignolino si trovano nelle migliori posizioni per esposizione solare e altitudine, anche se negli ultimi 10-15 anni la necessità è stata quella di scendere verso valle.

Monte Castello 2021 si presenta al naso fruttato e agrumato, accompagnato da una nota di spezia dolce. All’assaggio il tannino si esprime deciso, vellutato e ben integrato alle note odorose. Una spinta amplificante dona elegante persistenza.

Azienda Vinicola Casalone, Grignolino, 2020

Con il quarto assaggio ci portiamo verso l’alessandrino, a Lu Monferrato, dove si trovano terreni sabbiosi con marne calcaree e arenarie.

Il vino emana note di frutto di melograno legate a sensazioni mentolate e di liquirizia. In bocca abbiamo una bevuta verticale equilibrata da una buona rotondità, particolarità di questo vino se pensiamo agli altri Grignolino assaggiati. Nella persistenza non inganna la sua essenza: il lungo finale è legato all’acidità e al tannino.

Cascina Isabella, Monte Castello Grignolino 2019

Rispetto all’annata 2021 dello stesso vino assaggiato in precedenza, in questo millesimo la macerazione è stata inferiore, con minore estratto.

Il profumo ricorda altri Grignolino assaggiati, con frutta rossa, spezie dolci e liquirizia. Il tannino è molto equilibrato e legato alla freschezza.

Un Grignolino che si avvicina molto a un Pinot Nero, l’unico vitigno a cui in alcuni casi si può paragonare

Silvio Morando, “Anarchico”, Grignolino, 2019

“Dove c’è tufo, c’è Grignolino”. Vignale Monferrato è ricco di tufo e formazioni sedimentarie di depositi marini, a testimonianza che questa area fu un tempo fondale marino.

Il vino si esprime al naso con note di frutta rossa, specialmente ribes, fiori che ricordano la viola e una nota salina.

Assaggiandolo, il vino si esprime con un tannino fruttato, pieno. Si presenta ancora austero nel suo raggiunto equilibrio. Il sorso è lungo e di carattere.

Valfaccenda, Grignolino 2020

Luca Faccenda, da attento e appassionato vignaiolo del Roero, si è innamorato del Grignolino. Da questo amore è nato il desiderio di vinificare a casa propria questo raro e prezioso vitigno.

Il suo Grignolino ci porta profumi di frutta di sottobosco e spezia dolce, come al naso si mostra invitante anche in bocca: è un vino fine ed equilibrato. A differenza di altri Grignolino assaggiati, la freschezza è più percettibile del tannino.

Di facile beva non perde di profondità

Cascina Tavjin, Grignolino 2018

Questo vino si è dimostrato da subito uno dei più complessi al naso con richiami ben definiti, anche facili da percepire. Una nota aromatica ed erbacea elegante con richiami alla salvia e all’alloro. La frutta percepita in questo caso ricordava la prugna secca.

In bocca da subito con la sua pungenza invitante, rimane equilibrato. Un vino da bere e godere.

Silvio Morando, Grignolino 2012

“Ho voluto mettere alla prova il Grignolino in un’annata davvero sfigata!”; dopo 10 anni il colore è ancora vivo nel suo mostrarsi diverso già alla vista rispetto a tutti gli altri vitigni. Il naso è invitante e giovanile con note di frutta rossa e noce moscata. In bocca però percepiamo che seppur non arrendevole, grazie ad una spiccata acidità che lo mantiene integro e in piedi, si denota una sua debolezza data dal tempo passato.

Questo assaggio è istruttivo a livello organolettico, ma credo possa insegnare qualcosa anche a livello umano. Sembra che mi voglia raccontare anche lui una storia, “posso non essere bello e reattivo come prima, ma io sono e continuo a essere Grignolino.” Io non posso che rispondergli: “Viva il Grignolino!”

