Esercizi di degustazione

Notazioni

Il vigneto è ubicato a 550 metri sul livello del mare all’interno di un piccolo anfiteatro con un’esposizione sud, sud-ovest che raccoglie il Libeccio proveniente dalla Corsica e che conferisce alle uve quella sapidità marina che poi si ritrova pienamente nel vino. I terreni sono ricchi di scheletro, molto permeabili, a reazione acida-subacida e con forte presenza di sedimenti marini. Il clima è mediamente poco piovoso, ad accezione del mese di aprile, cosa che a noi va benissimo e anche al nostro enologo (che è presente, sorridente e ammicca alla battuta). Pensi, poi, che la sommatoria delle escursioni termiche è pari a circa 550°C: per la maturazione fenolica delle uve è semplicemente fantastico – vero Marcello? (l’enologo). Le viti vengono coltivate quasi sdraiate ad un’altezza di 50 centimetri: lavorare in vigna richiede uno sforzo notevole. Nulla è meccanizzato e manca la manodopera in genere e quella specializzata in particolare. Se solo la Regione ci ascoltasse.

Lo lasci un po’ nel bicchiere. Come si apre! Bello ampio e vigoroso, freschezza tesa e marcata. Agrumi, corbezzoli, ginestra, rosmarino, macchia mediterranea, pietra focaia. Tra due anni sarà fantastico. Le è piaciuto?

Litote

Il vigneto, all’interno di un piccolo anfiteatro, non è posizionato così in basso, quasi fosse a ridosso del mare. E non si può certo dire che sia un vino poco saporito con tutto quel vento che prende dalla Corsica, senza poi contare che il terreno non è di terra fine come quelli lungo il litorale adriatico o tirrenico, tanto per dirne una. Piove a catinelle, cosa che fa arrabbiare l’enologo – e ride – (e ride pure l’enologo per commiserazione, prima di distrarsi nuovamente quando parla delle escursioni termiche).  Come può immaginare qua è tutto meccanizzato, a pergola alta: avrei bisogno di assumere dei bambini di 8 anni, se non fosse vietato, tanto sono alte le viti. Ma ‘sti politicanti pensano soltanto ai fatti loro.

Lo trangugi di colpo: bello questo trebbiano dell’Emilia tutto frutti tropicale albicocca disidratata (e ride nuovamente)   

Comunicato stampa

Siamo lieti annunciare la nuova annata di Pinco Pallo! Nella splendida cornice di un anfiteatro battuto dal vento di Libeccio, piccole e antiche viti crescono quasi accovacciate su terreni ricchi di conchiglie antichissime. Un sole meraviglioso, che batte tutto l’anno, favorisce la tintarella e la maturazione delle uve per questo splendido vino a cui contribuisce, da alcuni anni, la supervisione sapiente ed accorta del nostro enologo: Marcello! E tutto senza un soldo di contributi Regionali.

Una meraviglia per il palato: da assaporare lentamente, sotto l’ombrellone o in compagnia degli amici.  Scoprirete una profusione di sentori appaganti e galvanizzanti: a partire dagli agrumi e per finire con la pietra focaia. Non vediamo l’ora di farvelo assaggiare in cantina! Per contatti tel.: ….

Analisi logica.

Il vigneto.

ubicato

550 metri

Libeccio

Corsica

vino

sapidità

Terreni

di scheletro

di sedimenti

marini

Il clima

poco

piovoso

benissimo

Enologo

ammicca

Escursioni

termiche

Maturazione fenolica

Viti

vengono coltivate

quasi

sdraiate

Manodopera

Lo

 lasci

un po’

Bello

ampio

Le

è piaciuto

Apocope

Il vignet è ubicat a 550 metr sul livel del mar all’interno di un piccol anfiteatro con un’esposizion sud, sud-ovest che raccoglie il Libecc provenient dalla Corsic e che conferisce alle uve quella sapidit marin che poi si ritrov pienament nel vin. I terren sono ricchi di scheletro, molto permeabil, a reazion acida-subacid e con forte presenz di sediment marin. Il clim è mediament poc piovos, ad accezione del mes di april, cos che a noi va benissim e anch al nostro enolog (che è presente, sorrident e ammicca alla battut). Pensi, poi, che la sommator delle escursion termic è pari a circ 550°C: per la maturazion fenolic delle uve è semplicement fantastic – ver Marcel? (l’enologo). Le vit vengon coltivat quasi sdraiat ad un’altez di 50 centimetr: lavorar in vign richied uno sforz notevol. Null è meccanizzat e manc la manodop in gener e quel specializzat in particolar. Se solo la Region ci ascoltas.

Lo lasci un po’ nel bicchier. Com si apr! Bell amp e vigoros, freschez tes e marcat. Agrum, corbezzol, ginestr, rosmarin, macchia mediterran, pietrafoca. Tra due ann sarà fantastic. Le è piaciut?

Interrogatorio.

  • Scusi dov’è ubicato il vigneto?
  • A 550 metri sul livello del mare all’interno di un piccolo anfiteatro con un’esposizione sud, sud-ovest
  • L’anfiteatro è forse battuto da qualche vento?
  • Dal Libeccio proveniente dalla Corsica
  • Immagino che il vino sia salato. Vero?
  • Quasi. Sì.
  • E il terreno come è composto?
  • Il terreno è ricco di scheletro, molto permeabili, a reazione acida-subacida e con forte presenza di sedimenti marini
  • Con un terreno così, un’esposizione di quel tipo, il clima deve consentire una maturazione perfetta delle uve.
  • Tenga conto che il clima è mediamente poco piovoso, tranne ad aprile che la sommatoria delle escursioni termiche è pari a circa 550°C: per la maturazione fenolica delle uve è semplicemente fantastico. Vero Marcello? Marcello ci sei?!??
  • Dalle foto ho visto che le viti sono ad alberello: dovete farvi un bel mazzo!
  • Altro che mazzo, infatti nessuno vuole venire a lavorare qui e la Regione non ci aiuta. Dire, poi, alberello è fare quasi un complimento: le viti sono all’incirca sdraiate! E facciamo tutto a mano!
  • Bello e ampio: sento agrumi, corbezzoli, ginestra, rosmarino, macchia mediterranea, pietra focaia. Concorda?
  • E come no!
  • Solforosa?
  • (Che rompicoglioni questo qui!)

