Che vino abbinare alla Terza Guerra Mondiale?

9 agosto 1945: il fungo atomico, causato da Fat Man su Nagasaki, raggiunse un’altezza di 18 km.
Di Charles Levy – U.S. National Archives and Records Administration, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=56719

Odio i potenti e i loro lacchè

L’ultimo pasto richiederà un atteggiamento sereno e composto finalizzato a creare un clima familiare e amicale caldo e intenso. Rimetteremo molti peccati e altrettanti saranno rimessi a noi: ci guarderemo intensamente negli occhi dispiaciuti per tutte le volte che i granelli di sabbia si sono trasformati in travi.

La Terza Guerra Mondiale avrà sicuramente una serie di controindicazioni ed un unico vantaggio di grande rilievo: nessuno sentirà i postumi di ciò che ha mangiato o bevuto. Sarà importante, quindi, ragionare in maniera accorta sia sui cibi che sui vini. Non occorrerà, a mio avviso, concentrarsi sui vini più costosi, ma soltanto su quelli che sono stati prediletti in passato o bramati e mai gustati.   

Sarà apprezzabile, quindi, che la lista dei cibi e dei vini o delle bevande in generale venga compilata tenendo conto delle inclinazioni di ognuno. Allo stesso tempo non sarà necessario ragionare sulle consonanze tra gli uni e gli altri, poiché potrebbero esserci delle importanti discordanze tra piatti, vini e alcune preferenze individuali. Per una volta concediamoci di mangiare e di bere soltanto quello che più piace.

Gli acquisti andranno fatti a tempo debito: meglio se a cavallo tra l’uso delle armi tattiche nucleari e il decollo su aerei privati dei presidenti delle maggiori potenze mondiali.

Si dovranno cercare quei vini di pregio prodotti in determinate annate, supponendo che siano arrivati al massimo della loro espressività e pienezza sensoriale: sarà il caso, per evitare plausibili sbagli, di prenderne alcune concomitanti. Ancora una volta potremo renderci conto che alcuni vini di annate recenti sono più pronti alla beva di altri lontani nel tempo e che le concezioni relative alla maturità fenolica andrebbero intensamente dibattute. Non parliamo poi degli annosi alterchi sui vini naturali.  E non vi è alcun dubbio che molti punteggi andrebbero rivisti e forse la nozione stessa di classifica. Ma nessuno potrà scriverci sopra o comunicare le recenti scoperte a chicchessia.

Ma non prendiamocela a male: in questo modo saranno evitate tediosissime discussioni sui social.

Il “vinese” e altre cose di questo tipo: le semplificazioni che banalizzano

Di Giotto – Giotto di Bondone, Stoltezza Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1170281

Il potere, secondo Foucault, è “la molteplicità dei rapporti, di forze immanenti al campo in cui si esercitano e costitutivi della loro organizzazione; il gioco che attraverso lotte e scontri incessanti, li trasforma, li rafforza, li inverte; gli appoggi che questi rapporti di forza trovano gli uni negli altri, in modo da formare una catena o un sistema, o, al contrario, le contraddizioni che li isolano gli uni dagli altri; le strategie, infine, in cui si realizzano i loro effetti, e il cui disegno generale o la cui cristallizzazione istituzionale prendono corpo negli apparati statali, nella formulazione della legge, nelle egemonie sociali1”.

Il linguaggio, e non soltanto la lingua intesa come struttura delle regole grammaticali, sintattiche ed espressive, è senza dubbio una pratica sociale che inerisce a tali rapporti di forza e, nel contempo, contribuisce a crearli. Così come ogni pratica sociale il linguaggio non è mai stabile, definito, cristallizzabile: assorbe, mutua, esclude, si allea, forma, distorce, semplifica, chiarifica, complica, inaridisce, fluttua, configge. Si potrebbe parlare a lungo delle parole introdotte da altre lingue (inglesismi, francesismi prima, germanismi…), di nuovi lemmi, di parole troncate per uso telematico, di discorsi che si specificano e di quelli che si ancorano non tanto per non perdersi, ma per conservare poteri economici, giudiziari e di tanto altro ancora.

Ogni tanto si legge, qua e là, qualche appello alla “democratizzazione” della lingua, contro gli “–ese” portatori di una insopportabile specificazione e complicazione della stessa: contro il “politichese”, il “sindacalese”, il “giornalese”, il “burocratese”, il “gastronomese”, il “vinese” e domani chissà. Ogni categoria sociale ed economica trova i suoi “–ese” contro cui discordare e contro cui rivendicare il diritto alla comprensibilità. Ma, in realtà, non è di costei che si parla.

Quando scorgo questi appelli, ad una sensazione di immediato fastidio, segue un’orticaria diffusa. Mi irritano molto e spiego il perché: prima di tutto il pulpito. Sarà perché ho maturato una sorta di diffidenza personale alle prediche che lastricano cattive strade, allo stesso modo quello che vedo è un potere costituito o costituente che rivendica a sé il diritto al miglioramento della vita altrui e della cognizione altrui: similmente al discorso del “buon senso”, perpetrato da una fetta ragguardevole delle compagini politiche tutt’ora dominanti, si cambiano gli addendi senza che di una nuova somma benefici alcuno. La semplificazione non è volta, in altro modo, ad agevolare la chiarezza, ma serve a fissare delle posizioni dominanti. Lontano da qualsiasi intento di democratizzazione di una lingua, l’appianamento dall’alto non è altro che l’anticamera dell’inaridimento e della banalizzazione dei concetti ad uso di nuovi e vecchi potentati. Dove la lingua accentua, al contrario, il suo valore di distinzione sociale, una lingua a cui non viene chiesta alcuna ammenda, è in tutti quei campi in cui piccole o grandi corporazioni non hanno alcune benché minima intenzione di cedere il passo. E a cui le controparti si genuflettono in doveroso ossequio.

Leggere, dunque, il linguaggio e i suoi discorsi all’interno delle pratiche sociali diffuse e intimamente politiche aiuta ad evirare alcuni equivoci di fondo: ogni campo di saperi, mai neutro o neutrale, costruisce nel tempo, non senza rotture, continuità, contaminazioni, conflitti… un proprio vocabolario, delle locuzioni specifiche, dei modi di dire, delle convenzioni, delle sintassi e via discorrendo. Tanto che si parli di medicina, di farmacologia, di fisica, di elettronica, di falegnameria, di arte, di vitivinicoltura, di gastronomia o di calcio. Quando un discorso è ampiamente strutturato e condiviso significa che esso è egemonico e che egemonico è il potere politico da cui dipende, da cui si struttura e che contribuisce a formare e organizzare. Quando si affacciano nuove parole, nuove sintassi, che sia il “rap” o il termine “naturale”, che ci possano piacere o meno, significa che dei gruppi sociali, produttivi o altro stanno cercando di affermare se stessi e che facendo questo cominciano ad infrangere dei codici comunicativi esistenti su cui altre compagini sociali hanno definito il loro ruolo di comando all’interno della società. Noi parliamo, pensiamo e agiamo, ci ridefiniamo, anche qui ci piaccia di più o di meno, attraverso queste strutture sociali: per dirla alla Roland Barthes “dire che esiste una cultura borghese è falso, perché tutta la nostra cultura è borghese (…) Dove risiede allora il lavoro della cultura su se stessa, dove le sue contraddizioni, dove la sua disgrazia? Per rispondere, dobbiamo, nonostante il paradosso epistemologico posto dall’oggetto, tentare una definizione, la più vaga possibile, beninteso: la cultura è un campo di dispersione. Di che cosa? Dei linguaggi. Nella nostra cultura, nella pace culturale, la Pax culturalis cui siamo soggetti, si svolge una implacabile guerra dei linguaggi: i nostri linguaggi si escludono reciprocamente; in una società divisa (dalle classi sociali, dal denaro, dall’estrazione scolastica), anche il linguaggio divide2”.

Il linguaggio divide perché la società, nel suo complesso, è divisa: per competenze, non necessariamente in modo verticale, e verticalmente per appartenenza sociale.

I linguaggi del vino e della degustazione, come ogni altro linguaggio, si formano all’interno di quei gruppi che, egemonicamente, mantengono i poteri regolativi, economici e comunicativi: la sommellerie, tanto per capirci. Ma non solo: una serie di nuovi linguaggi hanno fatto la loro irruzione attraverso nuove forme di comunicazione, come alcuni siti e blog collettivi o individuali. E poi, diversamente, la filosofia, la sociologia, la politica, l’ecologia, l’antropologia, l’economia finanziaria, l’economia produttiva, il costume. La partita si gioca lì dentro e non al di fuori: il consumatore finale disinteressato all’argomento è oggetto ad altre occupazioni, a cui rivolgerà adeguate e minimali attenzioni. La semplificazione del linguaggio volta a cogliere una sua più pronta attitudine all’apprezzamento del vino è assolutamente pretestuosa: il vero coinvolgimento porterà il novizio ad assumere uno o più linguaggi del vino, a discuterli, a confrontarli e, eventualmente, a respingerli, a modificarli, ad innovarli. E così il linguaggio, con la sua ricchezza, varietà, contraddittorietà, incompletezza torna ad essere prepotentemente una pratica sociale e politica.

Per concludere: storicamente ogni processo di emancipazione e di liberazione comincia dalla necessità di comprendere e di acquisire la più grande parte di ciò che la cultura, al momento dominante, detiene. Imparare a leggere e a fare di conto è parte non eludibile dei requisiti necessari per potersi confrontare. Ed è così ogni volta che entriamo in un novo mondo: impariamo a leggere e fare di conto.

