L’immediato e l’emotivo: il culto del gastro-brand nella società come spettacolo. Di Nicola Perullo

La foto è di Nicola Perullo

Nel film The Menu (2022, regia di Mark Mylod) si mette in scena in modo piuttosto feroce una certa immagine contemporanea della cucina d’autore, altrimenti detta di “ricerca” o “avanguardia” o genericamente “creativa” (questi aggettivi sono spesso ma erroneamente usati nel linguaggio fagocitante dell’informazione come sinonimi). E sono rappresentate con notevole enfasi le reazioni e i comportamenti suscitati da questa cucina. Naturalmente, questo film ha prodotto immediati giudizi polarizzati. Non intendo qui esprimere alcun giudizio sul film, né entrerò in una sua analisi complessiva. Piuttosto, l’opera mi fornisce lo spunto per elaborare alcune riflessioni generali. The Menu, intanto, mi è interessato perché non è un film sulla cucina. È una metacritica di un certo modo di intendere la critica. In altri termini, decostruisce una determinata modalità di approccio alla creazione artistica e alla fruizione estetica in generale; ma questa modalità oggi si presenta socialmente con evidenza nell’ambito del gastronomico. In questo senso, il film risuona con molti punti che ho discusso nel mio libro Del giudicar veloce e vacuo. Metacritica della critica gastronomica (2020).

Qual è il punto? Si tratta di evidenziare lo stretto rapporto tra autorialità e immediatezza, tanto nel produrre che nel recepire. Si tratta di evidenziare, altrimenti detto, come la categoria del “nuovo” sia oggi il valore necessario per suscitare immediate reazioni emotive positive; il culto sociale che si alimenta di se stesso e che, per questo, si fagocita continuamente. Pensiamo alla politica, produttrice continua di novità tanto dirompenti quanto effimere; si pensi ai “cambiamenti epocali”, alle notizie da prima, seconda, terza e quarta pagina, completamente dimenticate dopo poco. Si pensi dunque agli chef “nuovi” e ai loro ristoranti. L’immediatezza nel creare corrisponde all’immediatezza nel recepire, nell’accettare: il culto dell’autore è diventato il culto dell’emozione. Ma le emozioni così repentinamente emerse svaniscono altrettanto facilmente.

Che cosa significa oggi “ricerca”, nello specifico campo della cucina ma, più in generale, nel campo dell’opera d’arte se è vero che la cucina può legittimamente essere considerata arte (cfr. Perullo 2013)? E cosa significano oggi le nozioni di “creatività” e di “avanguardia”? E soprattutto: fino a che punto, oggi, la presunzione di una “assoluta” libertà creativa del gesto artistico può essere sbattuta in faccia al fruitore, che sia il cliente di un ristorante o lo spettatore di un film? Ho sottolineato la dimensione della contemporaneità in tali domande perché il tema generale è invero molto antico: la problematicità del rapporto tra produzione e fruizione risale all’origine della creazione di opere per un pubblico, e si specifica poi con l’età moderna in rapporto a un nuovo tipo di società, periodo nel quale nasce anche l’estetica (cfr. Agamben 2022). Le considerazioni filosofiche generali devono riflettere, in modo concreto e specifico, ciò che oggi accade. Innanzitutto, dunque, il film The Menu descrive la figura dello chef-icona, dello chef come brand, rappresentando le diverse reazioni alla creatività assoluta dell’icona e del brand in quanto tale: dalla critica gastronomica di una nota rivista fino all’amatore entusiasta, dagli arricchiti fino ai borghesi, tutti (con la sola eccezione dell’intrusa, la “troll” della situazione e personaggio chiave del film, che però qui non prenderemo in conto) accetteranno, seppure con sfumature diverse, i gesti creativi, cioè autoriali-autoritativi e brandizzati, del cuoco, almeno fino a quando non prenderanno una piega che esula decisamente dal dominio gastronomico, giustificandoli innanzitutto in quanto pura espressione di un brand. Di fronte alla vecchia questione filosofica: “Dio vuole una cosa perché è buona, o una cosa è buona perché Dio la vuole?” la risposta offerta dalla società secolarizzata dell’immediato emotivo è sicuramente la seconda.

La foto è di Nicola Perullo

Questa situazione mette a sua volta in evidenza un altro punto: l’idea della libertà creativa connessa a una “genialità” che diviene marchio, brand, dunque firma riconoscibile, è oggi totalmente funzionale all’industria culturale capitalistica e alle sue logiche di commercio e mercato. In altri termini, ciò che accade è che il sistema non ha più alcun bisogno di “controllare” l’opera (come è invece accaduto nei sistemi della prima modernità, con le censure religiose e poi con le ideologie politiche totalitarie) affinché essa risulti consona, tanto accettabile all’autorità quanto poi gradita al pubblico, dunque vendibile. Ora la vendibilità è l’immagine stessa dell’opera, senza contenuto, perché l’opera, totalmente identificata con la sua firma, viene accettata in quanto brand. Lavorano su questo meccanismo coloro che creano l’opera (non solo il maker, lo chef in questo caso, ma tutto l’indotto: uffici stampa, creatori digitali, comunicatori di varia declinazione) affinché vi sia la fruibilità di un pubblico accettante. Un’accettazione che, in linea ben più che solo teorica, prescinde dunque da ogni considerazione sui contenuti dell’opera. O meglio: la valutazione, come vediamo in The Menu, avviene ex post, a partire dall’accettazione a prescindere: diviene un “giustificazionismo” generalizzato. In altri termini: dato che il brand è autoritativamente imposto, dato che l’informazione lo diffonde e lo rende “vero”, segue che vi sia del merito. Dunque, spetterà al fruitore trovarlo per convalidare la comprensione dell’opera. Credo che questo modello sia stato esemplarmente riassunto dall’idea che oggi circola, cioè che la vera creatività si trovi più spesso nella pubblicità e nel marketing di prodotti che non nel prodotto stesso. Del resto, alcuni anni fa, Jeff Koons, rese quella celebre dichiarazione secondo la quale l’arte non consiste nel fare un’opera ma nel venderla. Analogamente, nel cinema molti critici oggi sono impegnati a giustificare il merito artistico del brand che riempie le sale (pensiamo alla Marvel) proprio in quanto le riempie. Un’altra riflessione si presenta, dunque, quando l’informazione ci propone enfaticamente i risultati della ricerca creativa di molti chef e dei loro ristoranti: dove si investono oggi le maggiori e migliori energie, nel caso specifico in un lavoro sulla cucina o sulla sua comunicazione e promozione?

Torniamo al mito della presunta libertà assoluta di creazione. Se guardiamo attentamente alle politiche messe in atto dalle grandi piattaforme come Netflix, Amazon Prime o consimili, ma più in generale all’industria culturale (a cui anche la cucina appartiene pienamente) vediamo una situazione interessante: il prodotto “creativo”, libero, “avanguardistico” di autori iconici/brand trova sempre più spazio anche sul piano della stessa produzione (pensiamo a film come Roma di Cuarón, The Irishman di Scorsese, Bardo di Iñárritu, ma la lista è enorme e in espansione). L’industria culturale non sta affatto annullando quanto fagocitando l’arthouse, lasciandolo libero come pura firma, come pura forma: ciò vale per il cinema e per l’editoria, la musica e ovviamente i ristoranti. Attenzione, però: il “prodotto artistico” non è però considerato opportuno e accettato soltanto perché consente di continuare a lavorare sui prodotti di massa, i Blockbuster progettati a tavolino. Non è cioè solo questione del fatto – innegabile – che lo stesso proprietario del ristorante stile The Menu possa anche marchiare, brandizzare, pizzerie e paninoteche. È qualcosa di ancora più sottile e insidioso: in quanto è apprezzato come brand, l’arthouse stesso è totalmente parte del medesimo meccanismo della produzionecommerciale propria dei Blockbuster e delle pizzerie. Si tratta di creare icone spettacolari: tanto basta. Il brand è lo spettacolo, l’esperienza nuova che si nutre di sé, indipendentemente da ciò che rappresenta e, nel caso del cibo, da ciò che propone. In The Menu, la figura del “food enthusiast”, il gastrofilo è colui che risparmia denaro per permettersi queste esperienze. Il fan – che non è né il critico né l’arricchito, seppure anche queste figure reagiscano in modi simili – incarna al meglio questo processo di immediatezza emotiva che diviene giustificazione cognitiva: ogni creazione dello chef-brand viene accettata e motivata in quanto proviene da lui. La “libertà creativa” è il dogma, il sacro secolarizzato del sociale spettacolarizzato.

Si scioglie così questo apparente paradosso: nella società dello spettacolo c’è uno spazio preciso, sempre più ampio, riservato alla libertà creativa “assoluta” del gesto artistico: uno spazio curato, organizzato e capitalizzato dallo stesso mainstream contro il quale apparentemente si indirizzerebbe questa presunta “pura” ricerca che si definisce ancora, spudoratamente, avanguardia. La definizione è spudorata perché qui non si sta in alcun avamposto: si è ben saldi e ben piantati (al di là delle vicende individuali anche drammatiche, come ancora una volta mostra bene The Menu) nella bulimia del sistema produttivo. Quello che voglio sottolineare qui è come a tale bulimia produttiva debba corrispondere una bulimia fruitiva; all’iperproduzione corrisponde un’iperstimolazione, più precisamente una volontà continua di “emozionare” (tutti vogliono regalare emozioni; sentiamo continuamente gli chef sostenere che il loro ruolo è “dare emozioni”). Ora, il meccanismo della libertà creativa assoluta come brand e questo bombardamento emotivo, superficiale e alla fine – in modo apparentemente paradossale – anestetizzante, vanno insieme: la prima serve proprio per suscitare apprezzamento emotivo immediato, uno shock funzionale alla mancanza di stratificazione e memoria. Immediatezza e impazienza, produzione di un prêt-à-porter creativo/autoriale. Si pensi a ulteriori tre casi: un film come Babylon di Damien Chazelle, il ristorante Ultraviolet di Paul Pairet o la moda del vino naturale come fenomeno “hipster” sono movimenti che nascono dentro tale meccanismo. Anarchia della creazione produttiva = immediatezza fruitiva emotiva. Di fronte a esse, la narrazione come brand sopravviene: dato che la risposta da dare è immediata, o si rifiuta o si accetta subito. Dato che, nel primo caso, si rischia di non far parte dello spirito del tempo, dell’interesse, allora si opterà per l’accettazione: vedere tutto, ingoiare tutto, una narrazione che sopravviene all’esperienza metabolica della digestione lenta e appassionata. Se Peynaud ne Il gusto del vino teorizzava che il gusto deve adattarsi e adeguarsi alle regole dell’enologia tecnologica, ora il gusto si deve adattare alla pura libertà delle visioni del maker, indipendentemente dal comprenderle o no: il gusto è un equalizzatore di brand. Il feticcio del brand, il brand che diviene l’esperienza stessa. Il feticcio della ricerca assoluta e dell’esperienza assoluta.

Non sto qui suggerendo che un film come Babylon o un ristorante come quello rappresentato in The Menu non possano offrire un’esperienza sensibile appagante, coinvolgente, emozionante, stupefacente o anche solo divertente. Il punto che qui sollevo è diverso: queste opere sono realizzate e prodotte secondo un modello che, basandosi sul criterio dell’accettazione iconica, autoriale-autoritativa prima descritta, le sottrae del tutto alla metabolizzazione, cioè al tempo. Il tempo inteso non come istantaneità della reazione emotiva, ma come durata, passione, memoria e sedimento (cf. Perullo 2013): ciò in cui dovrebbe radicarsi un’opera per corrispondere al farsi di una sensibilità che accomuna. Far attecchire l’opera nell’ecologia, significa realizzare una corrispondenza tra opera e gusto. Questo tipo di lavoro, non la brandizzazione volatile dell’autore dell’opera proprio del marketing del consumismo capitalistico, è stato quello proprio anche delle avanguardie. Ma questo lavoro è un compito senza fine: si sviluppa come densità e processo, sempre in risonanza. Ho provato a suggerire l’ipotesi per questo tipo di lavoro in alcuni miei libri precedenti (cfr. in particolare Perullo 2021) attraverso l’idea di gusto come compito. Percepire è un compito che non si dà mai una volta per tutte, ma si realizza nel processo – perciò chiede attenzione, attenzione e ancora attenzione, non istantanea accettazione né rifiuto, ma tempo. Allo stesso modo, la creazione è compito: giammai libertà assoluta, sciolta da vincoli, ma recupero, relazione, comunanza. La creazione e la ricezione sono libertà dipendenti, cioè vincolate.

La foto è di Nicola Perullo

L’analisi sopra proposta potrebbe anche intendersi anche come critica alla libertà del gusto dei vini naturali, una posizione che si potrebbe apparentemente ascrivere al progetto presentato in Epistenologia? No, ma certo ne costituisce una necessaria precisazione. Da un lato, infatti, non si è mai sostenuto che l’artefatto “naturale” sia di per sé gustativamente apprezzabile in quanto tale: altrimenti, si ricadrebbe nell’obiezione sopra esposta, cioè quella della sacralizzazione del brand come tale, della narrazione che riduce a sé ogni esperienza. Si percepisce sempre dentro una rete ecologica, cioè di relazioni vincolanti, di sedimenti movibili; invece, il mito della presunta libertà creativa, il prêt-à-porter autoriale, allena percezioni istantanee e impazienti, tanto di giudicare quanto di venire stimolate. Dall’altro lato, però, essere consapevoli dei vincoli relazionali non significa lavorare su regole predeterminate e “oggettive”. Epistenologia ha di mira quest’ultimo feticcio, che vale anche per l’arthouse brandizzata e sapientemente “comunicata” nel cinema, nella musica, nella ristorazione, nell’industria culturale in generale. Quindi: né libertà assoluta né regole oggettive, ma compito in quanto continua attenzione. Il gusto è relazione e resistenza: negoziazione, dialogo, costruzione di uno spazio comune. Si tratta di non accettare passivamente: né le regole del mercato mainstream né il brand apparentemente fuori mercato del mercato più sofisticato, quello che mette precisamente in scena il fan gastrofilo nel film The Menu. Si tratta di coltivare meno emozioni e più passioni; educare il percepire per radicare l’opera nell’ecologia di un gusto che al contempo si sedimenta e si ricrea, costantemente.