Stato e nazione: termini non coincidenti. Un excursus storico

By Antonio Diziani – Web Gallery of Art:   Image  Info about artwork, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15731543la Sala del Maggior Consiglio. Palazzo del Doge (1758 – 1763)

Le nationes medievali

Stato e nazione sono due termini che vengono spesso utilizzati come intercambiabili: è necessario, per evitare confusioni filologiche, comprendere l’origine dell’idea nazionale e del nazionalismo e, cosa ancora più importante, ragionare sulla connessione tra la nazione, intesa nelle sue varie forme e peculiarità e lo stato.

All’origine dell’idea nazionale e della nazione intesa come riconoscimento di reciprocità linguistica e dei costumi, in un dibattito assai controverso, alcuni studiosi hanno indicato le nationes studentesche e le nationes mercantili di origine medievale. Con la diffusione delle università, a partire dal XIII secolo, si propagarono in tutta l’Europa congregazioni di scholares, anch’essi giunti da ogni parte del continente, a tutela, in senso corporativo, dell’origine di provenienza degli stessi: il legame si fondava quasi esclusivamente sulla comunanza linguistica e parzialmente sull’uniformità dei costumi, delle culture di provenienza e della prossimità geografica. A Bologna, ad esempio, di nationes universitarie, sorte nel XII secolo, prima della stessa Università, se ne contavano nel 1432 ben quattordici: Tedeschi, Francesi, Spagnoli, Inglesi, Provenzali, Piccardi, Borgognoni, Pittaviensi (regione di Poitou), Turonensi (regione di Tours), Cenomacensi (regione del Maine), Normanni, Catalani, Ungheresi, Polacchi e Guasconi. Gli statuti delle nationes universitarie facevano riferimento sia ai vincoli di obbligazione che di solidarietà tra appartenenti a diverse “nazioni” linguistiche. Sarebbe sicuramente una forzatura attribuire alle nationes universitarie l’origine del nazionalismo in senso moderno, per due fondamentali ragioni:

1) la mancanza di condizioni materiali (lo stato modernamente inteso e il nascente capitalismo) volte a supportare la configurazione identitaria successiva.

2) L’estrema eterogeneità e fluidità della costituzione delle nationes universitarie: ad esempio la natio lombarda dell’università cisalpina conteneva studenti provenienti dalla Grecia e dalla Macedonia.

Ciò che invece non va sottovalutato di quella esperienza era che l’uso comune di una lingua costituiva il legame prevalente, a cui si adeguavano anche coloro che provenivano da altre regioni, così come lo era l’appartenenza territoriale di origine o di residenza (per acquisizione).

Altro fenomeno medievale di indubbia importanza furono, al pari delle nationes studentesche, le nationes mercantili: anch’esse nate in parte spontaneamente, si costituirono sulla base della tutela comune degli interessi professionali di persone e gruppi appartenenti alla stessa origine linguistica o territoriale. Le norme di condotta, molto rigide, delle nationes mercantili erano vincolanti sia per il paese di origine sia per il paese ospitante (così come avveniva per quelle universitarie): rette solitamente da un console, costui veniva spesso designato dalla madrepatria. Le nationes mercantili, a differenza di quelle universitarie, avevano in maggior misura una funzione politico -rappresentativa, laddove cercavano non solamente di mantenere i privilegi concessi in terra straniera, ma di costruire veri e propri rapporti diplomatici e mercantili, volti all’acquisizione di nuove concessioni. Una delle nationes mercantili più importanti, di cui rimane ancora traccia nel nome attuale della via, rue des Lombards, venne costituita nel 1322 a Parigi ed aggregava mercanti provenienti da tutto il nord Italia ed in piccola parte dal centro: essa diede poi vita ad una ben organizzata universitas mercatorum lombardorum et toscanorum, sottoposta ad una legislazione speciale e privilegiata, dotata di statuto autonomo, e vincolata al pagamento di tasse ed imposte.

La “Nazione moderna”

Per tutto il Quattro – Cinquecento il termine nazione non ebbe ancora, se non in brevi momenti, una connotazione di tipo politico — istituzionale: si riferiva per lo più a provenienze territoriali, senza che però configurassero una qualsivoglia natura di tipo giuridico.  Concetti pregnanti per il Rinascimento erano invece la civitas, la res publica, il regnum e la patria. I primi due vocaboli facevano riferimento all’unica cornice entro la quale fosse possibile perseguire la virtù politica, la giustizia e la libertà comune: la città. La res publica rappresentava quel complesso di leggi, di costumi, di ordinamenti politici e strutture civili proprie di ogni città. Il regnum, più vasto, indicava, agli albori dello Stato moderno, l’unità territoriale, magari di più città, sopra cui veniva esercitato il dominio del sovrano. Infine la patria, da pathos, segnava un’unione di sentimenti e di “caratteri” propri di una popolazione o di un territorio. Il termine patria indicava, tra gli altri, anche il luogo dove si sceglieva di vivere, dove massima era la corrispondenza tra il benessere individuale e quello collettivo, ivi compresa la libertà, da cui il motto “ubi bene, ivi patria”. Mentre Macchiavelli fece uso del termine di patria nel senso medievale di provenienza geografica, fu invece Guicciardini (1483 — 1540), ne la “Considerazione intorno ai Discorsi del Macchiavelli” e ne “I Discorsi Politici”, ad introdurre il concetto di nazione in senso etnico — culturale: “è svizzeri, nazione fiera, bellicosa, esercitata nelle arme e di animo grande” (Cfr Alessandro Campi, Nazione, 2004, p. 81). Ma fu con la rottura tra la Chiesa Cattolica e Lutero che il termine nazione assunse allo stesso sia un’accezione naturalistica che morale – spirituale. Nel 1520, con la pubblicazione di An den christlichen Adel deuctscher Nazion, Martin Lutero, rompendo con la contiguità (translazio imperii) tra Impero Romano e quello Tedesco, affermò l’eredità storica dei popoli germanici legati all’indipendenza ed alla libertà. Mentre il termine nazione acquista nuovi contenuti e significati esso, però, è ancora lontano da una connotazione prettamente politica, che si avrà, ed è bene ricordarlo, in stretta connessione con la nascita dello Stato, e quindi con una richiesta esplicita di conformazione giuridica della nazione atta a governare e dominare.

