Gianni Zonin e la centralizzazione del Capitale Finanziario.

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Quando parliamo della famiglia Zonin bisogna rammentare, per non cadere in inutili qui pro quo, che non stiamo parlando soltanto di industriali del vino ma, e soprattutto, di banchieri. Faccio questa puntualizzazione perché la lettura dell’intervento di Gianni Zonin all’Università di Palermo deve avere una luce necessaria volta ad individuare sia le forme del discorso espresse che quelle, altrettanto rilevanti, inespresse. Il fatto che siano inespresse non afferisce né ad un dato morale né, tantomeno, a stupide ipotesi complottiste. L’inespresso è condizione di condivisione necessaria all’interno di un gruppo di potere perché ciò che si afferma sia pienamente compreso da quelle componenti che partecipano alla condivisione del potere medesimo. Dopo di che, ciò che viene dichiarato ha una funzione di tipo operativo: si tratta di un’opzione prescrittiva oltre che descrittiva.
Dunque, Gianni Zonin ha affermato quanto segue: «Il settore del vino in Italia conta 400.000 viticoltori. Però le aziende della dimensione della nostra Casa Vinicola si contano sulle dita di una mano.
Il “piccolo” (che era bello negli anni Sessanta, in tutti i settori dell’economia italiana) oggi è diventato un handicap che impedisce al nostro Paese di crescere e competere.
Pensate che in Australia le prime tre aziende vitivinicole controllano l’80 per cento della produzione e del commercio di vini di quell’intero Paese e negli Stati Uniti una winery californiana controlla da sola quasi un quarto del mercato americano.
Per continuare a competere in questo scenario, i produttori italiani non potranno che attenersi a tre regole:
– produrre vini di ottima qualità (e abbiamo storia, terroir e tradizione e tecnici per farlo in modo eccellente);
– dotarsi di un’ottima organizzazione di marketing e di vendita (e qui forse abbiamo ancora qualcosa da imparare, ma non ci manca né inventiva né fantasia per farlo al meglio);
– disporre di una dimensione aziendale, in grado di ottimizzare gli sforzi, e coniugare ottima qualità ed ottimo prezzo (ed è ciò su cui dobbiamo concentrare tutti i nostri sforzi e le nostre attenzioni).
Solo così il vino italiano potrà affrontare con successo la sfida della globalizzazione.» (Fonte: http://www.cronachedigusto.it/component/content/article/16119-gianni-zonin-troppe-piccole-cantine-in-italia-un-handicap-per-crescere-e-competere.html)
Gianni Zonin sa benissimo che il successo della vendita, ad elevato prezzo, di prodotti di alta gamma, afferenti, tanto per fare degli esempi, alle zone di Barolo, Barbaresco, Montalcino, Bolgheri,Valpolicella… non hanno bisogno di particolari dimensioni aziendali per potersi affermare in modo oligarchico nel mercato globale. Il punto è semmai un altro: la liquidità monetaria, ovvero i liquidi che si aggiungono al liquido.
Occorre ora fare un piccolo salto indietro, per poter fare due balzi in avanti, in comprensione.
Già in Marx, sebbene la produzione capitalistica veda le imprese contrapposte l’una all’altra come produttrici di merci reciprocamente indipendenti e la competizione capitalistica si presenti di norma come “ripulsione reciproca di molti capitali individuali”, è possibile rilevare un’opposta tendenza alla “concentrazione di capitali già formati” e dunque al superamento della loro autonomia individuale, che si realizza mediante l’“espropriazione del capitalista ad opera del capitalista, della trasformazione di molti capitali minori in pochi capitali più grossi” (MARX K. ([1867-1885-1894] 1994), Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro I, II e III, Editori Riuniti, Roma., p. 685-686). Il processo di centralizzazione può in tal senso concretizzarsi in vari modi: semplicemente attraverso l’uscita dal mercato dei capitali più deboli; oppure tramite liquidazione, acquisizione o fusione aziendale, che implicano cambiamenti nel diritto di proprietà; oppure anche in modo surrettizio, quando la proprietà formale del capitale resta frammentata ma il controllo si concentra in poche mani, come nei settori in cui le catene produttive sono basate sull’outsourcing oppure, più in generale, come accade con la massa dei capitali la cui proprietà è dispersa tra una miriade di azionisti e depositanti ma la cui gestione è demandata ai vertici di società per azioni e istituti bancari. Per Marx, le leve più potenti della centralizzazione sono due. In primo luogo vi è la “lotta della concorrenza”, che vede prevalere i capitali più grossi, caratterizzati da una maggior scala di produzione e quindi da una più elevata produttività, e che “termina sempre con la rovina di molti capitalisti minori, i cui capitali in parte passano nelle mani del vincitore, in parte scompaiono” (ivi, pp. 686). Ma soprattutto vi è il “sistema del credito”, che attira mediante fili invisibili i mezzi pecuniari disseminati nelle mani di capitalisti individuali e infine si trasforma “in un immane meccanismo sociale per la centralizzazione dei capitali” (ibid.). Il processo di centralizzazione associato allo sviluppo del sistema creditizio e finanziario favorisce dunque l’immissione di enormi quantitativi parcellizzati di capitale nelle mani di una ristretta “aristocrazia finanziaria”, dedita all’organizzazione del capitale su base privata senza aver bisogno di assumerne la proprietà privata. La tendenza alimenta così una contraddizione fondamentale, che consiste nella “soppressione del capitale come proprietà privata nell’ambito del modo di produzione capitalistico stesso” e che incarna, almeno in potenza, una “forma di transizione verso un nuovo modo di produzione” (ivi, p. 523). Per questa via, aggiungerà Hilferding, “i settori del capitale industriale, commerciale e bancario, un tempo divisi, vengono posti sotto la direzione comune dell’alta finanza”, secondo un processo che “ha come base il superamento della libera concorrenza” (HILFERDING R. ([1910] 2011), Il capitale finanziario, Mimesis, Milano.p. 393). La centralizzazione, in questo senso, è assunta come elemento costitutivo del capitalismo moderno: in ultima istanza, “capitale finanziario significa capitale unificato” (ibid.).
Per cui si può agevolmente affermare che il sistema centrale monetario (BCE, FMI…) segue interviene sui tassi d’interesse in base alle condizioni di solvibilità dei molteplici attori del sistema economico. Più precisamente, il banchiere centrale può trovarsi ad assumere il ruolo di ‘regolatore’ di un conflitto tra quei capitali che sono in grado di accumulare attivi e sono quindi ampiamente solvibili, e quei capitali che invece tendono al passivo e quindi all’insolvenza.
Se il ritmo della centralizzazione oltrepassa il limite della sua sostenibilità politica, sussiste il rischio che la coalizione dei capitali in passivo prenda il sopravvento e imponga una modifica del quadro istituzionale, con cambiamenti nell’azione della banca centrale, nell’indirizzo generale di politica economica e persino nelle relazioni economiche internazionali, tali da imporre una frenata e al limite un arretramento dei processi di centralizzazione. (BRANCACCIO E., PATALANO R. e ZEZZA G. (2014), “Euro: quale destino? Dibattito sul ‘monito degli economisti’”, Critica Marxista, n. 5, pp. 17-31.) (1)
Si può dunque opporre ad una logica dimensionale un’altra logica dimensionale? Forse sì, purché si sappia che non è condizione sufficiente. Allora? Di senso. E di significato.