Come ci ha indicato bene Guy Debord, viviamo nella società dello spettacolo, cioè nella società come spettacolo. Lo spettacolo è il conformismo. Ha scritto Maurizio Iacono:

Nel secolo scorso il conformismo era contrassegnato dall’uso delle camicie tutte dello stesso colore. Oggi avviene il contrario. Il conformismo si presenta con le camicie multicolori, i tatuaggi, l’esibizione sotto le false spoglie della trasgressione. Si era conformisti come il Marcello Clerici del romanzo di Alberto Moravia e del film di Bernardo Bertolucci. Si è conformisti così come ce lo hanno descritto Sandro Luporini e Giorgio Gaber. Questo serve allo spettacolo delle merci e questo si fa in un contesto in cui, immersi come siamo in un presente-eterno e in assenza di qualunque desiderio di un futuro che non sia la falsa speranza individualistica di soddisfare i propri bisogni, la stessa contrapposizione tra destra e sinistra è diventata ormai solo parte della stessa rappresentazione. Questo significa arrendersi? No! Significa soltanto togliersi i prosciutti dagli occhi. Ciò fatto, il resto verrà.1

La società come spettacolo. Ma – come ha da parte sua mostrato bene Calasso (cfr. Calasso 2017) la società è oggi l’unica religione. Quindi lo spettacolo è l’unica religione. Si comprende così il nesso tra immediatezza della produzione, mito della libertà assoluta, generazione continua di brand come “novità”, culto dell’emozione. Inventarsi sempre qualcosa di nuovo per girare a vuoto, ideologizzare l“immersività” come esistesse uno stato di emersione. L’immersività ideologizzata è figlia del culto dell’immediatezza emotiva e produce l’opposto di quanto millanta: essa distrae. Ma per radicare l’opera nell’ecologia di un gusto che si realizza c’è bisogno di continua, infinita, attenzione. Un’attenzione totale.

Il film The Menu ci fa riflettere su questioni essenziali, perché un ristorante come quello rappresentato può nascere solo dentro il sistema dell’informazione e dell’immediato emotivo, nell’età dell’“innominabile attuale” che stiamo attraversando. Inventarsi sempre “nuovi” format di ristoranti perché lo scopo è “dare emozioni”. Però, anticipare quotidianamente il futuro significa diventare professionisti di “novità”; cioè, significa trovarsi da subito già nel trapassato senza essersene consapevoli. Vivendo un tempo accelerato e immediato, ne veniamo ipso facto fagocitati, subendolo passivamente. E The Menu gioca esplicitamente anche su questo fatto perché – come sa bene chi conosce l’argomento specifico di questo tipo di cucina – tutte le novità sono refrain già consunti (il creare un piatto come se fosse un paesaggio, il pane come essenza, il cheeseburger come retorica del non-nuovo, della tradizione per eccellenza, ma anche il piatto che il fan, sfidato dallo chef, realizza, venendone dileggiato. I suoi abbinamenti sono “davvero rivoluzionari”, gli dice sarcastico lo chef). Abbiamo ancora davvero bisogno di spettacolo, di cinema, ristoranti, di “evasione” (ma da cosa dovremmo evadere?). Abbiamo davvero ancora bisogno di “fare nuove esperienze” per alimentare il loro stesso bisogno? Non sarà forse che l’unica, vera novità consisterebbe nel fermarsi, cioè nel non volere programmarsi ad esperire?

Bibliografia

Agamben, Giorgio, L’uomo senza contenuto [1974], Quodlibet, Macerata, 2022

Calasso, Roberto, L’innominabile attuale, Adelphi, Milano, 2017

Debord, Guy La società dello spettacolo [1967], Massari, Bolsena, 2002.

Iacono, Alfonso Maurizio, “Lo spettacolo e il conformismo”, BAC BAC Associazione culturale, https://www.bacbac.eu/2023/02/17/lo-spettacolo-e-il-conformismo, 2023.

Perullo, Nicola, La cucina è arte? Filosofia della passione culinaria, Carocci, Roma, 2013.

Perullo, Nicola, Del giudicar veloce e vacuo. Metacritica della critica gastronomica, Edizioni Estemporanee, Roma, 2020.

Perullo Nicola, Epistenologia. Il vino come filosofia, Mimesis, Milano, 2021.

1 https://www.bacbac.eu/2023/02/17/lo-spettacolo-e-il-conformismo/?fbclid=IwAR3TrWNv13QWpbdFYDAKVMA7GfJkxaiI_f4Bgygt_vrpAWRLr0FOji9q_9c

Le grammatiche della degustazione

Allegoria della grammatica nella Sala delle Arti liberali e dei Pianeti, ad opera di Gentile da Fabriano (1412, Palazzo Trinci a Foligno) Di JoJan – Fotografia autoprodotta, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4134918

Usare, strutturare, definire e comporre una grammatica non significa soltanto fissare e descrivere le norme che regolano l’uso letterario di una lingua. Significa, in altro modo, procedere alla costruzione dei significati politici della lingua stessa, le sue legittimità d’uso, i suoi divieti, le sue prescrizioni e i suoi precetti.
È possibile che, al medesimo tempo, coesistano grammatiche diverse e, a volte, significativamente diverse. La coabitazione non rimanda, però, in alcun modo alla condivisione dei medesimi spazi. Alcune grammatiche prevalgono ineludibilmente sulle altre: vuoi il senso comune che si àncora a motivi precedenti e li traduce in prassi e sentimenti collettivi; vuoi i rapporti di forza (economici, sociali, culturali…) che hanno permesso il prevalere dell’una sulle altre; vuoi le conformità e le difformità collettive di un’epoca; vuoi le strutture che formano e informano i saperi comuni in cui il linguaggio si sforza di rendere comprensibile, a volte plausibile, la cosa a contendere o ad intendere. Parlare la stessa lingua rimanda, metaforicamente, ad un sentire comune e ad intendersi su di esso: “Che cos’è il cibo? Non è soltanto una collezione di prodotti, bisognosi di studi statistici o dietetici. È anche e nello stesso tempo un sistema di comunicazione, un corpo di immagini, un protocollo di usi, di situazioni e di comportamenti. […] Dal momento in cui un bisogno viene preso in carico dalle norme di produzione e di consumo (in poche parole, dal momento in cui passa al rango di istituzione), in esso non è più possibile dissociare la funzione dal segno della funzione reale; il che è vero per l’abbigliamento, ed è altrettanto vero per il cibo; quest’ultimo è probabilmente, da un punto di vista antropologico (d’altronde perfettamente astratto), il primo dei bisogni; ma dacché l’uomo non si nutre più di bacche selvatiche, questo bisogno è sempre stato fortemente strutturato: sostanze, tecniche, usi entrano gli uni e gli altri in un sistema di differenze significative, e a quel punto la comunicazione alimentare è fondata. E la prova della comunicazione non è data dalla coscienza più o meno alienata che i suoi utenti possono averne; è data semmai dalla docilità con cui tutti i fenomeni alimentari costituiscono una struttura analoga agli altri sistemi di comunicazione. Gli uomini non hanno difficoltà a credere che il cibo sia una realtà immediata (bisogno o piacere), senza che ciò crei un ostacolo al fatto che esso costituisca un sistema di comunicazione. E il cibo non è il primo oggetto che essi continuano a vivere come semplice funzione, proprio nel momento stesso in cui lo costituiscono come segno”. (Roland Barthes, L’alimentazione contemporanea”, in Scritti, a cura di Gianfranco Marrone, Einaudi, Torino 1998)
Quando il parlante esplicita i principi e il senso delle sue proposizioni, ebbene, proprio in quel momento redige una nuova grammatica. Il successo o meno di questa grammatica dipenderà da diversi fattori e condizioni: ancora una volta non è possibile darsi spiegazioni senza coinvolgere molteplici motivi, di peso, di misura e di temporalità. Ogni profeta e condottiero o leader autentico “«enuncia, crea e promuove nuovi precetti»; ma tale novità, questo è il punto fondamentale, non è l’espressione di una «semplice alternativa», ma di una «presa di posizione» interna ad una struttura valoriale polarizzata, i cui poli sono «senza possibilità di conciliazione», sono cioè connessi gli uni agli altri da una connessione di tipo grammaticale. L’enunciazione del pretendente capo carismatico non avrebbe cioè alcun senso sociologico se non fosse l’espressione di una presa di posizione oppositiva espressa, in questo caso, nei confronti di un co-esistente ordine normativo di tipo impersonale”. (Andrea Sormano, Weber, Wittgenstein e la grammatica del senso, in Quaderni di sociologia 17 | 1998 -Mutamenti della struttura di classe in Italia, teoria e ricerca p. 124-146)
In ogni caso e in qualunque modo grammatiche molto diverse o sostanzialmente antitetiche gravano su strutture morfologiche alle quali si adeguano e che parzialmente trasformano o che radicalmente rifiutano.
Nelle degustazioni sensoriali del vino prevalgono, e non da ora, le grammatiche delle variegate associazioni di sommellerie, le grammatiche delle guide, le grammatiche di scrittori e divulgatori che, per ragioni che sarebbero troppo onerose da indagare, hanno imposto un loro linguaggio ad una comunità di discenti e di appassionati. Dall’altro lato si sono formate, in tempi sicuramente più recenti, altre grammatiche che hanno rotto, o provato a infrangere le prime perché ritenute inadeguate al racconto del tempo presente, alle sue strutture, alle sue innovazioni tecnologiche, ai nuovi modelli produttivi (ecologici), alle nuove forme di comunicazione che sono irrotte in un mondo fortemente ancorato al cartaceo/analogico e ai nuovi o costituendi rapporti di forza. Alle estremità si sono formate grammatiche, che rifiutano la codificazione concettuale assiomatica delle stesse, portando altrove lo sguardo dei convenuti. Anche a tal proposito si potrebbe dire che “quando si vuole provare la mancanza di senso delle locuzioni della metafisica – scrive Wittgenstein in un passo della Grammatica filosofica – spesso si dice: «Non potrei immaginare il contrario di ciò» […] Ebbene, se non posso immaginare come sarebbe altrimenti allora non posso neppure immaginare che è così. Senza otium non c’è neg-otium”. (Andrea Sormano, cit.) In questo senso la rottura procedurale avviene secondo il principio per cui la matrice di ciò che chiamiamo “degustazione” sta nella trasformazione della casualità in una tecnica metodica: “L’assenza di fondamenti basici per le nostre procedure linguistico-concettuali, così come per le nostre imprese cognitive, non è la denuncia della circostanza che i nostri sistemi di conoscenza sarebbero regolati su assunzioni ideali, concettuali prive di fondamento, sprovviste di uno statuto di legittimazione. L’assenza di fondamento, al di là della dimensione cognitivo-simbolica, si prolunga sullo stesso terreno originario della matrice pratica come modo di operare, come procedura comportamentale infondata. La prassi è una condotta infondata. (…) Quella che si chiama conformità di una prassi ad una regola è a sua volta una funzione di condotta pratica. Sono ancora l’operare, la prassi a decidere in ultima istanza il modo in cui una rappresentazione, una struttura simbolica possono fungere da norme o criteri di disciplinamento di un decorso di operazioni” (Aldo Gargani, Il sapere senza fondamenti. La condotta intellettuale come strutturazione dell’esperienza comune, Einaudi, Torino 1975, pag. 94). Quindi non stiamo parlando della contrapposizione tra grammatiche della degustazione (AIS, riviste….) e non grammatiche (cfr. Nicola Perullo, Epistenologia I e II, e Estetica senza (s)oggetti): per prima cosa perché le seconde non si oppongo né si contrappongono alle prime in una logica di prevalenza. Al contrario le seconde agiscono, interagiscono e si sottraggono alle prime attraverso sistema di scartamento, di smarcamento, di ricostruzione di una linguistica concettuale, quindi di una grammatica distinta, a partire dalla prassi. Il “con il vino” di Nicola Perullo rimanda chiaramente a queste ipotesi.
La libertà rivendicata della “degustazione” come strutturazione metodica del caso trova linee di fuga, ispirazioni, rotture e capovolgimenti soltanto nella cognizione piena dalle regole apprese e disciplinate: “Un’altra falsissima idea che pure ha corso attualmente è l’equivalenza che si stabilisce tra ispirazione, esplorazione del subconscio e liberazione; tra caso, automatismo e libertà. Ora, questa ispirazione che consiste nell’ubbidire ciecamente a ogni impulso è in realtà una schiavitù. Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo d’altre regole che ignora”. (Raymond Queneau, da Segni, Cifre e Lettere, citato in Italo Calvino in Lezioni Americane, Garzanti, Milano 1988)
Proprio perché “il pensiero è una paura trasformata, è una paura che si è data un’attrezzatura metodica”. (Gargani, cit. pag. 95)

 

Estetica senza (s)oggetti. Linee di fuga creatrici

La foto è mia e il caffè me lo sono bevuto. Questo non è un caffè

Ho avuto, per lungo tempo, l’erronea impressione che Nicola Perullo scrivesse di filosofia e, ancora meglio, di estetica. Non che non sia un filosofo, sebbene io non sappia di sicuro cosa sia un filosofo almeno dai tempi di Eraclito, né che non si occupi di estetica, ovvero di quella branca oscura della voluttà più o meno conscia e più o meno veicolata.

Ma nulla di tutto questo. Sappiamo da svariati secoli che se c’è qualcosa che inganna queste sono proprio le parole: subdole, infingarde, tentatrici, incomplete, esse rimestano nel torbido almeno tanto quanto le nostre coscienze (sempre che sia dimostrabile che ne abbiamo una o più d’una o almeno qualcuna in prestito): “La coscienza si manifesta, però, viene e percepita, ‘saputa’, solo in quanto – nella e con – specifica esperienza: è un percepire consapevolmente con, un sentire/sentirsi pensare/pensarsi indissolubile, del tutto irriducibile alla cognizione. La coscienza si conosce solo in quanto la si esperisce, vivendola, attraverso quella inaggirabile singolarità percettiva” (pag. 46).

D’altra parte Perullo non cita tanto per fare Wittgenstein quando afferma che i termini ‘buono’ o ‘bello’ non sono affatto caratteristici, al pari del costrutto sintattico ‘Questo è buono/bello’, ma ciò che conta è l’occasione in cui vengono detti, ovvero il contesto espressivo e relazionale: “le parole fanno parte di un’annodatura processuale che si manifesta, in ogni occasione, come evento differente” (pag. 189).

Nicola Perullo ci porta per mano all’interno di una casa degli specchi dove le parole, prese singolarmente, sono semplicemente identiche a se stesse e non hanno alcuna capacità, né tantomeno volontà, di esprimere un senso compiuto poiché prive di un tessuto relazionale. Allo stesso modo le proposizioni, i cosiddetti ‘concetti’, non hanno alcuna funzione esplicativa, raziocinante, definitiva. E neppure l’Eco sociale, da sé, è in grado di svincolare il tessuto molteplice delle parole perché esse, ripetute infinitamente di fronte al proprio Narciso riflesso (soggetto e oggetto sono una cosa sola), sono illusorie.

Quasi immediatamente, per processo associativo, mi sono venute in mente le teorie sociologiche sul ‘frame’ e sui ‘framework’ di Ervin Goffman[1] e, ancor meglio e diversamente, quelle estese dall’antropologo scozzese Victor Turner al teatro, alla performance e all’idea di ‘margine’ o di ‘limen’. Ma ascoltiamo direttamente Turner: “Le regole ‘incorniciano’ il processo teatrale, ma quest’ultimo trascende la sua cornice. Un fiume ha bisogno di argini per evitare le sue pericolose inondazioni, ma gli argini senza un fiume sono l’immagine stessa dell’aridità. Il termine ‘performance’ deriva dal francese parfournir, che significa letteralmente ‘fornire completamente o esaurientemente’. To perform significa quindi produrre qualcosa, portare a compimento qualcosa o eseguire un dramma. Ma secondo me, nel corso della ‘esecuzione’ si può generare qualcosa di nuovo. La performance trasforma se stessa. Le regole possono incorniciare la rappresentazione, ma il lusso dell’azione e dell’interazione entro questa cornice può portare a intuizioni senza precedenti. È possibile che in questo caso le cornici teatrali tradizionali vadano sostituite: nuove bottiglie per il vino nuovo[2]”.