Alberto Oggero, Roero Rosso, 2020

Grazie ad Alberto Oggero, abbiamo l’occasione di assaggiare un Nebbiolo di Santo Stefano Roero. Grignolino e Nebbiolo condividono una buona dotazione di polifenoli ed una modesta presenza di antociani. Ma se il Grignolino ottiene la sua tannicità dai vinaccioli conferendo al vino una sensazione astringente più amarognola, nel Nebbiolo la tannicità deriva dalle bucce con una maggior eleganza nella sua pur presenza austera.

Difatti con questo profumato e fine vino, si denota un tannino mentolato che riempie la bocca nel gusto e nelle sue sensazioni odorose di violetta, ciliegia e balsamo.

Silvio Morando, Clandestino, vino rosso dedicato a tutti coloro che lottano per un mondo senza frontiere

Il pranzo termina con una dolce, inaspettata e gradevolissima sorpresa. Un vino da merlot, cabernet e syrah di bassa acidità, molto corposo e ricco di alcol. Da una vecchia ricetta godiamo di un vino che vuole farci meditare. Grazie ai suoi suadenti profumi e alla piacevolissima beva, grazie a variopinti profumi ci porta con la mente in molti paesi del mondo.

Bevendolo è come se ci sollevasse dai problemi, ma sappiamo che al mondo c’è chi lotta e resiste per i propri diritti di esistenza. Non possiamo che brindare, augurandoci che la lotta possa servire ad apportare benessere a ogni donna e uomo sulla faccia della terra.

1 Boscaglia con prevalenza di robinia, spesso accompagnata da arbusti quali sambuco e vitalba

Il vino cattivo, brutto e ingiusto

Ace High Wallach
Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=1128674

Il vino cattivo, brutto e ingiusto non è necessariamente un vino industriale e non è neppure, coerentemente, un vino difettato, convenzionale, bio o qualcosa d’altro.

Allora, chiederete voi, come si riconosce un vino cattivo, brutto e ingiusto? Vi dirò la mia, perché nel tempo mi sono fatto un’idea che è poco più di un’idea.

Bisogna stare attenti perché il vino cattivo, brutto e ingiusto è infido, assai infido. Prima di tutto lo si riconosce dal suo abito esteriore: dimora spesso in bottiglie di nessun pregio imbellettate da etichette che richiamano un passato gentilizio, di grado, la cui memoria ristagna in antiche battaglie mai combattute o perse a tavolino e commemorate da superbe ubriacature.

Uno stemma araldico, collazione di più scarabocchi su cui si erge un destriero, oppure uno scudo, oppure due o tre spade incrociate e un motto latino appena pescato in qualche orinatoio, strizzano l’occhio al bevitore distratto. Altre volte l’immagine ammicca alla modernità cubista e sbarazzina. Il tappo non potrebbe sapere di se stesso neppure lo volesse: nessun liquido lo tange o lo penetra, tanto meno quello che con così poca premura custodisce.

Il vino cattivo, brutto e ingiusto è tremendamente monotono, piatto, insipido, fortemente concentrato ed estremamente diluito allo stesso tempo; in ogni forma in cui appare, esso inganna: se scuro, impenetrabile ed ermetico all’occhio, lascerà al naso un blocco unico di odori ammassati e incartapecoriti, variegati rimandi a frutti stramaturi che furono, a spezie già largamente tramontate sulla via del ritorno, a gambi stecchiti di fiori sui cigli di autostrade assolate. E l’alcol che viene copre, ricopre, trasborda, ammorbidisce, surriscalda, ingloba e confonde. Invade il cavo orale come un bullo di quartiere i cui muscoli sono pompati da ettogrammi di anabolizzanti: ma così come entra se ne va in brevissimo tempo. Crolla come un sacco floscio, lasciando qua e là eccedenze aromatiche della sua protervia. Se vivido e vivace lo è come la patina di una pellicola d’alluminio. Lancia fendenti di lamine appena insaporite da un qualsiasi frutto acerbo, pompato dall’azoto, che sia maturato in celle frigorifere.

