Estetica senza (s)oggetti. Linee di fuga creatrici

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Ho avuto, per lungo tempo, l’erronea impressione che Nicola Perullo scrivesse di filosofia e, ancora meglio, di estetica. Non che non sia un filosofo, sebbene io non sappia di sicuro cosa sia un filosofo almeno dai tempi di Eraclito, né che non si occupi di estetica, ovvero di quella branca oscura della voluttà più o meno conscia e più o meno veicolata.

Ma nulla di tutto questo. Sappiamo da svariati secoli che se c’è qualcosa che inganna queste sono proprio le parole: subdole, infingarde, tentatrici, incomplete, esse rimestano nel torbido almeno tanto quanto le nostre coscienze (sempre che sia dimostrabile che ne abbiamo una o più d’una o almeno qualcuna in prestito): “La coscienza si manifesta, però, viene e percepita, ‘saputa’, solo in quanto – nella e con – specifica esperienza: è un percepire consapevolmente con, un sentire/sentirsi pensare/pensarsi indissolubile, del tutto irriducibile alla cognizione. La coscienza si conosce solo in quanto la si esperisce, vivendola, attraverso quella inaggirabile singolarità percettiva” (pag. 46).

D’altra parte Perullo non cita tanto per fare Wittgenstein quando afferma che i termini ‘buono’ o ‘bello’ non sono affatto caratteristici, al pari del costrutto sintattico ‘Questo è buono/bello’, ma ciò che conta è l’occasione in cui vengono detti, ovvero il contesto espressivo e relazionale: “le parole fanno parte di un’annodatura processuale che si manifesta, in ogni occasione, come evento differente” (pag. 189).

Nicola Perullo ci porta per mano all’interno di una casa degli specchi dove le parole, prese singolarmente, sono semplicemente identiche a se stesse e non hanno alcuna capacità, né tantomeno volontà, di esprimere un senso compiuto poiché prive di un tessuto relazionale. Allo stesso modo le proposizioni, i cosiddetti ‘concetti’, non hanno alcuna funzione esplicativa, raziocinante, definitiva. E neppure l’Eco sociale, da sé, è in grado di svincolare il tessuto molteplice delle parole perché esse, ripetute infinitamente di fronte al proprio Narciso riflesso (soggetto e oggetto sono una cosa sola), sono illusorie.

Quasi immediatamente, per processo associativo, mi sono venute in mente le teorie sociologiche sul ‘frame’ e sui ‘framework’ di Ervin Goffman[1] e, ancor meglio e diversamente, quelle estese dall’antropologo scozzese Victor Turner al teatro, alla performance e all’idea di ‘margine’ o di ‘limen’. Ma ascoltiamo direttamente Turner: “Le regole ‘incorniciano’ il processo teatrale, ma quest’ultimo trascende la sua cornice. Un fiume ha bisogno di argini per evitare le sue pericolose inondazioni, ma gli argini senza un fiume sono l’immagine stessa dell’aridità. Il termine ‘performance’ deriva dal francese parfournir, che significa letteralmente ‘fornire completamente o esaurientemente’. To perform significa quindi produrre qualcosa, portare a compimento qualcosa o eseguire un dramma. Ma secondo me, nel corso della ‘esecuzione’ si può generare qualcosa di nuovo. La performance trasforma se stessa. Le regole possono incorniciare la rappresentazione, ma il lusso dell’azione e dell’interazione entro questa cornice può portare a intuizioni senza precedenti. È possibile che in questo caso le cornici teatrali tradizionali vadano sostituite: nuove bottiglie per il vino nuovo[2]”.

Da qui il termine ‘flusso’ che “denota la sensazione olistica presente quando agiamo in uno stato di coinvolgimento totale ed è una condizione in cui un’azione segue all’altra secondo una logica interna che sembra procedere senza bisogno di interventi consapevoli da parte nostra (…). Ciò che esperiamo è un flusso unitario da un momento a quello successivo, in cui ci sentiamo padroni delle nostre azioni, e in cui si attenua la distinzione tra il soggetto e il suo ambiente, fra stimolo e risposta, o fra presente, passato e futuro[3]”.

In queste condizioni la performance si afferma come una pratica totale dove si realizza la perdita dell’io (intesa come privazione dell’ego) in una piena fusione tra atto e coscienza dove conta il momento, il qui e ora, nel quale il processo accade. L’agire intrapreso non è contraddittorio e il flusso non ha bisogno di finalità o ricompense esterne (è autotelico). Ugualmente Perullo afferma che “l’estetico accade quando una relazione richiama consapevolmente la singolarità di un evento qui e ora, come relazione, cioè come sua apertura simultanea all’ovunque e sempre dell’intessitura complessiva dell’accadere/mondo”. (pag.98)

Il limite, dunque, non è solo l’ostacolo o la forma di contenimento, ma è quel luogo in cui si perdono i riferimenti precedenti: la liminalità è la condizione in cui avviene la “scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o ‘ludica’ dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra[4]”.