Da qui il termine ‘flusso’ che “denota la sensazione olistica presente quando agiamo in uno stato di coinvolgimento totale ed è una condizione in cui un’azione segue all’altra secondo una logica interna che sembra procedere senza bisogno di interventi consapevoli da parte nostra (…). Ciò che esperiamo è un flusso unitario da un momento a quello successivo, in cui ci sentiamo padroni delle nostre azioni, e in cui si attenua la distinzione tra il soggetto e il suo ambiente, fra stimolo e risposta, o fra presente, passato e futuro[3]”.

In queste condizioni la performance si afferma come una pratica totale dove si realizza la perdita dell’io (intesa come privazione dell’ego) in una piena fusione tra atto e coscienza dove conta il momento, il qui e ora, nel quale il processo accade. L’agire intrapreso non è contraddittorio e il flusso non ha bisogno di finalità o ricompense esterne (è autotelico). Ugualmente Perullo afferma che “l’estetico accade quando una relazione richiama consapevolmente la singolarità di un evento qui e ora, come relazione, cioè come sua apertura simultanea all’ovunque e sempre dell’intessitura complessiva dell’accadere/mondo”. (pag.98)

Il limite, dunque, non è solo l’ostacolo o la forma di contenimento, ma è quel luogo in cui si perdono i riferimenti precedenti: la liminalità è la condizione in cui avviene la “scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o ‘ludica’ dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra[4]”.

Il parlare, le mute eloquenze[5], l’agire all’interno delle relazioni fra campi che costituiscono la continua formazione dell’opera di cui il giudizio estetico ne è l’espressione abbreviata e tagliata non riguardano incontri già accaduti, si direbbe ‘passati’, ma invece quelli pienamente ‘presenti’ in quanto corrispondenti e attualmente recepiti (pag.128).

Dicevo, al principio di questa breve disamina, che di un testo puntuto e felicemente indisponente come “Estetica senza (s)oggetti” avevo erroneamente pensato fosse un trattato filosofico al pari degli altri scritti di Perullo. Si potrebbe discutere a lungo su che cosa sia il filosofare, ma è indubbio, almeno per me, che questo libro occupa uno spazio pienamente politico (rinvio all’altro scritto di Perullo, Epistenologia, e al riferimento all’estetica anarchica). Anche questa volta si potrebbe polemizzare a lungo che cosa sia il politicare: quello che so di certo è che ha poco da spartire con quella che è considerata la professione della politica strettamente intesa e con tutti i politicismi a cascata: “Se si parte dal (s)oggetto, sarà inevitabile cedere alle leggi del(la) Capitale, che si infiltreranno ovunque: denaro (capitale finanziario), cultura (capitale culturale), viventi (capitale umano) e menti filosofiche. Il ‘capitale culturale’ è il business del pensiero e coincide col modello capitalistico-finanziario della banca. (…) Il percepire estetico e aptico non cerca di comprendere, di aggredire e di attanagliare qualcosa per sentirlo; non cerca di “fare esperienza” come movimento attivo intenzionalmente indirizzato verso qualcosa; non cerca neppure il godimento. Non cerca letteralmente nulla (…) Educarsi percependo è un processo di apprendimento, non a contenuti ma all’ad-tendere: attenzione e attesa. E non l’attesa di qualcosa, ovviamente: attesa come inclinazione, volgersi, considerare (cum sidera). Imparare ad attendere è anche pazienza: supportare/sopportare, patire. È quindi anche disimparare, disallineandosi dal dominio percettivo prevalente dell’accumulazione e della linearità. Senza obiettivi predefiniti né scopi, questo educarsi esprime il senso della continua fioritura umana nel contesto più ampio della corrente del vivere” (pp. 176, 177).

Come nel romanzo kafkiano la metamorfosi produce una deterritorializzazione dell’uomo e crea una “linea di fuga creatrice che non vuol dire null’altro che se stessa”: “Uno scrittore non è un uomo-scrittore, è un uomo politico, è un uomo-macchina, è un uomo sperimentale – che cessa così di essere uomo per diventare scimmia, o coleottero, cane, topo, divenire-animale, divenire-inumano (…)”. La scrittura diviene, dunque, “un’enunciazione che fa tutt’uno col desiderio, al di sopra delle leggi, degli stati, dei regimi. Enunciazione sempre storica, politica e sociale. Una micro-politica, una politica del desiderio, che metta in causa tutte le istanze[6]”.


[1] Cfr. Ervin Goffman, Frame analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Armando Editore, Roma 2001

[2] Turner V., Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986, pag. 145

[3] Csikszentmihalyi M., cit in Turner V., Dal Rito al Teatro, p 105

[4] V. Turner, Antropologia della performance, Bologna, Il Mulino 1983, pag. 187

[5] “Parlano le mani tutto ciò che la lingua sa dire, e l’arte sa fare; tutte le dita sono alfabeti; tutto il corpo è una pagina sempre apparecchiata a ricever nuovi caratteri, e cancellarli”. Emanuele Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, o sia Idea dell’Arguta et Ingeniosa Elocutione che serve à tutta l’Arte Oratoria, Lapidaria, et Simbolica esaminata co’ Principij del divino Aristotil, per Giovanni Sinibaldo, stampatore regio,Torino 1654 in Ottavia Niccoli, Muta eloquenza. Gesti nel Rinascimento e dintorni, Vilella, Roma 2021

[6] Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 2010 (edizione originale 1975); G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione? Cronopio, Napoli 2010; J. Derrida, Sulla parola. Istantanee filosofiche, nottetempo, Roma, 2004

Ancora sul vino vero o naturale: le luci e le ombre di un “nuovo” manifesto. Di Nicola Perullo

È davvero urgente riflettere oggi, in modo profondo e radicale, sulla questione del vino “vero” o naturale (1).  Ce ne offre occasione un manifesto, firmato da Sandro Sangiorgi e dal presidente del Consorzio Viniveri Paolo Vodopivec, intitolato “La forma e la sostanza, le luci e le ombre”, scritto diversi anni fa ma che è stato recuperato e riproposto in questi giorni (https://www.facebook.com/consorzioViniveri/photos/a.206079082935759/1898090177067966/?type=3).

Da parte mia, proporrò alcune riflessioni attraverso un’analisi di questo testo, evidenziandone gli elementi condivisibili ma anche quelli che mi paiono deboli e irricevibili: le luci e le ombre.

I primi, pionieristici manifesti volti ad esprimere la necessità di ripensare i modi di produzione (e in parte, anche se con molta meno enfasi, di percezione) del vino in chiave complessiva, irriducibile alla svolta tecno-enologica del secondo dopoguerra, risalgono a due decenni fa. Nonostante il movimento sia ancora giovane, da allora le cose sono molto cambiate e, sotto questo profilo, l’appello proposto è del tutto opportuno. Esso merita interesse e attenzione, perché oggi occorre andare oltre le discussioni esclusivamente polarizzate sul vino naturale. Di pseudo-riflessioni polarizzate in questi anni ne abbiamo ascoltate troppe: esse non solo sono inutili ma anche dannose. Quello che invece occorre è un’articolazione del discorso più rigorosa, appunto profonda e radicale, un’analisi logica, epistemologica, estetica ed etica che innanzitutto chiarisca termini e modi di una questione tuttora presentata spesso in termini assai sbrigativi e confusi. Il manifesto di Viniveri, pur nelle sue migliori intenzioni, soffre innanzitutto di una certa confusione concettuale che rischia di sortire un effetto diverso da quello auspicato; il rischio, come cercherò di argomentare, consiste paradossalmente nel prestare il fianco a una certa aria di restaurazione che oggi rappresenta bene lo spirito del tempo in tanti campi, non solo nel vino. 

“Molti produttori si stanno pericolosamente abituando a imperfezioni tecniche, più o meno gravi” (corsivo mio): così inizia il manifesto, e non può esserci inizio migliore per avviare il mio argomento. Condivido la prima parte della frase: che molti produttori naturali si stiano pericolosamente abituando a qualcosa, e che vi sia effettivamente un rischio rispetto al quale occorre mettere in guardia, mi pare evidente. Tuttavia, sostengo che l’oggetto del rischio non sia affatto ciò che viene espresso dal seguito della frase, cioè “imperfezioni tecniche, più o meno gravi”. Dirò successivamente in che cosa, secondo me, consiste il vero rischio. Mi soffermo intanto sui motivi per cui ritengo sbagliato porre la questione nei termini delle “imperfezioni tecniche”, classico (per non dire vetusto) leitmotiv di ogni enologo e di ogni produttore di vino convenzionale. Domandiamoci: che cosa è un’imperfezione tecnica? Un’imperfezione è ciò che non rende qualcosa perfetto, cioè completato, portato a termine (dal latino perfectus, da perficere). Ciò che non è completato o portato a termine lo è rispetto a qualcosa: un ideale, un modello, un format prestabilito e predefinito. Ora, in questi anni avevamo sostenuto però che la bellezza, la forza, l’energia di un vino naturale/vero risiede precisamente nel non realizzarsi in conformità a un modello o un ideale prestabiliti, tanto che abbiamo proposto, come possibile (non)definizione di tale “categoria” di vino, proprio quella di non essere etichettabile e catalogabile sulla base di un ideale prestabilito. In questa prospettiva, la “bellezza completa” – espressione forte, che compare nell’appello di Sangiorgi e Vodopivec – non riguarda tanto una completezza rispetto a un modello premeditato (“il vino deve essere così”, come progetto prima della sua realizzazione) quanto la corrispondenza, la risonanza, l’aderenza di un certo vino al suo percorso e alla sua storia che non è mai completamente prevedibile e non deve essere ingabbiata da un design che ne predetermina il suo farsi.  In questo senso, dunque, il vino naturale/vino vero non può essere mai imperfetto proprio perché non può essere mai “perfetto”. Il che non vuol dire che non possa essere mai “difettato”: questo è un altro concetto. “Imperfezione” e “difetto” non sono la stessa cosa. Tornerò dopo su “difetto”, ma intanto abbiamo chiarito che l’imperfezione non è un difetto. Confonderli genera confusione. 

In effetti, però, il manifesto sembra suggerire che l’imperfezione coincida proprio con il difetto. Ciò risulta chiaro quando si analizza l’aggettivo che accompagna la parola: l’imperfezione in questione sarebbe non un’imperfezione stilistica ma tecnica. Che cosa significa? L’imperfezione tecnica di cui soffrirebbe un vino sembra derivare da una mancanza di perizia, di sapere, di “skill” nell’averlo “prodotto”. Viene precisato poche righe dopo, quando entra in gioco la nozione di “competenza tecnica”. Dunque: l’imperfezione tecnica, in un vino, sarebbe dovuta a un difetto di competenza tecnica da parte di chi lo fa. La nozione di “competenza” viene subito dopo specificata come “saper fare” qualcosa giacché oggi, nei vini naturali/veri, si corre il rischio, così ci viene detto, di aderire all’ideologia dell’ignoranza, per cui “meno si sa e meglio si riesce”. Intanto, anche in questo caso segnalo che l’appello sembra, contro le sue intenzioni, combaciare perfettamente con l’obiezione classica che, da sempre, i produttori convenzionali e i tecno-enologi rivolgono al vino naturale: l’artigianalità difetta di competenze tecniche ed è dunque rischiosa perché può far produrre vini “imperfetti”, cioè difettati. L’atteggiamento tecno-scientifico nasce e si sviluppa sulla base dell’approfondimento delle competenze tecniche, sempre più grandi e sempre più settorializzate, che finiscono per frammentare il vino in tante parti analitiche. Ora, in questi anni avevamo sostenuto – Sangiorgi tra i primi – che il vino naturale/vero è un tutto non sezionabile; e che per avere un vino-tutto occorre una capacità poietica (e non: produttiva!) che è ben diversa dalla “competenza tecnica”. Anche in questo caso, mi pare che ci sia una notevole confusione concettuale sotto il cielo. Si confondono conoscenza e competenza in modo grossolano. La capacità di fare e trasformare è una capacità poietica, ed essa non si sviluppa, innanzitutto e per lo più, tramite le “competenze tecniche”, ma tramite una conoscenza nutrita di sensibilità, attenzione, cura, corrispondenza, relazione con un ambiente, visione e consapevolezza.

In un mio libretto, a cui mi permetto di rimandare (2), ho cercato di evidenziare che il contrario di competenza non è ignoranza (ignoranza è il contrario di conoscenza), ma compassione. Laddove la competenza è specifica, analitica e frammentata, e si configura come una capacità di controllo e dominio sulla produzione di qualcosa, (appunto una “tecnica”), la compassione è sintetica e unitaria e rimanda a caratteristiche immersive, partecipative, complici e collusive: è un sentire-insieme col vino che si realizza e si accompagna nel suo percorso di nascita e di sviluppo. In questo senso, la compassione è quel tipo particolare di conoscenza che è indispensabile per realizzare un vino vero, cioè naturale. Ora, se la competenza tecnica non rappresenta di per sé un ostacolo alla conoscenza (pur potendolo diventare quando da strumento si fa fine in sé, con la sua crescente ansia da “perfezione” (3)), tuttavia non dà alcuna garanzia per il vino naturale/vero. Insieme ad altri, tra cui Sangiorgi, abbiamo sostenuto – e continuo a ritenere che questa sia un’acquisizione fondamentale – che ciò che fa la differenza per un vino vero cioè naturale non dipende dalla competenza (parola che viene dal lessico giuridico, il “giudice competente” è colui che ha appunto la facoltà di giudicare all’interno della sua giurisdizione) tecnica con cui è prodotto, ma dalla compassione, la sim-patia, la kinship, l’immersività, la capacità di sentire insieme a un ambiente con cui è realizzato. Questi termini, come si vede, non esprimono ignoranza ma un tipo di conoscenza irriducibile a ogni abilità tecnico-tecnologica. Sottolineiamolo ancora: l’irriducibilità non implica necessariamente opposizione. In altri termini, si può possedere la più piena padronanza tecnica (nel caso specifico, essere enologi o agronomi laureati) e, al contempo, operare su un piano di conoscenza-consapevolezza-compassione tale da non voler-produrre un vino ma realizzarlo poieticamente. Sono due piani diversi. È mia convinzione che il primo piano possa essere di complemento al secondo; mentre quest’ultimo è necessario, tuttavia, il primo non lo è.  