Nel Sei -Settecento, grazie a diversi autori, il Montequieu de l’Esprit de lois, del 1748, il Voltaire de I’Essai sur les moeurs (1756), il Vico de La Scienza Nuova (1743), per citarne solo alcuni di fama, la nazione cominciava a comprendere anche alcune peculiarità storico-naturalistiche: il clima ed il territorio ne costituivano l’ossatura, mentre i costumi, le consuetudini, la religione etc, fissavano l’indole degli abitanti. Le leggi, secondo quanto teorizzato da Montesquieu, “devono essere realmente adatte ai popoli per i quali sono state istituite, che è incertissimo se quelle di una nazione possano convenire ad un’altra.” (Lo spirito delle leggi, 1, 3) Per il filosofo Francese, come del resto anche in Vico, la nazione è un fattore di evoluzione civile della società umana che dal particolare si è sempre più sviluppata sino a raggiungere la complessità a loro contemporanea: questa visione anticiperà una parte dello storicismo e del positivismo ottocenteschi. Alle nazioni però, ed è chiaro a entrambi, va consegnata una potestà legislativa, senza la quale esse vengono private delle basi per organizzare politicamente la propria sopravvivenza. La connessione tra la nazione e il corpo politico dello stato iniziò ad essere evidente ed esplicita.

Le nazioni contemporanee.

Fu grazie soprattutto alla Rivoluzione Francese ed al tumultuoso industrialismo che toccò alcune zone dell’Europa che la nazione acquisì nuovi e pregnanti significati che in mille rivoli ancora oggi vengono utilizzati. Al vocabolo ‘nazione’ vanno poi associate parole che nacquero insieme ad essa: sovranità, sovranità popolare, libertà, cittadinanza, popolo, sono quelle più significative e poi una serie di termini che declinano e sostantivano quello di nazione, come nazionalità, coscienza nazionale, sovranità nazionale, nazionalitarismo e nazionalismo.

Quest’ultimo vocabolo, nazionalismo, ebbe per tutto l’Ottocento una connotazione prettamente negativa, di egoismo nazionale, ovvero di forma degenerata del sentimento di patria: “pregiudizio cieco ed esclusivo per rutto quanto è peculiare alla nazione di appartenenza”. (Gran Dictionnaire Universel di Pierre Larousse – 1874).

Si potrebbe affermare che la nazione nell’Ottocento, ma questo varrà in termini diversi per il Novecento, ha avuto la funzione di costruzione mitico — simbolica della costituzione di un processo storico-materiale: lo Stato. Sia che si parlasse della Stato senza nazione, ovvero del modello giuridico istituzionale privo di forza legittimante o di nazione senza Stato, il concetto di nazione ebbe una funzione mitico-poetica e simbolica: prodotto di invenzione culturale, si sposta progressivamente su cognizioni di tipo biologico, sentimentale, linguistica o razziale, come condizione di affermazione e di ratifica degli stati esistenti, degli stati nascenti o semplicemente a favore delle richieste di costituzione nazionale.

Alla nazione che diviene stato si contrapposero, con diverse fortune, due tendenze: quella imperiale o grande statale, laddove le nazioni venivano comprese all’interno di un grande apparato organizzativo pluri-statuale, come in Russia, nell’Impero Britannico etc e quella classista dell’internazionalismo proletario.

L’eredità illuministica fa, quindi, della nazione il luogo di costruzione sia del progresso storico, che di quello universale. Nella nazione si sarebbero dovute realizzare la cittadinanza universale che avrebbe permesso a tutti i popoli di vivere fianco a fianco in pace ed in armonia. Questa idea si infranse ben presto nelle guerre di espansione francesi, in particolar modo quelle a danno dei vicini territori tedeschi. Guerre cominciate nel 1792 con l’occupazione della Renania finite nel 1806 con le capitolazioni di Jena e Auerstedt e la successiva invasione di Berlino.

Coloro che, tra gli intellettuali tedeschi, dapprima si fecero sostenitori dell’universalismo rivoluzionario francese, andarono ben presto ad elaborare nuove concezioni legate alla nazione: il popolo-nazione venne pensato come “destino inscindibile”. Lontano dalle matrici linguistiche neolatine, Volk e Volkstum (l’anima, lo spirito e la specificità della nazione) sostituirono ben presto Nation e Nationalitat di ibridazione latina. La nazione “romantica” ebbe come figure di rilievo tre personaggi storici: Fichte che, ne “I Discorsi alla nazione tedesca” tenuti nella Berlino occupata dai Francesi tra il 1807 ed il 1808, sostenne l’idea di un popolo originario (Urvolk) contraddistinto da una lingua comune natia (Ursprache). Il mantenimento di ina lingua originaria era sinonimo, per Fichte, di un popolo unitario ed organico in grado di resistere, nei secoli, alle pressioni politiche esterne: un popolo in senso assoluto è quello che riesce ad assolvere alla propria missione nel quadro della storia universale. Il popolo tedesco per Fichte era unico tra i popoli europei e questa unicità coesisteva con una superiorità etica, spirituale, morale e conseguentemente politica. Anche se lontani dal suprematismo razziale e biologico, vengono introdotti quegli elementi di differenziazione anti egualitaria che avranno una triste fortuna tutto il periodo a venire. C’è da dire infine che per Fichte la realtà nazionale tedesca non necessariamente doveva concretizzarsi in una realtà statuale conseguente e definita. Realtà invece che sarà determinante per Friedrich Ludwig Jahn, secondo cui il popolo (Volk) per sopravvivere doveva incarnarsi in una realtà politico istituzionale di tipo statuale.