(1) I riferimenti sono tratti dal saggio: Emiliano Brancaccio, Orsola Costantini, Stefano Lucarelli, Crisi e centralizzazione del capitale finanziario in “Moneta e Credito”, vol. 68 n. 269 (2015), 53 – 79

 

Per cantieri. Tra San Michele Arcangelo e Uwe Seeler. Di Emanuele Giannone e Alice Aliceinwonderland

Seeler-England_FullViewIl luogo comune spesso è il riempitivo di una conversazione che langue. Parlando pour parler, trae in inganno perché riconosce i soggetti attraverso le caratteristiche assegnate a un gruppo, reale o ipotetico/mitico. A volte, però, guadagna lo status di dato di fatto. Di matrimoni d’amore, statisticamente, ce ne sono pochi. Le relazioni enogastronomiche, purtroppo, confermano il dato. Queste ultime, però, sono in fondo più elastiche di quelle umane, più disposte al rischio e spesso si risolvono in inaspettati happy ending. Perché spesso, molto più spesso di quanto sia accettabile dire, per raggiungere il piacere basta la bottiglia giusta. Di contro, la migliore tavola gourmet, senza una valida spalla, fa sempre cilecca. Tra l’altro, può succedere di arrivare in una città dall’animatissima kulinarische Szene senza aver di quest’ultima studiato i luoghi e i nomi.

Per loro fu proprio (e forse anche meglio) così.

