Due vini eccellenti che sbotteranno a dicembre e un Vermouth che non uscirà mai

Stormo di uccelli che concorrono in maniera sincronica a disegnare svariate forme nell’aria, come se formassero un unico organismo vivente.
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Casualità

Parlare di vino scomodando Jung e “La sincronicità come principio di relazioni acausali” (1952) potrebbe sembrare un paradosso, ma non in questo caso: “Secondo Jung, i fenomeni sincronici si comportano come delle casualità ripiene di senso. Sono caratterizzati dalla coincidenza – portatrice di significato – di un fenomeno fisico oggettivo, con un avvenimento psichico, senza che si possa immaginare una ragione o un meccanismo causale tra essi1”.

A cavallo tra agosto e settembre ci rechiamo dapprima a Farigliano, nella casa che fu di mio nonno e, subito dopo, a Sanfront, paese della Valle Po sulla strada che porta al Monviso. L’occasione fa gli esseri umani ladri di piaceri e di opportunità e così incontriamo, sostenuti dalle rispettive e pimpanti figliolanze, Fausto Cellario e Cinzia a Carrù dove poggiano le solide basi della casa e della cantina. A distanza di pochi giorni accade lo stesso con Michele Antonio Fino, Vanina Carta e i loro baldanzosi figli: la prima volta a Saluzzo, all’Osteria dei Desideri e poi a Revello, anche lì sostegno di vita e di produzione vinicola. L’Osteria dei Desideri meriterebbe un articolo a parte: leggermente defilata dal centro storico, ai piedi di un edificio improntato alla contemporaneità della seconda metà del ‘900, all’interno rompe gli indugi di un eterno presente votandosi ad un aplomb che sa di Piemonte antico. Il menù si destreggia mirabilmente tra una classica battuta di Fassona al coltello, un cheesecake al salmone, gamberi spadellati e crudi rossi di Mazara del Vallo con stracciatella di burrata e scorza di limone, per poi virare sulle vette Occitane con i ravioles della valle Varaita, quindi volteggiare sui gnocchetti di patate con friggitelli e salsiccia di Bra, atterrare dolcemente sul vitello in varia cottura e tuffarsi finalmente sulle capesante e tentacolo di polpo arrostiti su crema di peperoni dolci con pane aromatico. Dolci eccellenti della tradizione piemontese. Una carta dei vini fornitissima, quasi sbalordente, che inizia in maniera assai meritoria con quelli del posto, ovvero con i vini delle Colline Saluzzesi. Insomma non dico di passarci, ma di andarci proprio.

Sebbene si stia parlando di casualità piene di senso e sebbene gli uni si conoscano con gli altri e noi con loro, mi è parso assai improbabile che entrambi si fossero messi d’accordo sul proporre in maniera quasi sincronica dei vini che più distanti non sono, un dolcetto di Langa e un pinot nero delle colline Saluzzesi non ancora in commercio e che dovrebbero uscire a dicembre (entrambi). La concomitanza degli eventi e il loro aspetto non accidentale mi impedisce però di pensare che Fausto Cellario abbia deliberatamente telefonato a Michele Fino e, con un’interlocuzione strascicata, abbia chiesto: “Ciao, quand’è che non fai uscire il tuo pinot?” E Michele: “Boh, non so… e il tuo dolcetto?” – “Bah, chissà!”. “Vabbè, buonanotte” – “’Notte!”

Vini fatti in annate scelte, volutamente lasciati lì per il tempo ritenuto necessario ed entrambi molto, molto buoni. L’annata è sì una media ponderata tra la maturazione dell’uva, il clima, le analisi sugli zuccheri, gli agronomi, gli enologi, i consigli, il o i mutui, ma poi, alla fine sono i produttori che decidono, sospinti dallo spirito guida, un pot-pourri di competenze tecniche e non di meno una buona dose di intuito, perspicacia, reminiscenza, conoscenza storica, incoscienza e volontà di rischio, se proprio quell’anno lì potrà lasciare dei caratteri di memorabilità che faranno dire a tutti: “Però quel 2015!”; “Perbacco che 2018!” “E pensare che ne ho ancora una bottiglia!” (Tra trent’anni) “Varrà un casino!?! – “Non saprei, qui su Marte non ci sono molte enoteche”