Spero di aver chiarito il primo equivoco concettuale – confondere incompetenza (nel senso di mancanza di tecnica) con ignoranza; esso purtroppo però nel testo se ne porta dietro un altro, persino più grave: l’assimilazione dell’incompetenza all’incuria. “Incuria”, in realtà, non è un termine che ricorre nell’appello, ma la sua sfera semantica mi pare riconducibile ad altre nozioni che sono invece richiamate quali motivi di rischio: “lassismo”, “indulgenza”, “mancanza di custodia”. Ancora una volta, sottoscrivo completamente l’urgenza dell’appello e la sua motivazione indiretta: dopo la nascita del movimento naturale come movimento spontaneo ma profondamente sentito di resistenza e di controcultura nei confronti del modello dominante, ci si trova oggi a fare i conti con approcci “produttivi” sbrigativi, semplicistici, non profondamente sentiti e non rigorosi. E quindi lassisti, indulgenti, non curati. Tuttavia, ritengo che, ancora una volta, la competenza tecnica, nel senso sopra specificato, c’entri ben poco. Il rigore di cui il vino vero ha bisogno non è quello del competente-tecnico ma quello che nasce da un atteggiamento infuso di consapevolezza, visione, attenzione e cura. Incompetenza ed incuria non sono la stessa cosa: ci sono enologi competenti che non hanno a cuore i frutti del loro lavoro, nel senso che non lo sentono né lo partecipano in senso complessivo, ecologicamente inteso. Certo, non tutti: ancora una volta, non bisogna confondere ciò che è possibile, ciò che è probabile e ciò che è necessario. Allo stesso modo, quanto sosteniamo non va affatto nel segno opposto, cioè nel suggerire che la mancanza di competenze specifiche favorisca la realizzazione del vino vero/naturale. Si tratta di piani che non si implicano, e chiunque conosca la realtà di questi vini troverà numerosissimi esempi a supporto di ciò.

Insieme ad altri, tra cui Sangiorgi, abbiamo sostenuto che il vino vero, cioè il vino naturale, non è un calcolo né una ricetta; non segue criteri prefissati, non richiede necessariamente la conoscenza eno-tecnologica per essere realizzato. Il contadino che, prima del sapere enologico moderno (che si sviluppa, come si sa, a partire dalla fine del XIX secolo e che esplode dagli anni ’50 del XX, parallelamente alla green revolution), si realizza il proprio vino secondo criteri e processi appresi “empiricamente”, senza professionalizzazione, senza certificazione; è certamente un incompetente rispetto alla tecnologia attuale, ma ciò non significa che sia (necessariamente) privo di cura, indulgente, lassista, non rigoroso nella realizzazione della sua opera. Tutti coloro che si sono avvicinati alla degustazione negli anni ’90 del secolo scorso ricorderanno un modo di dire tipico dei panel dei critici e delle guide quando si voleva additare un vino di “imperfezione” e di “difetto” (allora li mettevamo sullo stesso piano): “sembra il vino di un contadino!”. Questa espressione diceva molto: esprimeva una presunta superiorità gustativa, legata a una determinata modalità produttiva che, in modo del tutto inconsapevole e irriflesso, accettavamo come dato di fatto. Il vino si deve fare in un certo modo, pensavamo. Se non si fa così, non è vino ed è difettato. Accettavamo gli odori di stalla nei formaggi a latte crudo perché artigianali e genuini; non li accettavamo nei vini, perché eravamo cresciuti alle scuole che ci dicevano che il vino era una cosa diversa. Una bevanda che fanno i professionisti, i tecnici, e che per potere essere apprezzata propriamente richiede un allineamento tra modo di produrre e modo di gustare. In questa prospettiva, si è arrivati a dichiarare autorevolmente che il gusto – come scriveva Émile Peynaud quasi quarant’anni fa ne Il gusto del vino – deve essere certamente allenato ed educato, ma secondo i protocolli della tecnologia enologica, non il contrario. Dopo il predominio incontrastato e assoluto dell’asse Davis-Bordeaux, in questi venti anni, grazie ai contributi di tanti, Sandro Sangiorgi tra i primi, abbiamo imparato che le cose non stavano così: che fare vino non è una scienza nel senso di una tecnologia “giusta” e indispensabile una volta per tutte. Fare vino non richiede le stesse competenze ingegneristiche e fisiche richieste nella costruzione di un ponte o del motore di un aereo; è una faccenda del tutto diversa. È una poiesis, che risponde a criteri multipli e sfaccettati, a conoscenze varie e variabili.  Ora chiedo: vogliamo forse tornare a quel punto, a Peynaud, alle imperfezioni stilistiche rispetto a un modello di vino predeterminato e opinabile, confusi o camuffati da difetti enologici come fossero stati di fatto? Siamo del tutto contrari, come sono sicuro lo siano anche gli estensori del manifesto il quale, tuttavia, rischia di portare fuori strada nel denunciare giusti rischi attraverso strumenti scorretti. La strada per cercare di evitare tali rischi mi pare del tutto diversa.

In queste ultime righe, ho introdotto la questione del gusto. Arriviamo dunque al punto centrale del testo che sto analizzando; il punto direi decisivo, ma anche quello più critico e più irricevibile. Si legge: “il lassismo del tutto immotivato nella relazione tra forma e sostanza” provoca una “diffusa indulgenza che sdogana liquidi imbevibili” (corsivo mio). Passaggio chiave su cui soffermarsi: il rapporto tra forma e sostanza – concetti che come filosofo non posso che accogliere felicemente: le nozioni di forma e sostanza, da Platone e Aristotele in poi, compendiano buona parte dei problemi del pensiero umano – e la cosiddetta “imbevibilità”. Cosa vuol dire “imbevibile”? Ciò che non si può bere, ovviamente, non rimanda qui tanto alla non potabilità in senso tossico, chimico-fisico, ma in senso gustativo; intende rimandare cioè a una presunta insufficienza di soddisfacimento, di piacere, di “bontà”. Che cosa risulta imbevibile e a chi? Facciamo un esempio. Quando si dice qualcosa come “i vini che bevevano i Romani ai tempi dell’Impero erano imbevibili” (basandosi evidentemente solo su una proiezione mentale del gusto offerta da testi scritti, non avendo nessuno bevuto quei vini) ci si riferisce, seppure in via implicita, a un “per noi”: loro bevevano i loro vini, e li trovavano o buoni o cattivi, come facciamo oggi. Se fossero stati in assoluto e genericamente “imbevibili” perché di principio sbagliati e difettati, non si capisce perché li avrebbero bevuti, a meno di non sottoscrivere un atteggiamento epistemologico (del tutto insostenibile sul piano paleoantropologico e storico) per cui nel passato gli umani sarebbero stati costretti, mancando di scienza, a farsi piacere cose cattive o, peggio, un atteggiamento epistemologico per cui gli umani del passato erano come animali, privi di ogni “buon gusto” per cose come cibo o vino; buon gusto che si sarebbe quindi disvelato solo con le “magnifiche sorti e progressive”. Sperando davvero che nessuno di coloro che si occupano di vino naturale, oggi, sottoscriva tali sciocchezze, diamo per scontato che questo atteggiamento non è accettabile. Dunque, l’unica possibilità sensata consiste nel trasformare la suddetta frase nel modo seguente: “i vini che bevevano i Romani ai tempi dell’Impero sarebbero imbevibili per noi oggi”. Fino a qui, tutto bene. Ora, l’esempio addotto ci serve per comprendere nello stesso senso il criterio di “imbevibilità” buttato lì nell’appello-manifesto: seppure sembri additare un senso di “qualità gustativa” del vino auto-evidente e immediato, tuttavia esso omette quantomeno un necessario “per noi, ora”. Ma chi siamo noi? Noi non siamo tutti, evidentemente. Noi chi? E torniamo alla circolarità di cui fin dall’inizio ho segnalato la presenza in questo appello, pieno di confusioni concettuali: noi, cioè coloro che (come viene chiarito in seguito) sono in grado di riconoscere la qualità.  

Noi riconosciamo la qualità sulla base di qualche riferimento: il testo di Sangiorgi-Vodopivec ci dice che non bisogna cadere nella “trappola della genuinità come unico riferimento qualitativo” (corsivo mio). In base a quanto scritto nelle righe immediatamente precedenti, sembra che al termine “genuinità” corrisponda la forma, mentre la sostanza si associ a un criterio, per dir così, intrinseco all’esperienza gustativa. 

Associare genuinità a forma è già una mossa estetica piuttosto ardita, che necessiterebbe un’approfondita discussione, e che qui non è possibile fare. A costo di risultare pedante, però, devo chiarire, almeno a livello generale, qualche uso un po’ sbarazzino dei concetti. Genuino significa proprio naturale: da geno, genitus, generare, genuino è quanto è stato generato; in altri termini, è ciò che proviene dalla sua nascita. Per estensione, ciò che non è stato alterato. Da qui, anche la parola genìa. È un termine in disuso, nel lessico degli assaggiatori di vino, anche tra gli appassionati di vino naturale; ed è un peccato, perché è un termine meno banale di quel che sembrerebbe. Non ha nulla da invidiare, per esempio, al termine “luogo” né a quello di “territorio”, che invece spopolano, a volte a sproposito, impudentemente e impunemente. Nell’appello, la genuinità viene considerata forma, nel senso di quel processo esterno – Sangiorgi sembra usare forma come esteriorità, come ciò che sta al di sopra – che corrisponde ai protocolli di produzione naturale del vino e che è considerato “parte fondante di un vino buono”, cioè parte necessaria ma non sufficiente. Al di sotto, come sostanza, sta il processo interno che risulta da ciò che il vino è nel momento del suo assaggio. La sostanza del vino, in altri termini, sarebbe l’esperienza del suo gusto. Anche in questo caso, se da un lato comprendo ed approvo (seppure per ragioni diverse, come dirò tra un attimo) il ragionamento proposto (in fondo, Epistenologia è nata proprio dall’idea di partire da una nuova disposizione del gusto per poi risalire, a ritroso, ai criteri di produzione), dall’altro osservo che occorre fare molta attenzione a porre la questione in tali termini, perché l’ideologia di “quel che conta è ciò che è dentro il bicchiere” è proprio l’atteggiamento mentale tipico del degustatore seriale, del giudice/competente, presuntivamente analitico, freddo e neutro, che fa classifiche e categorizza, indifferente a contesti, ecologie e molteplicità di piani (“che sia biologico, biodinamico o naturale, basta che sia buono!”). In questi anni, abbiamo sostenuto che le cose non stanno così: non c’è alcuna possibile neutralità percettiva, si è sempre coinvolti e implicati, e occorre disporsi all’ascolto del vino attraverso un gustare aperto, disposto ed esposto. 

Torniamo ai liquidi imbevibili. Imbevibile è ciò che dunque non rispetterebbe criteri qualitativi intrinseci, non legati alla genuinità ma alle competenze tecniche, e che qualcuno dovrebbe riconoscere. Ma abbiamo detto che questa comunità – questo noi, questo gruppo, composto da appassionati, critici, competenti ed esperti educati – è tutto tranne che una comunità naturale, evidente, oggettiva, neutrale. È un perimetro entro il quale desideriamo stare e nel quale vogliamo riconoscerci. Non c’è nulla di male in questo; è legittimo, ma bisogna saperlo, senza confondere questo fatto – relazionale, negoziale, storico, costituito – con un’improbabile idea di gusto come “scienza” che riconoscerebbe la qualità in quanto “dato di fatto”. La qualità non è un fatto, è un valore. L’imbevibilità, in altri termini, è una proprietà relativa, cioè relazionale, come mostra bene la storia del gusto e delle variazioni della nozione di qualità: come e quando si determinano i criteri di correttezza, gli standard gustativi che discriminano il cosiddetto “bevibile” dall’imbevibile? Attraverso quali processi un valore negativo diviene positivo? La qualità di chi e per chi

Che cosa è la “percezione” gustativa? Essa non ha a che fare con il riconoscimento della qualità che nascerebbe da una “educazione alla degustazione”, come propongono gli autori del manifesto, ricadendo nella medesima circolarità dell’argomento che ho rilevato prima. Se percepire significasse riconoscere, cosa si dovrebbe riconoscere? Il buono, si dirà. Ma questo “buono”, ancora, che si sarebbe appreso nelle sessioni di educazione alla degustazione, a cosa corrisponde? È un dato naturale? Tutti gli studi e le ricerche, storiche e psicologiche, estetiche ed antropologiche, tendono a smentire questa ipotesi. È, piuttosto, un dato culturalmente, cioè socialmente, prodotto – e che non dipende da un avanzamento tecnologico (ecco il punto centrale), non perché la tecnologia non possa aiutare, ma perché la tecnologia enologica è essa stessa uno strumento che si usa relativamente ad interessi, standard, criteri che vengono decisi e su cui poi si imbastisce una grammatica del giusto e dello sbagliato, del “perfetto” e dell’“imperfetto”. Persino del piacevole e dello spiacevole! “Il vino è una bevanda di piacere”, si dice poi giustamente nell’appello. Già, ma il “piacere” è qualcosa di universale, di uguale per tutti, di dato? Non credo sia necessario aggiungere altro a quanto già specificato. Temo che, malgrado sia convinto che i propositi non fossero quelli, l’appello-manifesto che stiamo analizzando produca in molti la convinzione perniciosa che quell’adagio troppo spesso sentito dire in questi anni – “che il vino sia naturale, biologico o biodinamico, l’essenziale è che sia buono!” – sia giusto. È invece il pensiero più retrogrado e inadeguato che si possa esprimere e che ricorda, mutatis mutandis, la discussione che nel secolo scorso si è fatta sull’arte non figurativa e astratta: senza “competenze tecniche” non si può fare arte, si dice; ma non è necessariamente vero, dipende. Soprattutto, le competenze tecniche possono essere tranquillamente messe da parte quando si decreta, di qualcosa, che è un capolavoro. Rimando a un libro del critico d’arte Francesco Bonomi che ha cercato di spiegare bene come sia inconsistente l’obiezione del “lo potevo fare anch’io” di fronte ad alcune opere contemporanee, quali per esempio i tagli di Fontana o i cretti di Burri. A volte gli atteggiamenti di alcuni tecnici nei confronti dei vini naturali assomigliano a quelli di chi critica Warhol, Fontana e Burri (4). Non è certamente questo il caso di Sangiorgi e di Vodopivec, ripeto; dico solo che questo testo può, contro le sue intenzioni, risvegliare quello che avevamo messo faticosamente a dormire.

Con queste domande, beninteso, intendo sottolineare l’inaggirabile circolarità degli argomenti che tale testo vorrebbe presentare come razionale, una circolarità che nasconde alcuni bias epistemologici ed alcuni equivoci concettuali e che produce una – sicuramente involontaria – violenza epistemologica. Con queste domande, beninteso, non intendo affatto suggerire o sostenere che ogni vino naturale lasci soddisfatti e appagati: ovviamente non è così, ma il criterio e il discrimine non possono trovarsi certo richiamando nozioni astratte, imposte, predeterminate di “riconoscimento della qualità” e, come abbiamo scritto prima, di “competenza tecnica”. Occorre perseguire una via diversa.

Mi permetto di rimandare ad alcuni miei lavori, nei quali ho sostenuto che il gusto non è un senso ma un compito; in altri termini, che il buono non è un punto di partenza (prefissato, predeterminato, protocollato secondo criteri a loro volta costruiti e decisi, dalla eno-scienza o dalle mode iper-acide del momento nulla cambia), ma corrisponde esattamente al punto di arrivo. Il buono è ciò che risuona come tale dopo l’esperienza del bere, indipendentemente da ogni considerazione analitica e giudicante. Ma questo non significa – ancora una volta! – dire che va tutto bene, e che il gusto è esclusivamente una questione individuale (“soggettiva”, si dice in senso improprio, a voler significare “libera da ogni vincolo”). Il gusto è sempre vincolato ma al tempo stesso i vincoli li abbiamo creati noi. Come li abbiamo creati, li possiamo modificare. È avvenuto tante volte nella storia del gusto, non solo del vino. Pensiamo a come sono cambiati i paradigmi gustativi della cucina negli ultimi vent’anni. Il gusto è una scienza, ma è una scienza della coscienza: ciò che esso “riconosce” non è la competenza tecnologica, ma quel con-saputo (ciò significa coscienza, cum-scientia) che rimanda a una comunità, a una condivisione, a una comunicazione che si fa nell’esperienza e attraverso l’esperienza. 