Arrivarono nella ricca e colta Amburgo, la più popolosa città-non-capitale in Europa, libera e anseatica1 quindi cosmopolita per natura; la Hammonia votata, come il suo duomo, all’archistratega San Michele Arcangelo. Amburgo, duplice ponte – sul Baltico e sul Mare del Nord – e sede della gloriosa Hamburg-Amerika Line, del primo club per nudisti della storia e di una delle applicazioni churchilliane della teoria del maximum use of fire, coi suoi venti di fuoco a 75 metri al secondo, privilegio che condivise con Dresda e Colonia. lenzLa città i cui abitanti, secondo il magnifico e almeno quaggiù in Gelminia misconosciuto Siegfried Lenz2, sono tutti nati su un bastimento in viaggio verso il Regno Unito, e che non a caso ospita un Teatro Inglese stabile. Città dove il Regno Unito, per reciprocità, mandò a debuttare un certo quartetto di Liverpool. Amburgo, città di Uwe Seeler, figura eroico-romantica del calcio vecchio e vero, incluso il partido del siglo allo stadio Azteca3, e della Reeperbahn con le sue peripatetiche d’assalto, gli Historische Hurentours4 e le fallofanìe da vetrina. Ecco: loro, arrivarono qui, sapendo magari tutto questo ma ignorando tanto gli indirizzi per le bottiglie giuste, quanto quelli celebrati dai gourmet. L’ignoranza fu invero proficua perché li premiò a pranzo con sorsi e morsi neorealisti, e a cena con molte sorprese. Immedesimatevi: lui lavorava nei cantieri navali. Frastornato e furtivo, munito di radio e di casco e di altri dispositivi antinfortunistici, al suono della sirena di mezzodì scappava dal cantiere al di là del fiume, correva attraverso i 460 metri dell’Alter Elbtunnel5, tunnelriemergeva e trovava lei al Molo 5 del Lungofiume di St. Pauli, seduta in composta attesa davanti a una Erdinger Weißbier, bavarese; e lui, operaio acculturato e pedante e per ciò stesso banausico, tanto per cominciare obiettava l’antilogia della scelta: bere birra bavarese in città anseatica = bere Birra Messina a Bressanone. E opponeva Pilsener filologiche, le Holsten e le Jever e le Astra, nord-teutoniche che più nord-teutonica di quelle avrebbe potuto attaccarsi solo a una Flensburger. E insieme, agape e koinonìa, guardavano vaporetti e trasporti e mangiavano pane con Matjes6 o Nordseekrabben7 o salmone affumicato, ogni tanto bevendoci sopra un Korn8. A cena, invece, andavano a tentoni. E col tâtonnement gli disse abbastanza bene: Nel Quartiere dei Portoghesi, in particolare, o altrove lungo l’Elba. landmesserFinché un pomeriggio, stanchi di birre e Wurst e marinate, già soddisfatte le pulsioni esotiche grazie a un portoghese e ai suoi pesci, e a una polacca e ai suoi pierogi, un po’ meno per un provenzale e per le sue salse, studiosi quindi di evadere dalla teoria di maiale e pesci in conserva e malti e luppoli e grani, gli risovvenne Sorrentino e cioè che le radici sono importanti; imperciocché si risolsero di ritornare al vino e di interrogare la rete neurale alla ricerca di una Vinothek o di un Weinladen con buone credenziali. l’Oracolo di Dell gliene indicò una alla Schanze9. Trovate il nome e l’indirizzo in calce. Immediatamente qui sotto trovate invece la bottiglia con cui ne uscirono.

Chassagne – Montrachet 2008 1er Cru, Domaine Louis Jadot. Un incontro casuale, nella vineria nascosta tra tigli in fiore e case di mattoni colorati allo Schanzenviertel. Vineria in teoria già chiusa, in pratica, invece, come in attesa del nostro casuale fare capolino. Si era fatto tardi, in effetti. Può capitare che, fra un riesling e uno champagne, ci si perda in discorsi sulla vita, tanto più aromatici quanto più elevati alla presenza di un calice partecipe. E capita anche, così, che tutte le cucine decidano di chiudere, che i cuochi incrocino le braccia e, sghignazzando un po’, invitino alla ricerca della partner giusta, della discreta amante o della silenziosa geisha in grado di accompagnare la serata del tuo Borgogna bianco. E capita, proprio così, passata la mezzanotte, di devolvere la Borgogna in bianco a uno stralunato rosticcere anatolico della Reeperbahn, il miglio più pop e più porno della Germania.

Ci hanno sparsi per il mondo come coriandoli. Al centro di Amburgo sono atterrate manciate di mangerie turche. È qui che troveremo quello che il fato ha insignito del ruolo di coprotagonista di questa notte amburghese, un po’ turca e un po’ francese. Lui, il Borgogna bianco, saluta con sussurri, discrezione e compostezza, elegante e silenzioso, accogliente senza affannarsi in civetterie e moine. Borgogna ritroso, non burbanzoso. In un certo qual modo, la sensazione è che sia lui ad annusare questi strani personaggi che gli hanno regalato una serata, lui nobile, loro popolani,  in giro per locali; e poi il brivido di una corsa in S-Bahn, l’orrore della refrigerazione in un frigidaire spento, in un albergo del centro. Impiega poco, lui, a farsi un’idea dei suoi compagni, ne intuisce le buone intenzioni, apprezza che si siano preoccupati di prevedere per lui il giusto destino, acquistando last minute due calici veri, evitandogli di annaspare in un alberghiero portaspazzolino di pura plastica. Allora sì, si rilassa, si lascia andare, comunica un mondo dipinto in due soli colori, distico ed elegiaco, ma in tutta la gamma delle loro sfumature:

Pagine Bianche: “Ah, i vini d’assemblage…”, sentenzia con scorno il purista-feticista iperburgundo o modaiolo, che guarda come a sfrido o collettame la bottiglia generalista. Di una Maison, tra l’altro, che di Chassagne-Montrachet propone La Romanée, due Morgeot – il monopole Clos de la Chappelle e l’Abbaye de Morgeot – Caillerets, Chenevottes, Grande Montagne, Grandes Ruchottes, Champs Gains, Les Baudines e Les Embazées. Noi, che semo notoriamente gente de borgata e di börek, ci poniamo invece all’ascolto con curiosità e attenzione. Delicatezze di mughetto e altri fiori bianchi, pesca bianca, polpa di pera abate, aloe, salsedine e conchiglie. Il tutto, assiemato con cura e partecipazione su uno sfondo solare, da calor bianco.

Pagine Gialle: giallo zafferano, giallo come ginestra ed elicriso, caldo e sinuoso come i soli impressionisti; giallo come la buccia di limoni e mandarini, come l’infuso della camomilla. Rotondo, questo giallo, che lentamente si fonde con il verde più puntuto e dritto.

Pagine Verdi: quello degli aghi di pino, dell’agrifoglio, del timo, del cerfoglio, di boschi oscuri e impenetrabili, del lime e del vetiver. Mistero e profondità, grandezza senza bisogno di grandeur. La bocca gode di queste alternanze di corrente, del caldo/freddo, del giorno/notte che fanno desiderare un altro sorso e un altro ancora. Risoluto e signorile, scher–mistico per ferma grazia e per slancio. Un vino lustrale dopo tanto ottimo e opimo cereale. Soprattutto, nel far sentire un börek turco come la regina della notte, un vino gentiluomo. Quindi è il nostro vino ufficiale. Ad Amburgo.

Citiamo solo i buoni. Herzlichen Dank an:

Jacques’ Wein-Depot

Schanzenstraße 34

20357 Hamburg-Sternschanze

http://www.jacques.de/depot/72/hamburg-sternschanze/

 

Restaurant Porto

Portugiesenviertel, Ditmar-Koel-Straße 15

20459 Hamburg

http://www.restaurante-porto.de

 

Captain’s Dinner

Bei den St. Pauli Landungsbrücken

Brücke 3

20359 Hamburg

 

Zur scharfen Ecke – Älteste Hafenkneipe auf St. Pauli

Davidstraße 1-3

20359 Hamburg

Bonus: l’atmosfera retrò-portuale.

 

Bar, Musiker- und Bandhotel Kogge

Bernhard-Nocht-Straße 59

20359 Hamburg

http://www.hamburg-kogge.com

Bonus: non so se fosse un resident, ma il panciuto e arruffato DJ ha sfornato una serratissima e magnifica selezione di classici e rarità black, soul e afro, a spasso per cinque decenni e con evidente propensione per I Seventies. L’annesso hotel non promette lusso, né quiete, ma la definizione di albergo per musicisti e gruppi ci piace tanto.

1 È tuttora Freie und Hansestadt Hamburg.

2 Oltre ad aver scritto Gente di Amburgo, Lenz è l’autore di almeno tre capolavori: Lezione di Tedesco, Un Minuto di Silenzio e il racconto La Nave Faro.

3 Uwe Seeler è stato la bandiera dell’Hamburger SV dal 1953 al 1972. Ha vinto poco, ma scelse di vestire solo quella maglia.

4 Il puttan-tour storico. A scanso di equivoci: non prevede alcun esborso se non quello per la visita guidata. È un excursus storico sulla prostituzione ad Amburgo con passeggiata per il Kiez (La Reeperbahn) e le strade limitrofe.

5 Dei due tunnel sotto l’Elba, questo è il più vecchio (1911).

6 Alimento alloctono e povero ma forse noto anche qui conciossiacosaché l’ha sdoganato e lo vende nei suoi mega-spacci, insieme a patatine e biscotti e candeline e conserve, il più amato e ricco spacciatore di mobili della galassia. Trattasi di filetto di aringa marinato con aceto, aneto e pepe. Dà il meglio di sé servito con scalogno o cipollotto su fette imburrate di pane di segale.