2015 Dozzetti etichetta storica, Dogliani Superiore Cornole, Poderi Cellario. 587 bottiglie numerate.

Poderi Cellario

Cornole, frazione Farigliano, che per Fausto è il meglio del meglio e anche per me perché da quelle parti una vigna porta ancora il nome di una mia prozia (vigneto “Maestra”). Vendemmia a metà settembre. Quindici giorni di fermentazione in due vasche. Il mosto di una delle due viene trasferito nell’altra sino a colmarla: cappello sommerso steccato e le vinacce rimangono sotto per altri quindici giorni (come si fa anche per il barolo: per taluni sino a dicembre). Legno di rovere da 25 ettolitri francese di “Gamba” per un anno. Bottiglia per altri 3 anni e mezzo. Dove il mezzo si concluderà a dicembre. 14,5 gradi alcolici. Uno di quei dolcetto che si spera. Non lo si aspetta, ma lo si spera. Ci sono dolcetto da tutti i giorni, dolcetto da un giorno sì e l’altro no, dolcetto da ogni tanto e dei “dolcetto” per sempre. Sono rari e la loro bellezza non è legata ad una improbabile e marmellatosa propensione artificiale alla concentrazione del frutto. Il frutto nero emerge pieno, vivo, carico di un’energia tonica e vibrante che si distende tra accenni di china, cacao e menta. I tannini, mai comprimari, avvolgono e compattano, senza strattonarla, una bevuta di inusitata piacevolezza e assai lunga. Ancora a una volta a dimostrare, semmai ce ne fosse bisogno, che il dolcetto può invecchiare egregiamente. Non tutti i “dolcetto”, intendiamoci, ma quelli “per sempre” sì.

2018 Econverso, Vino rosso, Cascina Melognis. 270 magnum

Cascina Melognis

I cloni del pinot nero provengono dalla Borgogna. Vendemmia nella prima settimana del settembre 2018. Vinificazione in acciaio con fermentazione spontanea. Malolattica svolta in vasca e da ottobre in barrique di secondo passaggio di Moccagatta per 18 mesi. Massa nel marzo 2020 con imbottigliamento ad aprile 2020. Altri 8 mesi, per chiudere, in bottiglia.

Econverso, il nome del vino, è una possibile traduzione latina di “contromano” e vuole omaggiare l’articolo che Gianpaolo Gravina e Armando Castagno, “Con calma, contromano2” – Accademia degli alterati, dedicarono a Novamen, vino composto dal 70% di barbera e al 30% da pinot nero. Quest’ultimo, proveniente dal territorio di Revello sui 500 metri di altitudine e prosperato in un terreno con una buona quantità di limo e sabbia, costituisce il 100% di Econverso. Allevare e vinificare il pinot nero è sempre un gran casino: se troppo caldo i vini rischiano di essere sguaiati, stramaturi e con odori animali più che ridondanti. In annate fredde o con raccolte troppo anticipate i pinot emergeranno estremamente acerbi, privi di nerbo e vegetali come la foresta dell’Amazzonia.

Questo, al contrario, è un vino di grande equilibrio e di ragguardevole armonia: i frutti rossi freschi e palpitanti (ribes e lampone) signoreggiano nel palato. Accenni di arancia rossa si fanno spazio tra la liquirizia dolce e il pepe nero. Una giusta tensione acida accompagna tutta la bevuta. Per 14 gradi alcolici. Se il buongiorno si vede dal mattino, allora buongiorno!

Il Vermouth, “Aromatum Umor”, che non uscirà mai

Michele e Vanina hanno le viti, fanno il vino, abitano sotto il Monviso e intorno a loro crescono fiori e piante che neppure il nonno di Heidi, nella sua lunga vita cinematografica in montagna, ha mai potuto vedere. Il torinesissimo vermouth (data di nascita 1796), vino aromatizzato, ebbe lunghe propaggini in tutta la provincia di Cuneo, tant’è che nel paese di Caraglio, ai piedi della Valgrana e distante da Saluzzo nemmeno 30 km, producevano sia l’assenzio che la pianta mediterranea, non autoctona, del cardo mariano: nella “Descrizione ed impiego di 200 piante medicinali della Flora pedemontana con l’aggiunta dei nomi in vernacolo piemontese” di Ottavio Gallo del 1917 ritroviamo questa considerazione: “presso la chiesa di S. Giovanni, sulla collina caragliese, è stata riscontrata la presenza del Cardo mariano, pianta mediterranea non indigena del luogo, probabilmente un relitto botanico tutt’ora vivente proveniente da una antica introduzione esterna da parte di monaci a scopo di coltivazione per le sue importati qualità curative”. Le zone di Caraglio, Busca, Dronero e della stessa Cuneo furono per tutto il 1500 centrali per la diffusione della riforma protestante e crocevia di scambi provenienti dalla Francia, dalla Germania e dalla Svizzera. Assieme alle conoscenze teologiche viaggiavano erbe curative, intrugli di vario sorta, amari, liquori: “Si produceva, quindi, un amaro tonico depurativo del fegato con assenzio e semi e piante di cardo mariano in infusione nel vino addolcito con miele. E già allora erano a conoscenza che l’assenzio, oltre ai principi attivi curativi pare sia tendenzialmente ipotensivo (abbassa la pressione): al contrario il cardo mariano, potente depurativo è giudicato ipertensivo (aumenta la pressione). La loro miscela equilibrava. La base del conosciuto vermouth sembra origini da questa ricetta con aggiunte posteriori di altri aromi3”.