1 M. Foucault, La volontà di sapere, Milano 1978, p. 82

2 Roland Barthes, La pace culturale, pubblicato sul “Times, Litterary Supplement” del 1971, in Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988, pp. 99, 100

IL CIBO DEI RIBELLI. In onore di quelle donne e di quegli uomini che hanno combattuto per la giustizia e la libertà. Le nostre.

Carmen Bisighin, che ho avuto l’onore di conoscere, mamma del mio caro amico Riccardo, apre il corteo di Giustizia e Libertà a La Spezia

LA PASTASCIUTTA DEL 25 LUGLIO 1943

Nella notte tra il 24 e il 25 luglio il Gran Consiglio del Fascismo approva con 19 voti favorevoli, 7 contrari e 1 astenuto, l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi che esautora Mussolini dalle funzioni di capo del governo. Poche ore dopo l’ormai ex duce è fatto arrestare e imprigionare dal re Vittorio Emanuele III. Non è la fine del fascismo, ma l’inizio di una nuova storia.

E’ una storia che parte dalla fine, quella dei sette Fratelli Cervi e di Quarto poligono Camurri. Dallo sparo unisono che alle 6,30 del 28 dicembre 1943 falciò al Poligono di Tiro di Reggio Emilia le vite di Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore insieme al compagno di lotta di Guastalla. (Istituto Alcide Cervi – Gattatico (RE)

Alcide Cervi racconta in “I miei sette figli” (Editori Riuniti, Roma 1989)

“[…] Prendiamo il formaggio dalla latteria, in conto del burro che Alcide Cervi si impegna a consegnare gratuitamente per un certo tempo quanto basta. La farina l’avevamo in casa, altri contadini l’hanno pure data, e sembrava che dicesse ‘mangiami’, ora che il fascismo e la tristizia erano andati a ramengo. Facciamo vari quintali di pastasciutta insieme alle altre famiglie. Le donne si mobilitano nelle case, intorno alle caldaie, c’è un grande animazione, e il bollire suonava come una sinfonia. Ho sentito tanti discorsi sulla fine del fascismo ma la più bella parlata è stata quella della pastasciutta in bollore. Guardavo i miei ragazzi che saltavano e baciavano le putele, e dicevo: ‘Beati loro, sono giovani e vivranno in democrazia, vedranno lo Stato del popolo. Io sono vecchio e per me questa è l’ultima domenica.’ Ma intanto la pastasciutta è cotta, e colmiamo i carri con i paioli. Per la strada i contadini salutano, tanti si accodano al carro, è il più bel funerale del fascismo. Un po’ di pastasciutta si perde per la strada per via delle buche, e i ragazzoli se la incollano sotto il naso e sui capelli. Arriviamo a Campegine tra braccia di popolo e scarichiamo la trattoria. Uno dice: ‘Mettiamoli tutti in fila, per la razione.’ Nando interviene: ‘Perché? Se uno passa due volte è segno che ha fame per due.’ E allora pastasciutta allo sbrago, finché va. Chi in piedi e chi seduto, il pranzo ha riempito la piazza grande […]”.

Testimonianza di Eletta Bigi nata nel 1925 a Campegine  

“Facevo la staffetta quando c’era bisogno, fra Campegine, Cavriago, Poviglio, Cadelbosco, sempre in bicicletta. Ho fatto tanti chilometri. Facevo quello che c’era bisogno di fare. Al primo giro Gelindo mi ha mandato a prendere una rivoltella dai recitanti, dai Sarzi. Va bene, io ci sono andata. Già prima della pastasciutta. Poi il 25 luglio era caduto il duce. I Cervi non avevano la radio, non avevano nemmeno la luce elettrica per farla andare. Ma la gente andava in giro, c’era tanto entusiasmo. Così Aldo è andato a Reggio Emilia, al suo ritorno Gelindo diceva: “Anche qua bisogna fare qualcosa”. Ha contattato il fornaio Amadeo Rapacchi di Case Cocconi che faceva anche la pasta. Abbiamo portato 170 chili da impastare: 100 chili hanno dato i Cervi dei “Campi Rossi”, 50 chili i Cervi del “Tagliavino” e 20 chili i Bigi di Vicolo Parigi. Rapacchi aveva le macchine per fare il pastaio. E poi era antifascista anche lui. La pasta veniva fuori dagli stampi, faceva i maccheroni. Che poi dovevano asciugare, però usava degli attrezzi per stendere e aveva i forni per asciugare. La pasta cruda è stata portata nei sacchi, sul carretto del latte, alla latteria di Caprara, per bollirla nelle caldaie e un po’ di pasta è stata portata anche alla latteria di Campegine. Sotto le caldaie con la legna si faceva il fuoco. E io c’ero a grattugiare il formaggio. La pasta cotta è stata messa nei bidoni del latte e condita con il burro e il formaggio. Ce li ha messi la latteria. Avevamo una biga con il cavallo guidato da Gelindo, così siamo andati in piazza. Sotto i platani, fra il Comune e il cimitero. C’era il sole. Quanta gente, era piena la piazza, perché la gente aveva fame. Usciva di casa con il piatto in mano. Non c’erano mica i piatti di plastica. E noi l’abbiamo distribuita dai bidoni sui piatti. Gelindo ha anche parlato con il maresciallo dei Carabinieri, diceva: “Facciamo niente di male, diamo solo da mangiare alla gente, la gente ha fame!” C’era il pozzo in piazza, la fontanella, abbiamo bevuto solo acqua, niente vino. E niente pane, niente dolce, la pasta e basta”.

Ingredienti

Piatto unico e senza pane, per saziare centinaia di persone ci vogliono circa 2 quintali di pasta, oppure 1 kg per 3 persone. Maccheroni di farina di grano tenero, senza uova, impastata con l’acqua.

Preparazione

Bollire per alcuni minuti e condire con burro e parmigiano-reggiano. Senza pomodoro, senza ragù. Da servire con acqua pubblica, dal pozzo o dal rubinetto

Fonte: in «Pollicino Gnus» numero 209 – ottobre 2012, Sapori sovversivi, pp. 8- 10 https://www.pollicinognus.it/pdf/2012/209-ott2012-monografico-Sapori%20Sovversivi.pdf

anarchici nella Resistenza (tratto da A- Rivista Anarchica)

8 SETTEMBRE 1943

La data dell’annuncio dell’armistizio con gli Alleati e della fine dell’alleanza militare con la Germania, ma anche la data della dissoluzione dell’esercito italiano e della cattura di centinaia di migliaia di militari, a causa della mancanza di precise disposizioni da parte dei Comandi militari. La data dei primi episodi di Resistenza contro i tedeschi (a Roma, a Cefalonia, a Corfù, in Corsica, nell’isola di Lero), ma anche la data della frettolosa fuga del Re e dei membri del governo Badoglio a Brindisi (senza un piano di emergenza e senza disposizioni ai militari). Resistenzaitaliana.it

Alla vigilia dell’annuncio dell’armistizio la parola ricorrente nei diari è «incubo»: “il risveglio, dopo una notte di incubi – annota Bruna Talluri, che di lì a poco prese posto nelle fila della cospirazione – non ha dissipato i miei timori e neppure la penosa incertezza del domani. Molti parlano di tradimento. Noi non abbiamo tradito nessuno, mentre siamo stati traditi dai fascisti prima e poi dai nazisti. Gli inglesi in Calabria; i Tedeschi nel Lazio e sul Po. Povera Italia, quali mortali ferite ti hanno inferto i banditi delle glorie imperiali! Io credo che le truppe alleate non abbiano nessun interesse a piantare le tende nelle regioni italiane, ma se questo dovesse avvenire si risveglierebbe in noi lo spirito, da troppo tempo assopito, delle tradizioni rivoluzionarie e avremo la forza di gridare: «Vai fuori d’Italia, vai fuori o straniero». Noi vogliamo la libertà dei popoli e l’associazione dei popoli liberi. Oggi dobbiamo combattere contro i nazisti, che sono i nostri veri nemici. Noi non abbiamo tradito nessuno, mentre siamo stati traditi dai fascisti prima e poi dai nazisti”. (Luigi Ganapini, Voci dalla guerra civile, Storie di italiani 1943-1945, il Mulino, Bologna 2012)

 Testimonianza di  Bruna Talluri  

Cena di guerra.

“Ti siedi a tavola (argomento volgare che dimostra ancora una volta come lo spirito non basta per vivere) e sogni ad occhi aperti con lo stomaco che gorgoglia una sfilata di pani appena tolti dal forno con un contorno altrettanto profumato di salamini e di bistecche, di polli ben crogiolati allo spiedo e di patatine croccanti … il sogno svanisce. L’uggia allo stomaco rimane. Togli una briciola alla tua razione di pane, frenando il desiderio di mangiartela tutta in un solo boccone. Questo è il primo atto. Il primo gesto istintivo. Poi arriva pomposamente in tavola la focaccia di foglie di cavolo e la fame, quella vera, fa sembrare eccellente un piatto che, in una situazione normale, avresti gentilmente rifiutato. Divori silenziosamente la tua razione di cavoli, lesinando il pane per timore che non ti basti e studi possibili riduzioni geometriche per calcolare il numero di bocconi che puoi ricavare con il pane che ti rimane […]. Arriva il “pezzetto” e pulisci, lucidandolo con cura il tuo piatto. La cena è finita nel giro di pochi minuti. Altra pausa piena di speranza in una qualunque sorpresa. Entrano in scena gli aranci. Cavoli e aranci. Prima li sbucci, magari con il coltello e con la forchetta, lasciando sul piatto le bucce, poi, quasi distrattamente, mangi anche le bucce perché hai fame.

La cena è finita.