Il popolo, secondo Jahn era tenuto a mantenere la sua “purezza” endogena, sinonimo di forza e grandezza. Infine per Heinrich von Treritschke la necessità della saldatura tra stato e nazione non era più rinviabile: egli sostenne, nelle sue lezioni all’Uniniversità di Berlino (Politik, due volumi, 1897), che la nazione era la comunità di sangue”, ovvero un patto sacro tra generazioni. Se il sangue (blut) costituiva l’elemento naturale delle componenti biologico-razziali, la successione delle generazioni fondavano la continuità mistico-religiosa.

In Italia, soprattutto grazie al più importante dei suoi rappresentanti, Giuseppe Mazzini, il nazionalismo ottocentesco si configurò come un’unione tra il popolo, il soggetto storico di quegli uomini “parlanti la stessa favela, associati, con eguaglianza di diritti politici, all’intento comune di sviluppare e perfezionare progressivamente le forze sociali e l’attività di quelle forze” (Giovane Italia, 1833, quarto fascicolo), l’umanità, il fine supremo e l’associazione quale criterio di azione politica. L’individuo riconosciuto negli “uomini parlanti la stessa favella” scompare però in Mazzini come soggetto esclusivamente depositario di diritti: è il popolo, nella sua unitarietà a racchiudere la sintesi tra la nazione etnico-linguistica e la nazione storico-culturale. La trasformazione della nazione in Stato è per Mazzini una scelta prevalentemente volontaristica, ma non per questo astratta: essa si fonda sul connubio ricordato poc’anzi.

Una componente di matrice tipicamente liberale della nazione che si fa stato è quella contrattualistica (volontaria) rappresentata dal francese Renan e dall’Inglese John Stuart Mill, oltre alle riflessioni di Tocqueville a proposito della democrazia in America. Se per Renan la nazione è un plebiscito quotidiano, questo è dovuto anche al fatto che la storia delle nazioni è una storia spesso composta da errori o da oblii: nulla vale il ricorso alla razza o ad altre componenti di matrice storico cultural. Tutte queste ricostruzioni presentavano, secondo Renan, la fallacia di una fabbricazione ad arte, fatta spesso d’invenzione: la nazione non poteva che essere la costruzione di complicati intrecci sociali, con un carattere prevalentemente elettivo, dove la volontà dell’unione era figlia di collaborazioni e condivisioni (economiche, politiche e culturali) cementatesi nel tempo. (E. Renan, Che cos’è una nazione? 1882) Fu la stessa logica della cooperazione volontaria tra cittadini in cui si diressero le valutazioni di J. Stuart Mill (J. S. Mill, La nazionalità in rapporto con il governo rappresentativo, 1861).

Nazione, spazio vitale, colonialismo

Raccontare le avventure della nazione, della loro fortuna in termini ideologici, vuol anche dire menzionare come, a fianco dello sviluppo europeo dello Stato nazionale, si siano di pari passo sviluppate e concretizzati concetti di superiorità politica, sociale, razziale e biologica, tali da giustificare altrove ciò che nella patria europea veniva considerata una disputa tra primati di “destino”.  

Ricordare questo non è pura questione accademica, me serve a capire come nel Novecento la “nazione totalitaria”, abbia esteso, nelle nostre lande, ciò che era considerato plausibile in tutto il resto del mondo. Karl Korsch, filosofo marxista, scriveva a proposito del nazismo (1942): “La novità della politica totalitaria risiede nel fatto che i nazisti hanno esteso ai popoli ‘civilizzati’ dell’Europa i metodi riservati sino a quel momento agli ‘indigeni’ e ai ‘selvaggi’ che vivevano al di fuori della cosiddetta civiltà” (K. Korsch, Note sulla storia. Le ambiguità delle ideologie totalitarie, 1942). Così lo stesso liberale di J. S. Mill ricordato un po’ sopra affermava senza alcuna remora che “il dispotismo è una forma di governo legittima quando si ha a che fare con dei barbari” (J. S. Mill, Sulla libertà ed altri saggi,1859) Allo stesso modo Tocqueville sosteneva, ne “La democrazia in America” (1832 — 1840) che i nativi americani non aspettavano altro che essere sostituiti dagli Europei, ovvero dai proprietari legittimi, poiché i primi occupavano, senza possederlo, il continente nel quale vivevano.

La traduzione materiale delle teorie biologico — razziali, sostenute dalle nuove scienze come l’antropologia, l’eugenetica, la demografia, il determinismo positivista, il darwinismo scientifico applicato alle dinamiche sociali (la superiorità predominante e distruggente del più forte) etc., contano numeri di stragi a dir poco impressionanti: le stime più attendibili parlano di cifre che si aggirano tra i 50 ed i 60 milioni di vittime a seguito delle colonizzazioni della seconda metà dell’Ottocendo, includendovi anche i decessi provocati dalle carestie usate come strumenti di dominio. (M. Davis, I tardi olocausti vittoriani, 2004).