Per chiarire quest’ultimo punto, occorre tornare sulla nozione di “difetto”. Che cosa è un difetto? Un difetto è quanto consideriamo fuori del nostro perimetro di condivisione, della nostra disposizione ad accettare bello o buono qualcosa: ciò che non accettiamo oppure che accettiamo pur riconoscendolo come difetto. Come si sa, esiste un’ampia riflessione sull’estetica della natura terrifica e sui piaceri negativi, sul sublime come ciò che disturba ed attira, addirittura sull’estetica del brutto: perché nel caso del gusto del vino non potrebbe essere lo stesso? Nella storia della cultura e delle idee, il vino naturale è stato semplicemente un epifenomeno tardivo di un movimento più ampio e profondo che ha coinvolto arte, comportamenti quotidiani, stili di vita, poesia: perché esso, in quanto artefatto estetico che procura piacere, dovrebbe rimanere ancorato all’estetica del “pulito” e dell’armonico, del levigato e del “bello” intesi come armonia e proporzione? È del tutto normale che vi siano oggi vini che rispondono ad altri criteri estetici. Risolvere la questione lamentando le “puzzette” come lo “scandalo” del vino naturale è davvero miope e sterile. Dissonanze, atonalità, objets trouvés fanno parte di certe poetiche e di certi canoni estetici da almeno cento anni: perché dovrebbe essere diverso, nel vino? Oggi i rischi del vino naturale non riguardano le puzzette. E la volontà di riduzione di stili a indicazioni prescrittive precise non ha alcuna possibilità di successo. Educare al gusto non significa educare a riconoscere l’errore in astratto; significa educare al saper fare esperienza, ed è solo nell’esperienza che un errore viene eventualmente riconosciuto. In questo senso, Miles Davis sosteneva “do not fear mistakes – there are none”: non perché non vi siano errori ma perché essi emergono eventualmente come tali in quanto funzioni di quello che viene performato; non rispondono a regole e principi ma a quanto emerge nella situazione. È la nota successiva che rende eventualmente “errore” la nota precedente. Tutto questo Sandro Sangiorgi lo sa benissimo, naturalmente, perché è tra i primi ad averlo insegnato e proposto nei suoi corsi di educazione al vino. 

Ma non è solo una questione storica, quanto ontologica ed epistemologica. Facciamo un esempio: la “volatile troppo alta” sarebbe un “difetto”; ma in che senso? Troppo rispetto a cosa e a chi? Come è chiaro, “troppo” è una proprietà relazionale, relativa a una misura, a un quantum che è stato stabilito essere quello “giusto”. Bene. Ora, accade però che un gruppo di appassionati cominci ad alzare questa asticella, spostando la misura più in alto. Ciò che era troppo diventa normale, e la prova è che quel vino provoca piacere. Nessuno potrà farci niente, perché l’artefatto del vino funziona esattamente come le altre opere dell’ingegno umano legate al senso estetico: appagano o non appagano, soddisfano o non soddisfano. Non è come un difetto riscontrato in un motore di un aereo, rispetto alla presenza del quale chi ne venisse avvisato o se ne accorgesse eviterebbe senz’altro di farne esperienza. Certamente, vi sono difetti sottoposti a un regime di accettabilità diverso da quello della volatile alta: sono quelli dovuti a inconvenienti o malattie quali, per esempio, il tappo, la muffa, il filante o il girato. In questo caso, tali caratteristiche sono considerate “difetti” in modo più universale e condiviso (sebbene vi siano persone che non si accorgono di queste cose e bevono tranquillamente i vini che ne soffrono), e su questo non vi sono accese discussioni. Nel manifesto, si citano “infezioni endemiche e grossolane riduzioni”: niente da eccepire, nella misura in cui queste caratteristiche vengono respinte da “tutti” in modo condiviso. Il punto, tuttavia, è che non esiste né può esistere un confine preciso e insuperabile, stabilito a priori e “oggettivo”: i confini mutano, e ciò dipende dalla discussione che eventualmente ne sorge. Laddove una discussione sorgesse, e quando qualcuno – una comunità più o meno piccola – decidesse di trasfigurare una qualità negativa riconoscendola come positiva, che procura ad alcuni appagamento e piacere, non si potrà fare nulla se non continuare a discutere, dissentendo ma rispettando chi ha realizzato il vino in quel modo, consapevolmente e con cura. Non ci sono manifesti o protocolli che tengano: il gusto è dialogo, negoziazione, apertura ed ascolto, non trasmissione di competenze per riconoscere e separare in modo definitivo il bello dal brutto, il buono dal cattivo, il giusto dallo sbagliato. Il gusto come compito mette così anche in discussione la figura del maestro come autorità ultima: il maestro è necessario ma come finzione utile per superarla. Il gusto trascende il maestro, perché rimanda a un sentire insieme, cum-scientia, nel quale sono necessariamente inclusi anche gli ignari e i bifolchi, gli sconsiderati e gli indifferenti. 

Voglio concludere ribadendo quelli che penso essere oggi i veri rischi per il vino naturale e suggerendo una modesta proposta per cercare di evitarli. Il manifesto parla di lassismo, indulgenza, mancanza di custodia, dal lato del “produttore” di vino; di necessità di educazione percettiva dal lato del “degustatore”. Nonostante io creda, per ragioni che ho avuto modo di spiegare ampiamente altrove (5), che il vino naturale non sia da intendersi come prodotto, che quindi il suo maker non debba intendersi come produttore, e che l’approccio che esso reclama non debba essere quello della degustazione ma dell’assaggio, ciononostante condivido in pieno l’enfasi su tali aspetti. Oggi serve una nuova conoscenza del fare e del gustare, basata su cura, impegno, rigore, attenzione, condivisione spirituale e radicalità di approccio. Il vino è un’altissima bevanda e chiede la stessa serietà e lo stesso rigore nel farlo e nel berlo; l’ideologia della distrazione e dell’approccio superficiale e immediato, “glou glou”, che caratterizza certa “cultura” hipster contemporanea che si è appropriata del vino naturale, rischia di obliarne la profondità simbolica, sociale, poietica. Rischia anche di far perdere consapevolezza di ciò che il vino può fare e può restituire a chi lo beve. Su questo, credo di poter dire che condivido completamente le ragioni di Sandro Sangiorgi. Troppo spesso sono stati immessi sul mercato vini naturali-prodotto, cioè realizzati solo secondo ricette standard e che producono percezioni standard, senza alcuna passione della conoscenza né alcuna consapevolezza del fatto che fare vino, come gustarlo, è sopra ogni cosa un’esperienza della coscienza. Per questo, per ragioni di fondo e strategiche, io credo che sia opportuno insistere su questo e non sul ritornello delle “imperfezioni tecniche” che necessiterebbero “competenze” altrettanto tecniche. 

Il vero rischio è non comprendere che il Vino Vero, cioè naturale, non riguarda la produzione di un gusto.  Incuria e lassismo si manifestano soprattutto nel non sapere, nel non voler capire, che il Vino può fare e dare molto di più che offrire un profilo sensoriale. Che il piacere e il godimento passano dalle “qualità sensibili” ma le trascendono. Il vino vero non ha a che fare con la produzione di un gusto (sensibile) fine a se stesso; con un riconoscimento qualitativo basato su elementi sensoriali: pulizia, freschezza, la “bella acidità”, ecc. ecc.; tutto ciò è accessorio, ornamento, belletto, certo utile ma inessenziale. Ciò che occorre oggi al vino vero è la consapevolezza di tutto questo, ed educare al vino significa educarsi al passaggio dall’esperienza del gusto al gusto dell’esperienza. Il gusto dell’esperienza è quella coscienza del gusto che sente al di là, o al di qua, del buono come opposto al cattivo, del bello come opposto al brutto. È quell’approccio, quell’attitudine che attraversa il profilo sensoriale ma non si ferma lì; che percepisce la storia e la vita di quel liquido in quella bottiglia. Nel caso, anche per allontanarsene, per dissentire o rifiutare. Ma a partire da una connivenza di fondo, da una coscienza del senso del vino come gusto, prima o dopo, i suoi “sapori”; prima o dopo il riconoscimento di puzzette e instabilità. La sostanza del vino non viene certificata dal lavoro dei sensi. È certo indispensabile passare dall’esperienza sensibile, attraversarla con consapevole attenzione, con concentrazione e collusione, con passione vigile e critica; ma poi essa si trascende nella coscienza del gusto come gusto dell’esperienza in quanto tale: il gusto della vita che ci accomuna. In questo momento abbiamo bisogno di ritrovare, anche attraverso il vino vero, universalità che travalicano le distinzioni e gli steccati. Le differenze sensoriali, le differenze geografiche, le differenze culturali sono certamente aspetti interessanti e degni di studio, ma solo se vengono tenute insieme da uno sfondo che accomuna. In questo senso, il vino vero – scrivo in Epistenologia – non è il vino che si preoccupa di rimarcare le differenze di luogo in senso statico e predeterminato. Il vino vero è innanzitutto vino, prima ancora di essere vino di (un luogo o un produttore). In altri termini, c’è un’universalità, un riconoscimento che è prima del profilo sensoriale e al quale occorre sensibilizzarsi: se ci si concentra da subito analiticamente sui profili sensoriali, sulle pulizie, sulle stabilità, si rischia di tornare indietro e di perdere il senso puramente ontologico del vino. Restituire un luogo non è costruire una cartolina di distinzioni (in questo, la tecnica enologica sta raggiungendo oggi risultati sempre migliori, che porteranno probabilmente a produrre vini “perfetti”, sotto questo profilo); restituire un luogo significa restituire il senso della consapevolezza della vita sulla terra, vita che attraversa unità e differenze, continuamente e senza predeterminazioni. Anche io penso che oggi vi siano, e purtroppo sempre di più data la crescita del movimento e l’inevitabile “moda”, sempre più vini veri “fasulli”, vini naturali noiosi e banali; posso anche tranquillamente dire fatti “male”. Ma questa falsità, questa noia, questo “male” non dipendono dall’incompetenza tecnica, questo è un dettaglio sul quale si sorvola volentieri quando c’è altro. Dipendono, invece, da qualcosa di ben più grave: da un’incuria esistenziale e da una mancanza di custodia della nostra consapevolezza di esseri coscienti, dalla quale il gesto di fare vino vero cioè naturale essenzialmente dipende.

(1) Userò questi termini come sinonimi e senza ulteriori chiose e precisazioni, sia per non ripetere ciò che è stato già abbondantemente chiarito in questi anni (in particolare da Sandro Sangiorgi in L’invenzione della gioia. Educarsi al vino. Sogno, civiltà, linguaggio, Porthos Edizioni, Roma, seconda edizione, 2015), sia perché non è il tema del mio intervento.

(2)  N. Perullo, Epistenologia. Il vino come filosofia, Mimesis, Milano, 2021.

(3) Sul tema della tecnica che da strumento diventa fine, si veda E. Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano, 2009.

(4) F. Bonomi, Lo potevo fare anch’io. Perché l’arte contemporanea è davvero arte, Mondadori, Milano, 2007.

(5)  N. Perullo, Epistenologia. Il vino come filosofia, cit.

Le foto sono di Nicola Perullo

Divagazioni su “Del Giudicar Veloce e Vacuo. Metacritica della Critica Gastronomica” di Nicola Perullo

Premessa.

Sappiamo per certo che in ogni libro c’è, in varia forma, il suo autore: nella prosa, nelle armi retoriche, nella sintassi, nei contenuti e così via. Ma difficilmente potremmo ammettere che un libro equivalga in tutto e per tutto al proprio artefice come se questi fosse escluso da ogni connessione, complicità, presenza e condivisione. Non solo: con altrettanta fatica potremmo considerare che un libro sia la mera somma di una personalità e non solo perché ogni dissertazione esula da se stessa, ma perché ogni argomentazione è necessariamente parziale sia nei confronti dell’autore stesso che riguardo al tutto. Penso, al contrario, che il testo in oggetto sia capace di una scrittura propria di un diario filosofico. Nonostante e contrariamente al fatto che Perullo proceda nell’eliminazione dell’Autore sia come soggetto realizzatore dell’opera quanto come esegeta della propria creazione. Per un’altra parte il discorso di Perullo riafferma, in maniera possente, il ruolo della critica e dell’Autore in un processo di validazione in cui egli soggiace ed emerge in qualità di criteri universali e unanimi. L’Autore disancorato dal proprio lavoro trova nuove vestigia nell’Autore altro, ovvero il Critico, che si fa interprete, non censore, dell’opera stessa. “Del giudicar veloce e vacuo”, a differenza degli ultimi due “Epistenologia” che ho avuto modo di leggere, assume toni dichiaratamente più confliggenti e indisponibili ad ogni forma di apparentamento e armonizzazione. Chi ha cercato di darne una qualsivoglia parvenza conciliante, con tutti gli ammennicoli che le accompagnano, si è, a mio parere, profondamente sbagliato: è una delle prolusioni più radicali alla facoltà di giudizio (di valore, estetico…).

Metacritica.

«(…) Si tratta solo di non confondere l’agire con l’attore, decostruendo tutta questa mitologia dell’autore, sottraendola al suo frastuono mediatico amplificante e, infine, rimanendo lucidi e sobri» (pag.13) Qui si sottolinea un elemento centrale: un cuoco, ma potrebbe essere un vignaiolo o un artista in senso ampio e lato potrebbe non avere alcunché da dire rispetto alla propria opera. Essa parla per sé nella misura in cui parla per e del proprio autore, ma dal quale inesorabilmente fugge e si autonomizza. Il manufatto si rende, per Perullo, inevitabilmente indipendente da colui che lo ha realizzato e solo in questa veste è in grado di dire qualcosa di sé e per sé. Ribaltando Gadamer si potrebbe affermare che l’autore come soggetto in sé non esiste affatto. Solo e soltanto in questo senso il diritto di parola che viene gli concesso dal circo mediatico si configura come autoreferenziale, puro intrattenimento e, sicuramente, non cultura né tanto meno esercizio di critica. La critica gastronomica può essere tale soltanto se non si ripiega in se stessa: la conoscenza gastronomica non è condizione sufficiente per poter parlare di gastronomia, così come non lo è per l’autore e per la propria opera. Le riflessioni di Nicola Perullo mi hanno immediatamente portato a quelle che furono alcune delle più radicali e intese critiche al concetto di autore, o meglio di Autore. Voglio qui riportarvi parte dei brani a cui faccio riferimento e che, sicuramente, fanno parte anche del bagaglio culturale di Perullo. Ne riporto ampi stralci.

Il primo viene scritto da Roland Barthes e pubblicato nel 1968, La mort de l’auteur in Id. Le bruissement de la langue, Seuil, Paris, 1984, tr.it. La morte dell’autore, in Il brusio della lingua. Saggi Critici, vol.IV, Einaudi, Torino, 1988.