Siamo lieti e soddisfatti di essere un popolo civile, che tira la cinghia con il sorriso sulle labbra per vincerei barbari nemici che mangiano cinque volte al giorno e si lavano con il sapone, mentre noi ci laviamo con il grasso di maiale. Non riusciamo a reggerci in piedi, ma vinceremo”. (Patrizia Gabrielli, Scenari di guerra, parole di donne, Bologna, Il Mulino, 2007)

Fonte: Lorena Carrara, Elisabetta Salvini, Partigiani a tavola. Storie di cibo resistente e ricette di libertà, Lupetti Editore, Bollogna – Milano 2015

LA GUERRA PARTIGIANA

Beppe Fenoglio

“Eppure aveva dormito magnificamente nel fienile sotto lo spartiacque. Si era addormentato di colpo, aveva fatto appena in tempo a finir di seppellirsi sotto il fieno, con appena un piccolo tunnel scavato davanti alla bocca. La pioggia crosciava sul tetto buono del fienile, violentissima e dolce. Un sonno di piombo, senza sogni, senza incubi, senza la minima interferenza della difficile, terribile cosa da fare l’indomani. L’aveva poi svegliato un canto di gallo, l’uggiolio di un cane a valle e il silenzio della pioggia. Subito era sgusciato via da sotto il monticello di fieno. Sobbalzando sul sedere si era trasportato sul bordo del fienile ed era rimasto con le gambe penzoloni nel vuoto. Lì lo possedette la piena coscienza di sé, di Fulvia, di Giorgio e della guerra. Allora tremò, di un tremito unico ed interminabile che andò a trovargli fin i talloni, e pregò che la notte resistesse al giorno un po’ meglio di quel che facesse. Quand’ecco uscire dalla casa il contadino e sfangare verso la stalla, ancora fantomatico nella luce che cresceva a fiotti grigi. Milton stava strusciandosi il mento e il fruscio quasi metallico della barba lunga e rada si diffondeva per metri all’intorno. Infatti il contadino guardò su e restò secco. – Hai passato la notte lassù? Be’, meglio così. Non è successo niente ed io ho potuto dormire. Se ti avessi saputo sotto il mio tetto, non avrei chiuso occhio. Ma ora scendi –. Milton saltò a piedi uniti nell’aia, atterrando con un gran botto e un ampio spruzzo di fango. Restò piantato dov’era piombato, a testa china, tastandosi il cinturone. – Avrai fame, – disse il contadino, – ma io non ho proprio da darti da mangiare. Di una pagnotta mi potrei privare… – No, grazie. – O vuoi un bicchiere di grappa? Fossi matto. Il pane aveva sbagliato a rifiutarlo, ora si sentiva vuoto e inconsistente, quasi senza baricentro nei tratti più ripidi della calata, e si disse che gli conveniva fermarsi a chieder pane in qualche casa isolata prima di arrivare in vista di Canelli”. (Beppe Fenoglio, Una questione privata, Einaudi, Torino 1990)

“A un capo del paese un ribelle stava quartando un vitello per il rancio. Johnny si letificò animalmente, sentendosi una fame vorace, as new for a new dimensioned man. Nell’aria solatia e cristallina le carni aperte apparivano brillantate: il macellaio, incredibilmente insanguinato e furiosamente contratto in quella inesperta fatica di pura memoria visiva, si volse al loro passaggio con un fastidio non dissimulato, Era un contadino, giovane, balzato i primi giorni nei partigiani, come in una allegra e feroce rivolta al suo destino di servitù alla terra: leonino e di fronte angustissima, negli occhi glaciali un’unica scintilla soltanto nell’effusione della ferocia. Parve risentire estremamente il goalless, wallking passaggio dei due partigiani, uno dei quali nuovo e d’aspetto inequivocabilmente cittadino, passanti a bocca torta davanti alla sua all-serving fatica”. (Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi, Torino 1994)

Avevo sei anni!

Testimonianza di Marisa Zanetti in Donne della Resistenza : testimonianze di staffette partigiane della pianura bolognese / [a cura di Graziano Zappi “Mirco”], Comitato Antifascista Il Casone Partigiano in Partigiani a tavola, cit.

“Eravamo tutti in cucina. […] A un certo momento, mentre guardavo fuori, mi resi conto, tutto ad un tratto, che eravamo circondati da mezzi cingolati, da autoblindo […]. Faccio appena in tempo a dire: “Marcello corri, corri che ci sono i tedeschi” e lui corre su per la scala di legno e va a nascondersi. Con due calci contro la porta entrano due fascisti che avevano non so se un mitra o un fucile. Dietro di loro c’era un ufficiale tedesco con quattro o cinque tedeschi. Uno dei fascisti grida: “Marcello Zanetti”. Mio padre si alza: e sta per rispondere quando il graduato tedesco dice: “No, non voi, la bimba, la bimba”. Allora io scendo dalla sedia e mi metto a sedere sulla rola (era un ripiano dove ci si sedeva per cuocere della carne e per scaldarsi meglio) del camino con il fuoco acceso. L’ufficiale mi viene vicino e molto educatamente mi chiede: “Ti piace il cioccolato?”. “Certo che mi piace rispondo”. Lui mette un pezzo di cioccolato sulla rola di fianco a me e poi mi dice: “Guarda io sono un amico di Marcello e avrei bisogno di parlargli ma non riesco a trovarlo, tu sai dov’è?” Io dico: “Sì, è a lavorare”. “A lavorare dove?” “In stazione di ferrovia, a quest’ora è a lavorare”. “Guarda che io in stazione ci sono andato e non l’ho trovato”. Allora io ho fatto un’esclamazione. Mi pare di ricordare di essere stata quasi un’attrice in quel momento: “Ahhh” Poi ho allungato una mano, un po’ timidamente, verso la manica del suo cappotto e ho detto: “Allora sa una cosa? A Marcello piacciono molto le signorine. Vedrà che è andato a cercare una signorina”. Detto questo, il tedesco mi allungò il cioccolato, mi mise una mano sulla testa, mi scompigliò i capelli. E poi diede quattro cinque ordine secchi, ed uscirono tutti quanti. Avevo sei anni”.

Ancora sul vino vero o naturale: le luci e le ombre di un “nuovo” manifesto. Di Nicola Perullo

È davvero urgente riflettere oggi, in modo profondo e radicale, sulla questione del vino “vero” o naturale (1).  Ce ne offre occasione un manifesto, firmato da Sandro Sangiorgi e dal presidente del Consorzio Viniveri Paolo Vodopivec, intitolato “La forma e la sostanza, le luci e le ombre”, scritto diversi anni fa ma che è stato recuperato e riproposto in questi giorni (https://www.facebook.com/consorzioViniveri/photos/a.206079082935759/1898090177067966/?type=3).

Da parte mia, proporrò alcune riflessioni attraverso un’analisi di questo testo, evidenziandone gli elementi condivisibili ma anche quelli che mi paiono deboli e irricevibili: le luci e le ombre.

I primi, pionieristici manifesti volti ad esprimere la necessità di ripensare i modi di produzione (e in parte, anche se con molta meno enfasi, di percezione) del vino in chiave complessiva, irriducibile alla svolta tecno-enologica del secondo dopoguerra, risalgono a due decenni fa. Nonostante il movimento sia ancora giovane, da allora le cose sono molto cambiate e, sotto questo profilo, l’appello proposto è del tutto opportuno. Esso merita interesse e attenzione, perché oggi occorre andare oltre le discussioni esclusivamente polarizzate sul vino naturale. Di pseudo-riflessioni polarizzate in questi anni ne abbiamo ascoltate troppe: esse non solo sono inutili ma anche dannose. Quello che invece occorre è un’articolazione del discorso più rigorosa, appunto profonda e radicale, un’analisi logica, epistemologica, estetica ed etica che innanzitutto chiarisca termini e modi di una questione tuttora presentata spesso in termini assai sbrigativi e confusi. Il manifesto di Viniveri, pur nelle sue migliori intenzioni, soffre innanzitutto di una certa confusione concettuale che rischia di sortire un effetto diverso da quello auspicato; il rischio, come cercherò di argomentare, consiste paradossalmente nel prestare il fianco a una certa aria di restaurazione che oggi rappresenta bene lo spirito del tempo in tanti campi, non solo nel vino. 

“Molti produttori si stanno pericolosamente abituando a imperfezioni tecniche, più o meno gravi” (corsivo mio): così inizia il manifesto, e non può esserci inizio migliore per avviare il mio argomento. Condivido la prima parte della frase: che molti produttori naturali si stiano pericolosamente abituando a qualcosa, e che vi sia effettivamente un rischio rispetto al quale occorre mettere in guardia, mi pare evidente. Tuttavia, sostengo che l’oggetto del rischio non sia affatto ciò che viene espresso dal seguito della frase, cioè “imperfezioni tecniche, più o meno gravi”. Dirò successivamente in che cosa, secondo me, consiste il vero rischio. Mi soffermo intanto sui motivi per cui ritengo sbagliato porre la questione nei termini delle “imperfezioni tecniche”, classico (per non dire vetusto) leitmotiv di ogni enologo e di ogni produttore di vino convenzionale. Domandiamoci: che cosa è un’imperfezione tecnica? Un’imperfezione è ciò che non rende qualcosa perfetto, cioè completato, portato a termine (dal latino perfectus, da perficere). Ciò che non è completato o portato a termine lo è rispetto a qualcosa: un ideale, un modello, un format prestabilito e predefinito. Ora, in questi anni avevamo sostenuto però che la bellezza, la forza, l’energia di un vino naturale/vero risiede precisamente nel non realizzarsi in conformità a un modello o un ideale prestabiliti, tanto che abbiamo proposto, come possibile (non)definizione di tale “categoria” di vino, proprio quella di non essere etichettabile e catalogabile sulla base di un ideale prestabilito. In questa prospettiva, la “bellezza completa” – espressione forte, che compare nell’appello di Sangiorgi e Vodopivec – non riguarda tanto una completezza rispetto a un modello premeditato (“il vino deve essere così”, come progetto prima della sua realizzazione) quanto la corrispondenza, la risonanza, l’aderenza di un certo vino al suo percorso e alla sua storia che non è mai completamente prevedibile e non deve essere ingabbiata da un design che ne predetermina il suo farsi.  In questo senso, dunque, il vino naturale/vino vero non può essere mai imperfetto proprio perché non può essere mai “perfetto”. Il che non vuol dire che non possa essere mai “difettato”: questo è un altro concetto. “Imperfezione” e “difetto” non sono la stessa cosa. Tornerò dopo su “difetto”, ma intanto abbiamo chiarito che l’imperfezione non è un difetto. Confonderli genera confusione. 