Il vino cattivo, brutto e ingiusto non ha difetti palesi, perché l’unico modo in cui si palesa è nel pregio della nullità. Non restituisce un territorio, un vitigno, una fatica, né da essi è invitato ad esprimere alcunché: è indistinto tanto nella forma quanto nei richiami; contiene tutto, il contrario di tutto e mischia al ribasso: fatiche, prezzo, vini altrui.

Bastonate, zuffe e risse nelle terre del Chianti (1902 – 1930)

Di Lorenzo Noccioli – Opera propriahttp://www.puredesign.it/gallery2/main.php/v/calciostorico/, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4278200

La prima associazione dei produttori in Chianti (1902) e iniziano le scaramucce

Il 16 novembre del 1902, esattamente 120 anni fa, giorno meno e niente più, un’assemblea di vignaioli chiantigiani, su ordine del giorno del liberale Luigi Callaini, deliberava di «promuovere un’associazione fra i produttori del vino del chianti all’oggetto di proteggere la denominazione ‘Vino del Chianti’ con una marca speciale o con altro più efficace mezzo». Alcuni mesi dopo, il 7 febbraio 1903, a Siena si approvava lo statuto d’un “Sindacato enologico cooperativo del Chianti” che aveva appunto lo scopo di cui sopra. La cosa non era nuova perché anche i piemontesi, sempre nel 1902, avevano costituito il loro “Sindacato vinicolo Piemontese” promosso dagli onorevoli Teobaldo Calissano e Arnaldo Strucchi.

Quasi contemporaneamente alla deliberazione chiantigiana, i vignaioli appartenenti a zone diverse della Toscana aprirono le danze e le contese che avevano in essere una e una sola ragione che, senza in fondo in fondo, era poi una domanda: quale doveva essere la delimitazione territoriale della zona d’origine del vino Chianti?

Quelli di Poggibonsi non la prendono bene.

Scaramucce, piccole risse e randellate a piacere accompagnarono più o meno tutto il periodo che intercorse tra la fine del 1902 e il 1910. In quell’anno, però, le minor contese si trasformarono in una vera e propria scazzottata di rango: da una parte i viticoltori del Chianti Classico[1] e dall’altra quelli di Poggibonsi. Questi ultimi non avevano preso affatto bene la decisione presa in un’adunanza tenutasi il 18 febbraio 1910 presso il Comizio Agrario di Firenze dal ‘Comitato intercomunale Promarca d’origine del vino Chianti’, e ribadita nel successivo Convegno dei viticoltori chiantigiani tenutosi in Greve il 27 febbraio successivo, in cui si proibiva l’uso della parola “Chianti” ai vini di Poggibonsi.

L’anno prima, infatti, l’avvocato Giulio Brini coadiuvato dal professor Vittorio Racah[2] l’avevano chiusa lì: la zona del Chianti corrisponde ai terreni eocenici[3], ovvero al secondo periodo geologico dell’era cenozoica, compreso tra 58 e 27 milioni di anni fa, tra il Paleocene e l’Oligocene. A difendere i viticoltori di Poggibonsi e dintorni venne chiamato lo stesso Brini, il quale propose di adottare, senza successo alcuno, il nome generico “Chianti” e di farlo seguire dal nome del comune di produzione, permettendo così di estendere notevolmente il suo diritto d’uso.

Il primo “Consorzio per la difesa del vino tipico del Chianti e della sua marca d’origine” (1924)

