Quattro salti seguiti da un passo (la campana). Racconto breve di Luca Dresda

apnea-lanzaroteI primi quattro passi vanno a segno, poi un’improvvisa distrazione lo fa esitare. Tra testa e gambe s’interrompe il collegamento. Il piede si alza ma lui sa già che sbaglierà l’atterraggio. Non si ferma neppure a guardare quale sia stata la causa. Quando torna indietro per ripartire dal dissuasore, è più determinato che mai a farcela. Prende un respiro profondo. Lo trattiene quei cinque secondi che servono a riequilibrare ogni aritmia, espira lentamente e accompagna lo svuotamento con il movimento delle mani, come se spingesse verso il basso una tavoletta che galleggia sull’acqua di una piscina. E ‘piscina’ è una di quelle parole che aprono dei varchi nei suoi ricordi. Il luogo dov’è cresciuto, ha passato con tensione l’apprensione degli istruttori che vogliono scremare i tordi dai forti fin da subito, a cinque o sei anni. Usando mezzi bastardi. È passato dal nuoto alla pallanuoto. Si è corroso le prime vie aeree col cloro fino a non potersi più avvicinare a una piscina. Ma vuol dire anche nuoto. Nuotare. Percorrere chilometri con la testa in acqua, in questo limbo, nella protezione e nella culla delle piccole onde frastagliate che si formano tra corsia e corsia, rifratte dalle separazioni in lattice. Significa una corsa contro il tempo che in mare si fa distacco e solitudine. Vuol dire morbidezza e polmoni che si spalancano e pompano sempre più energia. Ma è solo un ricordo adesso. E lo richiude per ripartire.

Le coppiette e i bambini sono già sistemati nella pineta dei Borghese con i plaid e l’armamentario per finire frastornati dal cibo, faccia in su, a guardare i profili delle chiome dei pini di Roma. Il sole si fa attendere guardingo. Lecca le chiome dei sempreverdi accennando a una sinfonia primaverile che sembra tentennare. Villa_borghese_pineta_02Il buffet si riempie gradualmente di pizzette, panini, cous cous vegetariani, insalate miste, altre pizzette, panini all’olio immersi nella maionese, bibite, vino bio, birre, acqua, tabulè, fave e pecorino, insalate veg, posate riciclabili accanto a piatti di plastica, così come il prosciutto e le torte vegane, yin e yang di un pomeriggio da passare in comunità. C’è armonia. I bambini non si accalcano al buffet come di norma. Forse vogliono risparmiarsi per il dolce, la grande torta per festeggiare 4 compleanni. I genitori sono tutto un sorriso. Racconti sull’anno scolastico che sta terminando, sui progetti per l’estate che da quando ci sono i figli tendono a ripetersi, soprattutto quando hanno trovato un equilibrio armonico; la bocca si muove e per il momento ogni gruppo si tiene un suo spazio vitale separato. Ma durerà poco. Molto presto sarà tutto un brindisi e un comporsi e scomporsi di sottogruppi con gli stessi centri e le stesse battute di sempre.

C’è un semaforo intelligente che separa il viale alberato concepito in epoca fascista per tagliare in due il quadrante nord-est della città dal piccolo vicolo privato che molti scelgono come scorciatoia per attraversare la villa comunale senza doverla aggirare tutta. L’intelligenza sta nel non cambiare quasi mai colore. Pochi l’hanno visto passare dal verde al rosso passando per il giallo. Keat un giorno ci si era messo d’impegno, ma era stato sfortunato. Tutta colpa della sentenza della Consulta. I favoritismi non vengono più fermati dai colleghi politici, a fermare le leggi ad personam ci deve pensare una giustizia che affoga nell’improbabile mare magnum di possibili indagini da istituire. Il politico ha cambiato casa, ma il semaforo se ne resta lì, inutilizzato. Dimenticato come un vecchio gioiello di famiglia troppo ingombrante e pacchiano. Con i suoi due colori potenziali e un’intelligenza inservibile. Che verrebbe voglia di espatriare e lasciare per sempre questa valle d’indifferenza.