Vi è una ragione ed uno stretto collegamento tra lo sviluppo del nazionalismo modernamente inteso e il colonialismo ad esso conseguente: “naturalmente” sono le ragioni economiche e commerciali a darne, come in passato, un’impronta di tipo imperiale, ma ad esse si affianca l’idea che la nazione, ben più estesa ed animata del freddo meccanicismo statuale, possa coincidere con quella parte del mondo conquistata a carissimo prezzo e in totale spregio per coloro che vi abitano. Il famoso Lebensraum, lo spazio vitale, non venne coniato dai nazisti (che ovviamente riutilizzarono e concretizzarono a modo loro), ma fu l’elaborazione di un geografo, Ratzel, all’inizio del secolo XX (1901) per indicare la necessità tedesca di conseguire un riequilibrio agricolo nelle colonie di fronte allo sviluppo impetuoso dell’industrialismo in patria. E nessuna differenza vi fu tra le concezioni liberali, quelle monarchiche e quelle nazionaliste e, in diversi casi, anche quelle di marca socialista o rivoluzionaria. Nel 1904, il generale Von Trotha, condusse uno dei più efferati stermini su una delle tante popolazioni del sud-ovest africano: gli Herero. Si trattava di una guerra razziale (rassenkampf), condotta contro popoli declinanti (untergehende Volker), se non già morenti (sterbenden). Su 80.000 Herero, appena un anno dopo ne rimasero 20.000 e quelli non ammazzati in battaglia vennero trasportati e lasciati morire nel deserto. Se i nazionalisti, nel dibattito al Reichstag, inneggiarono allo sterminio delle vittime, i socialisti, preoccupati per la possibilità di matrimoni misti, affermarono che lo sterminio abbassava i carnefici allo stesso livello delle proprie vittime, cioè a dei selvaggi.

In fondo era il sogno di Alessandro Lessona, ministro italiano delle Colonie, che sognava un “Etiopia senza Etiopi”: il generale Rodolfo Graziani l’esercito italico ne sterminarono più di 250.000, anche con armi chimiche, tra il 1935 e il 1939.

Fu difficile, e lo è anche oggi, distinguere le legittime aspirazioni di un popolo a farsi nazione e quindi Stato e le altrettanto ovvie e conseguenti pretese dello stesso popolo di definire gli ambiti territoriali di questa legittimità: di circoscrivere, insomma, i confini sulla “propria” o “altrui” terra.

Alle porte del Novecento e oltre

La nazione e i suoi derivati, costrutti ideologici piegati alle esigenze della formazione dei nuovi stati, o alla creazione, ex novo, di altri, funzionale al colonialismo di matrice ottocentesca e poi all’imperialismo del secolo successivo, si affaccia nel Novecento come nazionalismo aggressivo, organicistico e tendenzialmente razziale. Alfredo Rocco scrisse: “L’individuo è un elemento transeunte ed infinitesimale della nazione. Anzi, l’individuo deve ritenersi organo della nazione.

Non si deve considerare, perciò, la nazione come mezzo per il benessere individuale, ma l’individuo come strumento e organo dei fini nazionali” (A. Rocco, Che cosa è la nazione italiana, 1914).

L’individuo subordinato ideologicamente alla nazione, serve lo Stato, forma coercitiva ed amministrativa dell’interesse nazionale: se la subordinazione organica dell’individuo al tutto elimina la lotta di classe come cancro interno ad un corpo sano che non può prevedere l’autoalienazione, né la propria soppressione, all’esterno la competizione fra nazioni è essenziale al predominio del più forte: “Il numero è la vera forza delle razze. Le razze numerose e feconde sono ardite ed espansive: esse avanzano e conquistano. Le nazioni forti e progressive non conquistano territori liberi, ma territori occupati da nazioni in decadenza.” (A. Rocco, Che cosa è il nazionalismo e cosa vogliono i nazionalisti, 1914). Le stesse ragioni che fecero affermare al sindacalista rivoluzionario, Arturo Labriola, che l’intervento in Libia (1911) oltre ad avere un importante valore pedagogico perché avrebbe insegnato agli italiani la misura del loro “potere nazionale”, era infatti un’opportunità da non perdere per sviluppare l’apparato produttivo e commerciale italiano e, di conseguenza, per migliorare le condizioni del proletariato italiano. (A. Labriola, La prima impresa collettiva della Nuova Italia, 1912). L’economicismo marxistico di bassa specie e traduzione servirà in seguito a giustificare ogni sorta di intervento militare atto ad industrializzare forzosamente (alcuni milioni di morti) l’Unione Sovietica e tutti i suoi paesi satelliti. Se dalla parte del nazionalismo storico la nazione era l’organismo che doveva combattere le degenerazioni interne, quindi la lotta di classe, per una parte del sindacalismo rivoluzionario, del socialismo intransigente e dell’anarchismo che approdarono prima all’interventismo e poi, anche se non in modo consequenziale, ai movimenti fascisti in tutta l’Europa, il connubio tra nazione e proletariato si fece sempre più stretta: la guerra nazionale ed il colonialismo erano, per costoro, gli strumenti adatti a distruggere la borghesia liberale al potere, il socialismo riformista e a superare il capitalismo, conciliando le necessità della nazione con quelle della classe operaia: in due parole, il socialismo nazionale. Dei propositi iniziali rimase solo la nazione e, manco a dirlo, un capitalismo di rapina ancora più forte.

Quando poi, alcuni decenni più tardi il proletariato mondiale dovette riconoscersi, a forza, nella nazione della rivoluzione (URSS), il compimento di quella parabola era pressoché concluso e il cappio di quella nefasta unione lo portiamo al collo ancora oggi.

