“Le spezie”. Una recensione Di Emanuela Tortora

Foto di Emanuela Tortora

Al museo di storia di Amsterdam c’è un dipinto ad olio del 1955 dal notevole valore documentario del pittore Hendrik C. Vroom – “Ritorno ad Amsterdam”. Sulla tela dipinta a olio, la flotta olandese – di ritorno dalla II spedizione dalle Indie Orientali – si agita tra le onde per attraccare nel porto affollato, mentre nel mare scuro le imbarcazioni più piccole scaricano le merci, il tutto nello stile manieristico del periodo. La mente va ai viaggi di scoperta, al fascino di terre irraggiungibili, ma soprattutto al motivo di questi viaggi: le spezie.

Un racconto che parte da molto lontano, e che rimanda a precise fonti storiche per illustrare il ruolo che le spezie hanno assunto come merce pregiata dalla Roma imperiale, fino alla diffusione sulle tavole di tutto l’Occidente. C’è il riferimento al commercio marittimo, al profitto prezioso della nave onoraria romana la Hermopollion, che approdò sulle coste del Kerala, riportando nel viaggio di ritorno un incredibile carico del valore circa 2.304.000 denari (la busta paga di un soldato era di 250 denari l’anno). Il pepe era il re incontrastato delle tavole. Lo ribadisce anche il famoso gastronomo Apicio nel “De re Coquinaria”: 464 ricette in cui la parola pepe compare per ben 474 volte, e non in modo generico (“aggiustare di sale e pepe”), ma in modo specifico per conferire determinati sapori. 

In una serie di testi anonimi del 1300, è evidente la “moda” delle spezie e il loro lungo primato sulle tavole delle classi privilegiate; Il pepe continua ad aver un posto d’onore ma lentamente è sostituito dello zafferano, o della cannella che appare per es. in una ricetta su due nell’ “Anonimo andaluso”, come diretta testimonianza dell’ascendente arabo. Noce moscata, chiodi di garofano, cardamomo e macis sono proposti in tre differenti “miscele” adattabili a differenti pietanze: delicate (come il pesce) o forti (come le carni) o universali (per i restanti piatti).  Il Liber de Arte Coquinaria di Maestro Martino del 1465, primo ricettario italiano degno di questo nome, invece rappresenta uno spartiacque tra una cucina “antica”, e una cucina nuova di corte, e invita a non abusare delle spezie e a valorizzare le proprietà organolettiche degli ingredienti.

Verso la metà del XVII sec il commercio si adatta al lascito dei lunghi periodi di lotte territoriali tra le potenze navali. I prezzi delle spezie calano, non sono più inavvicinabili, e perdendo il loro valore di “significanti portatrici di significato”, iniziano a farsi spazio nuovi modelli di cucina dettati soprattutto dai cuochi delle corti francesi. C’è l’introduzione di erbe fresche e la rivalutazione della purezza degli alimenti; emblematica è la “minestra di cavolo che sappia interamente di cavolo” citata da De Bonnefons, il valletto di camera di Luigi XIV a Versailles e seguace del cuoco La Varenne. La parola d’ordine per i gastronomi del Re Sole è semplicità. Scompaiono lentamente le salse agrodolci e i ricchi intingoli della tradizione medioevale e rinascimentale, e l’utilizzo dello zucchero viene limitato tanto da essere utilizzato solo nel dessert. In Italia il passaggio verso una cucina meno speziata è più controllato. Bisognerà attendere Pellegrino Artusi con il suo trattato “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”, per poter parlare di una cucina più leggera e quasi del tutto priva di spezie. Una traiettoria discendente che continua arrestandosi solo nell’ ultimo secolo con la globalizzazione e le nuove migrazioni, o quando ritornati dal nostro viaggio abbiamo riscoperto tutti il potere di questi fantastici “souvenir”.  

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