Bisognerà aspettare il decennio successivo e la fine della Grande Guerra per avere un nuovo tentativo nazionale per la difesa dei vini tipici. Ricordo qui, brevemente, che la parola ‘tipico’ non è mia, ma fu in uso dai legislatori dell’epoca. Dapprima una interrogazione degli onorevoli Marescalchi e Di Pietra nel dicembre del 1919 portò alla nomina di una Commissione nominata dal Ministro Micheli che, nel 1920, era destinata ad elaborare un progetto di legge per la tutela dei vini tipici. La Commissione presentò alla Camera, l’11 marzo del 1921, il progetto di legge che prese il nome del ministro appena ricordato. Ma il progetto rimase tale e la legge non venne mai approvata. Essa venne sostituita dal D.L. 497 del 7 marzo 1924 trasformato in legge il 18 marzo 1926 dopo notevoli e complicate vicissitudini. Quelli del Chianti classico si buttarono a capofitto già sul D.L. del 1924 e costituirono il primo “Consorzio per la difesa del vino tipico del Chianti e della sua marca d’origine”, che adottò come marchio collettivo il gallo nero in campo oro circondato da un sottile cerchio con scritta in basso: Chianti! (Il punto esclamativo è mio)

L’articolo 1 dello Statuto del Consorzio accoglieva al proprio interno «i produttori e gli industriali di vino del Chianti classico, composto dei Comuni di Castellina in Chianti, Gaiole in Chianti, Greve e Radda in Chianti e Castelnuovo Bardanega limitatamente alle frazioni di S. Gusmè e Vagliagli».

Quelli di Sancasciano, scritto proprio così, ne fanno uno loro (1925)

Quelli di Sancasciano Val di Pesa non erano persuasi che le ragioni geologiche adottate dal Consorzio (galestri, alberesi e arenarie) fossero così convincenti, per cui, non molto allegramente, il 20 luglio del 1925 costituirono il ‘Consorzio per la difesa del vino tipico Chianti Sancasciano Val di Pesa e della sua marca di origine’, che aveva come marchio lo stemma del comune: due torri grigie in campo rosso. I produttori della Val di Pesa sostennero, in ragione del Consorzio, che i loro terreni non erano dissimili da quelli del Chianti storico, le uve pure e financo le tecniche di vinificazione. Quindi (rivolto ai classici) chiesero non molto sommessamente: «perché rompete i marroni? (credo che le parole fossero ben meno compiacenti)».  I “classici” si convinsero che quelli di Sancasciano non avevano poi così torto e optarono per accogliere, il 30 ottobre 1926, i terreni costituiti prevalentemente da galestri e ciottoli di alberese, ma non di arenaria, nel loro Consorzio. Mentre pareva che tutto fosse finito a “cantucci e vino”, dall’altra parte le istituzioni tecnico-agrarie, industriali e commerciali di Firenze, Arezzo e Pistoia diedero vita, il 22 febbraio 1927, al “Consorzio di Vino Chianti”, che ebbe come marchio distintivo un Bacchino (piccolo Bacco) danzante in campo azzurro: venne anche chiamato “Consorzio del Bacchino o del Putto” per distinguersi pienamente da quello del Gallo.

Gli espansionisti

Quelli del Putto avevano, senza eufemismi, una visione espansionista: «Chianti non è il nome di un vino di una certa zona e cioè del Chianti storico, ma sibbene il nome generico di un certo tipo di vino e che quindi tale denominazione deve essere estesa ai vini prodotti nelle zone di San Casciano, Carmignano, Montalbano, Colli Fiorentini, Pomino, Rufina ecc. perché provvisti di pregevole finezza e particolari caratteri organolettici e commerciali e per essere da tempo immemorabile contraddistinti all’interno ed all’estero col nome di Chianti; inibendo a questi vini il nome di Chianti si verrebbe ingiustamente ad impedire il loro commercio specialmente all’estero e molte piazze sarebbero perse a vantaggio di nazioni concorrenti, in quanto che il Consorzio a tesi restrizionista non ha, né potrebbe mai avere, la potenzialità occorrente per il consumo dell’interno e per l’esportazione. Un criterio restrittivo nell’applicazione della Legge sui vini tipici e nel caso nostro del vino Chianti, oltre che danneggiare l’economia toscana e l’economia nazionale per la contrazione che inevitabilmente porterebbe specialmente all’esportazione, verrebbe anche a colpire ingiustamente una classe altamente benemerita di agricoltori che con spirito veramente patriottico si è data, senza eccessive considerazioni d’indole finanziaria, alla rapida ricostituzione della vite distrutta dalla fillossera».