7 I minuscoli gamberetti del Mare del Nord,

8 Distillato di grano o altri cereali, tipico delle regioni tedesche del Nord.

9 O Schanzenviertel: il quartiere che sta ad Amburgo come il Pigneto sta a Roma. Distinto nettamente da St. Pauli, che nella sua parte più tristemente nota è una specie di Trastevere anseatica locupletata di bordelli, etère, prosseneti e pessime pizzerie; e che, invece, procedendo proprio verso la Schanze, mostra ancora le origini popolari. E le piratesche bandiere nere della squadra di calcio di quartiere, una sorta di variante anarchica, non pandoristica del Chievo Verona.

le foto:

1) Uwe Seeler in azione di gioco tratta da haz.de

2) Siegfried Lenz tratta da wikipedia

3) Alter Elbtunnel da wikipedia

4) August Landmesser. Operaio ai cantieri di Amburgo che rifiutò il saluto nazista Tratto da ticinolive.ch

L’uva puttanella.

scotellaro“L’uva puttanella[1]” è il romanzo autobiografico incompiuto di Rocco Scotellaro, morto a soli 30 anni nel 1953, che sarà pubblicato postumo da Laterza con una prefazione di Carlo Levi nel 1955. Rocco Scotellaro, figlio di un calzolaio e di una levatrice, sindaco a soli 23 anni di Tricarico, in Lucania, e militante del Partito socialista di unità proletaria è uno strenuo difensore del bracciantato agricolo e proletario della sua terra: divide i pasti e i pochi soldi con gente che sta peggio di lui. I suoi avversari politici lo fanno arrestare con false accuse di truffa e di peculato: viene e rilasciato dopo 45 giorni di carcere a Matera per infondatezza  delle stesse, addotte per finalità politiche: «I versi di Scotellaro erano fortemente legati alla loro realtà. Non avevano da parlare del movimento contadino quale poteva essere in teoria, ma dei limiti e delle possibilità che in pratica esprimeva. Alla rivolta del brigante, come alla tessera della Dc o alla scelta dell’emigrazione, Scotellaro aveva da opporre niente meno che il partito, l’organizzazione, il socialismo. Per questo nelle sue poesie non ci sono eroi, ma solo uomini che hanno paura di morire e nondimeno muoiono (Due eroi) che sanno che la rivoluzione non ammette pace, e tuttavia la cercano (Mio padre, Di noi fissi). È la paura e l’attrazione per la perdita del proprio mondo (L’amica di città, Salmo alla casa e all’emigrante, Dichiarazione d’amore ad una straniera, Lo scoglio di Positano) perdita che resta  necessaria in vista di quell’alba, che Scotellaro era sicuro di scorgere in tutto ciò che lo circondava[2].» L’uva puttanella è una metafora dell’Italia meridionale e contadina  di fine anni ’40: fatta di acini piccoli, irregolari, ma maturi, che danno un po’ di succo. Un’uva irregolare, anarchica, anti-organizzatrice, come l’ umanità da cui proviene: «L’ordine che non c’è non lo troverete come appunto è nel grappolo d’uva che gli acini sono di diversa grandezza anche a volere usare la più accurata sgramolatura. Questi sono acini piccoli, aspireni, seppure maturi che andranno egualmente nelle tina del mosto il giorno della vendemmia. Così il mio paese fa parte dell’Italia. Io e il mio paese meridionale siamo l’uva puttanella, piccola e matura nel grappolo per dare il poco succo che abbiamo». «Quel disordine patologico dell’Uva», commenta Muscetta, «egli lo assumeva a simbolo, ideale e vanto della sua anarchia di artista, di disprezzo per ogni principio di organizzazione…fino a definire la cultura dell’uva puttanella come una cultura marcata da anarchismo, immaturità, vagheggiamento narcisistico[3]». Briganti_1862_from_BisacciaQui una poesia bellissima, una “marsigliese”come  ebbe a definirla Carlo Levi, dove il vino, nel tempo momentaneo della festa, solleva, accomuna, stempera, ma non salva. E’ un desiderio momentaneo di leggerezza, che sospende il percorso di un sentiero da cui non si può tornare indietro. La strada è stata  tracciata verso una nuova alba.

 

 

 

Sempre nuova è l’alba. (1948)

Non gridatemi più dentro,

non soffiatemi in cuore

i vostri fiati caldi, contadini.

Beviamoci insieme una tazza colma di vino!

che all’ilare tempo della sera

s’acquieti il nostro vento disperato.

Spuntano ai pali ancora

le teste dei briganti, e la caverna

l’oasi verde della triste speranza

lindo conserva un guanciale di pietra…

Ma nei sentieri non si torna indietro.

Altre ali fuggiranno

dalle paglie della cova,

perché lungo il perire dei tempi

l’alba è nuova, è nuova.