Il passo doveva essere fluido e partire già mirando il sanpietrone su cui planare, senza toccare i margini e uscire nell’interstizio tra i due bordi adiacenti. Era tutto un fatto di alluce, che guidava il piede e trascinava la gamba avendo in sé già la proiezione del punto di approdo. Partito il movimento, l’occhio doveva già spostarsi al riquadro successivo. Inviare l’immagine con il calcolo della distanza all’altro alluce-piede-gamba. Uno, swish, pam. Due, swish, pam. Fluidità e continuità. Era al terzo. Poteva già essere sicuro che avrebbe eguagliato il record precedente. La strada per coprire i 5 metri di selciato prima dello sterrato era lunga, ma tutto iniziava con il primo passo. Passo dopo passo, così aveva detto Splinter. Anzi, un passo alla volta. E qui si stagliò davanti a lui la figura di sua zia. Anzi, della zia della madre. La centenaria siciliana che aveva sposato un professore d’arte e disegno di Fano.

Il primo Spritz era già stato scolato senza pensarci su due volte. Era seguita una serie incalcolabile di variazioni sul tema che facevano già barcollare più di un padre, mentre i figli scalpitavano per la partitella a calcio tra i tronchi bitorzoluti dei pini. I bicchieri leggermente arrossati dal campari brillavano di luce solare riflessa, i cubetti di ghiaccio in continua mutazione, scheggiati e mezzi sciolti. Bombi e vespe volteggiavano attorno al piccolo accampamento attirati dai colori e dagli zuccheri in eccesso. Fotografie isotopiche con facce e raggruppamenti diversi. Urletti delle bambine. Un pallone sfoderato prima della cartucciera per cocktail e della stoviglieria. Qualche mamma troppo bella per la sua età e altre su cui il peso della maternità non riusciva a fluire via. Mariti collaboranti, appresso a marmocchi in esplorazione e con in braccio i nuovi arrivati. Un mare di plaid di una lana arroventata dal sole. L’aria di una convivenza pacifica spesso dimenticata.
mercatoIn un anfratto tra i banchetti di frutta e verdura e il semenzaio, a piazza Vittorio, vive una piccola comunità di ratti che spesso vengono allontanati dai tentativi propagandistici dell’amministrazione pubblica di ripulire la città dalle bestie non apprezzate dagli elettori moderati. Sono romani da generazioni. Un avo pare abbia fatto sobbalzare di terrore la governante del gaetanino durante l’edificazione della piazza e la contemporanea proclamazione dell’impero tedesco nella galleria degli specchi a versailles. Un’apparizione di stampo irredentista che non ottenne alcun risultato. La città neocapitale ebbe la sua piazza kochiana e i ratti vennero cacciati brutalmente con metodi che anche i moderni guerrieri sunniti avrebbero ritenuto sopra le righe. All’alba del giorno dopo, però, sui resti della loro tana, nello stesso punto di prima, tra le radici di un frassino e il canale di scorrimento delle acque reflue dei palazzi nuovi di zecca che parevano sculture di ghiaccio, già i pochi superstiti della famiglia cominciavano a ricostruire un antro abitabile. E così via.

Al terzo salto, o passo lungo, un ramoscello fa scivolare il piede destro fuori dai margini del blocco di leucitite. Keat sgrana gli occhi. Resta qualche istante fermo, quasi senza respirare. In fondo al vialetto sterrato, all’interno della villa, può intravedere qualcuno e qualcosa. Immagina un sorriso di piacere e forse uno sguardo che lo cerca. È già l’una e mezzo. Il pranzo deve essere al suo culmine. Immagina i brindisi, le battute, i tanti strilli dei bambini e la mandibola sempre in piena azione. Forse è un bene che non sia già arrivato. Per il suo fegato, il suo stomaco, per la sua ansia di prestazione, pensa. Per la paura che lo prende da qualche tempo ad affrontare una tavola imbandita. Per una proibizione che parte da un luogo nascosto da anni, da quando ha memoria. È ancora in tempo per godersi la giornata superando l’assalto al buffet. Ma ora deve tornare all’inizio del selciato e ricominciare di nuovo. Deve capire qual è stato il suo sbaglio. O tutti gli sbagli. Cosa lo ha portato lì. A essere la persona che ora si attarda in una prestazione obbligatoria a poche centinaia di passi dal ritrovo dei suoi vecchi amici.