E per mettere i puntini sulle ‘i’ e sulle lettere rimanenti dell’alfabeto ecco qui l’articolo 3 dello Statuto dei bacchini espansionisti, territorio e produzione del vino compresi:

«Col nome Chianti da tantissimi anni in Italia ed all’estero sono conosciuti, apprezzati e chiamati tutti i migliori, e genuini vini ed i vini tipici della Toscana, rossi e bianchi, prodotti nei terreni dell’eocene e del cretaceo dove abbondano le rocce calcaree, nei terreni di natura galestrosi, alberesi ed arenarii, delle zone collinari appartenenti ai Comuni di Greve, S. Casciano Val di Pesa, Barberino Val ,d’Elsa, Montespertoli, Galluzzo, Bagno a Ripoli, Casellina e Torri, Rignano sull’Arno, Reggello, Pelago,Pontassieve, Rufina, Dicomano, Fiesole, Carmignano, Montelupo, e Vinci della provincia di Firenze; Radda, Castellina in Chianti, Gaiole, Castelnuovo Berardenga, Poggibonsi della provincia di Siena; (escluse le zone delle crete); Larciano e Tizzana della provincia di Pistoia; Pian di Scò e Cavriglia della provincia di Arezzo; A parere del Consiglio potranno essere ammesse al Consorzio particolari zone di Comuni limitrofi. Detti vini, se rossi, provengono prevalentemente dalle uve dei seguenti vitigni: Sangioveto, Tribbiano, Canaiolo (rosso e bianco) e Malvasia, mescolate quasi sempre in a proporzioni diverse a seconda delle differenze annuali che presentano le diverse uve; se bianchi sono prodotti quasi esclusivamente col Tiribbiano e la Malvasia.

I vini stessi, vinificati o no col governo, presentano tutti i seguenti caratteri che danno a ciascuno di essi l’unica e vera impronta del vino Chianti.

Vino rosso — colore rosso rubino intenso, vivo e brillante se giovane, colore rosso granato se vecchio, odore vinoso, pieno di freschezza, e con caratteristico profumo intenso se invecchiato, sapore gradevolissimo, armonico; rotondo, vellutato, frizzante, se giovane e governato; caldo, asciutto, se vecchio; vino sciolto, e pronto e raramente tosto ma di corpo, di alcolicità che va in media da circa 11° a circa 13 gradi; spesso austero ma passante e di facile a digestione, con acidità totale normale variabile da circa a 6 e mezzo a 7 e un quarto, e col 21-26 di estratto secco.

Vino bianco — colore paglierino più o meno intenso, sapore secco, sottile, netto, delicato e fine, acidità giusta, alcolicità media da circa 10 e 5 a circa 12 gradi; con gradevole marcato profumo se invecchiato.

I vitigni che producono il vino Chianti sono generalmente coltivati in promiscuità con altre colture ed allevati alti a testucchio, od alla Chiantigiana e bassi a filare pieno; sono potati rispettivamente a tralciaia od a piegatoio ed archetto od a capovolto.

Il vino Chianti si adatta ai, trasporti più lunghi di terra e di mare, si presta all’invecchiamento breve e lungo, migliorando sempre i suoi caratteri organolettici, tanto da a farlo primeggiare fra tutti i più eletti vini da pasto e da esportazione».

Il Consorzio del Gallo e il nuovo Statuto

Mentre quelli del Bacchino, gli espansionisti insomma, se la cantavano e se la ridevano veniva emanato dal Ministero dell’economia Nazionale il Regolamento (approvato con R. D. 23 giugno 1927 n. 1440) alla Legge 18 marzo 1926 n. 562, di cui Part. 6 precisava che «gli Statuti dei Consorzi di difesa di vini tipici portanti denominazioni geografiche devono stabilire, oltre alle caratteristiche di cui all’art. 1, anche le zone di produzione che hanno diritto alle denominazioni medesime».

