Il teatro della degustazione nelle fiere vinicole. Affinità e divergenze tra il compagno Fiorenzo e me sulle domande demenziali ai banchi d’assaggio.

“ Noi tolleriamo l’inspiegato ma non l’inspiegabile[1]” 

Il 5 luglio 2012, alle ore 17.29 per la precisione, compare sul blog ‘Intravino’, un articolo a firma di Fiorenzo Sartore, sulle domande ‘demenziali’ ai banchi d’assaggio delle fiere vinicole: http://www.intravino.com/primo-piano/fenomenologia-dellenoesaurito-che-fa-domande-demenziali-ai-banchi-dassaggio-e-si-bulla-pure/. Visto che dopo una lunga pausa estivo – autunnale mi sto per accingere a frequentare una serie di fiere viti-vinicole, l’articolo di Fiorenzo mi è subito tornato alla mente. Immediatamente mi sono esemplarmente proiettato nella tipologia dell’enoesaurito e mi sono chiesto quali domande abitualmente faccio e soprattutto perché le faccio. Allora ho anche pensato che forse, prima delle domande, sarebbe opportuno spostare l’attenzione su ciò che accade durante le fiere prima che il parlato possa esprimersi compiutamente. E poi ho anche valutato che il parlato, nelle sue infinitesime variabili, si ancora intorno ad un codice ben definito, frutto della cornice, o meglio del quadro teatrale in cui si svolge la degustazione. La cornice entro cui si svolge lo spettacolo della degustazione è la fiera in senso lato, la sua organizzazione in tendoni, tensostrutture, capannoni, edifici, anche occupati (Critical Wine), all’aperto e via dicendo. Il luogo dove si svolgono le scene primarie della degustazioni sono i banchi dove i produttori espongono la loro merce, a volte “magnificamente” allestiti, dove un imponente apparato architettonico viene rimpinguato da elementi folclorico/cabarettistici (comprensivi di veline), in altri casi da sobri banchetti ‘sovieticamente’ allineati, in un continuum il cui unico fine è la parete che ci dice di tornare indietro oppure di girare alla prossima fila di banchi. Il posizionamento della struttura, le luci, la presenza o meno di umanità variegata, assembramenti e quant’altro fanno parte integrante delle spirito sociale con il quale si affrontano le degustazioni. Trovarsi, ad esempio, di fronte ad un banco d’assaggio pieno di commensali assatanati, se da una parte infastidisce perché nega un’esclusività di rapporto personalizzato con il produttore, dall’altra attenua le ansie di prestazione sulle domande intelligenti da porre al medesimo. Ci si può far servire un bicchiere per poi scomparire nelle retrovie degli assalitori senza aver l’obbligo di proferire alcun ‘ba!’, oppure si può stare ad ascoltare la conversazione che il produttore sta intrattenendo con qualcuno che, per sua sfortuna essendo arrivato prima, è costretto a intavolare. Altra situazione si verifica nel caso in cui la piazza sia totalmente libera: dapprima una serie di sguardi sfuggenti, apparentemente casuale, ma in realtà fortemente connotati, ci dicono che c’è un primo abboccamento. Le occhiate fugaci, gli occhi che si incrociano in millesimi di secondi, ci raccontano che c’è un primo, animalesco, incontro: siamo a cavallo tra un mezzogiorno di fuoco e due cani in calore che si annusano a distanza. Poi l’avvicinamento al banco, lento, ma diretto, preciso, inequivocabile. Dopo un saluto formale, con il bicchiere proteso in avanti, il degustatore fieristico chiede se può ‘avvinarlo’, oppure è lo stesso standista (non coincide sempre con il produttore/proprietario, ma potrebbe essere l’enologo, il commerciale dell’azienda, una hostess, un sommelier, un parente, quello del banchetto vicino perché è andato/a in bagno: tutto ciò dipende fortemente dalla dimensione dell’azienda) a chiedergli se vuole farlo. Questo rituale iniziale serve a sbloccare l’impasse iniziale e ad introdurre il servizio successivo. Sia che si voglia assaggiare un vino particolare sia che si sia totalmente aperti alle offerte del vignaiolo, la domanda di fondo è se si vuole partire dai bianchi e dai vini ‘base’. Se la ditta è produttrice di bianchi questa domanda non viene solitamente posta. Al contrario è d’uso per quei produttori di rossi che hanno nel loro parterre di vini anche un bianco ‘dovuto’: ultimamente questo sta accadendo per i vini rosati, di cui ogni casa che voglia allargare le sue prospettive commerciali si è prontamente dotata. Alcuni produttori utilizzano la domanda discrimine per capire quanto tempo e quale qualità dello stesso dedicare al degustatore: “E’ un privato?…Ha un’enoteca? E’ del settore o un appassionato?…”. A questa domanda il degustatore risponde in maniera assai diversificata: ci sono degustatori semplici che si spacciano per enotecari o proprietari di ristoranti nella speranza di arrivare al top di gamma della produzione (comprensivi di bigliettini falsi fatti fare apposta per le fiere); ci sono enotecari/ristoratori/distributori che dicono di non aver nulla per non essere vincolati ad assaggi kilometrici indesiderati, oppure per non dover incorrere in discussioni pre-valutative e poi ci sono quelli che dicono di essere sostanzialmente quello che sono. Così come ci sono produttori e vignaioli che trattano allo stesso modo chiunque gli si presenti davanti, nel bene e nel male.