Non passa momento senza che una mano afferri la bottiglia e la inclini su un bicchiere. Brindisi seri si alternano a giochi di parole e risate lievemente sopra le righe. Strano che le bottiglie non siano già tutte vuote. Ma ora è il momento dello scioglietelerighe. L’organizzazione ha avuto successo. Sono apparsi i dolci, la grande torta ricoperta di panna per festeggiare il compleanno multiplo e le candeline per il rituale più importante, fotografato e ormai dato sempre più per scontato in ogni festeggiamento. Qualche perlustrazione, giochi non ortodossi, un sonno incipiente, l’ombra che ha sorpassato il mare di plaid e si allunga verso la casupola del cinema lì vicino. Sorrisi audaci di padri a madri di figli altrui, una coltre di indolenza soddisfatta. E il pallone che sembra non fermarsi mai dal momento in cui viene sfoderato. Qui e là i soliti autoscatti con sorrisi di forma, tentativi di coprire le rughe, i gonfiori, qualche ciocca fuori posto. Ma gli amici si sono ancora una volta fusi, sono immersi nelle loro intimità, nel loro gergo costruito negli anni. Hanno costruito un altro pilastro del loro lungo rapporto. Cincin dopo cincin, si sono portati via la prima parte del pomeriggio. I plaid sono scarmigliati, qui e là qualche sagoma distesa un po’ sbilenca. Un cane lecca il muso del padrone. Più in segno di godimento che per chiedergli di saltare in piedi e tirargli un osso o qualcosa che gli assomigli. Il sole si è conquistato il suo spazio vitale e penetra in ogni fessura tra i rami e il fogliame, addolcendo una stagione che ancora non è partita con decisione. Si direbbe la proverbiale giornata da incorniciare. Manca solo Keat. E ormai nessuno si domanda il perché. Sono abituati a saperlo indeciso. Forse in difficoltà. Ma che importa se non ci si vede mai? Quale solidarietà si può dare a chi esce per sua scelta dalla tua sfera d’influenza?

I tanti strati di asfalto uno sull’altro avevano ridotto a uno strano passaggio seminterrato i minuscoli salvagente di via de’ Festaroli. La stradina era troppo stretta per farci passare il mostro che gratta via il manto stradale e, nel tempo, ci si era quasi dimenticati di guardarsi attorno per notare le differenze, i cambiamenti che fanno del mondo quell’invaso entropico che ci costringe a una continua manutenzione. E le toppe e i piccoli aggiustamenti del manto stradale, miracolosamente percorso da macchine di ogni cilindrata a una velocità spesso che faceva pensare a un autodromo più che a un vicolo centrale a gomito, avevano avuto un effetto innaturale. In origine, più che un marciapiede, era un pianale in marmo, tipico di alcune costruzioni tardo medioevali e rinascimentali, in cui per facilitare la pulizia e dare un aspetto più ordinato all’edificio si applicavano alcune lastre di marmo spesse fino a 15 centimetri e profonde 50, davanti alla facciata, più spesso nelle case di signori meno facoltosi, solo davanti l’ingresso. Le iscrizioni poi, facevano un largo uso della fantasia più raffinata. Le citazioni della Bibbia di stampo apotropaico o devozionale erano state sostituite da omaggi più o meno profani alla famiglia proprietaria dell’immobile, fino a vere e proprie pasquinate in due versetti rimati, che invocavano la clemenza della natura e dei governanti su quella proprietà sudata o che fissavano il momento della sua inaugurazione invocando il santo del giorno accompagnate dalla tipica firma con mani e piedi del nobile di turno poi ripresa dalla Walk of Fame. Ora quelle lastre, pensate per sovrastare di qualche centimetro il manto terroso della strada, erano diventate gradoni dai quali si accedeva alle case. Il che era un problema di un certo rilievo durante le grandi piogge di mezza stagione. Risolto in modo salomonico dall’amministrazione trovando alloggio altrove agli inquilini del piano terra. Di solito i portieri o gli ex custodi. Per questo, quegli appartamenti spesso abbandonati e in cui raramente venivano scoperti animali o esseri umani selvatici vengono ancora oggi chiamati peschiere.