«Nella sua novella Sarrasine Balzac, parlando di un castrato travestito da donna, scrive questa frase: “Era la donna, con le sue paure improvvise, i suoi capricci irragionevoli, i suoi turbamenti istintivi, le sue audacie immotivate, le sue bravate e la sua deliziosa finezza di sentimenti”. Chi parla in questo modo? È forse l’eroe della novella, interessato a ignorare il castrato che si nasconde sotto la donna? È l’individuo Balzac, che l’esperienza personale ha munito di una sua filosofia della donna? È l’autore Balzac, che professa idee «letterarie» sulla femminilità? È la saggezza universale? La psicologia romantica? Non lo sapremo mai, per la semplice ragione che la scrittura è distruzione di ogni voce, di ogni origine. La scrittura è quel dato neutro, composito, obliquo in cui si rifugia il nostro soggetto, il nero-su-bianco in cui si perde ogni identità, a cominciare da quella stessa del corpo che scrive. È stato senza dubbio sempre così: non appena un fatto è raccontato, per fini intransitivi, e non più per agire direttamente sul reale – cioè, in ultima istanza, al di fuori di ogni funzione che non sia l’esercizio stesso del simbolo -, avviene questo distacco, la voce perde la sua origine, l’autore entra nella propria morte, la scrittura comincia. Il modo di sentire tale fenomeno è stato tuttavia variabile; nelle società etnografiche del racconto non si fa mai carico una persona, ma un mediatore, sciamano recitante, di cui si può al massimo ammirare la “performance” (cioè la padronanza del codice narrativo) ma mai il “genio”. L’autore è un personaggio moderno, prodotto dalla nostra società quando, alla fine del Medioevo, scopre grazie all’empirismo inglese, al razionalismo francese e alla fede individuale della Riforma il prestigio del singolo o, per dirla più nobilmente, della “persona umana”. È dunque logico che in Letteratura fosse il positivismo, summa e punto d’arrivo dell’ideologia capitalistica, ad attribuire la massima importanza alla “persona” dell’autore. L’autore regna ancora nei manuali di storia letteraria, nelle biografie di scrittori, nelle interviste dei settimanali e nella coscienza stessa degli uomini di lettere, tesi ad unire, con i loro diari intimi, la persona e l’opera; l’immagine della letteratura diffusa nella cultura corrente è tirannicamente incentrata sull’autore, sulla sua persona, storia, gusti, passioni; nella maggior parte dei casi la critica consiste ancora nel dire che l’opera di Baudelaire è il fallimento dell’uomo Baudelaire, quella di Van Gogh la sua follia, quella di Cajkovskij il suo vizio: si cerca sempre la spiegazione dell’opera sul versante di chi l’ha prodotta, come se, attraverso l’allegoria più o meno trasparente della finzione, fosse sempre, in ultima analisi, la voce di una sola e medesima persona, l’autore, a consegnarci le sue «confidenze». (…) Attribuire un Autore a un testo significa imporgli un punto fisso d’arresto, dargli un significato ultimo, chiudere la scrittura. E una concezione molto comoda per la critica, che si arroga così l’importante compito di scoprire l’Autore (o le sue ipostasi: la società, la storia, la psiche, la libertà) al di sotto dell’opera: trovato l’Autore, il testo è «spiegato», il critico ha vinto; non deve sorprendere, perciò, il fatto che storicamente il regno dell’Autore sia stato anche quello del Critico, e che la critica (per quanto nouvelle) sia oggi, insieme all’Autore, minata alla base. Nella scrittura molteplice, in effetti, tutto è da districare, ma nulla è da decifrare; la struttura può essere seguita, «sfilata» (come si sfila la maglia di una calza) in tutti i suoi «prestiti» e piani, ma non esiste un fondo; lo spazio della scrittura dev’essere percorso, non trapassato; la scrittura esprime costantemente un certo senso, ma sempre in vista della sua evaporazione: essa procede sistematicamente a una sorta di «esonero» del senso. Proprio per questo, la letteratura (ormai sarebbe meglio dire la scrittura), rifiutandosi di assegnare al testo (e al mondo come testo) un «segreto», cioè un senso ultimo, libera un’attività che potremmo chiamare contro-teologica, o meglio rivoluzionaria, poiché rifiutarsi di bloccare il senso equivale sostanzialmente a rifiutare Dio e le sue ipostasi, la ragione, la scienza, la legge.(..)»

Il secondo brano è di Michel Foucault, Qu’est-ce un auteur (1969) in Id. Dits et écrits, Gallimard, Paris, 1994, tr.it. Che cos’è un autore? in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano, 1984.

«(…) Ora un problema si pone immediatamente: “Che cos’è un’opera?”, che cos’è questa strana unità alla quale diamo il nome di opera? Quali elementi la compongono? Non è forse un’opera ciò che è stato scritto da colui che ne è l’autore? Vediamo subito sorgere le difficoltà. Se un individuo non fosse un autore potremmo dire che ciò che egli ha scritto o detto, ciò che egli ha lasciato fra le sue carte, ciò che è stato riportato dei suoi commenti potrebbe essere chiamata un’”opera”? Finché Sade non è stato un autore che cosa erano le sue carte? Solo dei rotoli di carta sui quali, all’infinito, durante le sue giornate in carcere, egli elaborava i suoi fantasmi. Supponiamo invece che si abbia a che fare con un autore: tutto ciò che egli ha scritto o detto, tutto ciò che egli ha lasciato, fa parte della sua opera? Il problema è insieme teorico e tecnico. Quando si intraprende la pubblicazione, diciamo, delle opere di Nietzsche, dove bisogna fermarsi? Ovviamente bisogna pubblicare tutto, ma cosa significa questo “tutto”? Tutto ciò che è stato pubblicato da Nietzsche stesso, certamente. Gli abbozzi delle sue opere? Senz’altro. I progetti di aforismi? Sì. Anche i ripensamenti, gli appunti in fondo ai taccuini? Sì. Ma quando, dentro un taccuino pieno di aforismi, troviamo un riferimento, l’indicazione di un appuntamento o di un indirizzo, oppure il conto della lavandaia: è un’opera o non è un’opera? E perché no? E avanti così all’infinito. Fra i milioni di tracce lasciate da una persona dopo la sua morte, come definire un’opera? La teoria dell’opera non esiste, e coloro che ingenuamente intraprendono la pubblicazione delle opere non posseggono una simile teoria, il che paralizza ben presto il loro lavoro empirico.(…) La parola “opera” e l’unità che essa designa sono probabilmente tanto problematiche quanto l’individualità dell’autore. (…) Per cominciare, vorrei accennare in poche parole ai problemi posti dall’uso del nome d’autore. Che cosa è un nome d’autore? Come funziona? Lungi dal darvi una soluzione, indicherò soltanto alcune delle difficoltà che si presentano. Il nome d’autore è un nome proprio, che pone gli stessi problemi di quest’ultimo. (Qui mi riferisco fra tante analisi diverse, a quelle di Searle.) Non è possibile, ovviamente, fare di un nome proprio un riferimento puro e semplice. Le funzioni del nome proprio (e così anche del nome d’autore) non sono soltanto indicatrici. Esso, più che un’indicazione, è un gesto, un dito puntato verso qualcuno; fino a un certo punto esso equivale a una descrizione. Quando si dice “Aristotele,” si adopera una parola che è l’equivalente di una descrizione o di una serie di descrizioni specifiche di questo tipo: “l’autore degli Analitici” o “il fondatore dell’ontologia” ecc. Ma non possiamo fermarci lì; un nome non ha un significato puro e semplice; quando si scopre che Rimbaud non ha scritto la Chasse spirituelle, non si può pretendere che questo nome proprio o questo nome d’autore abbia cambiato significato. Il nome proprio e il nome d’autore si situano fra i due poli della descrizione e della designazione; hanno senz’altro un certo rapporto con ciò che essi nominano, ma non hanno completamente, nel modo di designare né nel modo di descrivere, un legame specifico. Tuttavia — ed è qui che appaiono le difficoltà specifiche del nome d’autore — il legame del nome proprio con l’individuo nominato e il legame del nome d’autore con ciò che esso nomina non sono isomorfi e non funzionano allo stesso modo. Terzo carattere di questa funzione-autore. Essa non si forma spontaneamente come l’attribuzione di un discorso ad un individuo. È il risultato di un’operazione complessa che costruisce un certo essere ragionevole che chiamiamo autore. Senza dubbio a questo essere ragionevole si cerca di dare uno statuto realista: ci sarebbe nell’individuo, una istanza “profonda,” un potere “creatore,” un “progetto,” che costituirebbe il luogo originario della scrittura. Ma in realtà, ciò che nell’individuo è designato come autore (o ciò che fa di un individuo un autore) non è che la proiezione, in termini sempre più o meno psicologizzanti, del trattamento che si fa subire ai testi, dei paragoni che si operano, dei tratti che si stabiliscono come pertinenti, delle continuità che si ammettono o delle esclusioni che si praticano. Tutte queste operazioni variano secondo le epoche, e i tipi di discorso. Non si costruisce un “autore filosofico” come un “poeta”; e non si costruiva l’autore di un’opera romanzesca nel XVIII secolo allo stesso modo di come si fa oggi. Tuttavia, si può ritrovare attraverso il tempo una certa invariante nelle regole di costruzione dell’autore.(…) L’autore — o ciò che ho provato a descrivere come la funzione-autore — è probabilmente soltanto una delle specificazioni possibili della funzione-soggetto. Specificazione possibile o necessaria? Guardando le modificazioni storiche che si sono succedute, non sembra indispensabile, assolutamente, che la funzione-autore rimanga costante nella sua forma, nella sua complessità e finanche nella sua esistenza. Si può immaginare una cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero ricevuti senza che la funzione-autore apparisse mai. Tutti i discorsi, qualunque sia il loro statuto, la loro forma, il loro valore e qualunque sia il trattamento che si fa loro subire, si svolgerebbero nell’anonimato del mormorio. Non si ascolterebbero più le domande così a lungo proposte: “Chi ha realmente parlato? È veramente lui e nessun altro? Con quale autenticità o con quale originalità? E che cosa ha espresso dal più profondo di se stesso nel suo discorso?” Ma altre come queste: “Quali sono i modi di esistenza di questo discorso? Da dove viene tenuto, come può circolare e chi può appropriarsene? Quali sono le ubicazioni predisposte per dei soggetti possibili? Chi può riempire queste diverse funzioni del soggetto?” E dietro a tutte queste domande non si capterebbe altro che il rumore di un’indifferenza: “Cosa importa chi parla?”»

Alcune considerazioni.

Rilevo, nel modello epistemologico proposto da Perullo, un duplice tentativo esplicativo: da una parte esso cerca di depotenziare, sino a far scomparire, la figura dell’Autore (poco importa, come detto in precedenza, se scrittore, musicista, cuoco…) a favore di un ampliamento del discorso che tenga in dovuta considerazione il contesto in cui il prodotto si realizza: tipicamente nella critica strutturalista è la società, nelle sue innumerevoli reti politiche, economiche, relazionali e culturali che genera le pratiche da cui si strutturano i contesti. Perullo, ad esempio, fa riferimento alla Guida Michelin e alla sua autorevolezza come «baluardo di un modello ristorativo moderno, occidentale, eurocentrico, francese, borghese…» (pag. 29) Ed è proprio in un contesto sociale pre-determinato che i criteri di autorità sono stabiliti prima e altrove. Dall’altra parte questo depotenziamento, fino alla sparizione, dell’Autore sarebbe in grado di costruire quell’autorevolezza, anarchica per statuto, propria della critica non eterodiretta e, quindi, secondo un paradosso interno, anche ad edificare la figura del Critico. In questo senso Perullo sorpassa la falsa dicotomia tra oggettivo e soggettivo, rilevando come il giudizio di gusto sia nella sua essenza “relazione”: «Quindi, il giudizio di gusto non è universale e vero per tutti (= oggettivo) né individuale e privato, vero solo singolarmente (= soggettivo)» (pag. 47) Ritengo questo proposito, a cui il sentire anarchico partecipa costantemente, estremamente salutare nella misura in cui l’azione, il fare in senso più lato, non diviene solo prassi o elaborazione esperienziale di idee, ma condizione e luogo in cui un nuovo pensiero trae linfa e sviluppo: così come la porla è prassi e pragmatica, l’azione come tale si rende costantemente riflessione e parola. Questo non significa, come precedentemente sostenuto, che l’azione, resasi parola nell’opera, nella tecnica, nelle prassi o in altro, si esprima necessariamente attraverso la voce di chi l’ha realizzata. Ma ciò palesa che potrebbe non parlare neppure per coloro che, esterni ad essa, volessero farne critica. In ciò risiede, a mio parere uno dei punti controversi dell’assunto di Perulllo: la scomparsa dell’Autore porta con sé anche la sparizione del Critico.

Recensire e criticare.