Poi arriva lui, il vino, magari dopo una brevissima introduzione/consiglio del produttore: “le faccio assaggiare questo che è…”, oppure vengono introdotte alcune caratteristiche indirizzano la degustazione “è molto giovane..”, “la vigna ha solo sei anni..”, “è un nuovo prodotto…”. Queste frasi di solito vengono proferite o subito prima della mescita o durante la stessa. Il commensale/degustatore è in questi momenti quasi sempre in silenzio. Quando la bottiglia ha terminato il suo corso, la parola passa al degustatore: prima occhio e poi naso, qualcuno prima naso e poi occhio, qualcuno entrambi (di solito in stato etilico avanzato); l’inclinazione del bicchiere, la roteazione del liquido, nella speranza di non buttarlo fuori, l’osservazione della consistenza, dell’unghia come se si fosse giovani estetiste;  il colore, il naso prima e il naso poi, quello aperto, raffreddori stagionali permettendo ed infine la bocca, la masticazione, lo sciacquettio del gargarozzo. E lì giace il silenzio interrogativo del vignaiolo, l’osservazione compita della destrezza o della goffaggine del degustatore, della sua abitudine al gesto che consolida tecnica manuale e capacità. Poi il dialogo, le affermazioni di rito, magari a partire dagli spunti dello stesso produttore, dalle domande probabili e improbabili (“quanto ha fatto di legno?: ha fatto solo acciaio!  Ah! Lo immaginavo, però sentivo quei tannini…” E vetri che si arrampicano su di lui), il silenzio che si squarcia molte volte in qualcosa e più spesso nel nulla. E poi gli scambi di biglietti, brochure, e le domande di commiato (“lo posso trovare nella mia città? Lo vendete da qualche parte?) Sorrisi, ringraziamenti e saluti e poi lo sguardo che sfiora il vicino di banchetto quasi a chiedergli scusa di non passare subito da lui, non perché i suoi vini siano inferiori, “ma perché, magari passo dopo; è che solamente sono un po’ carico ed ho bisogno di fermarmi prima di collassare per terra, perché tra le altre cose non sputo, bevo tutto, per rispetto di chi mi versa, perché mia madre mi ha insegnato a non farlo e poi diciamocelo, non avrei nemmeno i soldi per comprarmelo sto’ vino per cui mi faccio un aperitivo lungo, lunghissimo, tutta la fiera!”

[1] Erving Goffman, Frame analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Armando Editore, Roma 2006, pag. 71

Il mito e la scienza al servizio di un concetto: il terroir. Alcuni spunti critici.