Ecco allora che il Consorzio del Gallo riformò il proprio Statuto nell’Assemblea che si tenne il 20 settembre 1927, introducendo l’articolo 4: «La zona di produzione di cui all’art. 6 1° comma del Regolamento 23 giugno 1927 n. 1440 e le zone ad essa limitrofe previste nel 2° comma dell’articolo stesso, sono costituite dai Comuni di Castellina in Chianti, Gaiole in Chianti, Greve e Radda in Chianti, dal Comune di Castelnuovo Berardenga, limitatamente alle frazioni di S. Gusmè e Vagliagli e da parti determinate dei Comuni di Barberino Val d’Elsa, Poggibonsi, S. Casciano Val di Pesa e Tavarnelle Val di Pesa, come dalla carta allegata al presente Statuto».

Veniva anche modificata, ampliandola, la definizione del vino Chianti:

«Art. 5 — Per ‘Chianti’ si deve intendere il vino genuino, governato o meno, proveniente dalle uve o dai mosti prodotti nel territorio delimitato dall’Art. 4 (salvo le esclusioni dell’ultimo capoverso dell’art. 6 del Regolamento 23 giugno 1927 n. 1440) da vitigni in prevalenza delle varietà Sangioveto, Canaiolo, Malvasia e Trebbiano, particolarmente coltivate in collina, in terreni in posto d’origine eocenica formati da galestro, alberese ed arenaria. Esso si distingue in vino da pasto superiore e vino da pasto fine.

Chianti da pasto superiore è quello che sia stato affinato mercè le trasformazioni fisiche, chimiche e biologiche che si compiono durante l’invecchiamento naturale dei vini per una durata non inferiore ai due armi compiuti dal primo giorno dell’anno solare successivo alla raccolta e che abbia i seguenti requisiti: colore rosso rubino con riflessi giallognoli, profumo caratteristico intenso, sapore asciutto, armonico, vellutato, alcolicità non inferiore a 11.5 per cento in volume e acidità da gr. 6,5 a 7 per litro.

Chianti da pasto fine è quello che presenta le seguenti caratteristiche: colore rosso rubino vivace, odore vinoso caratteristico, sapore gradevole, fresco, di alcolicità da 10 a 13 per cento in volume, e con acidità di gr. 6,5 a 7,5 per litro».

L’Art. 10 del citato Regolamento 23 giugno 1927, stabiliva che «in ogni caso, per ciascun vino tipico, non può essere costituito più di un Consorzio».

La palla passò, dunque, al Ministero dell’Economia Nazionale, che doveva decidere a quale dei due Consorzi spettasse la legittimità di rappresentare il vino Chianti. Esso pose, in data 11 ottobre 1927, ai rispettivi Consorzi due domande tanto semplici quanto complicate:

  1. Quali sono le zone limitrofe alla regione Chiantigiana che per eguaglianza di vitigni, clima, terreno, e tipo di vino prodotto, possono far parte della zona di produzione del Chianti?
  2. Quali altri tipici vini toscani potrebbero far parte di un unico Consorzio di difesa previsto dall’art. 10 del Regolamento?

I due Consorzi risposero, naturalmente, in maniera diametralmente opposta e il Ministero si vide costretto a convocarli per una adunanza, che si tenne a Roma il 25 ottobre 1927, in virtù del conseguimento di un possibile accordo. Accordo che saltò poiché le rispettive Federazioni degli agricoltori di Siena e di Firenze non avevano trovato in alcun modo un compromesso, richiesto in data 9 marzo 1928 e che sarebbe dovuto arrivare al tavolo ministeriale non oltre il 25 dello stesso mese, sulla delimitazione delle rispettive zone di competenza per la composizione di un unico Consorzio per la difesa dei vini tipici Toscani comprendente Chianti, Montalbano, Rufina, Colli Fiorentini, Montepulciano e Montalcino. A tutto questo si aggiungevano, memori delle antiche diatribe, le proteste dei produttori di Poggibonsi, che avrebbero voluto entrare nel Consorzio del Gallo e quelli delle Colline Pisane che, a loro volta, chiedevano di essere ammessi nel consesso del Bacchino.