Uno dei perni intorno a cui ruota la metacritica alla critica gastronomica di Perullo trova il suo fulcro nella rottura di contiguità tra la forma del recensire e quella della critica: «Criticare non è recensire né valutare. La critica è riflessione e ricerca. Dunque il critico non è il recensore». (Pag. 15) E ancora più avanti: «In che cosa si manifesta principalmente questa differenza? Nella circostanza che il recensore applica norme che ha appreso direttamente o, più spesso, ha trovato nell’ufficio del comun(al)e pensiero dominante. Il recensore fa l’impiegato per qualcosa o qualcuno, talvolta senza sapere per chi; ci sono recensori professionisti, ma anche una quantità immane di dilettanti, recensire è diventata un’attività ricreativa, un passatempo edificante. Il recensore officia e ratifica, in inglese to rate: classificare è ratificare uno stato di fatto esistente, prendendolo così come appare». La critica, al suo contrario, significa comprendere le ragioni, le condizioni di possibilità o i principi in base ai quali un fenomeno, sia esso cognitivo, morale o estetico appare in un certo modo. La critica, pertanto, non è interessata a pesare, ovvero a valutare in termini numerici il proprio oggetto, proprio perché è impegnata a comprendere ed eventualmente a proporre nuovi modelli di cucina e di gusto: «Se identificare il critico con il recensore è un errore, dunque, identificare la critica con il giornalismo e la guida (turistico-gastronomica) è un errore al quadrato. Dove il critico esprime una riflessione e proprie visioni, elaborando la sua soggettività in modo compiuto, il recensore ha invece l’incarico, il lavoro di redigere liste e classifiche, giustificando la truffa dell’obiettività dei valori con il ricorso ai fatti» (pag.18). Se comprendo l’intento di separare una professione, quella del Recensore, assoggettata prevalentemente al vil denaro (quale mestiere non lo è?) e alle condizioni di promozione obbligata che esso detta attraverso un percorso forzoso di pretesa oggettivazione, dall’altro canto non credo che possa esistere una critica che non sia essa stessa nella condizione per cui, in maniera diretta e indiretta, è soggetta a dei fenomeni strutturali (siano essi economici, sociali, politici e via dicendo) pervasivi e condizionanti. Avrei semmai capito maggiormente la suddivisione tra metodi e quindi tra finalità implicite ed esplicite proprie di professioni che mantengono molti più punti in contatto di quanti se ne vogliano far apparire: chiarendo, innanzitutto, che la cosiddetta sponsorizzazione, anche se non sempre pienamente visibile nei suoi intenti promozionali, è ben altra cosa sia da un meritevole critica che da un’onesta recensione e concordando, pienamente, che le finalità possono corrodere o meno il metodo, la prassi, lo sguardo e le migliori volontà di un qualsiasi Autore. Voglio qui rifarmi, in chiosa a quanto detto, riportando alcune annotazioni che Giorgio Manganelli fece a proposito dell’attività del recensire che, a suo dire, convergono con quelle del criticare (letteratura sulla letteratura): «(…) E’ mia personale convinzione che la critica sia semplicemente letteratura sulla letteratura. A critica non spiega, non giudica, soprattutto non giudica, non individua valori, non ha nulla da capire; è una gestione di parole a proposito di parole.(…) Ritornando alla critica, un genere letterario affine al sonetto o piuttosto alla cicalata in terza rima, è del tutto ovvio che, come accade all’interno di tutti i generi letterari, essa si ispiri contemporaneamente all’arbitrario e al rigoroso. Il rigore sta nel percorso che collega una serie di passaggi scelti con perfetta arbitrarietà. Dunque, un testo di critica è fatto in misura uguale di presenze e assenze, di citazioni e di omissioni, di frammenti di giorno e di frammenti notturni. L’idea che possa esistere una critica esauriente è tanto saggia come pretendere che esista u sonetto esauriente. Credo che il critico abiti l’Arcadia – o è il Parnaso – e che gli spetti quel grado di irresponsabilità apollinea – o è dionisiaca? – senza cui non si dà letteratura. Vorrei insistere sulla precisazione che la critica non ha un compito vicario rispetto alla letteratura (e a nessuna arte aggiungo io) così detta creativa, ma che, malgrado i suoi vincoli – analoghi alle rime della sestina – è essa stessa creativa, e dunque impura, giacche usa parole, e le parole sono impure; le parole racchiudono una presenza notturna, ed è questa nerità verbale che è il contrassegno, il sibilo rettilineo della letteratura. Da ciò deriva che la critica non spiega, non chiarifica. Oserei dire che, usando le parole altrui dentro un bozzolo delle proprie, la critica introduce oscurità dove è illusoria chiarezza, porta notte dove è la menzogna del giorno, cattura e tesaurizza l’errore dove apparentemente si dà pertinenza» (Giorgio Manganelli, Ma Kafka non esiste, in Il Rumore sottile della prosa, Adelphi, Milano 1994, pp. 118 – 121).

Solamente in questo senso, nella parola sulla parola, nella sua intima incapacità di spiegare e nella sua straordinaria forza di aggiungere arbitrariamente oscurità dove regna la menzogna del giorno che cade la dicotomia tra le due forme del discorso, il recensire e il criticare. Così come cade nella scomparsa dell’Autore (e del Critico o del Recensore), anch’essi tanto fittizi quanto presenti nell’opera che si pensa di spogliare da improvvide contaminazioni. E così l’intenzionalità non diviene più condizione del giudizio, ma premessa ed esito dell’opera, della recensione, della critica. E lo stesso per i numeri, per i simboli, per il nulla o per il molto da dire.

E se sostituissimo “degustazione” a “musica” e “vino” a “suono”?

Di Evaristo Baschenis – Art Renewal Center – description, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=268863

Franco Fabbri, fondatore della International Association for the study of Popular Music, insegnante al Conservatorio di Parma, allo IED, all’Accademia del suono di Milano e nelle più svariate parti e situazioni, inizia la sua relazione dal titolo accattivante, Musica e Utopia per la rassegna “Storia in piazza” (Genova – Palazzo Ducale), con una serie di citazioni tratte da alcune delle più prestigiose figure delle avanguardie musicali novecentesche. Il proposito viene subito esplicitato: la musica è un mondo perché crea uno spazio immaginario e un sistema di relazioni spesso concepite come ideali. Una volta a Luciano Berio chiesero che cosa fosse, dal suo peculiare punto di vista, la musica. Lui rispose in questo modo: “Sono domande assurde, naturalmente, un po’ come chiedere cosa è la vita, cos’è l’amore, cos’è l’intelligenza. Eppure queste domande si sono rivelate un pretesto valido per conoscere da vicino e anche, direi, dal di dentro i musicisti.” (C’è & Musica di Luciano Berio – Feltrinelli Real Cinema) Cade, pertanto, la separazione concettuale tra suono, inteso nella sua fisicità come una perturbazione che si propaga in un mezzo materiale (anche se alcune nuove teorie lo ritengono dotato di massa – in Gravitational Mass Carried by Sound WavesAngelo Esposito, Rafael Krichevsky, and Alberto Nicolis) e la musica. Quest’ultima è un’estensione organizzata dell’altro: nella forma, nella composizione e nella narrazione. Le citazioni sono calzanti e così come sono, estrapolate da qualsivoglia contenuto storico e referenziale, sono, alla pari delle Leggi della Tavole, verbi inscritti nel tempo. A quel punto le ho guardate per un po’, le ho girate e rigirate, le ho fermate e poi mi è venuto in mente che ben si sarebbero adattate sia alla degustazione del vino che a quella con il vino, ‘epistenologicamente’ intesa. A patto, però, che la prima venga intesa come complemento dell’altro, ma non sostituto, né sinonimo.

“Degustazione: Vino organizzato”.

Questa immagine trae ispirazione da Edgar Varèse ‹varèeʃ› (Parigi 1885 – New York 1965). Se non lo conoscete, basti qui dirvi che influenzò molti musicisti, primo fra tutti il grande Frank Zappa. In Italia un suo grande estimatore fu Giacomo Manzoni. Fra i suoi allievi di Darmstadt (1950), ci furono sia Bruno Maderna che Luigi Nono. In questo caso, come avrete potuto notare, l’atto della degustazione è un atto impositivo, quindi organizzato e specifico. Il vino è oggetto strutturato della composizione sensibile-narrativa.

“Io chiamo la produzione di una degustazione ‘vino’”.

Qui siamo agli antipodi del visto sopra: John Cage. La musica è natura, non è imitazione della natura; l’artista non organizza la natura, ma la ascolta. In queste affermazioni c’è il rifiuto del principio composizionale della conseguenza logica e della concezione della musica in quanto suono organizzato. Il vino raggiunge il cielo di luce spirituale e sede dei beati del naturalismo più radicale e la degustazione non può che tradursi in un atto di compartecipe ascolto.

“Degustazione: vino umanamente organizzato”.

Il nuovo umanesimo di John Blacking sta alla base di questo modello interpretativo: le vere fonti della tecnologia non sono solo le intelligenze superiori, ma il corpo umano e le interazioni cooperative fra i corpi: “In un mondo come il nostro, pieno di crudeltà e di sfruttamento, in cui il volgare ed il mediocre proliferano all’infinito in nome del profitto finanziario, è necessario capire perché un madrigale di Gesualdo o una passione di Bach, una melodia di sitar indiana o un canto africano, il Wozzeck di Berg o il War requiem di Britten, un gamelan balinese, un’opera cantonese o una sinfonia di Mozart, Beethoven o Mahler, possano essere profondamente necessarie alla sopravvivenza umana, indipendentemente dal valore che hanno come esempi di creatività e di progresso tecnico. Ed è anche necessario spiegare perché, in determinate circostanze, un “semplice” canto popolare può avere valore umano più di una complessa sinfonia (Tratto da Com’è musicale l’uomo – Edizioni Ricordi, 1986) Il vignaiolo e la sua compenetrazione umana costruiscono le basi tecniche e tecnologiche del vino: la loro funzione trascende l’uso formale e standardizzato a cui sono preposti nei momenti formali (degustazione guidata secondo schede normate). Ed è per questo che un vino ‘semplice’, non semplificato, e ‘popolare’ può avere (le circostanze in cui si realizza sono fondamentali) valore umano più di un vino complesso e titolato.

“Degustazione: qualunque pratica con o intorno al vino”.

A meno che Nicola Perullo non abbia letto e non conosca il pensiero del semiotico musicale Gino Stefani, questa proposizione conferma quantomeno l’esistenza dei mondi paralleli o, al meglio, delle sensibilità parallele.

“Qualunque pratica con il vino che una comunità abbia deciso di chiamare degustazione”.

Non lontano anch’esso da un pensiero epistenologico, Luciano Berio si presentò ai suoi lettori in rima baciata: “Il mio nome è Luciano Berio e sono musicista. […] io penso che l’obiettività non esista”. (C’è & Musica di Luciano Berio – Feltrinelli Real Cinema)

“La degustazione non è una cosa, è una attività”.

In his book of the same title (Musicking, 1998), Christopher Small argues for introducing a new word to the English dictionary – that of musicking (from the verb to music), meaning any activity involving or related to music performance.

Non è mio compito in questa sede produrre neologismi o parole nuove, che gli accademici della Crusca hanno sapientemente definito come “parole potenziali”. Occorre comunque precisare che la degustazione si avvicina, in molti casi, ad una vera e propria performance, cioè ad “un’esibizione caratterizzata da particolari qualità spettacolari o drammatiche e soprattutto da una certa imprevedibilità che ne faccia in qualche modo un evento irripetibile”. (Treaccani 2.a). Senza dimenticare che questa performance può fare leva sull’improvvisazione, sul coinvolgimento del pubblico e sull’impiego di tecniche multimediali.

Epistenologia II spiegato a me stesso. E quindi agli altri.

Quella che segue è la relazione, all’incirca, che ho tenuto all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo per la presentazione del libro di Nicola Perullo “Il gusto non è un senso ma un compito” – Epistenologia II  (Mimesis, 2018). Sono intervenuti, in ordine: Emanuele Giannone, Ingegnere, Wine writer e studioso; Andrea Pieroni, Botanico, Rettore Università di Pollenzo; Alessandro Bertinetto, Filosofo, Università di Torino; Paolo Gruppuso, Antropologo, Università di Aberdeen e Pietro Stara, Sociologo (questa volta mi è toccato il sociologo e wine writer, poiché tutti gli altri titoli erano stati impegnati in precedenza), cioè il sottoscritto. Naturalmente Nicola Perullo.

Buona sera e bentrovati. Sono lieto di essere qui con voi per discutere del libro di Nicola Perullo. O forse sarebbe meglio dire, per partire con il piede giusto, per discutere con il libro di Nicola Perullo. Proverò a raccontarvi il libro allo stesso modo in cui l’ho raccontato a me stesso. In fondo ho dei precedenti di tutto riguardo: Marcel Proust affermò che “ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso” (Il tempo ritrovato) Perché, vedete, se ci trovassimo di fronte ad un libro con una sua trama lineare, un percorso noto, un indice rassicurante, un racconto che termini in un finale in cui l’omicida è, per forza di cose, se non “anche tu Bruto, figlio mio” (Tu quoque, Brute, fili mi!), almeno il solito maggiordomo, ebbene!, allora potrei spiegarvi e dispiegarvi Epistenologia II senza grossi patemi d’animo. Ma, come diceva Giorgio Manganelli ne “Il rumore sottile della prosa”, “il principio secondo cui si dovrebbe dare un’idea della trama è solo apparentemente un imperativo morale; è essenzialmente una scelta letteraria. Esistono molti, non moltissimi, libri che sono ottimi ed hanno una trama raccontabile; ma, se sono veramente ottimi, credo che siano tali che, spellati della trama, offrano un’immagine segreta, uno strato sotterraneo in cui veramente consiste la grandezza di un libro. È facile fare un riassunto di Delitto e castigo; facile quanto inutile: con quella trama possono lavorare scrittori geniali e autori di gialli. Ritenersi tenuti a dar conto della trama vuoi dire scegliere libri dotati di trama, e questo particolare non mi dice nulla sul libro in sé, non mi dice perché dovrei o non dovrei leggerlo; (…) Personalmente, mi interessano libri che abbiano un tema piuttosto che una trama; i libri che non è possibile, o eccessivamente arduo, riassumere”.

Parto così con un senso di sommessa inadeguatezza. Ma non si tratta, ascoltate bene, di quel senso privativo della mente che la psicologia di un certo spessore definisce come  disturbo evitante di personalità, per il quale basterebbero, e forse occorrerebbero, quattro sedute settimanali di psicoanalisi per, come minimo, dieci anni. E neppure mi riferisco all’inadeguatezza leopardiana alla vita e al mondo. Sto parlando di un altro tipo di inadeguatezza: la difficoltà di narrare un libro che non ha come suo oggetto il vino, che non ha come suo oggetto un metodo, che non ha come suo oggetto la competenza e che non ha come suo oggetto il giudizio ma che, nello stesso tempo, spostando il vino ai margini della  preposizione “con”, lo mantiene paradossalmente forte di una centralità viva e carica di attenzione.

Prendiamo l’indice, ad esempio, e iniziamo a spaventarci di lì:

Avvertenza 7               Già un libro che avverte, un po’ intimorisce

Ripresa e legami 9    

Un piccolo filo che si riannoda… per poi perdersi nuovamente. Ora arrivano gli altri capitoli a suon di schiaffi:

Senza tema 19                      

Senza metodo 33

Senza competenza 45

Senza giudizio 57

Il gusto non è un senso ma un compito 69

Storie senza istruzioni 83

Il terroir è il mondo 95

Curare l’ebbrezza 109

L’ebbrezza è già quasi giunta a maturazione e siamo prossimi allo stordimento.

Pensiamo, giunti al termine, di tirare nuovamente il fiato con la bibliografia, ma è una mera illusione. Sentite cosa scrive Perullo: “In un testo come questo, però, la bibliografia potrebbe essere estremamente più ampia, corrispondendo più o meno a tutto quello che l’autore ha letto ed assimilato (direi incorporato) nella sua vita finora”.

Nelle recensioni ai libri Epistenologia I e II  mi sono appoggiato ad uno dei più grandi autori della letteratura italiana del Novecento: Italo Calvino e le sue splendide Lezioni Americane. Così – mi sono detto –  puntellandomi con il favore di un tipo molto cool provo a ridurre questa sensazione perniciosa di inadeguatezza. Epistenologia I evocava in me la parola “leggerezza”: “si deve essere leggeri come un uccello e non come una piuma” (Paul Valery). La leggerezza non è vacuità, povertà, inconsistenza: tutt’altro. Essa è forma magnetica e pulviscolare: i sandali alati di Perseo; la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili di Lucrezio; i personaggi del Cavalcanti che sembrano sospiri, raggi luminosi, immagini ottiche e messaggi immateriali che egli chiama ‘spiriti’…”

Mentre, per il libro di cui stiamo parlando ora, Il gusto non è un senso ma un compito, ovvero Epistenologia II, la parola che ho mobilitato è stata: “molteplicità”. Calvino, ricordando l’ingegnere e gran scrittore Carlo Emilio Gadda (anche noi questa sera godiamo della presenza di un ingegnere gran scrittore, Emanuele Giannone, cosa che ci fa ben sperare nella reincarnazione e nella possibilità di vivere una vita totalmente priva di momenti esilaranti come le recentissime elezioni politiche) disse che egli “cercò per tutta la sua vita di rappresentare il mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità”. Gadda vedeva il mondo come un «sistema di sistemi», in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato.