Il nazional – socialismo rimase l’unico tragico tentativo della prima metà del Novecento di  superare” la comunità nazionale e di sostituirvi ad essa una comunità razziale: Hitler paragonò l’occupazione delle terre slave alla conquista dell’America o alla colonizzazione dell’India. Gli slavi, trattati come sotto-uomini (non solo loro), in quel contesto non potevano che essere o schiavizzati o sterminati. Nel novembre del 1941 Göring comunicava a Galeazzo Ciano, ministro italiano degli Affari Esteri, che per l’anno successivo avrebbero previsto il decesso tra i 20 ed i 30 milioni di russi a causa delle carestie. Eliminare, dunque, per ripopolare su basi razziali in comunità distinte e padrone delle altre superstiti: “gli indigeni saranno sottomessi. Abbiamo un solo dovere: germanizzare questo paese attraverso l’immigrazione tedesca, considerarvi gli indigeni come pellerossa.” (A. Hieler, Liberi propositi sulla guerra e sulla pace raccolti i in ordine da Martin Bormann, 1941).

La nazione nazista coincideva con la nazione Euro-Asiatica, dove le razze superiori la facevano da padrona, mentre le altre, quelle non interamente soppresse (ebrei, zingari…), da utili schiavi.

Nazione senza stato?

Faccio mie alcune considerazioni di John Breuilly, (Il nazionalismo e lo stato, 1995): “…Il balzo dalla cultura alla politica è compiuto definendo la nazione in un certo momento come una comunità culturale e in vin altro come una comunità politica, mentre si continua a sottolineare che in une stato ideale la comunità nazionale non sarà affatto “scissa” in sfere culturali, economiche e politiche. Inutile dire che il nazionalista può sfruttare questa perpetua ambiguità. L’indipendenza nazionale può essere descritta come la libertà dei cittadini che compongono la nazione (politica) oppure come la libertà della collettività che compone la nazione (culturale). L’ideologia nazionalista è una pseudo-soluzione del rapporto tra stato e società, ma la sua plausibilità deriva dal fatto che essa si radica in genuine risposte intellettuali a tale problema. Il fascino di questa pseudo-soluzione deriva dal fatto che essa consente al nazionalista di costruire, a partire da una grande varierà di pratiche e sentimenti propri della popolazione di un particolare territorio, l’idea di una comunità nazionale e di trasformarla in una rivendicazione politica. Sembrando abolire le distinzioni tra cultura e politica, società e stato, privato e pubblico, il nazionalista arriva a toccare tutta una gamma di sentimenti, idiomi e pratiche che prima erano considerati irrilevanti per la politica, ma che ora sono trasformati in valori che sottendono l’azione politica. Si sbaglierebbe a vedere nel nazionalismo l’espressione in veste politica di pratiche e valori preesistenti. Sarebbe come accettare la valutazione che i nazionalisti danno di se stessi”.

Non è possibile, a mio parere, ragionare sulla genesi del nazionalismo senza fare i conti rapporto tra questo e la sovranità politica che si incarna nello Stato. Ogni movimento nazionalista ha, ad un certo punto della sua storia politica, richiesto di trasformarsi in Stato, cioè in dominio territoriale della forza atto anche a gestire parte delle risorse economiche dei propri cittadini. I movimenti nazionalisti non lo hanno fatto nella stessa maniera, né metodologicamente, né per contenuto. Si può affermare che alcuni movimenti nazionalisti hanno lottato e lottano per separarsi da stati plurinazionali (ad esempio i magiari contro l’Impero Asburgico, o i Baschi contro lo Stato Spagnolo) e per costituirne uno in proprio, altri dei territori sudati ed austriaci, erc.). Altri movimenti nazionalisti hanno invece cercato di riunificate sotto una stessa compagine Statale una nazione dispersa in mille piccole patrie: l’Italia ad esempio.

L’ultimo è quel nazionalismo creato dallo Stato, il quale privo di coscienza collettiva che infondesse un’identità comune al popolo, ha creato, attraverso l’uso o l’invenzione di diversi “espedienti” e pratiche collettive una pretesa uniformità delle passioni: la nazione.

Capire come il nazionalismo sia stato e venga usato per ragioni altre da quelle per cui viene propagandato è la prima condizione per combatterlo e provare a superarlo. 

BIBLIOGRAFIA INDICATIVA

Enzo Traverso, La violenza nazista, Bologna 2002.

Alessandro Campi, Nazione, Bologna 2004.

Angelo Ventrone, La seduzione totalitaria, Guerra, modernità, violenza politica (1914 — 1918), Roma 2003.

John Breuilly, Il naziohialismo e lo stato, Bologna 1995.

Federico Chabod, L’idea di Nazione, Bari 1961

Pietro Grilli di Cortona, Stati, nazioni e nazionalismi in Europa, Bologna 2003.

M. Davis, I tardi olocausti vittoriani, Milano 2004.

E. Hobsbawn, Nazioni e nazionalismi dal 1780, Torino 1980.

Z. Sternhell, La Destra rivoluzionaria, Milano 1997.

S. Landes, Ricchezza e povertà delle nazioni, Milano 2000.

Gianfranco Poggi, Lo Stato, Bologna 1992.

Stéphane Audoin- Rouzeau e Annette Becker, La violenza, la crociata, il lutto. La grande Guerra e la stovia del Novecento, Torino 2002.

“Le spezie”. Una recensione Di Emanuela Tortora

Foto di Emanuela Tortora

Al museo di storia di Amsterdam c’è un dipinto ad olio del 1955 dal notevole valore documentario del pittore Hendrik C. Vroom – “Ritorno ad Amsterdam”. Sulla tela dipinta a olio, la flotta olandese – di ritorno dalla II spedizione dalle Indie Orientali – si agita tra le onde per attraccare nel porto affollato, mentre nel mare scuro le imbarcazioni più piccole scaricano le merci, il tutto nello stile manieristico del periodo. La mente va ai viaggi di scoperta, al fascino di terre irraggiungibili, ma soprattutto al motivo di questi viaggi: le spezie.