Il parlare, le mute eloquenze[5], l’agire all’interno delle relazioni fra campi che costituiscono la continua formazione dell’opera di cui il giudizio estetico ne è l’espressione abbreviata e tagliata non riguardano incontri già accaduti, si direbbe ‘passati’, ma invece quelli pienamente ‘presenti’ in quanto corrispondenti e attualmente recepiti (pag.128).

Dicevo, al principio di questa breve disamina, che di un testo puntuto e felicemente indisponente come “Estetica senza (s)oggetti” avevo erroneamente pensato fosse un trattato filosofico al pari degli altri scritti di Perullo. Si potrebbe discutere a lungo su che cosa sia il filosofare, ma è indubbio, almeno per me, che questo libro occupa uno spazio pienamente politico (rinvio all’altro scritto di Perullo, Epistenologia, e al riferimento all’estetica anarchica). Anche questa volta si potrebbe polemizzare a lungo che cosa sia il politicare: quello che so di certo è che ha poco da spartire con quella che è considerata la professione della politica strettamente intesa e con tutti i politicismi a cascata: “Se si parte dal (s)oggetto, sarà inevitabile cedere alle leggi del(la) Capitale, che si infiltreranno ovunque: denaro (capitale finanziario), cultura (capitale culturale), viventi (capitale umano) e menti filosofiche. Il ‘capitale culturale’ è il business del pensiero e coincide col modello capitalistico-finanziario della banca. (…) Il percepire estetico e aptico non cerca di comprendere, di aggredire e di attanagliare qualcosa per sentirlo; non cerca di “fare esperienza” come movimento attivo intenzionalmente indirizzato verso qualcosa; non cerca neppure il godimento. Non cerca letteralmente nulla (…) Educarsi percependo è un processo di apprendimento, non a contenuti ma all’ad-tendere: attenzione e attesa. E non l’attesa di qualcosa, ovviamente: attesa come inclinazione, volgersi, considerare (cum sidera). Imparare ad attendere è anche pazienza: supportare/sopportare, patire. È quindi anche disimparare, disallineandosi dal dominio percettivo prevalente dell’accumulazione e della linearità. Senza obiettivi predefiniti né scopi, questo educarsi esprime il senso della continua fioritura umana nel contesto più ampio della corrente del vivere” (pp. 176, 177).

Come nel romanzo kafkiano la metamorfosi produce una deterritorializzazione dell’uomo e crea una “linea di fuga creatrice che non vuol dire null’altro che se stessa”: “Uno scrittore non è un uomo-scrittore, è un uomo politico, è un uomo-macchina, è un uomo sperimentale – che cessa così di essere uomo per diventare scimmia, o coleottero, cane, topo, divenire-animale, divenire-inumano (…)”. La scrittura diviene, dunque, “un’enunciazione che fa tutt’uno col desiderio, al di sopra delle leggi, degli stati, dei regimi. Enunciazione sempre storica, politica e sociale. Una micro-politica, una politica del desiderio, che metta in causa tutte le istanze[6]”.


[1] Cfr. Ervin Goffman, Frame analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Armando Editore, Roma 2001

[2] Turner V., Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986, pag. 145

[3] Csikszentmihalyi M., cit in Turner V., Dal Rito al Teatro, p 105

[4] V. Turner, Antropologia della performance, Bologna, Il Mulino 1983, pag. 187

[5] “Parlano le mani tutto ciò che la lingua sa dire, e l’arte sa fare; tutte le dita sono alfabeti; tutto il corpo è una pagina sempre apparecchiata a ricever nuovi caratteri, e cancellarli”. Emanuele Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, o sia Idea dell’Arguta et Ingeniosa Elocutione che serve à tutta l’Arte Oratoria, Lapidaria, et Simbolica esaminata co’ Principij del divino Aristotil, per Giovanni Sinibaldo, stampatore regio,Torino 1654 in Ottavia Niccoli, Muta eloquenza. Gesti nel Rinascimento e dintorni, Vilella, Roma 2021

[6] Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 2010 (edizione originale 1975); G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione? Cronopio, Napoli 2010; J. Derrida, Sulla parola. Istantanee filosofiche, nottetempo, Roma, 2004

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