Il terroir gode delle rappresentazioni dei nuovi miti sul vino e della loro declinazione politica in termini identitari. Più forti sono stati i richiami degli ultimi anni contro la globalizzazione capitalistica, maggiormente il cibo, le colture, le piante e la terra in quanto tali sono assurti ad emblema di resistenza contro un modello espropriativo e omologante. Potrebbe essere utile continuare sulla fertile strada intrapresa da Furio Jesi quando sostiene la ‘metamorfosi disciplinare[1]‘ del mito e la sua funzione normativa: “Tutto questo è per me oggi il significato della parola mito. Una macchina che serve a molte cose, o almeno il presunto motore immobile e invisibile di una macchina che serve a molte cose, nel bene e nel male. È memoria, rapporto con il passato, ritratto del passato in cui qualche minimo scarto di linea basta a dare un’impressione ineliminabile di falso; e archeologia, e pensieri che stridono sulla lavagna della scuola, e che poi, talvolta, inducono a farsi maestri per provocare anche in altri il senso di quello stridore. Ed è violenza, mito del potere; e quindi è anche sospetto mai cancellabile dinanzi alle evocazioni di miti incaricate di una precisa funzione: quella, innanzitutto, di consacrare le forme di un presente che vuol essere coincidenza con un eterno ‘presente’[2].” Il mito ‘tecnicizzato’ si sostanzia in azione e diviene per Jesi interpretazione mistica e fraudolenta della storia: “lo scopo della moderna scienza del mito o della mitologia, lo scopo dei mitologi moderni è questo: avere sulla tavola qualcosa di molto appetitoso, che senza esitare si direbbe vivo, ma che è morto e che, quando era vivo, non possedeva un colore così gradevole. Il colore della vita non è una prerogativa molto frequente di ciò che è vivo[3].” Se non possiamo analizzare il terroir nella sua pienezza reale, quali proprietà analizzare al fine di esplicitare il nostro concetto? Per me due essenzialmente: la ‘zonazione viticola’ e la ‘mineralità’ di un vino. Il primo termine rimanda ad uno studio integrato e interdisciplinare che mira, mediante una complessa analisi geopedologica, climatologica e agroviticola, a suddividere il territorio in funzione della vocazionalità alla coltivazione della vite. Si tratta insomma di un processo di analisi particellare dove terreno superficiale e profondo, esposizione, cielo, clima, pianta superficiale sotterranea e lavoro umano vengo dissezionati al fine di comprendere la vocazionalità e l’adattabilità della vitis vinifera ad un terreno. E’ il ritorno, in grande stile, della ragione cartografica, ovvero l’immagine della forma naturale delle cose, del suo valore d’uso, già predisposta per la trasformazione in merce, in valore: “Volgendo in termini marxiani, e finalmente cogliendo l’analogia tra la rappresentazione cartografica e il mercato, che è la sua messa in opera: la forma naturale diventa forma di valore, e la merce stessa rivela una forma fenomenica differente dalla prima, soltanto nel rapporto di valore o di scambio con una seconda merce. L’identica sorte accade di norme alle cose su una mappa, dove esse convivono nella loro differenza, l’una accanto all’altra, e allo stesso tempo sono sottomesse a un medesimo e comune regime costrittivo che le assimila. Una merce ottiene espressione di valore soltanto perché simultaneamente tutte le altre merci esprimono il proprio valore nel medesimo equivalente, cioè nella merce equivalente esclusa dal mondo delle merci raffigurato sulla mappa, l’agenzia produttrice della forma generale di valore. Questo equivalente generale è lo spazio, nel senso tolemaico, nel senso tolemaico di intervallo lineare standard tra due punti geometrici, rispetto al quale ogni valore d’uso, cioè ogni luogo, è destinato a sparire. (…) In altre parole: spazio e denaro sono la stessa cosa, nel senso che il simbolo cartografico e la moneta funzionano, il primo sulla mappa e la seconda sul mercato, esattamente allo stesso modo[4].” E dietro di essi, ma anche sopra, di fianco e sotto: la competizione economica locale e internazionale. Il riconoscimento dell’origine di un vino come elemento non esportabile, di valore in sé, ma anche e soprattutto di valore di scambio: “Una volta che sia scambiabile, una cosa si trasforma nel sogno o nell’incubo di se stessa e va a costituire, insieme ad un’infinità di consorelle, una dimensione oggettiva, che è insieme reale (perché esiste), immaginaria (perché esiste per noi grazie al suo packaging pubblicitario) e simbolica (ci offre gran parte dei simboli con cui crediamo di dar senso alla nostra vita): un mondo oggettivo, benché fatto di immagini, e in quanto tale auto-sufficiente[5].” La battaglia che si sta’ delineando su scala planetaria non è soltanto tra chi è pro o contro il terroir: gran parte delle posizioni infatti, egualmente, concorrono a rimarcare l’efficacia rappresentativa del concetto: ma diversamente gli uni, quelli del Nuovo Mondo tanto per capirci, privi di retaggio storico sufficientemente dilatato, puntano ad una visione puramente operativa del concetto di terroir: esso diviene la dimostrazione scientifica che ovunque, a determinate condizioni, è possibile produrre vini di ‘territorio’. All’estremo di questa posizione vi è chi, come l’Associazione geologica Americana, nella costruzione di un’insolita equivalenza cerca di traslare dal terreno all’analisi sensoriale un’improbabile presenza di minerali percepibili nel vino, tenta di distruggere l’idea di un terroir materia (terra) e quindi di un territorio.  Per gli altri, quelli del Vecchio Mondo (Francia e Italia in testa) è solo il terroir storicizzato che detiene il potere di conferire al vino un’irripetibilità e unicità inimitabili. Ed è qui che la mineralità di un vino gioca alcune delle sue carte, o presunte tali, nel conflitto internazionale. Ma anche per quest’ultimi il paradosso della storicità viene risolto in una sorta di fermo-immagine: è come se il rapporto con il passato si fosse risolto una volta per tutte, incarnato in una ‘Tradizione’ che nel momento stesso in cui viene interpellata, si rinnova automaticamente e con essa la propria, presunta, veridicità. Se c’è un mondo che ricorre incessantemente al proprio passato, questo è quello del vino: non c’è soggetto attivo che non produca documentazione sul passato, sulla tradizione, sulla memoria storica dei luoghi e delle pratiche. Questa patina, spesso luccicante quanto artificiale, è costruita ad uso e consumo del presente, o meglio ne è una costante e consumata dilatazione. La vittoria di uno o dell’altro campo significherà la ridefinizione del potere produttivo e commerciale degli imprenditori del vino. La scienza, in questo caso meno che mai neutrale, lavora per uno o per l’altro campo: ma la sua espressione apparentemente neutrale e oggettiva servirà da grimaldello nei confronti di coloro che lavorano per la ‘neutralizzaione’ del terroir storico e per l’affermazione di un terroir dimostrabile, verificabile e produttivamente ineccepibile. 

