Clima, viticoltura e vino. Un altro punto di vista. Di Stefano Cinelli Colombini della Fattoria dei Barbi

Stefano Cinelli Colombini

Stefano è nato il 26 ottobre del 1956 a Firenze, cosa un po’ strana per un senese di famiglia antica. Pur essendosi laureato in legge, invece di diventare avvocato ha scelto di lavorare nelle fattorie di famiglia. E così nel 1981 si è trovato tra vini e vigne ma non solo, perché la Fattoria dei Barbi è vasta; c’erano centinaia di ettari da seminare, i boschi, gli agriturismi, il molino aziendale, gli allevamenti, gli oliveti, la norcineria, il caseificio, la Taverna e tanto altro. Nel 1997 ha acquistato l’Aquilaia a Scansano, una fattoria di 104 ettari con 28 di vigne inserite nella denominazione del Morellino. Dal 1980 è stato eletto varie volte nei consigli dei Consorzi di Tutela del Brunello di Montalcino e del Morellino di Scansano. È membro dell’Accademia Nazionale della Vite e del Vino e dell’Accademia dei Georgofili, la più antica e prestigiosa istituzione di agricoltura del mondo. Ha fondato il mensile “Gazzettino e Storie del Brunello e di Montalcino”, che è uscito dal 2000 al 2008. Nel 2016 ha pubblicato “Appunti per una storia di Montalcino e del Brunello”, una breve storia della città e del Brunello dalle origini ai nostri tempi. Dal sito https://www.fattoriadeibarbi.it/ 

Il dibattito, a partire dalla lettera di Alessandro di Valli Unite, si è ampliato. Queste sono le osservazioni e le indicazioni, di parere sostanzialmente diverso, da parte di Stefano Cinelli Colombini della Fattoria dei Barbi.

 

