Le grammatiche della degustazione

Allegoria della grammatica nella Sala delle Arti liberali e dei Pianeti, ad opera di Gentile da Fabriano (1412, Palazzo Trinci a Foligno) Di JoJan – Fotografia autoprodotta, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4134918

Usare, strutturare, definire e comporre una grammatica non significa soltanto fissare e descrivere le norme che regolano l’uso letterario di una lingua. Significa, in altro modo, procedere alla costruzione dei significati politici della lingua stessa, le sue legittimità d’uso, i suoi divieti, le sue prescrizioni e i suoi precetti.
È possibile che, al medesimo tempo, coesistano grammatiche diverse e, a volte, significativamente diverse. La coabitazione non rimanda, però, in alcun modo alla condivisione dei medesimi spazi. Alcune grammatiche prevalgono ineludibilmente sulle altre: vuoi il senso comune che si àncora a motivi precedenti e li traduce in prassi e sentimenti collettivi; vuoi i rapporti di forza (economici, sociali, culturali…) che hanno permesso il prevalere dell’una sulle altre; vuoi le conformità e le difformità collettive di un’epoca; vuoi le strutture che formano e informano i saperi comuni in cui il linguaggio si sforza di rendere comprensibile, a volte plausibile, la cosa a contendere o ad intendere. Parlare la stessa lingua rimanda, metaforicamente, ad un sentire comune e ad intendersi su di esso: “Che cos’è il cibo? Non è soltanto una collezione di prodotti, bisognosi di studi statistici o dietetici. È anche e nello stesso tempo un sistema di comunicazione, un corpo di immagini, un protocollo di usi, di situazioni e di comportamenti. […] Dal momento in cui un bisogno viene preso in carico dalle norme di produzione e di consumo (in poche parole, dal momento in cui passa al rango di istituzione), in esso non è più possibile dissociare la funzione dal segno della funzione reale; il che è vero per l’abbigliamento, ed è altrettanto vero per il cibo; quest’ultimo è probabilmente, da un punto di vista antropologico (d’altronde perfettamente astratto), il primo dei bisogni; ma dacché l’uomo non si nutre più di bacche selvatiche, questo bisogno è sempre stato fortemente strutturato: sostanze, tecniche, usi entrano gli uni e gli altri in un sistema di differenze significative, e a quel punto la comunicazione alimentare è fondata. E la prova della comunicazione non è data dalla coscienza più o meno alienata che i suoi utenti possono averne; è data semmai dalla docilità con cui tutti i fenomeni alimentari costituiscono una struttura analoga agli altri sistemi di comunicazione. Gli uomini non hanno difficoltà a credere che il cibo sia una realtà immediata (bisogno o piacere), senza che ciò crei un ostacolo al fatto che esso costituisca un sistema di comunicazione. E il cibo non è il primo oggetto che essi continuano a vivere come semplice funzione, proprio nel momento stesso in cui lo costituiscono come segno”. (Roland Barthes, L’alimentazione contemporanea”, in Scritti, a cura di Gianfranco Marrone, Einaudi, Torino 1998)
Quando il parlante esplicita i principi e il senso delle sue proposizioni, ebbene, proprio in quel momento redige una nuova grammatica. Il successo o meno di questa grammatica dipenderà da diversi fattori e condizioni: ancora una volta non è possibile darsi spiegazioni senza coinvolgere molteplici motivi, di peso, di misura e di temporalità. Ogni profeta e condottiero o leader autentico “«enuncia, crea e promuove nuovi precetti»; ma tale novità, questo è il punto fondamentale, non è l’espressione di una «semplice alternativa», ma di una «presa di posizione» interna ad una struttura valoriale polarizzata, i cui poli sono «senza possibilità di conciliazione», sono cioè connessi gli uni agli altri da una connessione di tipo grammaticale. L’enunciazione del pretendente capo carismatico non avrebbe cioè alcun senso sociologico se non fosse l’espressione di una presa di posizione oppositiva espressa, in questo caso, nei confronti di un co-esistente ordine normativo di tipo impersonale”. (Andrea Sormano, Weber, Wittgenstein e la grammatica del senso, in Quaderni di sociologia 17 | 1998 -Mutamenti della struttura di classe in Italia, teoria e ricerca p. 124-146)
In ogni caso e in qualunque modo grammatiche molto diverse o sostanzialmente antitetiche gravano su strutture morfologiche alle quali si adeguano e che parzialmente trasformano o che radicalmente rifiutano.