In effetti, però, il manifesto sembra suggerire che l’imperfezione coincida proprio con il difetto. Ciò risulta chiaro quando si analizza l’aggettivo che accompagna la parola: l’imperfezione in questione sarebbe non un’imperfezione stilistica ma tecnica. Che cosa significa? L’imperfezione tecnica di cui soffrirebbe un vino sembra derivare da una mancanza di perizia, di sapere, di “skill” nell’averlo “prodotto”. Viene precisato poche righe dopo, quando entra in gioco la nozione di “competenza tecnica”. Dunque: l’imperfezione tecnica, in un vino, sarebbe dovuta a un difetto di competenza tecnica da parte di chi lo fa. La nozione di “competenza” viene subito dopo specificata come “saper fare” qualcosa giacché oggi, nei vini naturali/veri, si corre il rischio, così ci viene detto, di aderire all’ideologia dell’ignoranza, per cui “meno si sa e meglio si riesce”. Intanto, anche in questo caso segnalo che l’appello sembra, contro le sue intenzioni, combaciare perfettamente con l’obiezione classica che, da sempre, i produttori convenzionali e i tecno-enologi rivolgono al vino naturale: l’artigianalità difetta di competenze tecniche ed è dunque rischiosa perché può far produrre vini “imperfetti”, cioè difettati. L’atteggiamento tecno-scientifico nasce e si sviluppa sulla base dell’approfondimento delle competenze tecniche, sempre più grandi e sempre più settorializzate, che finiscono per frammentare il vino in tante parti analitiche. Ora, in questi anni avevamo sostenuto – Sangiorgi tra i primi – che il vino naturale/vero è un tutto non sezionabile; e che per avere un vino-tutto occorre una capacità poietica (e non: produttiva!) che è ben diversa dalla “competenza tecnica”. Anche in questo caso, mi pare che ci sia una notevole confusione concettuale sotto il cielo. Si confondono conoscenza e competenza in modo grossolano. La capacità di fare e trasformare è una capacità poietica, ed essa non si sviluppa, innanzitutto e per lo più, tramite le “competenze tecniche”, ma tramite una conoscenza nutrita di sensibilità, attenzione, cura, corrispondenza, relazione con un ambiente, visione e consapevolezza.

In un mio libretto, a cui mi permetto di rimandare (2), ho cercato di evidenziare che il contrario di competenza non è ignoranza (ignoranza è il contrario di conoscenza), ma compassione. Laddove la competenza è specifica, analitica e frammentata, e si configura come una capacità di controllo e dominio sulla produzione di qualcosa, (appunto una “tecnica”), la compassione è sintetica e unitaria e rimanda a caratteristiche immersive, partecipative, complici e collusive: è un sentire-insieme col vino che si realizza e si accompagna nel suo percorso di nascita e di sviluppo. In questo senso, la compassione è quel tipo particolare di conoscenza che è indispensabile per realizzare un vino vero, cioè naturale. Ora, se la competenza tecnica non rappresenta di per sé un ostacolo alla conoscenza (pur potendolo diventare quando da strumento si fa fine in sé, con la sua crescente ansia da “perfezione” (3)), tuttavia non dà alcuna garanzia per il vino naturale/vero. Insieme ad altri, tra cui Sangiorgi, abbiamo sostenuto – e continuo a ritenere che questa sia un’acquisizione fondamentale – che ciò che fa la differenza per un vino vero cioè naturale non dipende dalla competenza (parola che viene dal lessico giuridico, il “giudice competente” è colui che ha appunto la facoltà di giudicare all’interno della sua giurisdizione) tecnica con cui è prodotto, ma dalla compassione, la sim-patia, la kinship, l’immersività, la capacità di sentire insieme a un ambiente con cui è realizzato. Questi termini, come si vede, non esprimono ignoranza ma un tipo di conoscenza irriducibile a ogni abilità tecnico-tecnologica. Sottolineiamolo ancora: l’irriducibilità non implica necessariamente opposizione. In altri termini, si può possedere la più piena padronanza tecnica (nel caso specifico, essere enologi o agronomi laureati) e, al contempo, operare su un piano di conoscenza-consapevolezza-compassione tale da non voler-produrre un vino ma realizzarlo poieticamente. Sono due piani diversi. È mia convinzione che il primo piano possa essere di complemento al secondo; mentre quest’ultimo è necessario, tuttavia, il primo non lo è.  

Spero di aver chiarito il primo equivoco concettuale – confondere incompetenza (nel senso di mancanza di tecnica) con ignoranza; esso purtroppo però nel testo se ne porta dietro un altro, persino più grave: l’assimilazione dell’incompetenza all’incuria. “Incuria”, in realtà, non è un termine che ricorre nell’appello, ma la sua sfera semantica mi pare riconducibile ad altre nozioni che sono invece richiamate quali motivi di rischio: “lassismo”, “indulgenza”, “mancanza di custodia”. Ancora una volta, sottoscrivo completamente l’urgenza dell’appello e la sua motivazione indiretta: dopo la nascita del movimento naturale come movimento spontaneo ma profondamente sentito di resistenza e di controcultura nei confronti del modello dominante, ci si trova oggi a fare i conti con approcci “produttivi” sbrigativi, semplicistici, non profondamente sentiti e non rigorosi. E quindi lassisti, indulgenti, non curati. Tuttavia, ritengo che, ancora una volta, la competenza tecnica, nel senso sopra specificato, c’entri ben poco. Il rigore di cui il vino vero ha bisogno non è quello del competente-tecnico ma quello che nasce da un atteggiamento infuso di consapevolezza, visione, attenzione e cura. Incompetenza ed incuria non sono la stessa cosa: ci sono enologi competenti che non hanno a cuore i frutti del loro lavoro, nel senso che non lo sentono né lo partecipano in senso complessivo, ecologicamente inteso. Certo, non tutti: ancora una volta, non bisogna confondere ciò che è possibile, ciò che è probabile e ciò che è necessario. Allo stesso modo, quanto sosteniamo non va affatto nel segno opposto, cioè nel suggerire che la mancanza di competenze specifiche favorisca la realizzazione del vino vero/naturale. Si tratta di piani che non si implicano, e chiunque conosca la realtà di questi vini troverà numerosissimi esempi a supporto di ciò.

Insieme ad altri, tra cui Sangiorgi, abbiamo sostenuto che il vino vero, cioè il vino naturale, non è un calcolo né una ricetta; non segue criteri prefissati, non richiede necessariamente la conoscenza eno-tecnologica per essere realizzato. Il contadino che, prima del sapere enologico moderno (che si sviluppa, come si sa, a partire dalla fine del XIX secolo e che esplode dagli anni ’50 del XX, parallelamente alla green revolution), si realizza il proprio vino secondo criteri e processi appresi “empiricamente”, senza professionalizzazione, senza certificazione; è certamente un incompetente rispetto alla tecnologia attuale, ma ciò non significa che sia (necessariamente) privo di cura, indulgente, lassista, non rigoroso nella realizzazione della sua opera. Tutti coloro che si sono avvicinati alla degustazione negli anni ’90 del secolo scorso ricorderanno un modo di dire tipico dei panel dei critici e delle guide quando si voleva additare un vino di “imperfezione” e di “difetto” (allora li mettevamo sullo stesso piano): “sembra il vino di un contadino!”. Questa espressione diceva molto: esprimeva una presunta superiorità gustativa, legata a una determinata modalità produttiva che, in modo del tutto inconsapevole e irriflesso, accettavamo come dato di fatto. Il vino si deve fare in un certo modo, pensavamo. Se non si fa così, non è vino ed è difettato. Accettavamo gli odori di stalla nei formaggi a latte crudo perché artigianali e genuini; non li accettavamo nei vini, perché eravamo cresciuti alle scuole che ci dicevano che il vino era una cosa diversa. Una bevanda che fanno i professionisti, i tecnici, e che per potere essere apprezzata propriamente richiede un allineamento tra modo di produrre e modo di gustare. In questa prospettiva, si è arrivati a dichiarare autorevolmente che il gusto – come scriveva Émile Peynaud quasi quarant’anni fa ne Il gusto del vino – deve essere certamente allenato ed educato, ma secondo i protocolli della tecnologia enologica, non il contrario. Dopo il predominio incontrastato e assoluto dell’asse Davis-Bordeaux, in questi venti anni, grazie ai contributi di tanti, Sandro Sangiorgi tra i primi, abbiamo imparato che le cose non stavano così: che fare vino non è una scienza nel senso di una tecnologia “giusta” e indispensabile una volta per tutte. Fare vino non richiede le stesse competenze ingegneristiche e fisiche richieste nella costruzione di un ponte o del motore di un aereo; è una faccenda del tutto diversa. È una poiesis, che risponde a criteri multipli e sfaccettati, a conoscenze varie e variabili.  Ora chiedo: vogliamo forse tornare a quel punto, a Peynaud, alle imperfezioni stilistiche rispetto a un modello di vino predeterminato e opinabile, confusi o camuffati da difetti enologici come fossero stati di fatto? Siamo del tutto contrari, come sono sicuro lo siano anche gli estensori del manifesto il quale, tuttavia, rischia di portare fuori strada nel denunciare giusti rischi attraverso strumenti scorretti. La strada per cercare di evitare tali rischi mi pare del tutto diversa.

