Massimo Mila tratto da Unione culturale Franco Antonicelli – Torino
Sarà capitato anche a voi di provare un certo disagio dopo l’ascolto di un meticoloso racconto dei processi produttivi di un vino e il suo successivo assaggio. Quasi che la narrazione procedurale servisse a spiegarci, da sola, in una serie di nessi e passaggi causali, l’esito finale, cioè il vino, quando non ancora la sua evoluzione pre-determinata: si parte dalla vigna, si capita in cantina e si finisce nella bottiglia subito prima di tuffare il naso e la bocca nel bicchiere. Lungi da me negare la tecnica applicata. Bisogna solo intendersi: vorrei aggiungere soltanto un piccolo segmento, che sfugge ad una logica puramente oggettivante dell’atto creativo, ovvero quello relativo a ciò che uno dei più grandi critici e saggista musicale della nostra epoca, Massimo Mila [1], definì, in merito all’atto musicale, “l’espressione involontaria”.
Credo, infatti, assieme a molti di voi, che, al di fuori del meccanismo industriale-fordista, la realizzazione di un vino sia un atto di creazione e di interpretazione. Dove la tecnologia e l’esperienza sono strumenti operativi ineguagliabili, ma che non spiegano in maniera totalizzante l’esito raggiunto. Esattamente come la grammatica italiana non risolve lo svolgimento di questo mio scritto. Allora, se siamo d’accordo nel reputare il vino come esito finale dell’antica τέχνη (tékhnē) greca o ars latina, intese come esperienze conoscitive (arti in senso lato), e non solo di un pedante e ripetitivo tecnicismo, dovremmo essere in sintonia nell’affermare che esso vive dell’espressione e nell’espressione del suo compositore/vignaiolo. Ma di quale espressione stiamo parlando? Ancora con Mila: «L’espressione, in cui diciamo consistere la natura dell’arte, non è qualcosa di cercato, non è una “espressione fatta apposta”. L’espressione in cui consiste la natura dell’arte non è espressione voluta di qualche cosa, ma è la presenza inevitabile della persona umana, diversamente individuata nei singoli artisti, come compendio vivente, e quindi sempre in via di trasformazione, d’un concorso di circostanze storiche.» [2] Non si tratta, badate bene, dell’espressione generica di sentimenti (gioia, dolore, speranza…) che attengono a forme di tipizzazioni generali: «La realtà è quella di singole creatura in preda a stati d’animo che, per necessità pratica e con molta imprecisione di linguaggio ci riduciamo a designare con quei termini, ben sapendo però che il dolore di uno e tutt’altra cosa che il dolore di un altro, che la gioia di Rossini nel Barbiere è tutt’altra cosa che gioia di Beethoven nella Nona Sinfonia.» [3]
Nessun vignaiolo, dunque, compone i suoi vini in uno stato d’esaltazione mistica, preda di ispirazioni contemplative di natura trascendentale. Egli/ella possiede la conoscenza e la capacità d’uso degli strumenti e dei metodi impiegati, ma ciò che non controlla, ma che pur tuttavia è riconoscibile nel suo prodotto, è il «traboccare d’una personalità irresistibilmente incisiva, che imprime le proprie passioni robustissime sopra quella trama» di sensazioni che appartengono al vino: «Ma il genio, e anche il grande talento, emerge, più che da elementi intellettuali e d’affinamento sociale superiori a quelli degli altri, dalla facoltà di trasformarli, di trasporli… Analogamente, gli uomini che producono opere geniali non sono quelli che vivono nell’ambiente più squisito, che hanno la conversazione più brillante, la cultura più vasta, ma quelli che, cessando bruscamente di vivere per se stessi, hanno il potere di rendere la loro personalità simile a uno specchio, in modo che la loro vita, per quanto potesse essere mondanamente e persino, in un certo senso, intellettualmente mediocre, vi si rifletta, giacché il genio consiste nel potere riflettente e non nella qualità intrinseca dello spettacolo riflesso. Il giorno in cui il giovane Bergotte poté illustrare al mondo dei suoi lettori il salotto di cattivo gusto dove aveva trascorso l’infanzia e i discorsi non proprio eccitanti che vi faceva con i fratelli, quel giorno egli salì più in alto dei suoi amici di famiglia più spiritosi e più distinti: questi, nelle loro belle Rolls-Royce, potevano tornarsene a casa testimoniando un po’ di disprezzo per la volgarità dei Bergotte; ma lui, col suo modesto apparecchio che era infine “decollato”, lui volava sopra le loro teste.» [4]
Proprio perché il genio consiste nel potere riflettente e non nella qualità intrinseca dello spettacolo riflesso.
NOTE
[1] http://www.archivioflaviobeninati.com/2012/02/massimo-mila/
[2] Massimo Mila, L’esperienza musicale e l’estetica, Einaudi, Torino 1956, pp. 109, 110
[3] Ivi, pag. 113
[4] Marcel Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, in Alla ricerca del tempo perduto II, traduzione di Giovanni Raboni, Mondadori, Milano 1998.
L’articolo è stato pubblicato per la prima volta qui: http://www.seminarioveronelli.com/il-vignaiolo-compositore/