[1]     Cfr. David Bidussa, La macchina mitologica e la grana della storia. Su Furio Jesi, pp. 93 -128 in Furio Jesi, L’accusa del sangue. Mitologie dell’antisemitismo. Morcelliana, Brescia 1993.

[2]     Ibidem, pag. 101

[3]     Furio Jesi, Gastronomia mitologica. Come adoperare in cucina l’animale di un Bestiario, in Furio Jesi, Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea, Einaudi, Torino 2001 pag 176

[4]     Franco Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino 2009, pp. 28, 29

[5]     Alessandro Dal Lago, Serena Giordano, Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, Il Mulino, Bologna 2006, pag. 143

Il vino, nonostante se stesso.

Qualche tempo fa stavo spulciando delle statistiche produttive sul vino in  Italia e mi sono accorto, dati alla mano, che intorno alla metà degli anni ’80, nell’età del ‘metanolo’, la produzione era circa il doppio di quella attuale, ovvero si aggirava intorno agli ottanta milioni di ettolitri annui contro i 40/41 (?) preventivati per quest’anno, litro più litro meno. Sono passati da quell’epoca nemmeno trent’anni, che in tempi storici equivalgono a poco meno di un battito d’ali di una farfalla (anche se ci hanno detto che questi battiti possono provocare ripercussioni molto grandi e a grandi distanze). Il vino di quell’epoca era ancora pienamente dentro alla modernità novecentesca: era un vino di grande quantità e di scarsa qualità media, con punte di eccellenza, a volte conosciute e molto più spesso misconosciute, in gran parte distribuito e consumato sfuso, discusso e commentato in misura notevolmente minore (e non solo perché non c’era internet) di quanto non fosse abitualmente bevuto. Il vino accompagnava più o meno regolarmente i pasti e molto meno aperitivi, degustazioni a tema, serate mondane e via cantando. Al bar, di solito (almeno dalle mie parti in Piemonte), si prendeva altro, perché di vino se ne beveva a casa, per cui non aveva granché senso replicare con degli eguali. E poi era un vino al singolare: il dolcetto, la barbera, il nebbiolo, la bianchetta… Il singolare erano i vini di molti produttori, che comparivano a richiesta così come i loro metodi soltanto in un secondo tempo – a domanda …rispondi – altrimenti rimanevano là sullo sfondo, perché non dessero fastidio. C’era poco packaging, nulla marketing e non parliamo poi di distribuzione. Il prezzo abbordabile, popolare, di massa e poi altri che costavano di più, ma non eccessivamente di più, diciamo abbastanza di più, ma per questa ragione quasi quasi ti chiedevano scusa. La chimica la faceva da padrona: puliva, spolverava, riassettava, a volte pompava e quando sbagliava faceva danni enormi, fino a menomare o ad uccidere. Per il resto il progresso non aveva ancora ceduto ai fasti dell’ecologia, dell’ambiente, del salutismo … Era meglio di oggi? No di sicuro! Era peggio? Neanche, forse. Non sono un nostalgico delle lucciole pasoliniane, anche se mi fa piacere incontrarle di tanto in tanto. E poi è cambiato molto, forse tutto. Il vino si è staccato da se stesso per diventare una rappresentazione di altro: non è più contenuto, ma veicolo, mezzo di trasporto di idee, di pratiche, di poteri, di denari. E’ come se si avesse la sensazione che più si parla di vino, più si discuta delle sue declinazioni e delle sue variabili più se ne parli come qualcosa di altro dalle nostre passate abitudini, che come tali si praticavano e si discutevano poco. E’ l’oggetto merce, feticcio, icona, totem, mito. E’ un po’ meno nostro, al pari di quei dialetti sempre meno usati, ma molto discussi, formalmente cristallizzati e apparentemente difesi.