Nelle degustazioni sensoriali del vino prevalgono, e non da ora, le grammatiche delle variegate associazioni di sommellerie, le grammatiche delle guide, le grammatiche di scrittori e divulgatori che, per ragioni che sarebbero troppo onerose da indagare, hanno imposto un loro linguaggio ad una comunità di discenti e di appassionati. Dall’altro lato si sono formate, in tempi sicuramente più recenti, altre grammatiche che hanno rotto, o provato a infrangere le prime perché ritenute inadeguate al racconto del tempo presente, alle sue strutture, alle sue innovazioni tecnologiche, ai nuovi modelli produttivi (ecologici), alle nuove forme di comunicazione che sono irrotte in un mondo fortemente ancorato al cartaceo/analogico e ai nuovi o costituendi rapporti di forza. Alle estremità si sono formate grammatiche, che rifiutano la codificazione concettuale assiomatica delle stesse, portando altrove lo sguardo dei convenuti. Anche a tal proposito si potrebbe dire che “quando si vuole provare la mancanza di senso delle locuzioni della metafisica – scrive Wittgenstein in un passo della Grammatica filosofica – spesso si dice: «Non potrei immaginare il contrario di ciò» […] Ebbene, se non posso immaginare come sarebbe altrimenti allora non posso neppure immaginare che è così. Senza otium non c’è neg-otium”. (Andrea Sormano, cit.) In questo senso la rottura procedurale avviene secondo il principio per cui la matrice di ciò che chiamiamo “degustazione” sta nella trasformazione della casualità in una tecnica metodica: “L’assenza di fondamenti basici per le nostre procedure linguistico-concettuali, così come per le nostre imprese cognitive, non è la denuncia della circostanza che i nostri sistemi di conoscenza sarebbero regolati su assunzioni ideali, concettuali prive di fondamento, sprovviste di uno statuto di legittimazione. L’assenza di fondamento, al di là della dimensione cognitivo-simbolica, si prolunga sullo stesso terreno originario della matrice pratica come modo di operare, come procedura comportamentale infondata. La prassi è una condotta infondata. (…) Quella che si chiama conformità di una prassi ad una regola è a sua volta una funzione di condotta pratica. Sono ancora l’operare, la prassi a decidere in ultima istanza il modo in cui una rappresentazione, una struttura simbolica possono fungere da norme o criteri di disciplinamento di un decorso di operazioni” (Aldo Gargani, Il sapere senza fondamenti. La condotta intellettuale come strutturazione dell’esperienza comune, Einaudi, Torino 1975, pag. 94). Quindi non stiamo parlando della contrapposizione tra grammatiche della degustazione (AIS, riviste….) e non grammatiche (cfr. Nicola Perullo, Epistenologia I e II, e Estetica senza (s)oggetti): per prima cosa perché le seconde non si oppongo né si contrappongono alle prime in una logica di prevalenza. Al contrario le seconde agiscono, interagiscono e si sottraggono alle prime attraverso sistema di scartamento, di smarcamento, di ricostruzione di una linguistica concettuale, quindi di una grammatica distinta, a partire dalla prassi. Il “con il vino” di Nicola Perullo rimanda chiaramente a queste ipotesi.
La libertà rivendicata della “degustazione” come strutturazione metodica del caso trova linee di fuga, ispirazioni, rotture e capovolgimenti soltanto nella cognizione piena dalle regole apprese e disciplinate: “Un’altra falsissima idea che pure ha corso attualmente è l’equivalenza che si stabilisce tra ispirazione, esplorazione del subconscio e liberazione; tra caso, automatismo e libertà. Ora, questa ispirazione che consiste nell’ubbidire ciecamente a ogni impulso è in realtà una schiavitù. Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo d’altre regole che ignora”. (Raymond Queneau, da Segni, Cifre e Lettere, citato in Italo Calvino in Lezioni Americane, Garzanti, Milano 1988)
Proprio perché “il pensiero è una paura trasformata, è una paura che si è data un’attrezzatura metodica”. (Gargani, cit. pag. 95)