Avrete capito, insomma, che il vino guardato di sbieco e di traverso da Nicola Perullo non viene valutato dal punto di vista sensoriale, non viene valutato dal punto di vista storico, non viene valutato dal punto di vista economico né, in alcun modo, dallo sguardo dei sociologi dei consumi o dalla chimica dei piaceri. Alcune innaffiate di antropologia e di filosofia invece le troverete, qualche riverbero psichico, sinuose allusioni estetiche… Dunque in che modo il vino fa la sua comparsa e in che modo il vino mantiene la sua rotta in Epistenologia II?

Proviamo prima a rispondere ad una domanda apparentemente semplice: come si strutturano le abilità che ci permettono di relazionarci con il vino, di comprenderlo e condividerlo? Bisogna ancora allargare lo sguardo e fletterlo un pochino. Vorrei qui riferirmi ad uno dei soggetti ispiratori del libro, l’antropologo inglese Tim Ingold, dai cui scritti si possono dipanare alcuni degli intrecci reticolari e delle pluralità epistemologiche di Perullo. Lo sviluppo delle abilità è dato da una progressiva acquisizione di un certo ciclo di azioni che si calibrano sia rispetto al proprio passato sia all’intero sistema di relazioni in cui l’individuo è calato: siamo formati, in altre parole, dall’intera storia delle nostre relazioni ambientali. E lo siamo per tutta la vita (ora vi sarà più chiara la premessa alla bibliografia). Ed è proprio per questa ragione che il vino non può essere qualcosa che trova una sua oggettivazione esterna e statica al di fuori di quelle che sono le relazioni che lo hanno incorporato. L’errore sarebbe quello di focalizzarsi sui tratti genetici e dell’uno, colui che beve, e dell’altro, il vino bevuto non perché questi non appartengano ad ambienti e fattualità differenti, ma poiché, nel momento in cui si intrecciano, ricreano e ricostruiscono nuove forme di relazione e nuove forme di conoscenza. L’obiettivo, dunque, non è quello di ritagliare in tanti pezzi l’intero della realtà per poi osservarla attraverso lenti teoriche e metodi di analisi concepiti in modo separato: si conosce un oggetto nella misura in cui lo si costruisce, e lo si costruisce nella misura in cui si è coinvolti con esso. Un bevitore, per parafrasare Ingold, mentre descrive un vino, sta contemporaneamente descrivendo se stesso che parla di quel vino.  (Ecologia della cultura)

Il gusto, e ci si dovrebbe incaponire a lungo sulla sua accezione, non è concepibile senza la visione, l’olfatto, la tattilità e, il più delle volte, non è neppure pensabile senza l’udito. L’unità percettiva del mondo si cristallizza nel corpo, preso nel suo insieme. Per dirla con Merleau-Ponty, un’altra fonte d’ispirazione di Perullo: “Cézanne diceva che un quadro contiene in sé persino l’odore del paesaggio. Egli voleva dire che la distribuzione del colore sulla tela esprime da sola tutte le risposte che emergerebbero dall’interrogazione degli altri sensi. Voleva dire, cioè, che una cosa non avrebbe questo colore se non avesse anche questa forma, queste proprietà tattili, questa sonorità, questo odore…” (Fenomenologia della percezione)

Per Perullo non si tratta, infine, di passare dalle norme codificate delle degustazione di un vino ad una nuova schiavitù votata alla sacra obbedienza agli impulsi, essi stessi schiavi di regole che non riconoscono, ma attraverso la stretta relazione che si genera tra vincoli e possibilità. Soltanto in questo modo trova compiutezza la morfologia di un vino: nelle relazioni che sono state tessute, in quelle in cui siamo immersi e in quelle che saremo capace di tessere, fin tanto che un nuovo gomitolo non srotolerà la sua intricata matassa per nuovi fili e per nuovi ed intriganti grovigli.

Ecologia della vita come corrispondenza. Una possibile non recensione di Emanuele Giannone

Nel 2017 Nicola Perullo ha pubblicato il saggio Io nel pensier mi fingo. Il titolo esplicita il tema – un’esegesi leopardiana – ed è chiaramente tratto da quello che chi non lo sa, problemi suoi, a questo punto non ci sono più scuse, né scuole, né tempo a disposizione ma solo anacoluti.

Quanto sopra è palesemente falso. Il libro non si intitola così, non è un’esegesi leopardiana, non è ovviamente tratto da peccato se non sapete dove, soprattutto non è un libro a tema perché va risolutamente fuori dai temi, anzi, di più: non ne suggerisce, ne ha molti espliciti e liberamente fruibili. Tutto si spiega, fuorché il fatto che non esista una recensione del saggio leopardiano, ma forse non leopardiano, di Nicola Perullo.

Nel 2017 Nicola Perullo ha pubblicato, si diceva, questo saggio diversamente intitolato, un’efficace novazione epesegetica nella quale non si parla di cibo o di vino, ma forse anche sì, sebbene en passant, e in questo caso sarebbe più corretto dire che si parla con il cibo e con il vino, i quali però restano incidentali: incidentali come tutti gli altri passaggi e passati, assaggi e presenti, futuri da sapere. Non esistono soggetti, né predicati nominali. Piuttosto, tracciati, incidenze, incroci, intrecci. In tutto questo, cibo e vino sono ovviamente inerenti alle questioni di gusto, ma sarebbe più giusto dire sapore, Rolando auspice. Ed è utile chiarire che il libro è tutto uno svolgimento di intrecci, tra i quali quello del gusto come esperienza.

Nel 2017 Nicola Perullo ha scritto un saggio molto bello e gustoso, sapido e salacemente anti-filosofico perché, senza ricorrere a toni apodittici, fa apparire molti filosofi, in particolare quelli social-mediaticamente più presenti, per gli esperti di uova Fabergé quali sono, o indossatori di cachemire, o collezionisti di gnomi o nani da giardino – gnomi, neanche a dirlo, di pregevolissima fattura, per carità. O anche fermodellisti di rara abilità, capaci di assemblare mirabilia nelle scale 1:18 e 1:50. In verità non è affatto sicuro che il saggio sia antifilosofico perché, a ben rileggerlo, potrebbe al contrario essere filosofico ma non nel modo in cui da un filosofo ve lo aspettereste, quindi non compulsivamente affabulatorio, né woomp-wooomp! nel senso onomatopeico della trombonata, né ipotattico fino all’apnea. Qui, insomma, non trovate gnomi, né gnome (γνώμη). E neppure trenini o trenodie. Tutto scorre, è interrelato, ricco di relazioni e corrispondenze, povero di stati, statuti e postulati.

Nel 2017 Nicola Perullo ha pubblicato un saggio che suffraga la prima, troppo precipitosamente denegata ipotesi – scusatemi per la frettolosa liquidazione – perché è evidente che qui abbiamo non una ma persino due variazioni leopardiane: una prima in cui l’autore nel pensier si pinge (pingo, pingis, pinxi, pictum, pingĕre), cioè più propriamente si colora, colorisce o ritrae anziché semplicemente figurarsi come uno scaltro verista o vetrinista ; una seconda in cui si finge nel pensiero ma anche oltre, senza quindi escludere la pictio oltre la fictio. E in effetti il saggio è ricco di movimenti pittorici, oltreché di locomozione, e politici, e musicali e altri ancora.

Il libro scritto nel 2017 da Nicola Perullo è molto antico. È altresì asincrono e acronico. Ma anche, è evidente, molto nuovo e altrettanto indubitabilmente sincrono e cronico. La sua molta antichità è palese già dal titolo, stavolta quello vero, che tratta l’òikos. La molta novità, di converso, sta nel prenderlo e destrutturarlo, diffonderlo, trasformarlo in katoikìa e oikouméne. La molta novità sta anche nell’essere scritto con molto sé ma a tutto vantaggio e diletto di te che leggi, mon semblable, mon frère; il che, scelta o caso che sia, rappresenta di una novità insperata in tempi di trasmissioni in diretta mondovisione dal cesso e dal fornello di casa, evoluzione dello studio televisivo. Un saggio scritto senza esigenze di trasmettere il vissuto individuale con argomenti che lo trascendano o travestano. Un libro fluente e bello per te, mon frère, che ami la vita viva, la Vita Nova, persino la vida loca, perché pieno di vecchie e belle vite parallele che si fanno nuove e mirifiche vite incidenti. Il libro di un filosofo che abdica all’egodicea: il che significa appunto, saluto affettuoso a Derrida, che il filosofo abdica alla filosofia.

 

Il libro scritto nel 2017 da Nicola Perullo è, si diceva, molto antico. L’antichità di questo libro scorre nel suo risalire controcorrente le scientifiche sorti e regressive del presente e del tempo a venire, dribblando di slancio il quantified self e le analisi quantitative, le biometrie, le conduttanze cutanee, i riflessi psicogalvanici, le chemestesìe e tutto quel che serve – ma veramente servirà? – a stabilire oggettivamente quanto e quando siamo. È inoltre un libro molto asincrono, ha un tempo suo soltanto che è quello di chi lo scrive, quindi fuori dal tuo. Tuttavia, basterà che tu lo legga, mon frère, senza pretendere che rispetto a te e ai tuoi devices si debba vivere o scrivere in diretta, in sincronia – ti bastino la buona accordatura e la sintonia fine, tutte doti che il libro dispensa generosamente – e proverai divertimento, e riderai degli isocronismi. A una seconda lettura, tuttavia, il libro è sicuramente sincrono: accade insieme e per sempre. Dalla terza in poi non sono più sicuro.

Procedendo da quanto appena concluso, il libro scritto nel 2017 da Nicola Perullo è quanto meno acronico. Vi accade tutto e, non bastasse questo, tutto vi fluisce senza tempo. Il gioco del mondo. Un gioco che apprende, quello di partire da un tempo e un punto qualunque per non concludere mai, vale a dire arrivare alla non-conclusione, invero piuttosto scontata (ma fin qui non ce n’eravamo accorti), che non vi è stato tempo, né punto, e quindi ripartire (cioè continuare). Però serviva credere che tempo e punto avessero luogo: per mettersi in moto, guardare l’orologio prima di intraprendere il cammino, dare misura e dimensione al cominciamento. Altrimenti detto, per traslato e se non atterrisce la polisemia, il testo è cronico. Non segue il tempo: lo crea.

Il libro scritto nel 2017 da Nicola Perullo si chiama Ecologia della Vita come Corrispondenza. Leggerlo è facile: il ritmo è libero, il flusso offre momenti o frammenti apparentemente disordinati, in realtà dislocati perché un ordine non serve: si leggono e commentano a partire da un qualunque luogo, in un qualunque istante e si riflettono ovunque. Commentarli, inoltre, riuscirà particolarmente facile perché il testo è giusto e vero. Non esatto: vero. Assolve il compito vero di ogni testo che è produrre nuovi sensi, non individuarne prestabiliti e correnti. Nuovi sensi tra il testo evidente e quelli inframmessi, inter- e meta-testo, piacevole esercizio euristico per chi conosce i testi cooptati e, ciò che è assai più rilevante, procedimento ludico e creativo per chiunque.

Leggere Ecologia della Vita come Corrispondenza è facilissimo perché richiede la conoscenza di Ingold, Agamben, Bachelard, Wittgenstein, Derrida, Jodorowsky, Glass, Cohen, Nietzsche e i saggi del lontano Oriente, ma se preferite vi invita a farne benissimo a meno. Dipende da voi. Come quelli, bastano infatti vicini di casa, parenti e gli affini, compagni dell’università o di viaggi, commensali e l’autore.

Paralipomena. Per me la lettura si è rivelata particolarmente emozionante perché il libro di Nicola Perullo tratta a sorpresa di tram lungo Mariahilfer Strasse e Mannerheimintie, della stazione di Skellefteå, dei trionfi della borghesia domenicale ovvero l’Ottocento siciliano trasumanato nel Novecento romano a Largo Bradano prima e poi a Via Bertoloni, e quindi il teatro surrealista-familiare, il traghetto Stoccolma-Turku e quello da Rødby a Puttgarden e poi la nascita a Via Cipro, la vita in periferia, il trasloco da Monaco di Baviera a Helsinki su una Opel Omega Kombi, l’encomio di Simonide di Ceo per i caduti delle Termopili, Celibidache, la domanda è rosso fuoco e la risposta è blu; e ancora le foto e le magliette da Piccadilly Circus, dal Pori Jazz Festival, da Voidokilia, dalla Quinta Strada e da Beaune. E il vino e soprattutto la gente, i Klinec, e la gente e soprattutto il vino, i Klinec, a Medana. E la Messenia. E Montalcino. E Schiphol. E il vino di Radikon, quello di Prepotto e Sgonico, quello di Cefalonia. Ullanlinna, Horsens, Kardamyli, Kiruna, East Acton, Schwabing, l’Arcoveggio, il Montello, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea. In barca a vela per i Laghi Masuri, la lingua nuova, piena di scaglie e guglie, liquescenze improvvise e sensualità. Danzica. die Blechtrommel. Alla radio the Doors o Rameau – conoscevi? Non conoscevo. Guidare la Trabant, La Syrena (samochód), la Saab 96 (personbil, Sverige är en konstitutionell monarki). Bayerischer Rundfunk. Staatskapelle Dresden. La Finlandia marginale, työttömyys, viina, kirves ja perhe. Kaurismäki. Gli autografi di Gassman e della Guarnieri. Macbeth. Nardini al Ponte Vecchio, Villa Barbaro a Maser, il cineclub a Montebelluna. Konstanz e Margrethe (goldenes Haar) che legge Celan. So bist du denn geworden, vent’anni dopo. Vent’anni dopo a Villa Doria Pamphilj si corre benissimo, leggeri, l’afa di agosto si dilegua nella scoperta che il viale Eliot di Villa Doria Pamphilj è intitolato a George, non a Thomas S., quindi summer surprised us ancora una volta. La terra desolata. La Linea A, penultima fermata, Cornelia, precedentemente S-8, Endstation, Herrsching am Ammersee (proseguire per la Bahnhofstrasse fino al 20). Studio matto e disperatissimo variamente intercalato con Wanderungen e ozio con annessa commutatio loci. Treni regionali per Nettuno pieni di piscio e pattume contro rapidissimi treni rossi per il Nord, Kieler Förde, Saint-Nazaire, Oulu. Limoni. Matrimoni. Istituto Nazionale Tumori Regina Elena. Klinikum Grosshadern. Šostakovič, Masur, Skrowaczewski. Monteverde. La luce d’inverno sopra, da e dentro: a) l’Acquedotto Alessandrino, b) il Porto Innocenziano, c) il Sentiero Rilke, d) Töölön Lahti.

Tutto questo è palesemente falso, nel libro non vi è nulla di tutto questo, o almeno così pare. Pare, perché è tutto vero e c’è, l’ho letto io perché il libro invita a infiltrarsi nel testo, spogliandolo del senso, spogliandosi del proprio, togliendone e dandone a entrambi. Uno, tanti, diversi, nei fasci di vita che si intessono e dipanano.

Nicola Perullo, Ecologia della Vita come Corrispondenza (Mimesis Edizioni, Collana Eterotropie, 2017)