Quando parliamo della famiglia Zonin bisogna rammentare, per non cadere in inutili qui pro quo, che non stiamo parlando soltanto di industriali del vino ma, e soprattutto, di banchieri. Faccio questa puntualizzazione perché la lettura dell’intervento di Gianni Zonin all’Università di Palermo deve avere una luce necessaria volta ad individuare sia le forme del discorso espresse che quelle, altrettanto rilevanti, inespresse. Il fatto che siano inespresse non afferisce né ad un dato morale né, tantomeno, a stupide ipotesi complottiste. L’inespresso è condizione di condivisione necessaria all’interno di un gruppo di potere perché ciò che si afferma sia pienamente compreso da quelle componenti che partecipano alla condivisione del potere medesimo. Dopo di che, ciò che viene dichiarato ha una funzione di tipo operativo: si tratta di un’opzione prescrittiva oltre che descrittiva.
Dunque, Gianni Zonin ha affermato quanto segue: «Il settore del vino in Italia conta 400.000 viticoltori. Però le aziende della dimensione della nostra Casa Vinicola si contano sulle dita di una mano.
Il “piccolo” (che era bello negli anni Sessanta, in tutti i settori dell’economia italiana) oggi è diventato un handicap che impedisce al nostro Paese di crescere e competere.
Pensate che in Australia le prime tre aziende vitivinicole controllano l’80 per cento della produzione e del commercio di vini di quell’intero Paese e negli Stati Uniti una winery californiana controlla da sola quasi un quarto del mercato americano.
Per continuare a competere in questo scenario, i produttori italiani non potranno che attenersi a tre regole:
– produrre vini di ottima qualità (e abbiamo storia, terroir e tradizione e tecnici per farlo in modo eccellente);
– dotarsi di un’ottima organizzazione di marketing e di vendita (e qui forse abbiamo ancora qualcosa da imparare, ma non ci manca né inventiva né fantasia per farlo al meglio);
– disporre di una dimensione aziendale, in grado di ottimizzare gli sforzi, e coniugare ottima qualità ed ottimo prezzo (ed è ciò su cui dobbiamo concentrare tutti i nostri sforzi e le nostre attenzioni).
Solo così il vino italiano potrà affrontare con successo la sfida della globalizzazione.» (Fonte: http://www.cronachedigusto.it/component/content/article/16119-gianni-zonin-troppe-piccole-cantine-in-italia-un-handicap-per-crescere-e-competere.html)
Gianni Zonin sa benissimo che il successo della vendita, ad elevato prezzo, di prodotti di alta gamma, afferenti, tanto per fare degli esempi, alle zone di Barolo, Barbaresco, Montalcino, Bolgheri,Valpolicella… non hanno bisogno di particolari dimensioni aziendali per potersi affermare in modo oligarchico nel mercato globale. Il punto è semmai un altro: la liquidità monetaria, ovvero i liquidi che si aggiungono al liquido.
Occorre ora fare un piccolo salto indietro, per poter fare due balzi in avanti, in comprensione.
Già in Marx, sebbene la produzione capitalistica veda le imprese contrapposte l’una all’altra come produttrici di merci reciprocamente indipendenti e la competizione capitalistica si presenti di norma come “ripulsione reciproca di molti capitali individuali”, è possibile rilevare un’opposta tendenza alla “concentrazione di capitali già formati” e dunque al superamento della loro autonomia individuale, che si realizza mediante l’“espropriazione del capitalista ad opera del capitalista, della trasformazione di molti capitali minori in pochi capitali più grossi” (MARX K. ([1867-1885-1894] 1994), Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro I, II e III, Editori Riuniti, Roma., p. 685-686). Il processo di centralizzazione può in tal senso concretizzarsi in vari modi: semplicemente attraverso l’uscita dal mercato dei capitali più deboli; oppure tramite liquidazione, acquisizione o fusione aziendale, che implicano cambiamenti nel diritto di proprietà; oppure anche in modo surrettizio, quando la proprietà formale del capitale resta frammentata ma il controllo si concentra in poche mani, come nei settori in cui le catene produttive sono basate sull’outsourcing oppure, più in generale, come accade con la massa dei capitali la cui proprietà è dispersa tra una miriade di azionisti e depositanti ma la cui gestione è demandata ai vertici di società per azioni e istituti bancari. Per Marx, le leve più potenti della centralizzazione sono due. In primo luogo vi è la “lotta della concorrenza”, che vede prevalere i capitali più grossi, caratterizzati da una maggior scala di produzione e quindi da una più elevata produttività, e che “termina sempre con la rovina di molti capitalisti minori, i cui capitali in parte passano nelle mani del vincitore, in parte scompaiono” (ivi, pp. 686). Ma soprattutto vi è il “sistema del credito”, che attira mediante fili invisibili i mezzi pecuniari disseminati nelle mani di capitalisti individuali e infine si trasforma “in un immane meccanismo sociale per la centralizzazione dei capitali” (ibid.). Il processo di centralizzazione associato allo sviluppo del sistema creditizio e finanziario favorisce dunque l’immissione di enormi quantitativi parcellizzati di capitale nelle mani di una ristretta “aristocrazia finanziaria”, dedita all’organizzazione del capitale su base privata senza aver bisogno di assumerne la proprietà privata. La tendenza alimenta così una contraddizione fondamentale, che consiste nella “soppressione del capitale come proprietà privata nell’ambito del modo di produzione capitalistico stesso” e che incarna, almeno in potenza, una “forma di transizione verso un nuovo modo di produzione” (ivi, p. 523). Per questa via, aggiungerà Hilferding, “i settori del capitale industriale, commerciale e bancario, un tempo divisi, vengono posti sotto la direzione comune dell’alta finanza”, secondo un processo che “ha come base il superamento della libera concorrenza” (HILFERDING R. ([1910] 2011), Il capitale finanziario, Mimesis, Milano.p. 393). La centralizzazione, in questo senso, è assunta come elemento costitutivo del capitalismo moderno: in ultima istanza, “capitale finanziario significa capitale unificato” (ibid.).
Per cui si può agevolmente affermare che il sistema centrale monetario (BCE, FMI…) segue interviene sui tassi d’interesse in base alle condizioni di solvibilità dei molteplici attori del sistema economico. Più precisamente, il banchiere centrale può trovarsi ad assumere il ruolo di ‘regolatore’ di un conflitto tra quei capitali che sono in grado di accumulare attivi e sono quindi ampiamente solvibili, e quei capitali che invece tendono al passivo e quindi all’insolvenza.
Se il ritmo della centralizzazione oltrepassa il limite della sua sostenibilità politica, sussiste il rischio che la coalizione dei capitali in passivo prenda il sopravvento e imponga una modifica del quadro istituzionale, con cambiamenti nell’azione della banca centrale, nell’indirizzo generale di politica economica e persino nelle relazioni economiche internazionali, tali da imporre una frenata e al limite un arretramento dei processi di centralizzazione. (BRANCACCIO E., PATALANO R. e ZEZZA G. (2014), “Euro: quale destino? Dibattito sul ‘monito degli economisti’”, Critica Marxista, n. 5, pp. 17-31.) (1)
Si può dunque opporre ad una logica dimensionale un’altra logica dimensionale? Forse sì, purché si sappia che non è condizione sufficiente. Allora? Di senso. E di significato.
(1) I riferimenti sono tratti dal saggio: Emiliano Brancaccio, Orsola Costantini, Stefano Lucarelli, Crisi e centralizzazione del capitale finanziario in “Moneta e Credito”, vol. 68 n. 269 (2015), 53 – 79
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