In queste ultime righe, ho introdotto la questione del gusto. Arriviamo dunque al punto centrale del testo che sto analizzando; il punto direi decisivo, ma anche quello più critico e più irricevibile. Si legge: “il lassismo del tutto immotivato nella relazione tra forma e sostanza” provoca una “diffusa indulgenza che sdogana liquidi imbevibili” (corsivo mio). Passaggio chiave su cui soffermarsi: il rapporto tra forma e sostanza – concetti che come filosofo non posso che accogliere felicemente: le nozioni di forma e sostanza, da Platone e Aristotele in poi, compendiano buona parte dei problemi del pensiero umano – e la cosiddetta “imbevibilità”. Cosa vuol dire “imbevibile”? Ciò che non si può bere, ovviamente, non rimanda qui tanto alla non potabilità in senso tossico, chimico-fisico, ma in senso gustativo; intende rimandare cioè a una presunta insufficienza di soddisfacimento, di piacere, di “bontà”. Che cosa risulta imbevibile e a chi? Facciamo un esempio. Quando si dice qualcosa come “i vini che bevevano i Romani ai tempi dell’Impero erano imbevibili” (basandosi evidentemente solo su una proiezione mentale del gusto offerta da testi scritti, non avendo nessuno bevuto quei vini) ci si riferisce, seppure in via implicita, a un “per noi”: loro bevevano i loro vini, e li trovavano o buoni o cattivi, come facciamo oggi. Se fossero stati in assoluto e genericamente “imbevibili” perché di principio sbagliati e difettati, non si capisce perché li avrebbero bevuti, a meno di non sottoscrivere un atteggiamento epistemologico (del tutto insostenibile sul piano paleoantropologico e storico) per cui nel passato gli umani sarebbero stati costretti, mancando di scienza, a farsi piacere cose cattive o, peggio, un atteggiamento epistemologico per cui gli umani del passato erano come animali, privi di ogni “buon gusto” per cose come cibo o vino; buon gusto che si sarebbe quindi disvelato solo con le “magnifiche sorti e progressive”. Sperando davvero che nessuno di coloro che si occupano di vino naturale, oggi, sottoscriva tali sciocchezze, diamo per scontato che questo atteggiamento non è accettabile. Dunque, l’unica possibilità sensata consiste nel trasformare la suddetta frase nel modo seguente: “i vini che bevevano i Romani ai tempi dell’Impero sarebbero imbevibili per noi oggi”. Fino a qui, tutto bene. Ora, l’esempio addotto ci serve per comprendere nello stesso senso il criterio di “imbevibilità” buttato lì nell’appello-manifesto: seppure sembri additare un senso di “qualità gustativa” del vino auto-evidente e immediato, tuttavia esso omette quantomeno un necessario “per noi, ora”. Ma chi siamo noi? Noi non siamo tutti, evidentemente. Noi chi? E torniamo alla circolarità di cui fin dall’inizio ho segnalato la presenza in questo appello, pieno di confusioni concettuali: noi, cioè coloro che (come viene chiarito in seguito) sono in grado di riconoscere la qualità.  

Noi riconosciamo la qualità sulla base di qualche riferimento: il testo di Sangiorgi-Vodopivec ci dice che non bisogna cadere nella “trappola della genuinità come unico riferimento qualitativo” (corsivo mio). In base a quanto scritto nelle righe immediatamente precedenti, sembra che al termine “genuinità” corrisponda la forma, mentre la sostanza si associ a un criterio, per dir così, intrinseco all’esperienza gustativa. 

Associare genuinità a forma è già una mossa estetica piuttosto ardita, che necessiterebbe un’approfondita discussione, e che qui non è possibile fare. A costo di risultare pedante, però, devo chiarire, almeno a livello generale, qualche uso un po’ sbarazzino dei concetti. Genuino significa proprio naturale: da geno, genitus, generare, genuino è quanto è stato generato; in altri termini, è ciò che proviene dalla sua nascita. Per estensione, ciò che non è stato alterato. Da qui, anche la parola genìa. È un termine in disuso, nel lessico degli assaggiatori di vino, anche tra gli appassionati di vino naturale; ed è un peccato, perché è un termine meno banale di quel che sembrerebbe. Non ha nulla da invidiare, per esempio, al termine “luogo” né a quello di “territorio”, che invece spopolano, a volte a sproposito, impudentemente e impunemente. Nell’appello, la genuinità viene considerata forma, nel senso di quel processo esterno – Sangiorgi sembra usare forma come esteriorità, come ciò che sta al di sopra – che corrisponde ai protocolli di produzione naturale del vino e che è considerato “parte fondante di un vino buono”, cioè parte necessaria ma non sufficiente. Al di sotto, come sostanza, sta il processo interno che risulta da ciò che il vino è nel momento del suo assaggio. La sostanza del vino, in altri termini, sarebbe l’esperienza del suo gusto. Anche in questo caso, se da un lato comprendo ed approvo (seppure per ragioni diverse, come dirò tra un attimo) il ragionamento proposto (in fondo, Epistenologia è nata proprio dall’idea di partire da una nuova disposizione del gusto per poi risalire, a ritroso, ai criteri di produzione), dall’altro osservo che occorre fare molta attenzione a porre la questione in tali termini, perché l’ideologia di “quel che conta è ciò che è dentro il bicchiere” è proprio l’atteggiamento mentale tipico del degustatore seriale, del giudice/competente, presuntivamente analitico, freddo e neutro, che fa classifiche e categorizza, indifferente a contesti, ecologie e molteplicità di piani (“che sia biologico, biodinamico o naturale, basta che sia buono!”). In questi anni, abbiamo sostenuto che le cose non stanno così: non c’è alcuna possibile neutralità percettiva, si è sempre coinvolti e implicati, e occorre disporsi all’ascolto del vino attraverso un gustare aperto, disposto ed esposto. 

Torniamo ai liquidi imbevibili. Imbevibile è ciò che dunque non rispetterebbe criteri qualitativi intrinseci, non legati alla genuinità ma alle competenze tecniche, e che qualcuno dovrebbe riconoscere. Ma abbiamo detto che questa comunità – questo noi, questo gruppo, composto da appassionati, critici, competenti ed esperti educati – è tutto tranne che una comunità naturale, evidente, oggettiva, neutrale. È un perimetro entro il quale desideriamo stare e nel quale vogliamo riconoscerci. Non c’è nulla di male in questo; è legittimo, ma bisogna saperlo, senza confondere questo fatto – relazionale, negoziale, storico, costituito – con un’improbabile idea di gusto come “scienza” che riconoscerebbe la qualità in quanto “dato di fatto”. La qualità non è un fatto, è un valore. L’imbevibilità, in altri termini, è una proprietà relativa, cioè relazionale, come mostra bene la storia del gusto e delle variazioni della nozione di qualità: come e quando si determinano i criteri di correttezza, gli standard gustativi che discriminano il cosiddetto “bevibile” dall’imbevibile? Attraverso quali processi un valore negativo diviene positivo? La qualità di chi e per chi

Che cosa è la “percezione” gustativa? Essa non ha a che fare con il riconoscimento della qualità che nascerebbe da una “educazione alla degustazione”, come propongono gli autori del manifesto, ricadendo nella medesima circolarità dell’argomento che ho rilevato prima. Se percepire significasse riconoscere, cosa si dovrebbe riconoscere? Il buono, si dirà. Ma questo “buono”, ancora, che si sarebbe appreso nelle sessioni di educazione alla degustazione, a cosa corrisponde? È un dato naturale? Tutti gli studi e le ricerche, storiche e psicologiche, estetiche ed antropologiche, tendono a smentire questa ipotesi. È, piuttosto, un dato culturalmente, cioè socialmente, prodotto – e che non dipende da un avanzamento tecnologico (ecco il punto centrale), non perché la tecnologia non possa aiutare, ma perché la tecnologia enologica è essa stessa uno strumento che si usa relativamente ad interessi, standard, criteri che vengono decisi e su cui poi si imbastisce una grammatica del giusto e dello sbagliato, del “perfetto” e dell’“imperfetto”. Persino del piacevole e dello spiacevole! “Il vino è una bevanda di piacere”, si dice poi giustamente nell’appello. Già, ma il “piacere” è qualcosa di universale, di uguale per tutti, di dato? Non credo sia necessario aggiungere altro a quanto già specificato. Temo che, malgrado sia convinto che i propositi non fossero quelli, l’appello-manifesto che stiamo analizzando produca in molti la convinzione perniciosa che quell’adagio troppo spesso sentito dire in questi anni – “che il vino sia naturale, biologico o biodinamico, l’essenziale è che sia buono!” – sia giusto. È invece il pensiero più retrogrado e inadeguato che si possa esprimere e che ricorda, mutatis mutandis, la discussione che nel secolo scorso si è fatta sull’arte non figurativa e astratta: senza “competenze tecniche” non si può fare arte, si dice; ma non è necessariamente vero, dipende. Soprattutto, le competenze tecniche possono essere tranquillamente messe da parte quando si decreta, di qualcosa, che è un capolavoro. Rimando a un libro del critico d’arte Francesco Bonomi che ha cercato di spiegare bene come sia inconsistente l’obiezione del “lo potevo fare anch’io” di fronte ad alcune opere contemporanee, quali per esempio i tagli di Fontana o i cretti di Burri. A volte gli atteggiamenti di alcuni tecnici nei confronti dei vini naturali assomigliano a quelli di chi critica Warhol, Fontana e Burri (4). Non è certamente questo il caso di Sangiorgi e di Vodopivec, ripeto; dico solo che questo testo può, contro le sue intenzioni, risvegliare quello che avevamo messo faticosamente a dormire.