 


[1] Rocco Scotellaro, L’uva puttanella. Contadini del sud. (prefazione di Carlo Levi), Laterza, Bari 1964

[2] Alessandrea Reccia, La poesia di Scotellaro, in “L’ospite ingrato”. Rivista online del Centro Studi Franco Fortini http://www.ospiteingrato.org/Sezioni/Scrittura_Lettura/Scotellaro_Reccia.html

[3] Carlo Muscetta, comunista, è un grande amico di Rocco Scotellaro. Tra loro vi è uno scambio epistolare che durò diversi anni, dal 2 maggio 1949 al 6 febbraio 1952, ora raccolto in “Rocco Scotellaro e la cultura dell’Uva Puttanella” (Valverde 2010). Nel 1954, sulla rivista “Società” diretta da Gastone Manacorda e dallo stesso Muscetta, compare un saggio di quest’ultimo in memoria dell’amico Scotellaro prematuramente scomparso. Muscetta riporta qui la definizione che lo Scotellaro dà di “uva puttanella”.

La circolarità delle rappresentazioni: l’Harmoge di Walter de Battè

harmogeIl problema della rappresentazione investe sostanzialmente tre livelli: i primi due riguardano i soggetti che si adoperano a parlare del vino, di come si formano le loro rappresentazioni mentali, da cui fluiscono il ‘senso comune’ sul vino e le autorappresentazioni del gruppo sociale enunciante. Il terzo livello tocca la rappresentazione delle rappresentazioni: quello che Alfred Schutz[1] avrebbe definito ‘la tipizzazione delle tipizzazioni’, e che, non molto diversamente, Clifford Geertz[2]avrebbe spiegato come piano di ‘interpretazione di interpretazioni’.
Le rappresentazioni, dunque, hanno la forza nel costituirsi come ambiente nel quale siamo immersi attraverso due processi: di ancoraggio e di oggettivazione. Nessuna rappresentazione che sia tale nasce dal nulla, ma trae origine da altre rappresentazioni. Come già sostenuto da Schutz: «se nelle nostre esperienze ci imbattiamo in qualcosa di precedentemente sconosciuto (…) diamo inizio ad un processo di analisi. Dapprima definiamo il nuovo fatto; cerchiamo di afferrare il suo significato; trasformiamo poi gradatamente il nostro schema generale di interpretazione del mondo in modo tale che il fatto strano e il suo significato si facciano compatibili e coerenti con tutti gli altri fatti della nostra esperienza e con i loro significati[3].»
La rappresentazione sociale quindi è una forma di conoscenza pratica, cioè serve ad orientarci sul mondo e sugli altri: «L’universo simbolico crea un ordine per la percezione soggettiva dell’esperienza biografica. Le esperienze appartenenti a sfere di realtà diverse sono integrate dall’incorporazione nello stesso universo di significato che le abbraccia tutte. Per esempio, l’universo simbolico determina il significato dei sogni nella realtà della vita quotidiana, ristabilendo in ogni caso la condizione di supremazia di questa ultima e mitigando lo choc che accompagna il passaggio da una realtà ad un’altra. Le sfere di significato che altrimenti rimarrebbero isolate e incomprensibili nella realtà della vita quotidiana vengono così collocate in una gerarchia di realtà , diventando ipso facto intelligibili e meno terrificanti[4].»
In una presentazione del suo vino ‘Harmoge’, il vignaiolo e produttore delle Cinque Terre (Riomaggiore), Walter De Battè afferma, a proposito della vinificazione in bianco dei suoi vini che «buttare le bucce dell’uva significa buttare via il territorio, perché le bucce dell’uva sono il territorio». La vinificazione in bianco[5] si caratterizza, per la grandissima parte delle vinificazioni, per l’eliminazione delle vinacce. Walter De Batté fa, assieme ad un esiguo manipolo di produttori italiani, una vinificazione in bianco sulle bucce, come avviene solitamente per i vini rossi. Dietro l’affermazione fatta da Walter non c’è esclusivamente una rivendicazione di autonomia sperimentale nei settori della vinificazione e dell’enologia, ma anche un’affermazione politica sul vino ed il suo ancoraggio fisico, minerale, climatico ecc. che esprime un forte legame tra il nettare di Bacco e un luogo, le sue storie (umane, podologiche, agricole…), il suo ‘terroir’ (altro termine intraducibile nella lingua italiana che ha una fortissima vocazione simbolica e appunto politica). La rappresentazione del vino di Walter De Batté serve quindi a descrivere un oggetto, il vino ed i processi della sua produzione; serve a prescrivere una sapere pratico di vinificazione per sé, ma anche a coloro che lo ascoltano, lo leggono…; serve a costruire una significazione di appartenenza del vino e quindi a collocarlo entro una lettura politica, sociale e simbolica ben precisa ed infine contribuisce, insieme ad altri vignaioli, enologi, sommelier, agenti di vendita, alla costruzione di un senso comune diffuso, oggettivato ed irriflesso. Naturalmente il processo di costruzione del senso comune ha bisogno di altri fattori di supporto, ed è un processo mai finito all’interno delle comunità che lo formano ed utilizzano: si torna quindi a Foucault e al discorso che non solo crea la propria verità, ma che la impone socialmente.
L’ancoraggio funziona soltanto se il nuovo oggetto, e nel nostro caso il metodo di vinificazione di De Batté, è legato ad elementi pre-esistenti credibili e a risorse simboliche tali da reggere lo sforzo. Questo significa anche che il metodo di vinificazione in bianco deve trovare, nel gruppo sociale che se ne appropria, un accostamento con il proprio patrimonio simbolico preesistente.
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[1] Cfr Alfred Schutz, Collected papers, M. Nijhoff, The Hague 1970 – 1973/ Saggi sociologici, Utet, Torino 1979
[2] Clifford Geertz, The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York 1973 /Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1998, pag. 57
[3] Alfred Schutz, Saggi sociologici, cit. pag. 389
[4] Peter L. Berger, Thomas Luckmann, The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge, Garden City, NewYork 1966 / La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna 1997, pag. 139
[5] Si caratterizza, anche se ci sono importanti eccezioni, dall’assenza di contatto tra mosto e vinacce (macerazione).