Si era accoccolato per cercare la concentrazione. Poi si era lasciato andare. Prima a sedere poi su un fianco, rannicchiato come un feto, sul selciato che divideva la strada dal parco e lui dagli amici che non vedeva da tempo ormai. Sembrava la volta buona, anche l’ultima. Ma il piede destro lo aveva tradito prendendo una strana deviazione, un effetto di un sospiro di fronte all’ennesima immagine. Quante volte era stato così, per terra, su una branda, nel suo letto, su una panchina. Ovunque si trovasse, anche sul bordo di una pista nera, in montagna. Con quella fitta lancinante, quel pugno infilato nel ventre che gli afferrava le budella e gli tirava le membra impedendogli di stare eretto se non sopportando un dolore lancinante, il dolore bolla, questa cappa avvolgente onnicomprensiva. Era sotto il Monte Bianco quel febbraio. Mancavano pochi giorni al suo compleanno ed era un martedì grasso o forse un giovedì grasso. Le piste erano affollatissime. Le file agli impianti di risalita strazianti. Quanto poco duravano le discese, avevano pensato i due fratelli. E la soluzione era sempre quella: allontanarsi dalle piste facili, e fare quelle per sciatori esperti, o i percorsi in neve fresca, in quelle piste che raramente venivano battute, perché meno convenienti. La delizia dello sciare sul morbido. Del disegno sulla coltre di panna. Di quella sinusoide che assomiglia a un tratto di un pennello o di uno scalpello sapiente. E quelle macchie sporche, le cadute, perché chi non è abituato all’andatura da Armstrong sulla Luna non riesce a trovare il ritmo esatto e batte facilmente un tempo sincopato ritrovandosi sommerso dalla neve, che interrompevano il flusso. Ma l’immagine s’infrange su una colica molto diversa dalle altre. Un muro che si alza improvviso e che impedisce di vedere o sentire altro se non la presa agghiacciante all’intestino, il pugno che gira, torce, stira il colon fino a quasi squartare il bambino da dentro. Una crisi che richiama l’attenzione. Che fa chiamare il soccorso e che rompe il legame fraterno sulle piste di sci. Il duo che affronta tutti muri e le pareti quasi impossibili, spalla a spalla. Una crisi che scompare quasi per magia una volta che il piccolo ragazzo troppo fragile viene coricato sull’eliambulanza. E vorrebbe scendere. Si vergogna un po’ di tutta quest’attenzione per qualcosa che poi finisce d’improvviso senza lasciare strascichi. Che già una volta era passato per i vari esami endoscopici o esoscopici e aveva visto le espressioni perplesse dei medici di fronte a una manifestazione puramente psicologica. Quella difficoltà a capire la forza della mente che non sta scritta sui libri di testo. Ed è in quella posizione che si ritrova risvegliatosi dai pensamenti. Prima di rialzarsi, notare il sole che sta declinando verso ovest e avviarsi a fare un ennesimo tentativo.

le foto: apnealanzarote; pineta villa Borghese wiki commons; italiafoodandsoul

Il naso nel bicchiere e i piedi fra le nuvole. Sull’antica diatriba tra natura e cultura.