Con queste domande, beninteso, intendo sottolineare l’inaggirabile circolarità degli argomenti che tale testo vorrebbe presentare come razionale, una circolarità che nasconde alcuni bias epistemologici ed alcuni equivoci concettuali e che produce una – sicuramente involontaria – violenza epistemologica. Con queste domande, beninteso, non intendo affatto suggerire o sostenere che ogni vino naturale lasci soddisfatti e appagati: ovviamente non è così, ma il criterio e il discrimine non possono trovarsi certo richiamando nozioni astratte, imposte, predeterminate di “riconoscimento della qualità” e, come abbiamo scritto prima, di “competenza tecnica”. Occorre perseguire una via diversa.

Mi permetto di rimandare ad alcuni miei lavori, nei quali ho sostenuto che il gusto non è un senso ma un compito; in altri termini, che il buono non è un punto di partenza (prefissato, predeterminato, protocollato secondo criteri a loro volta costruiti e decisi, dalla eno-scienza o dalle mode iper-acide del momento nulla cambia), ma corrisponde esattamente al punto di arrivo. Il buono è ciò che risuona come tale dopo l’esperienza del bere, indipendentemente da ogni considerazione analitica e giudicante. Ma questo non significa – ancora una volta! – dire che va tutto bene, e che il gusto è esclusivamente una questione individuale (“soggettiva”, si dice in senso improprio, a voler significare “libera da ogni vincolo”). Il gusto è sempre vincolato ma al tempo stesso i vincoli li abbiamo creati noi. Come li abbiamo creati, li possiamo modificare. È avvenuto tante volte nella storia del gusto, non solo del vino. Pensiamo a come sono cambiati i paradigmi gustativi della cucina negli ultimi vent’anni. Il gusto è una scienza, ma è una scienza della coscienza: ciò che esso “riconosce” non è la competenza tecnologica, ma quel con-saputo (ciò significa coscienza, cum-scientia) che rimanda a una comunità, a una condivisione, a una comunicazione che si fa nell’esperienza e attraverso l’esperienza. 

Per chiarire quest’ultimo punto, occorre tornare sulla nozione di “difetto”. Che cosa è un difetto? Un difetto è quanto consideriamo fuori del nostro perimetro di condivisione, della nostra disposizione ad accettare bello o buono qualcosa: ciò che non accettiamo oppure che accettiamo pur riconoscendolo come difetto. Come si sa, esiste un’ampia riflessione sull’estetica della natura terrifica e sui piaceri negativi, sul sublime come ciò che disturba ed attira, addirittura sull’estetica del brutto: perché nel caso del gusto del vino non potrebbe essere lo stesso? Nella storia della cultura e delle idee, il vino naturale è stato semplicemente un epifenomeno tardivo di un movimento più ampio e profondo che ha coinvolto arte, comportamenti quotidiani, stili di vita, poesia: perché esso, in quanto artefatto estetico che procura piacere, dovrebbe rimanere ancorato all’estetica del “pulito” e dell’armonico, del levigato e del “bello” intesi come armonia e proporzione? È del tutto normale che vi siano oggi vini che rispondono ad altri criteri estetici. Risolvere la questione lamentando le “puzzette” come lo “scandalo” del vino naturale è davvero miope e sterile. Dissonanze, atonalità, objets trouvés fanno parte di certe poetiche e di certi canoni estetici da almeno cento anni: perché dovrebbe essere diverso, nel vino? Oggi i rischi del vino naturale non riguardano le puzzette. E la volontà di riduzione di stili a indicazioni prescrittive precise non ha alcuna possibilità di successo. Educare al gusto non significa educare a riconoscere l’errore in astratto; significa educare al saper fare esperienza, ed è solo nell’esperienza che un errore viene eventualmente riconosciuto. In questo senso, Miles Davis sosteneva “do not fear mistakes – there are none”: non perché non vi siano errori ma perché essi emergono eventualmente come tali in quanto funzioni di quello che viene performato; non rispondono a regole e principi ma a quanto emerge nella situazione. È la nota successiva che rende eventualmente “errore” la nota precedente. Tutto questo Sandro Sangiorgi lo sa benissimo, naturalmente, perché è tra i primi ad averlo insegnato e proposto nei suoi corsi di educazione al vino. 

Ma non è solo una questione storica, quanto ontologica ed epistemologica. Facciamo un esempio: la “volatile troppo alta” sarebbe un “difetto”; ma in che senso? Troppo rispetto a cosa e a chi? Come è chiaro, “troppo” è una proprietà relazionale, relativa a una misura, a un quantum che è stato stabilito essere quello “giusto”. Bene. Ora, accade però che un gruppo di appassionati cominci ad alzare questa asticella, spostando la misura più in alto. Ciò che era troppo diventa normale, e la prova è che quel vino provoca piacere. Nessuno potrà farci niente, perché l’artefatto del vino funziona esattamente come le altre opere dell’ingegno umano legate al senso estetico: appagano o non appagano, soddisfano o non soddisfano. Non è come un difetto riscontrato in un motore di un aereo, rispetto alla presenza del quale chi ne venisse avvisato o se ne accorgesse eviterebbe senz’altro di farne esperienza. Certamente, vi sono difetti sottoposti a un regime di accettabilità diverso da quello della volatile alta: sono quelli dovuti a inconvenienti o malattie quali, per esempio, il tappo, la muffa, il filante o il girato. In questo caso, tali caratteristiche sono considerate “difetti” in modo più universale e condiviso (sebbene vi siano persone che non si accorgono di queste cose e bevono tranquillamente i vini che ne soffrono), e su questo non vi sono accese discussioni. Nel manifesto, si citano “infezioni endemiche e grossolane riduzioni”: niente da eccepire, nella misura in cui queste caratteristiche vengono respinte da “tutti” in modo condiviso. Il punto, tuttavia, è che non esiste né può esistere un confine preciso e insuperabile, stabilito a priori e “oggettivo”: i confini mutano, e ciò dipende dalla discussione che eventualmente ne sorge. Laddove una discussione sorgesse, e quando qualcuno – una comunità più o meno piccola – decidesse di trasfigurare una qualità negativa riconoscendola come positiva, che procura ad alcuni appagamento e piacere, non si potrà fare nulla se non continuare a discutere, dissentendo ma rispettando chi ha realizzato il vino in quel modo, consapevolmente e con cura. Non ci sono manifesti o protocolli che tengano: il gusto è dialogo, negoziazione, apertura ed ascolto, non trasmissione di competenze per riconoscere e separare in modo definitivo il bello dal brutto, il buono dal cattivo, il giusto dallo sbagliato. Il gusto come compito mette così anche in discussione la figura del maestro come autorità ultima: il maestro è necessario ma come finzione utile per superarla. Il gusto trascende il maestro, perché rimanda a un sentire insieme, cum-scientia, nel quale sono necessariamente inclusi anche gli ignari e i bifolchi, gli sconsiderati e gli indifferenti. 

Voglio concludere ribadendo quelli che penso essere oggi i veri rischi per il vino naturale e suggerendo una modesta proposta per cercare di evitarli. Il manifesto parla di lassismo, indulgenza, mancanza di custodia, dal lato del “produttore” di vino; di necessità di educazione percettiva dal lato del “degustatore”. Nonostante io creda, per ragioni che ho avuto modo di spiegare ampiamente altrove (5), che il vino naturale non sia da intendersi come prodotto, che quindi il suo maker non debba intendersi come produttore, e che l’approccio che esso reclama non debba essere quello della degustazione ma dell’assaggio, ciononostante condivido in pieno l’enfasi su tali aspetti. Oggi serve una nuova conoscenza del fare e del gustare, basata su cura, impegno, rigore, attenzione, condivisione spirituale e radicalità di approccio. Il vino è un’altissima bevanda e chiede la stessa serietà e lo stesso rigore nel farlo e nel berlo; l’ideologia della distrazione e dell’approccio superficiale e immediato, “glou glou”, che caratterizza certa “cultura” hipster contemporanea che si è appropriata del vino naturale, rischia di obliarne la profondità simbolica, sociale, poietica. Rischia anche di far perdere consapevolezza di ciò che il vino può fare e può restituire a chi lo beve. Su questo, credo di poter dire che condivido completamente le ragioni di Sandro Sangiorgi. Troppo spesso sono stati immessi sul mercato vini naturali-prodotto, cioè realizzati solo secondo ricette standard e che producono percezioni standard, senza alcuna passione della conoscenza né alcuna consapevolezza del fatto che fare vino, come gustarlo, è sopra ogni cosa un’esperienza della coscienza. Per questo, per ragioni di fondo e strategiche, io credo che sia opportuno insistere su questo e non sul ritornello delle “imperfezioni tecniche” che necessiterebbero “competenze” altrettanto tecniche. 