Il clima sta cambiando? Sai che novità. Ai tempi dei romani era così caldo che c’erano vigne a York, ma nel 406 era così freddo che il Reno gelò e permise il passaggio dei pesanti carri dei Vandali mentre nel medioevo la gelida Groenlandia era così temperata da essere battezzata green-land, terra verde. Caldo, freddo, alluvioni e siccità si succedono da sempre, con cicli solo in parte già noti. E poi c’è l’uomo, che è molto bravo nel distruggere e forse ha cambiato pure il clima. Non ne sono certo, ma quello che so è che i cambiamenti continui e imprevedibili sono la norma e chi fa agricoltura dovrebbe esserne conscio. Purtroppo il nostro orizzonte mentale è quello (assai breve) della nostra vita e non quello della storia, per cui coltiviamo in funzione di ciò che è successo ieri. Il guaio è che una vigna che si pianta oggi darà frutti per venti o trent’anni, e a quel punto tutto sarà diverso. Non solo il clima, ma anche i gusti dei consumatori. Per questo il viticoltore deve essere duttile e pragmatico, in questo lavoro non c’è spazio per l’improvvisazione o le ideologie se non nei brevi periodi felici. Che però durano poco. Le due difficili annate 2014 e 2017 ci dicono che siamo al termine di uno di quei periodi felici, perché due raccolti compromessi in quattro anni sono uno stress test che ha consumato ogni scorta e la maggior parte dei viticoltori non può permettersi un’altra annata negativa. Che però è possibile che accada. E allora? Mah, direi che è sia il caso di farci passare ogni traccia della “sbornia da successo” che ci ha illuso in questi ultimi anni, e di pensare a come rendere i vigneti esistenti (perché qui e ora viviamo di quelli) compatibili con i costi produttivi, con le richieste del mercato ma anche con annate estreme come il 2014 ed il 2017. E dobbiamo farlo in fretta, perché le scorte sono finite e ognuna di queste tre priorità può ucciderci. È facile? No, ma quali alternative abbiamo? Non voglio fare un elenco delle negatività, sono troppe e non ha senso parlarne. Vi dico solo quello che ho imparato in due anni duri come il 2014 e il 2017. Prima di tutto sarebbe utile ripensare ai sistemi di allevamento, perché la vite è una pianta plastica e questa è una cosa che si può modificare anche radicalmente con spesa relativa. Sia nelle piogge esagerate del 2014 che nella siccità del 2017 gli impianti da 3.000/4.000 piante per ettaro con cordone speronato tradizionale o libero sono quelli che hanno retto meglio, soprattutto quelli con palcature alte più ergonomiche e più lontane dagli animali e dall’umidità del suolo. Sarebbe il caso di ripensare a tutti quei sistemi di allevamento come il Guyot, l’alberello o gli impianti iper-densi da 6.000 piante per ettaro o più; richiedono tutti da 500 a oltre 1.000 ore di manodopera all’anno per ettaro, non danno una qualità migliore e hanno un’ombreggiatura tale (alberello escluso) da renderli molto vulnerabili alle malattie per cui obbligano a pesanti e ripetuti trattamenti. Non sono sostenibili, da nessun punto di vista. Chimica si, chimica no, bio, bio-dinamico o “naturale”? Fate come volete, ricordando che la viticoltura ha per fine la produzione di uva tutti gli anni, sostenibile per sempre e a costi compatibili con le tasche di chi acquista il vino. Per cui troppa chimica, vigneti a rittochino in aree dilavabili e scassi eccessivi sono devastanti perché non reggono nel tempo, ma altrettanto distruttivo è l’approccio “fai da te” di chi si illude di potersi valere solo delle proprie esperienze o di quelle di suoi amici parimenti privi di studi specifici; non è rifiutando la scienza accademica o sostenendo che i difetti sono caratteristiche che si costruisce il futuro, messa così l’idea giusta di eliminare la chimica diventa solo una moda o, peggio, una fissa ideologica che si regge solo sui pochi che la condividono. Non è sostenibile. Quali vitigni usare? Quel che volete, ma attenti; sangiovese, trebbiano e tutti gli autoctoni si sono evoluti nel siccitoso clima italiano, mentre i grandi vitigni internazionali vengono dalla Francia che è molto più piovosa. È vero che hanno il chicco più robusto e più resistente all’umidità, ma qui il problema è quasi sempre la carenza idrica e non l’eccesso per cui (salvo in rare zone) nell’Italia centro-meridionale hanno problemi almeno un anno su tre. È un rischio accettabile solo se rappresentano una percentuale modesta del vigneto aziendale, ma se si hanno troppi vigneti con varietà inadatte al clima, non costa poi molto reinnestarne una parte. E poi, in cantina? Oggi abbiamo uve più sane, vendemmie veloci e nei periodi ideali di maturazione e sempre più igiene, per cui c’è sempre meno bisogno di interventi chimici. Punterei su più fisica con più controlli di temperatura, più ghiaccio secco, più rimontaggi automatizzati e più macchine. Più scienza enologica e più meccanizzazione, per dare molto più tempo a chi lavora in cantina per curare in modo maniacale ogni dettaglio dall’arrivo dell’uva fino alla fermentazione, perché quello è il momento chiave; in pochi giorni si decide la qualità del vino. Orci, vasche in cemento grezzo e fermentini in legno? Bei giochini che costano tanto, per quanto vedo migliorano più il rapporto con i giornalisti che la qualità del vino. Viti trans-geniche resistenti alla siccità e allevabili senza trattamenti? Bella idea, proviamo e vediamo se funzionano e che sapore danno. Magari piace ai clienti, se non si prova non si sa, ma magari no per cui finché non so se funzionano non rinuncio al sangiovese su cui vivo. Ricordiamo che per trasformare l’intero vigneto Toscana ci vuole mezzo secolo, e se qui e ora non risolviamo i problemi esistenti chi di noi arriverà vivo a quella data? Irrigazione a goccia? Dio volesse, ma con un grande esempio di tempismo burocratico la Toscana ha varato nuova legge che impone dighe non oltre due metri e non oltre 5.000 metri cubi, proprio nell’anno più siccitoso a memoria d’uomo; per fare il bagno alle papere vanno benissimo, ma per irrigare fanno ridere! Servono a qualcosa queste esperienze? Non so, ma quale altra via c’è?