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Uno dei motivi, concettualmente rilevante, di opposizione al termine ‘naturale’ collegato al vino è che tale aggettivazione costituirebbe una sorta di ossimoro[1]: la contestazione di fondo sarebbe quella dell’impossibilità di accostare una parola che rimanda direttamente una costante non artificiale (natura) ad un’altra, il vino, che rinvia, a sua volta, ad un processo di trasformazione artefatto (cultura). Il motivo di questa contestazione, lungi dall’essere banale, obbliga ad immergersi in almeno 400 anni di dibattito che ha visto scienziati, letterati, antropologi, sociologi, storici e filosofi discutere animatamente su entrambi i concetti e sulla loro sostanziale incompatibilità oppure, al contrario, sulla loro potenziale convergenza. Il termine natura, che dai latini viene  tramandato sino a noi, ha a che fare con le idee di  nascita (nasci) e di crescita, che trovano nel corrispettivo etimologico greco di natura (φύσις, -εως), il comune significato di genesi. Per avvicinarsi a noi, all’approssimazione polisemica che ha avuto il termine natura, dobbiamo fare riferimento alle rivoluzioni scientifiche seicentesche prima e alla partizione settecentesca, di formazione pre-romantica che trova sponda in Herder e nella filosofia tedesca. Nel Seicento, appunto, in tutta la tradizione che va da Francis Bacon, che passa da Galileo Galilei e che approda a René Descartes, la natura assume una rilevanza epistemologica senza pari, ovvero si colloca in quel luogo delle relazioni ordinate, fatte di leggi rigorose e stabili, al contrario della società e delle sua storia costruite su leggi imprevedibili, instabilità, incertezze… Bisognerà aspettare Johann Gottfried Herder, in una delle sue opere più famose, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit  (Idee per la filosofia della storia dell’umanità 1784 – 1791) perché si inizi a parlare di differenziazione tra il concetto di natura e quello di cultura, e quindi di rivalutazione di quest’ultimo, ma a partire da una sostanziale continuità storica e ontologica tra ciò che i due termini designano. Per Herder la differenziazione della cultura dalla natura avviene progressivamente per differenziazione. “Per quel che riguarda la storia naturale esiste un prototipo, una forma originaria fondamentale, che si ripresenta in tutte le tappe dello sviluppo dei corpi: i diversi fenomeni naturali (inorganici, organici, animali) non sono che complicazioni sempre maggiori di quell’unico prototipo, in modo che le diverse specie vegetali e animali possano essere collocate su un’unica scala evolutiva che culmina nel corpo umano[2].” L’analisi herderiana di natura e di cultura è fortemente ancorata ad un’idea biblica, trascendente, della natura umana, anche se non mancano accenni evoluzionistici, connessi a  successive specializzazioni, che porteranno l’uomo ad acquisire i caratteri di differenziazione dalle altre specie animali: il linguaggio e la ragione. Soltanto un secolo più tardi, attraverso gli studi sul mito condotti dall’antropologo inglese Edward Burnett Taylor, si giunge ad una secca separazione tra natura e cultura, alla quale si fa afferire il complesso di attività umane acquisite all’interno della società: “Cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualunque altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società” (La cultura primitiva, 1871) L’attenzione degli studi successivi sulla cultura come fenomeno autonomo si concentreranno, a partire dal filosofo tedesco Ernst Cassirer, sull’elemento peculiare della produzione umana, che consisterebbe nella capacità di produrre di simboli, al contrario degli animali che sarebbero in grado di generare solamente dei segni. rurali torino2Il simbolo è dunque “il complesso di quei fenomeni in cui si presenta in genere una qualsiasi realizzazione significativa del sensibile, in cui un elemento del suo esistere e del suo esser-così si presenta al tempo stesso come differenziazione e materializzazione, come manifestazione e incarnazione di un significato[3].” E il vino non da meno: “a dire il vero, come ogni totem vitale, il vino sorregge una mitologia svariata che non si preoccupa delle contraddizioni. Questa sostanza galvanica è sempre considerata, per esempio, come il dissetante più efficace, o, almeno la sete funge da primo alibi alla sua consumazione (‘che sete’). Nella sua forma rossa, come vecchissima ipostasi ha il sangue, il liquido denso e vitale. È che in effetti poco importa la sua forma umorale; prima di tutto è una sostanza di conversione, capace di rovesciare situazioni e condizioni, di estrarre dagli oggetti il loro contrario; di fare, per esempio, di un debole un forte, di un silenzioso un chiacchierone; donde la sua vecchia eredità alchemica, il suo potere filosofale di trasmutazione o di creazione ex nihilo (…)[4].” Ancora oggi si dibatte sulla natura simbolica dell’agire umano, senza però arrivare ad un unanime consenso[5]. Dall’altra parte, una non piccola parte di filosofi e di epistemologi, nell’arco degli ultimi trent’anni, si è prodigata nel mettere in discussione la forma del pensiero scientifico da cui, a seguire, la controversia degli stessi concetti utilizzati per spiegare e per dimostrare le diverse teorie scientifiche. Con Khun[6], per la prima volta nel 1962, si parla di paradigmi scientifici, cioè di schemi mentali che guidano e orientano la ricerca scientifica: questi schemi, al contrario del sentire comune prevalente, sono molto vicini alle discipline umanistiche da cui deriverebbe la loro frequente fallacia e la precoce decadenza: “Con la nozione kuhniana di paradigma si è fatta strada nell’epistemologia del secondo Novecento l’idea che anche la scienza naturale sia un fatto di cultura: tra l’occhio ‘puro’ dello scienziato e le strutture oggettive della realtà che egli indaga, o pretende di indagare, con atteggiamento libero (secondo una visione ‘a-culturale’ o ‘pre-culturale’ della scienza), si inserisce un’altra realtà, quella delle varie comunità scientifiche con i loro presupposti non sempre dichiarati, i loro pregiudizi, le loro tradizioni più o meno imponenti e autorevoli, i loro ‘costumi mentali’, in definitiva con la loro ‘cultura’ (in senso inequivocabilmente antropologico)[7].” Quello che alcuni studiosi sosterranno di qui in avanti è che la priorità biologica della cultura è una possibilità comportamentale che appartiene anche ad altri esseri viventi non umani: è ciò che, insomma, non viene predeterminato geneticamente dalle leggi dell’ereditarietà. rurali torinoIn altri termini ancora, “affinché la definizione del comportamento culturale non rimanga nel vago e non sia data solo in termini negativi, John T. Bonner ha proceduto a una riformulazione indubbiamente efficace e significativa. Egli propone infatti di tradurre l’opposizione innato/culturale nella distinzione tra comportamenti ‘con risposta singola’ e comportamenti come ‘risultato di una scelta multipla’[8].” Nella storia alimentare dell’umanità la dicotomia natura/cultura si pone alla stregua della dicotomia tra selvatico/domestico e si riveste ben presto di connotati interpretativi che danno l’idea della costruzione di un dibattito naturalmente ideologico: “L’uomo ‘civile’ si autorappresenta fuori dalla ‘Natura’ ma la Natura stessa diventa, nell’esperienza storica, un modello culturale consapevole, una scelta intellettuale alternativa a quella della Cultura.(…): nel Medioevo europeo, la dinamica selvatico/domestico alimenta un continuo dibattito sui modi di produzione e sulle scelte di vita che essi sottendono. In particolare è assai forte la contrapposizione fra modello produttivo di tradizione greca e romana, fondato sull’agricoltura, e quello germanico basato sullo sfruttamento della foresta (raccolta, caccia, pastorizia)[9].” Possiamo allora affermare con forza ciò che Guido Chelazzi sostiene, a partire dallo studio del processo preistorico, a conclusione del suo bellissimo libro: “abbiamo imparato che contrapporre l’azione dell’uomo ai processi naturali non è giustificato dalla lettura del passato. L’idea che l’uomo non si collochi a priori fuori e in antitesi rispetto alle dinamiche naturali ma che la sua azione sia sempre integrata con quella degli altri processi naturali – e che non sia ‘necessariamente’ negativa – può sembrare blasfema oggi che abbiamo davanti agli occhi un’impronta ecologica che non sembra più avere limiti. L’antitesi natura-uomo domina la letteratura di divulgazione sulle tematiche ambientali e i libri di testo di ecologia. La definizione di ‘impatto antropico sugli ecosistemi’ è una metafora potente e abusata di questa idea che pervade anche molta letteratura scientifica specialistica. (…) L’antitesi è anche pericolosa perché la sensazione – o la pretesa – di essere altro e fuori dalla natura è sempre stato il viatico per le idee del privilegio e del dominio ecologico autorizzato o, per converso, la premessa per la nascita di un senso di colpa che genera utopie ambientalistiche assolutamente improduttive.(…) Nel processo che abbiamo messo in scena l’imputato e il giudice sono la stessa persona, ma si è anche capito che il colpevole e la vittima non si possono separare.[10]” Il vino naturale va nella giusta direzione.