Il vero rischio è non comprendere che il Vino Vero, cioè naturale, non riguarda la produzione di un gusto.  Incuria e lassismo si manifestano soprattutto nel non sapere, nel non voler capire, che il Vino può fare e dare molto di più che offrire un profilo sensoriale. Che il piacere e il godimento passano dalle “qualità sensibili” ma le trascendono. Il vino vero non ha a che fare con la produzione di un gusto (sensibile) fine a se stesso; con un riconoscimento qualitativo basato su elementi sensoriali: pulizia, freschezza, la “bella acidità”, ecc. ecc.; tutto ciò è accessorio, ornamento, belletto, certo utile ma inessenziale. Ciò che occorre oggi al vino vero è la consapevolezza di tutto questo, ed educare al vino significa educarsi al passaggio dall’esperienza del gusto al gusto dell’esperienza. Il gusto dell’esperienza è quella coscienza del gusto che sente al di là, o al di qua, del buono come opposto al cattivo, del bello come opposto al brutto. È quell’approccio, quell’attitudine che attraversa il profilo sensoriale ma non si ferma lì; che percepisce la storia e la vita di quel liquido in quella bottiglia. Nel caso, anche per allontanarsene, per dissentire o rifiutare. Ma a partire da una connivenza di fondo, da una coscienza del senso del vino come gusto, prima o dopo, i suoi “sapori”; prima o dopo il riconoscimento di puzzette e instabilità. La sostanza del vino non viene certificata dal lavoro dei sensi. È certo indispensabile passare dall’esperienza sensibile, attraversarla con consapevole attenzione, con concentrazione e collusione, con passione vigile e critica; ma poi essa si trascende nella coscienza del gusto come gusto dell’esperienza in quanto tale: il gusto della vita che ci accomuna. In questo momento abbiamo bisogno di ritrovare, anche attraverso il vino vero, universalità che travalicano le distinzioni e gli steccati. Le differenze sensoriali, le differenze geografiche, le differenze culturali sono certamente aspetti interessanti e degni di studio, ma solo se vengono tenute insieme da uno sfondo che accomuna. In questo senso, il vino vero – scrivo in Epistenologia – non è il vino che si preoccupa di rimarcare le differenze di luogo in senso statico e predeterminato. Il vino vero è innanzitutto vino, prima ancora di essere vino di (un luogo o un produttore). In altri termini, c’è un’universalità, un riconoscimento che è prima del profilo sensoriale e al quale occorre sensibilizzarsi: se ci si concentra da subito analiticamente sui profili sensoriali, sulle pulizie, sulle stabilità, si rischia di tornare indietro e di perdere il senso puramente ontologico del vino. Restituire un luogo non è costruire una cartolina di distinzioni (in questo, la tecnica enologica sta raggiungendo oggi risultati sempre migliori, che porteranno probabilmente a produrre vini “perfetti”, sotto questo profilo); restituire un luogo significa restituire il senso della consapevolezza della vita sulla terra, vita che attraversa unità e differenze, continuamente e senza predeterminazioni. Anche io penso che oggi vi siano, e purtroppo sempre di più data la crescita del movimento e l’inevitabile “moda”, sempre più vini veri “fasulli”, vini naturali noiosi e banali; posso anche tranquillamente dire fatti “male”. Ma questa falsità, questa noia, questo “male” non dipendono dall’incompetenza tecnica, questo è un dettaglio sul quale si sorvola volentieri quando c’è altro. Dipendono, invece, da qualcosa di ben più grave: da un’incuria esistenziale e da una mancanza di custodia della nostra consapevolezza di esseri coscienti, dalla quale il gesto di fare vino vero cioè naturale essenzialmente dipende.

(1) Userò questi termini come sinonimi e senza ulteriori chiose e precisazioni, sia per non ripetere ciò che è stato già abbondantemente chiarito in questi anni (in particolare da Sandro Sangiorgi in L’invenzione della gioia. Educarsi al vino. Sogno, civiltà, linguaggio, Porthos Edizioni, Roma, seconda edizione, 2015), sia perché non è il tema del mio intervento.

(2)  N. Perullo, Epistenologia. Il vino come filosofia, Mimesis, Milano, 2021.

(3) Sul tema della tecnica che da strumento diventa fine, si veda E. Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano, 2009.

(4) F. Bonomi, Lo potevo fare anch’io. Perché l’arte contemporanea è davvero arte, Mondadori, Milano, 2007.

(5)  N. Perullo, Epistenologia. Il vino come filosofia, cit.

Le foto sono di Nicola Perullo

Aut/Aut

Di William Allen Rogers – New York Herald (Credit: The Granger Collection, NY), Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4858184

Aut-aut o vel-vel. Gli antichi romani distinguevano: nel primo caso si trattava di una disgiunzione esclusiva, che implicava una scelta netta: o questo o quello, tertium non datur. E non si trattava solo delle opzioni di preferenza, ma anche dell’attribuzione inequivocabile dello statuto di verità: se questo allora non quello.

Nel secondo caso, a proposito di vel-vel, invece, si faceva riferimento ad una disgiunzione inclusiva, dove “o – o” implicava la possibilità di coesistenza di entrambe le porzioni dell’enunciato, ovvero che entrambe fossero vere anche se alternative di fatto.

La matematica, dal suo canto, ha assunto entrambe le espressioni: la disgiunzione esclusiva prevede che un enunciato sia vero soltanto se le due proposizioni che lo compongono abbiano valore di verità opposto (aut/aut); al contrario, l’espressione «p o q» è vera quando almeno uno dei due enunciati, p e q, è vero, ma non si esclude che lo siano entrambi (vel-vel).

Quando veniamo messi, o poniamo qualcuno, di fronte ad un’alternativa secca, dirimente e impossibile da conciliare in alcun modo, il disagio, talvolta l’incredulità e la sensazione intollerabile di “spalle al muro” sovrastano e compongono abbondantemente lo stato d’animo del sentenziato.

La mente corre veloce alle possibili alternative, senza mai trovarle, e insegue incessantemente il percorso storico e personale che ha portato al dirimente aut/aut: gli errori, le manchevolezze, le complici distrazioni, la noncuranza, la sufficienza mentale e le sufficienze dimostrate. Il più delle volte ci si accorge che altre strade potevano essere percorse in modo più fecondo, più utile e meno disastroso. Altre volte no, ma nella stragrande minoranza dei casi.

L’unica vera sensazione è che quell’aut-aut non corrisponda in alcun modo ad una scelta, ma ad un vincolo a cui ci hanno o ci siamo condotti.

Quando trasferiamo dal piano individuale a quello collettivo gli stessi postulati logici, dovremmo essere consapevoli che il meccanismo è pressoché identico.

Allora solo in questo senso possiamo pensare che, come sosteneva Sören Kierkegaard, «il mio aut-aut non significa la scelta tra bene e male, ma la scelta per la quale ci si vuole porre o non porre di fronte all’antitesi bene e male».

E quando abbiamo deciso di metterci di fronte a quell’antitesi, le nostre opzioni potrebbero divergere radicalmente, perché ancora prima discordiamo sul senso, sui metodi e sui contenuti dell’antitesi stessa.

Aut/aut e né/né condividono lo stesso impianto logico, anche se appaiono in opposizione. Una precoce, chiara e onesta presa di posizione eviterebbe, a molti voltagabbana, tardivi e soprattutto opportunistici posizionamenti. Affermare che qualcuno andava bene fino ad un determinato momento (ad esempio la retorica fascista secondo cui Mussolini avrebbe fatto bene sino al momento in cui schierò l’Italia in guerra) significa non aver in alcun modo capito chi era quel qualcuno o, peggio, esserne stati complici. Non meglio si conforma l’opportunistica e sorniona indifferenza. E sarebbe meglio che ciò capitasse prima di trovarsi con le spalle al muro e di sentirsi dire, con protervia e arroganza che, data la situazione, ora non ci sono alternative possibili.

La Teoria del Tutto del vignaiolo a ritroso

Incisione del XVI secolo attribuita ad Hans Holbein. Da Astronomie Populaire di C. Flammarion, Paris, 1880

La  “Teoria del Tutto” (Theory of Everything)  si vorrebbe in grado di spiegare razionalmente, mediante un unico insieme di leggi, tutto l’universo osservabile: unificherebbe tutte le interazioni fondamentali della natura, che sono solitamente considerate essere quattro in numero: gravità, forza nucleare forte, forza nucleare debole e forza elettromagnetica. La Teoria delle Superstringhe, che parte dall’idea di una riformulazione del concetto di particella elementare considerata come una vibrazione di una minuscola corda o stringa, è, fra tutte le Teorie del Tutto, la più importante. Il sogno è nondimeno antico: Stephen Hawkin affermò che “se riuscissimo a scoprire una teoria completa potremmo chiederci perché l’universo esiste. E, se trovassimo la risposta a quest’ultima domanda, decreteremmo il definitivo trionfo della ragione umana, giungendo a conoscere il pensiero stesso di Dio”.

Anche l’enologia sperimentale, a fondamento quantistico e con necessarie derivazioni escatologiche, ha messo a punto un sistema a procedimento reversibile che, partendo dal vino, sarebbe in grado di riprodurre gli acini delle uve di provenienza. Dal pensiero di Dio al pensiero del Vignaiolo.

L’operazione enologica non è semplice giacché dovrebbe superare uno dei teoremi di Kurt Gödel relativi all’indecidibilità: in qualsiasi sistema assiomatico coerente, ossia costruito sulla base di un numero finito di assiomi e che non contiene contraddizioni, esisterà sempre una proposizione la cui verità (o falsità) non potrà essere dimostrata all’interno di questo sistema.

Il tentativo messo in atto, tramite una modifica strutturale della macchinetta ottocentesca di Madamigella Gervais, parte dalla ricomposizione di due molecole di acido piruvico: così facendo si riformano felicemente gli zuccheri complessi e conseguentemente l’enzima invertasi torna a essere lievito. A questo punto l’energia viene incanalata per brevissimo tempo in una sorta di buco nero temporaneo: l’informazione iniziale viene restituita dapprima come vinacciolo e infine come acino completo. Il gioco è fatto, nella sua natura indimostrabile, ma molto utile nel caso di notevoli scorte di vino invenduto.