Vini dei mondi possibili e ipotesi contro-fattuali.

“Non possiamo definire nulla con assoluta precisione.

Se proviamo a farlo, ci coglie quella paralisi di pensiero che è tipica dei filosofi…

Uno dice all’altro: “non sai di cosa stai parlando”.

E l’ altro risponde:

“Che cosa intendi per parlare?

Che cosa intendi per sapere?

Che cosa intendi per cosa?”

 Richard Feynman

 

mondi parallleli“Se è vero dire che un vino è bianco o non è bianco, è necessario che sia bianco o non bianco; e se è bianco o non bianco, era vero asserirlo o negarlo. Se bianco (o il non bianco) non è, si dice il falso; e se si dice il falso, non è. Di conseguenza, è necessario che l’affermazione o la negazione sia vera. Ne segue che nulla è o sta accadendo, sarà o non sarà, per caso o fortuitamente, ma ogni cosa sarà o non sarà necessariamente e non fortuitamente (dice infatti il vero o chi asserisce o chi nega).

(…)Vediamo che ciò che sarà  ha origine sia dal deliberare che dall’agire, e che in generale, nelle cose che non sono sempre in atto c’è la possibilità di essere e di non essere; qui le possibilità sono aperte, sia l’essere che il non essere, e di conseguenza sia l’aver luogo che il non aver luogo. Molte sono le cose che ci è manifesto che stanno in questo modo. Per esempio, è possibile per questo vino essere fatto da un enologo, e tuttavia non verrà fatto da un enologo se sarà stato prodotto prima. Ma, ugualmente anche il suo non essere fatto da un enologo è  possibile, in quanto non potrebbe accadere che sia stato fatto prima a meno che il suo non essere stato prodotto non sia possibile. Di conseguenza, è lo stesso per tutti gli altri eventi di cui si parla nei termini di questo tipo di possibilità. Chiaramente, dunque, non ogni cosa è o accade di necessità; alcune cose accadono fortuitamente, e per nulla di più l’affermazione o la negazione è vera…[1]” Nel capitolo 9 di “Sull’interpretazione” Aristotele presenta un argomento contro il principio di bivalenza, ovvero la tesi secondo cui ogni enunciato (assertivo) è vero o falso.  Diversamente, per quanto riguarda il futuro, ogni asserzione non necessaria si presuppone possibilmente vera o possibilmente falsa, dove per possibile si intende potenziale. Si apre qui la disanima degli enunciati contingenti che aprono al dilemma dei futuri contingenti[2]. Se il primo principio analizzato è quello della bivalenza, il secondo è quello del terzo escluso (tertium non datur), mentre il terzo ed ultimo riguarda il principio di non contraddizione: tra due enunciati contraddittori non può esservi un medio.

Il Medioevo (Abelardo utilizza il commento di Boezio al testo di Aristotele) farà un salto qualitativo nella valutazione delle asserzioni modali, innanzitutto distinguendo gli enunciati assertori, come “Il vino è un alimento”, oppure “Il vino non è un alimento”, che riguardano l’inerire (de inesse), cioè il possedere o meno una determinata proprietà dalle asserzioni modali, che specificano il modo secondo cui il soggetto possiede la proprietà in questione. Tra le asserzioni modali si distinguono poi quelle de dicto, se il modo che le qualifica si riferisce all’intera frase: “il vino biologico non è vino naturale” (necessariamente vero); oppure de re: “il vino biologico non è vino necessariamente naturale” oppure “il vino biologico non è naturale necessariamente”, se una cosa ha o non ha un certa proprietà in modo necessario. Questa distinzione tra le proposizioni modali (de dicto/de re) giunge  a noi, attraverso il dibattito filosofico, linguistico e matematico, che attraversa un paio di millenni, più o meno immutata.