Il vermouth di Cascina Melognis, rigorosamente fuori commercio, viene prodotto con il 70% del bianco Comitis (uve chasselas e gouais blanc) e il 30% del rosato Sinespina (neretta cuneese, barbera freisa, chatus e pelaverga) dapprima in infusione, nel mese di giugno, con i fiori di genzianella. Dopo due settimane vengono tolti i fiori e vengono messe a macerare le bucce di agrumi arancia, di mandarino, di cedro e di bergamotto. Passano altri quindici giorni le bucce vanno via e tocca alle spezie: cardamomo, coriandolo, anice stellato e pepe del Sichuan. A completare la composizione vengono aggiunte due tinture: quella amaricante è data dall’assenzio pontico, mentre quella dolce è dovuta ai semi di ramassin4. Tutte le erbe, le spezie e gli alberi da frutto sono autoprodotti. Solo l’assenzio viene acquistato. Infine zuccheraggio (90 grammi litro), filtrazione e imbottigliamento nelle bottiglie dell’Olim Atrum (metodo classico).

Una magnifica tensione tra la gli agrumi e la parte amaricante accompagna tutta la bevuta. Tutte le piante, i frutti e le spezie entrano in questo gioco duale dove poco spazio viene lasciato alla porzione dolce, comprimaria essenziale di due campioni alla guida. Dopo il vermouth, il nulla.

E allora fateveli questi due giri!

  1. Tappa doglianese: andate a mangiare allo Sbaranzo (frazione di Clavesana). Cucina tipicissima langarola, menù fisso, grandi portate di antipasti e di tutto il resto. Prezzo fisso, vista stupenda in costa. Si mangia alle 12.30: non alle 13 e nemmeno alle 13.30. Poi un giro da Fausto Cellario, naturalmente dopo il pisolino o dopo una passeggiata ristoratrice. Il giorno seguente, se non avete perso completamente la lucidità, prendete i contatti con l’associazione “I Calanchi di Clavesana” e vi fate portare a fare un giro su Tanaro. Dopo di che la Langa è vostra: ma rimanete più a lungo possibile nel doglianese prima di buttarvi nei fasti del Barolo.
  2. Tappa Monviso: qui bisognerebbe cambiare gli addendi senza modificare il risultato. Meglio prima da Cascina Melognis nel pomeriggio e poi a cena all’Osteria dei Desideri a Saluzzo. Il giorno successivo, quando riuscirete ad aprire gli occhi, il Monviso, i suoi laghi e le sue cime tempestose sono lì ad aspettarvi.

1Renzo Zambello, Sincronicità: le coincidenze significative, in Psicoterapia Junghiana, Studio Psicoterapeutico e Psicoanalitico Milano 2010

2 https://accademiadeglialterati.com/2019/10/08/con-calma-contromano/

3 https://www.cuneocronaca.it/quel-prezioso-cardo-mariano-di-caraglio-da-secoli-alla-base-della-ricetta-del-vermouth

4 Il Ramassin o Dalmassin è una varietà di susino autoctona, tipica del Piemonte sud-occidentale e diffusa su gran parte del territorio della provincia di Cuneo. “I Ramassin sono un endemismo del Piemonte sud-occidentale con tracce di presenza anche nella Riviera di Ponente (Gallesio, in Pomona italiana, Pisa 1817-1839) e in Provenza. Le varianti dialettali in lingua piemontese Dalmassìn (Monregalese), Darmassìn, Gramassìn (Cebano), fino a Ramassìn (Saluzzese e Cuneese) sono trasformazioni del latino (medioevale) Prunus damascenus, cioè susino di Damasco, Damaschine”, spiega Silvio Pellegrino. “La distribuzione territoriale, che corrisponde alle aree delle incursioni saracene del IX e X secolo, induce infatti a ritenere che questa varietà sia stata introdotta dal Medio Oriente nell’alto medioevo, una delle tante tracce della civiltà araba nel Piemonte meridionale”. Testimonianze riguardanti le prime forme di coltivazione di Ramassin in Piemonte si trovano negli archivi di alcuni comuni intorno a Saluzzo. La Valle Bronda divenne fin da subito un importante centro produttivo e commerciale del prodotto, tanto che nel periodo di raccolta si tenevano ogni sera due mercati completamente dedicati alle Ramassin: uno nel comune di Pagno e l’altro nel comune di Saluzzo, in Frazione San Lazzaro. https://terraoggi.it/ramassin-il-frutto-del-piemonte-saraceno/