Perché, ed è questo il punto, molti vorrebbero tornare a ciò che era il meglio, o il meno peggio, in una sorta di nemmeno tanto recondito punto di partenza dal quale immaginare un percorso del tutto nuovo o parzialmente nuovo.

I nuovi Guardiani della voce

Allegoria del Silenzio nel chiostro del monastero di Santa Chiara a Napoli
Di Lalupa – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2865662

La formulazione di prove, a cui seguono doverosi ammonimenti pubblici e privati, sull’incessante produzione di notizie false che trovano adeguato spazio e idoneo ricovero nelle più svariate teorie comunicative, coglie in questo momento il suo apice discorsivo. Non mancano di certo i numi tutelari delle verità prime e ultime e di ogni fugatore di dubbi ancorché minimi. Il loro modo di procedere segue la retta via dell’entimema aristotelico (il sillogismo non irrefutabile) e si accompagna con un corpulento bastone dell’irrisione volto a provare che tutte le altre ipotesi, e non solo qualsiasi annotazione provatamente falsa su cui non vi sarebbe alcunché di male, rientrerebbero nelle teorie del complotto o della cospirazione. La notizia, ogni notizia, viene letta all’interno di un codice assiomatico prestabilito entro cui deve forzatamente rimanere. Nel caso in cui vi fossero degli scostamenti semantici, questi verrebbero sapientemente evitati e, qualora si presentassero ritrattazioni o nuove prove a confutare le prime deduzioni, l’atteggiamento potrebbe biforcarsi o nel diniego della notizia stessa o in una replica minimale e stanca. 

La smentita, come sappiamo bene, non ha (non può avere) lo stesso spazio espositivo della notizia infondata o parzialmente vera o inopinatamente non verificata a cui muove in replica. Ne andrebbe comunque dello stato di solennità, di protervia acquisita e incessantemente dimostrata di cui sono pervasi. Perché la verità assoluta funzioni deve contenere un ordine interno definito, prestabilito, non modificabile, assolutamente autosufficiente e corredato di una adeguata proprietà transitiva: se A = B e B = C, allora A = C. In ogni ragionamento di questo tipo, meccanico nella sua essenza, ogni interferenza che vada a porre in discussione, il che significa non necessariamente negare, l’uguaglianza di partenza (il postulato), può non solo non trovare alcuno spazio argomentativo, ma addirittura la semplice assunzione discorsiva (è soggetta ad rifiuto a priori). 

Altre volte la tecnica persuasiva, che produce il suo assoluto, utilizza l’omissione della premessa: viene dato per scontato ciò che in essa si asserisce (si strizza l’occhiolino ai riferimenti condivisi senza citarli), negando così ogni possibilità al dubbio e col risultato di influire in maniera diretta sulle opinioni dei destinatari. In molti casi i detentori delle verità assolutizzate procedono per formulazioni interrogative implicitamente retoriche in cui dati di differente spessore e valore vengono sostanzialmente appianati ed equiparati. Per costoro lo scambio tra fatti, realtà e verità è, in tal modo, presto che detto: essi sono un’unica e inequivocabile entità. Non procedendo nella separazione tra ciò che accade, ciò che potrebbe accadere e ciò che non si sa che sia accaduto (le ragioni della censura e delle omissioni possono essere molto ampie e variegate) e l’interpretazione dei fatti stessi, essi concorrono nella formulazione di un unico principio totale autogenerantesi: la verità, sovrapponibile alla realtà in tutto e per tutto è, per i nuovi apostoli delle verità incondizionate, una, univoca e mai opaca tanto nelle sue premesse quanto nelle sue realizzazioni o nei suoi sviluppi. 

I nuovi guardiani della voce, alla pari dei silentiares romani e bizantini, del quaestor di Giustiniano, «rendono evidente la pressione del potere sulla vocalità; e se con i silentiares si realizza il contenimento delle voci declassate e infime – quelle dei subalterni, dei funzionari, dei servi e del popolo – con il logoteta il processo assume la forma dell’autocostrizione: qui è la voce dell’auctoritas che sceglie un interprete che parli in sua vece, mantenendo così, al tempo stesso la possibilità del comando e la caratteristica dell’”assenza”, prerogativa del numen» (Roberto Mancini, I guardiani della voce. Lo statuto della parola e del silenzio nell’Occidente medievale e moderno, Carocci, Roma 2002, pag. 40)

Non si tratta di prendere ogni proposizione per buona, né di sostenere la parità di valore, sia nel suo significato tecnico, etico e politico, di ogni argomentazione. Le fonti hanno un proprio statuto di autorevolezza differente sia per contenuto che per consistenza che per provenienza: occorre verificare con accuratezza i criteri di prova o la mancanza degli stessi in misura sufficiente da costituire criterio esplicativo esaustivo; occorre mettere in risalto  eventuali contraddizioni tra elementi discordanti; occorre specificare il sistema di relazioni politiche, economiche, sociali… entro cui la notizia prende forma; occorre determinare le relazioni di potere in cui le pratiche discorsive trovano spazio allo stesso modo in cui altre vengono tacitate o espulse; occorre attendere o non procedere quando non si può fare diversamente. Lontani da ogni informazione sentenziante, poiché questa è concessa solo alle opinioni.

In onore delle badanti. Ucraine, russe, bielorusse, moldave, georgiane… di tutto il mondo

Da molte lune faccio un lavoro che è difficile raccontare ai più, ma che potrebbe stare sì e no così: supporto, oriento e ascolto (non necessariamente con questa scansione temporale) persone che hanno perso un lavoro, che non lo hanno mai avuto, che forse non lo cercano neppure, o che lo cercano con quella dignità che sarebbe dovuta ad ogni essere umano, che si arrampicano nella vita e a cui sono capitate cose che non sospettavano neppure arrivassero sino a quando non se le sono trovate lì davanti: “mai avrei pensato che l’azienda chiudesse!; ci hanno tenute in bilico fino all’ultimo!….” Fabbriche dismesse, uffici ricollocati, riduzioni di personale, troppo vecchi per un lavoro e talvolta troppo giovani per andare in pensione; abbastanza o molto qualificati, ma “cerchiamo dei giovani da formare magari in tirocinio”; troppo “donne” per poter rivaleggiare in accudimenti a cui i troppo “maschi” sono esentati per una sorta di primato storico che un giorno o l’altro dovrà finire come tante delle ingiustizie di questo mondo. Povertà che subentrano, separazioni, allontanamenti, mancati contributi del “quando ero ragazzo le marchette non me le versavano”, redditi di sopravvivenza, violenze subite come di quelle donne massacrate di botte dai loro omuncoli e a cui cercavo di dare sostegno nella ricerca di un’occupazione quasi fosse un barlume di speranza che le potesse togliere, un giorno chissà, dalla dipendenza di qualche stronzo di turno. Ma poi chi dice che il lavoro nobilita? Dipende, soprattutto se non è troppo, se non è a rischio, se è pagato per non dover chiedere, né mendicare ciò che è dovuto, se libera conoscenze, energie, libertà, uguaglianze.

Di lavoratori e lavoratrici ne ho visti qualche migliaio in questi 26 anni. Tra di loro moltissime badanti e, tra queste, tantissime ucraine, russe, bielorusse, moldave. Le ascoltavo attentamente e chiedevo loro se potevano svolgere ancora un lavoro “fisso” o parziale, le notti, i sabati e le domeniche, se avevano esperienza con disabilità, Alzheimer, se riuscivano a sollevare corpi, a fare l’igiene personale. E le ascoltavo, ascoltavo le loro storie, le loro fatiche, i loro malanni, talvolta gravi, e ascoltavo di quelli che avevano lasciato là e che non vedevano da mesi, da anni: figli, nipoti, mariti, amici. E mi raccontavano che prima erano laureate, erano musiciste, erano insegnanti, ingegneri, operaie, maestre. E mi raccontavano, fiere in volto e nella parola, del terrore dei figli in battaglia, nella sordida guerra ad est perché quella grande non era ancora scoppiata: Putin non aveva ancora invaso. La paura era nella voce, negli sguardi, nelle mani; alcune avevano già perso parenti o figli, altre erano terrorizzate solo al pensiero e tutte mi dicevano che ogni forma di guerra, di maledettissima e fottutissima guerra era contro di loro, contro la povera gente e che l’economia era a pezzi e che loro dovevano andarsene per poter mandare dei soldi a casa con cui sfamare o far studiare chi rimaneva. Chiedevo loro se erano adirate con le russe e alle russe se lo fossero con le moldave o le ucraine e così con le bielorusse, le georgiane per quello che stava succedendo e tutte loro mi rispondevano che non capivano molto la domanda perché, qui a Genova, condividevano stanze, fedi, chiese, cibo, aiuto, medicine, vestiti. Ma anche nel loro paese in gran parte era così, perché la cognata era di quel posto e l’altra di quell’altro e poco importava siccome dividevano solo la miseria. La mia era una domanda pretestuosa, ma la ponevo quasi per rincuorarmi: sapevo e so che la stragrande parte delle divisioni formalmente “etniche” sono prodotte dagli artifici di comando.

Poi, pochi giorni orsono, si presentò un’altra donna ucraina. Prima di sedersi ci guardammo dietro le mascherine. Non riuscivo a parlare, non potevo più chiedere. Vidi solo delle lacrime scendere da quei grandi occhi grigio cenere. La feci accomodare ed ultimai le pratiche amministrative richieste.

Se a tempo giusto si capisse, «la verità sarebbe vicina e ampia, sarebbe amabile e mite».