Un racconto che parte da molto lontano, e che rimanda a precise fonti storiche per illustrare il ruolo che le spezie hanno assunto come merce pregiata dalla Roma imperiale, fino alla diffusione sulle tavole di tutto l’Occidente. C’è il riferimento al commercio marittimo, al profitto prezioso della nave onoraria romana la Hermopollion, che approdò sulle coste del Kerala, riportando nel viaggio di ritorno un incredibile carico del valore circa 2.304.000 denari (la busta paga di un soldato era di 250 denari l’anno). Il pepe era il re incontrastato delle tavole. Lo ribadisce anche il famoso gastronomo Apicio nel “De re Coquinaria”: 464 ricette in cui la parola pepe compare per ben 474 volte, e non in modo generico (“aggiustare di sale e pepe”), ma in modo specifico per conferire determinati sapori. 

In una serie di testi anonimi del 1300, è evidente la “moda” delle spezie e il loro lungo primato sulle tavole delle classi privilegiate; Il pepe continua ad aver un posto d’onore ma lentamente è sostituito dello zafferano, o della cannella che appare per es. in una ricetta su due nell’ “Anonimo andaluso”, come diretta testimonianza dell’ascendente arabo. Noce moscata, chiodi di garofano, cardamomo e macis sono proposti in tre differenti “miscele” adattabili a differenti pietanze: delicate (come il pesce) o forti (come le carni) o universali (per i restanti piatti).  Il Liber de Arte Coquinaria di Maestro Martino del 1465, primo ricettario italiano degno di questo nome, invece rappresenta uno spartiacque tra una cucina “antica”, e una cucina nuova di corte, e invita a non abusare delle spezie e a valorizzare le proprietà organolettiche degli ingredienti.

Verso la metà del XVII sec il commercio si adatta al lascito dei lunghi periodi di lotte territoriali tra le potenze navali. I prezzi delle spezie calano, non sono più inavvicinabili, e perdendo il loro valore di “significanti portatrici di significato”, iniziano a farsi spazio nuovi modelli di cucina dettati soprattutto dai cuochi delle corti francesi. C’è l’introduzione di erbe fresche e la rivalutazione della purezza degli alimenti; emblematica è la “minestra di cavolo che sappia interamente di cavolo” citata da De Bonnefons, il valletto di camera di Luigi XIV a Versailles e seguace del cuoco La Varenne. La parola d’ordine per i gastronomi del Re Sole è semplicità. Scompaiono lentamente le salse agrodolci e i ricchi intingoli della tradizione medioevale e rinascimentale, e l’utilizzo dello zucchero viene limitato tanto da essere utilizzato solo nel dessert. In Italia il passaggio verso una cucina meno speziata è più controllato. Bisognerà attendere Pellegrino Artusi con il suo trattato “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”, per poter parlare di una cucina più leggera e quasi del tutto priva di spezie. Una traiettoria discendente che continua arrestandosi solo nell’ ultimo secolo con la globalizzazione e le nuove migrazioni, o quando ritornati dal nostro viaggio abbiamo riscoperto tutti il potere di questi fantastici “souvenir”.  

Le grammatiche della degustazione

Allegoria della grammatica nella Sala delle Arti liberali e dei Pianeti, ad opera di Gentile da Fabriano (1412, Palazzo Trinci a Foligno) Di JoJan – Fotografia autoprodotta, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4134918