Epilogo (si fa per dire)


La Commissione che nel 1930 dovette portare ad una soluzione definitivamente provvisoria, partì da un’altra domanda che più incasinata non poteva essere. «Che cos’è il vino Chianti?».

E così rispose: «Il vino tipico Chianti è unico e inscindibile: però per esso, oltre al marchio o segno distintivo proprio, previsto dall’art. 6 del R.D.L. 11 gennaio 1930, n. 62, convertito in legge con la Legge 10 luglio 1930, n. 1164, dovrà aggiungersi OBBLIGATORIAMENTE da tutti i consorziati una striscia che porti la denominazione di provenienza; e precisamente una delle seguenti: Chianti Classico, Montalbano, Rufina, Colli Fiorentini, Colli Senesi, Colli Aretini, Colline Pisane». Prevalse, alla fine dei conti, una visione commerciale, vennero chiuse le virgolette e si mise un punto.

A capo.

Bibliografia


– Avv. G. Brini, Il vino del Chianti e la marca d’origine, L’Agricoltura senese, 15 marzo 1910, anno XLVII, n° 5;
– Prof. Lelio Gibertoni e Emanuele Grill, Il vino Chianti Sancasciano Val di Pesa e la sua marca d’origine, Sancasciano Val di Pesa : Stab. Tip. Fratelli Stianti, [1926?];
– R. Ugolini, Sul Consorzio a difesa del vino tipico del Chianti e sulla opportunità che ne partecipi la produzione vinicola delle colline pisane, Pisa : Arti Graf Pacini-Mariotti, 1928;
– Per la tutela del vino Chianti e degli altri vini tipici toscani, Relazione della Commissione Interministeriale per la delimitazione del territorio del vino Chianti, Ministero dell’Agricoltura e delle foreste – Direzione generale dell’agricoltura, Tipografia Antonio Brunelli, Bologna 1932

Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta sul sito di Intravino


[1] Il riferimento storico è alla Lega del Chianti tra i comuni di Gaiole, Radda e Castellina costituita dalle Repubblica di Firenze nel 1378. Il più antico Statuto risale al 1384.

[2] http://www.viten.net/files/c34/c342cf2b6c975073f77a67531abd3f83.pdf

[3] Nella parte occidentale del territorio chiantigiano affiorano terreni calcareo-marnosi, calcareo-arenacei e marnoso-argillitici, riferibili ad una serie di sedimenti marini con età che vanno dal Cretacico all’Eocene (circa 130-40 ml di anni) e che i geologi comunemente chiamano “coltri alloctone”. Queste rocce hanno iniziato a depositarsi in ambiente di mare aperto a partire dal Cretacico direttamente su crosta oceanica di origine magmatica e vulcanica sottomarina; ancora oggi una parte di questi antichi fondali marini si trova nel settore nord-occidentale del territorio, a Strada in Chianti, e, più diffusamente nella zona di Impruneta. Questo mare cretacico doveva trovarsi più ad ovest del bacino di sedimentazione della Serie Toscana, lontano da importanti apporti dal continente; inizialmente si è così venuta a creare una lunga serie di sedimenti per lo più limosi e argillosi che ha dato origine alla Formazione di Sillano, con vasti affioramenti di marne, siltiti e argilliti nelle zone tra Mercatale Val di Pesa e Panzano in Chianti, compresa, appunto, la Pieve di S. Pietro a Sillano, e l’area occidentale di Castellina in Chianti. In https://www.chianticlassico.com/magazine/un-geologo-nel-chianti-classico/