Il lascito secolare di queste pratiche lessicologiche sono i ‘mondi possibili’: “Mr Tupman espresse ancora il vivo desiderio di partecipare alla festa; ma non trovando riscontro nello sguardo offuscato di Mr Snodgrass né in quello distratto di Mr Pickwick, si dedicò con grande interesse al vino di Porto e al dessert che erano stati appena portati in tavola. Il cameriere si ritirò e li lasciò a godersi in pace quel paio di ore deliziose che coronano i pasti. «Chiedo perdono, signore», prese a dire lo sconosciuto, «bottiglia ferma – fatela girare – direzione del sole, dalla parte delle asole – fino all’ultima goccia». Si scolò il bicchiere che aveva riempito due minuti prima e se ne versò un altro con l’aria di chi quell’abitudine ce l’ha nel sangue. Il vino venne fatto girare e fu subito ordinata una nuova scorta. L’ospite chiacchierava, i pickwickiani ascoltavano. In Mr Tupman, a ogni istante che passava, cresceva la voglia di andare al ballo. Mr Pickwick, raggiante, trasudava benevolenza da tutti i pori; Mr Winkle e Mr Snodgrass dormivano della grossa.[3]

Potremmo affermare, con David Lewis, esegeta del realismo modale, che “ci sono molti modi in cui le cose avrebbero potuto essere, oltre al modo in cui effettivamente sono.” Questi mondi possibili, inclusivi, isolati gli uni dagli altri, causalmente indipendenti, che condividono proprietà esemplificate dagli oggetti che appartengono a ciascun mondo esistono parallelamente al nostro, o meglio ci introducono nuovamente al discorso aristotelico sulla potenzialità e a quello, ben più pernicioso, sulla verità.

Partiamo allora da quello che Roland Barthes chiamò “il verosimile critico”: al di là di ogni metodo, il verosimile critico, nel dibattito su come dovrebbe essere il vino, si pone al di qua di ogni ragionevole dubbio. Innamorato dell’evidenza, il verosimile critico, elabora regole che non si possono trasgredire, a meno che non si voglia toccare la natura stessa delle cose: “i disaccordi diventano deviazioni, le deviazioni errori, gli errori peccati, i peccati morbi, i morbi mostruosità[4].”

Alla base di tutto, probabilmente, c’è la funzione totalitaria del verbo ‘essere’: “ancora oggi, dal punto di vista strategico, il verbo essere serve un po’ a tutto, è dotato dei significati più contraddittori; sbrigativo, discreto e innocente, trasforma, con un colpo di bacchetta magica, un’opinione in verità, una speranza per il futuro in antichissima realtà, una semplice affermazione in Natura universale; arma, utensile o velo, a seconda delle necessità della Causa, è lo Scapino[5] della retorica oltranzista. […] Ecco cosa c’è nel verbo essere della retorica oltranzista: una furibonda collusione tra l’indicativo e l’ottativo, la trasformazione impossibile del desiderio in fatto, del futuro in passato, al di sopra di un presente che resiste[6]”.

Dunque, per concludere, il vino non ‘è’ o non ‘non è’, ma potrebbe…

 


[1] Il vino e l’enologo sono miei, il resto di Aristotele.

[2] Cfr. Massimo Mugnai, possibile NECESSARIO, Il Mulino, Bologna 2013

[3] Il circolo Pickwick (The Posthumous Papers of the Pickwick Club, abbreviato in The Pickwick Papers, 1836) fu il primo romanzo dello scrittore inglese Charles Dickens.

[4] Roland Barthes, Critica e verità, Einaudi, Torino 2002, pag. 20

[5] Scapino Maschera del teatro italiano, figlio di Brighella, che rappresenta il servo incostante, intrigante, spiritoso, mentitore e millantatore, detto anche Scappino. Indossava il camicione e i pantaloni bianchi degli Zanni, cui in seguito si aggiunsero una livrea listata di verde. Celebri S. furono F. Gabrielli, G. Bissoni, bolognese (inizi 18° sec.), e A. Ciavarelli, napoletano (18° sec.). Molière ne fece il protagonista della commedia Les fourberies de Scapin (1671). Teccani.it

[6] R. BARTHES, Mythologies, du Seuil, Paris 1993, trad. it. di L. Lonzi, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, pp. 263-265.

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