Usare, strutturare, definire e comporre una grammatica non significa soltanto fissare e descrivere le norme che regolano l’uso letterario di una lingua. Significa, in altro modo, procedere alla costruzione dei significati politici della lingua stessa, le sue legittimità d’uso, i suoi divieti, le sue prescrizioni e i suoi precetti.
È possibile che, al medesimo tempo, coesistano grammatiche diverse e, a volte, significativamente diverse. La coabitazione non rimanda, però, in alcun modo alla condivisione dei medesimi spazi. Alcune grammatiche prevalgono ineludibilmente sulle altre: vuoi il senso comune che si àncora a motivi precedenti e li traduce in prassi e sentimenti collettivi; vuoi i rapporti di forza (economici, sociali, culturali…) che hanno permesso il prevalere dell’una sulle altre; vuoi le conformità e le difformità collettive di un’epoca; vuoi le strutture che formano e informano i saperi comuni in cui il linguaggio si sforza di rendere comprensibile, a volte plausibile, la cosa a contendere o ad intendere. Parlare la stessa lingua rimanda, metaforicamente, ad un sentire comune e ad intendersi su di esso: “Che cos’è il cibo? Non è soltanto una collezione di prodotti, bisognosi di studi statistici o dietetici. È anche e nello stesso tempo un sistema di comunicazione, un corpo di immagini, un protocollo di usi, di situazioni e di comportamenti. […] Dal momento in cui un bisogno viene preso in carico dalle norme di produzione e di consumo (in poche parole, dal momento in cui passa al rango di istituzione), in esso non è più possibile dissociare la funzione dal segno della funzione reale; il che è vero per l’abbigliamento, ed è altrettanto vero per il cibo; quest’ultimo è probabilmente, da un punto di vista antropologico (d’altronde perfettamente astratto), il primo dei bisogni; ma dacché l’uomo non si nutre più di bacche selvatiche, questo bisogno è sempre stato fortemente strutturato: sostanze, tecniche, usi entrano gli uni e gli altri in un sistema di differenze significative, e a quel punto la comunicazione alimentare è fondata. E la prova della comunicazione non è data dalla coscienza più o meno alienata che i suoi utenti possono averne; è data semmai dalla docilità con cui tutti i fenomeni alimentari costituiscono una struttura analoga agli altri sistemi di comunicazione. Gli uomini non hanno difficoltà a credere che il cibo sia una realtà immediata (bisogno o piacere), senza che ciò crei un ostacolo al fatto che esso costituisca un sistema di comunicazione. E il cibo non è il primo oggetto che essi continuano a vivere come semplice funzione, proprio nel momento stesso in cui lo costituiscono come segno”. (Roland Barthes, L’alimentazione contemporanea”, in Scritti, a cura di Gianfranco Marrone, Einaudi, Torino 1998)
Quando il parlante esplicita i principi e il senso delle sue proposizioni, ebbene, proprio in quel momento redige una nuova grammatica. Il successo o meno di questa grammatica dipenderà da diversi fattori e condizioni: ancora una volta non è possibile darsi spiegazioni senza coinvolgere molteplici motivi, di peso, di misura e di temporalità. Ogni profeta e condottiero o leader autentico “«enuncia, crea e promuove nuovi precetti»; ma tale novità, questo è il punto fondamentale, non è l’espressione di una «semplice alternativa», ma di una «presa di posizione» interna ad una struttura valoriale polarizzata, i cui poli sono «senza possibilità di conciliazione», sono cioè connessi gli uni agli altri da una connessione di tipo grammaticale. L’enunciazione del pretendente capo carismatico non avrebbe cioè alcun senso sociologico se non fosse l’espressione di una presa di posizione oppositiva espressa, in questo caso, nei confronti di un co-esistente ordine normativo di tipo impersonale”. (Andrea Sormano, Weber, Wittgenstein e la grammatica del senso, in Quaderni di sociologia 17 | 1998 -Mutamenti della struttura di classe in Italia, teoria e ricerca p. 124-146)
In ogni caso e in qualunque modo grammatiche molto diverse o sostanzialmente antitetiche gravano su strutture morfologiche alle quali si adeguano e che parzialmente trasformano o che radicalmente rifiutano.
Nelle degustazioni sensoriali del vino prevalgono, e non da ora, le grammatiche delle variegate associazioni di sommellerie, le grammatiche delle guide, le grammatiche di scrittori e divulgatori che, per ragioni che sarebbero troppo onerose da indagare, hanno imposto un loro linguaggio ad una comunità di discenti e di appassionati. Dall’altro lato si sono formate, in tempi sicuramente più recenti, altre grammatiche che hanno rotto, o provato a infrangere le prime perché ritenute inadeguate al racconto del tempo presente, alle sue strutture, alle sue innovazioni tecnologiche, ai nuovi modelli produttivi (ecologici), alle nuove forme di comunicazione che sono irrotte in un mondo fortemente ancorato al cartaceo/analogico e ai nuovi o costituendi rapporti di forza. Alle estremità si sono formate grammatiche, che rifiutano la codificazione concettuale assiomatica delle stesse, portando altrove lo sguardo dei convenuti. Anche a tal proposito si potrebbe dire che “quando si vuole provare la mancanza di senso delle locuzioni della metafisica – scrive Wittgenstein in un passo della Grammatica filosofica – spesso si dice: «Non potrei immaginare il contrario di ciò» […] Ebbene, se non posso immaginare come sarebbe altrimenti allora non posso neppure immaginare che è così. Senza otium non c’è neg-otium”. (Andrea Sormano, cit.) In questo senso la rottura procedurale avviene secondo il principio per cui la matrice di ciò che chiamiamo “degustazione” sta nella trasformazione della casualità in una tecnica metodica: “L’assenza di fondamenti basici per le nostre procedure linguistico-concettuali, così come per le nostre imprese cognitive, non è la denuncia della circostanza che i nostri sistemi di conoscenza sarebbero regolati su assunzioni ideali, concettuali prive di fondamento, sprovviste di uno statuto di legittimazione. L’assenza di fondamento, al di là della dimensione cognitivo-simbolica, si prolunga sullo stesso terreno originario della matrice pratica come modo di operare, come procedura comportamentale infondata. La prassi è una condotta infondata. (…) Quella che si chiama conformità di una prassi ad una regola è a sua volta una funzione di condotta pratica. Sono ancora l’operare, la prassi a decidere in ultima istanza il modo in cui una rappresentazione, una struttura simbolica possono fungere da norme o criteri di disciplinamento di un decorso di operazioni” (Aldo Gargani, Il sapere senza fondamenti. La condotta intellettuale come strutturazione dell’esperienza comune, Einaudi, Torino 1975, pag. 94). Quindi non stiamo parlando della contrapposizione tra grammatiche della degustazione (AIS, riviste….) e non grammatiche (cfr. Nicola Perullo, Epistenologia I e II, e Estetica senza (s)oggetti): per prima cosa perché le seconde non si oppongo né si contrappongono alle prime in una logica di prevalenza. Al contrario le seconde agiscono, interagiscono e si sottraggono alle prime attraverso sistema di scartamento, di smarcamento, di ricostruzione di una linguistica concettuale, quindi di una grammatica distinta, a partire dalla prassi. Il “con il vino” di Nicola Perullo rimanda chiaramente a queste ipotesi.
La libertà rivendicata della “degustazione” come strutturazione metodica del caso trova linee di fuga, ispirazioni, rotture e capovolgimenti soltanto nella cognizione piena dalle regole apprese e disciplinate: “Un’altra falsissima idea che pure ha corso attualmente è l’equivalenza che si stabilisce tra ispirazione, esplorazione del subconscio e liberazione; tra caso, automatismo e libertà. Ora, questa ispirazione che consiste nell’ubbidire ciecamente a ogni impulso è in realtà una schiavitù. Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo d’altre regole che ignora”. (Raymond Queneau, da Segni, Cifre e Lettere, citato in Italo Calvino in Lezioni Americane, Garzanti, Milano 1988)
Proprio perché “il pensiero è una paura trasformata, è una paura che si è data un’attrezzatura metodica”. (Gargani, cit. pag. 95)