[1] “Nella figura retorica chiamata ossimoro, si applica ad una parola un aggettivo che sembra contraddirla; così gli gnostici parlavano di una luce oscura; gli alchimisti di un sole nero”

Jorge Luis Borges

[2] Diego Fusaro, Johann Gottfried Herder http://www.filosofico.net/herder.htm

Cfr. Pietro Rossi, Cultura, Enciclopedia del Novecento, Treccani in http://www.treccani.it/enciclopedia/cultura_res-885bf1e6-87f0-11dc-8e9d-0016357eee51_(Enciclopedia_Novecento)/

[3] E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, Berlin 1923-29 (trad. it. Filosofia delle forme simboliche, a cura di E. Arnuad, Firenze 1967), vol. III, p. 124.

[4] Roland Barthes, Il vino e il latte in Miti d’oggi., Einaudi, Torino 1994 (ed. orig. 1957), pp. 67, 68.

[5] Cfr. Vincenzo Matera (a cura di), Il concetto di cultura nelle scienze sociali contemporanee, Utet, Torino 2008

[6] Thomas Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago University Press, Chicago 1962 (trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche Einaudi, Torino 1969.)

[7] Francesco Remotti, Natura e cultura, Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996), http://www.treccani.it/enciclopedia/natura-e-cultura_(Enciclopedia-delle-Scienze-Sociali)/

[8] Ivi.

[9] Massimo Montanari, Il cibo come cultura, Editori Laterza, Bari-Roma 2004, pag. 13

[10] Guido Chelazzi, L’impronta originale. Storia naturale della colpa ecologica, Einaudi, Torino 2013, pp. 269, 270, 271

Le foto sono tratte dall’Archivio storico della città di Torino: http://www.comune.torino.it/archiviostorico/mostre/antologia_immagini_2004/pannello1.html